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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 Flower Bar    

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di: Giovanni Verga

Flower Bar

Capitoli: [V]  [VI]

V
Gli parve di respirare più liberamente quando l'aria aperta lo percosse sul volto, rinfrescando il calore delle sue membra ardenti di febbre: quella dolce sensazione gli parve fargli bene. Per la strada Vittoria scese alla Marina. A misura che l'influenza di quella bella sera s'insinuava nel suo organismo, egli sentiva però crescere e giganteggiare un fantasma che voleva scacciare con tutte le forze dell'essere suo... che l'atterriva.
Sotto il Seminario, vicino Porta Marina, in una bottega, udì i suoni di alcuni strumenti da fiato e da corda che eseguivano una polka, e i passi saltellanti e vigorosi di coloro che ballavano.
«Costoro si divertono»; diss'egli, «chi sa se anch'io vi potrei almeno dimenticare!...»
Fece alcuni passi per entrare nella bottega di tabacchi che precede l'ignobile sala da ballo, ma non ebbe la forza di farlo. L'istinto, l'abitudine piuttosto, del giovane bene educato non gli permise di mischiarsi senza transazioni a quanto vi avea d'impuro e d'abietto in quella gentaglia, operai d'infima classe, lustrastivali, borsaiuoli, barcaiuoli e femmine di mala vita, che componevano la società di quel ballo.
«Oh! stordirmi! stordirmi!...», esclamò egli, con un accento quasi doloroso, fermo in mezzo al viale ove avea incontrato Narcisa e questa l'avea guardato.
E partì di buon passo per la strada Stesicorea; ai Quattro Cantoni entrò alla Villa di Sicilia.
Era la capitolazione del giovane di buona famiglia, che non osava ancora penetrare nella taverna per ubbriacarsi e cercava la taverna elegante. Al garzone, che gli domandava cosa ordinasse, rispose di non saperlo, di recare quel che voleva, come per esempio un'insalata, purché l'accompagnasse di una bottiglia di marsala.
Il cameriere guardò sorpreso quel giovane che beveva una bottiglia di marsala su di un'insalata.
Pietro fu quasi atterrito, quando, riflessa dirimpetto a lui, su di uno specchio, vide una sinistra figura da spettro, col cappello ammaccato, i capelli incollati e cadenti sul volto di un pallore che sembrava terreo, magro in modo da far luccicare straordinariamente il bagliore che la febbre dava ai suoi occhi, i quali sembravano più grandi; cogli abiti scomposti; egli stentò un pezzo a riconoscere se stesso, e finalmente un riso amarissimo errò sulle sue labbra violacee.
Il cameriere gli recò quanto avea ordinato; egli cominciò a bere il vino senza toccare l'insalata. Allorché sentì i polsi battergli più forte, le gote animarsi, i vapori annebbiare la sua testa, ancora vertiginosa, egli si alzò, dopo aver pagato lo scotto, ed uscì.
«Ora andiamo al ballo!», mormorò con triste sarcasmo; «forse anch'ella, a quest'ora, è alla sua festa!...»
E scacciando un'ultima volta quest'immagine che, anche fra i fumi del vino, anche nel momento che si stordiva per non vederla e che la fuggiva nello stravizzo, trovava modo d'inchiodarglisi ferocemente nel cervello, egli corse alla Marina; esitò ancora un istante prima di mettere il piede su quella soglia, e finalmente entrò nella bottega che precedeva lo stanzone ove si ballava. Fingendo di dover comprare sigari, domandò a colui che stava al banco se l'entrata al ballo era libera per tutti, pagando; colui lo squadrò dal capo alle piante, come sorpreso che un giovane il quale indossava abiti piuttosto eleganti venisse a cercare una tal festa; poi, alzando le spalle con ruvida indifferenza, gli rispose con un cenno del capo affermativo. Brusio, pagati alla porta i pochi centesimi che davano diritto all'entrata, passò nella sala da ballo.
Era, come abbiamo accennato, una stanza assai grande, illuminata da lampade ad olio, con alcune panche disposte in giro alle pareti, su di una delle quali sedevano un contrabbasso, un violino ed un flauto che facevano saltare col movimento della polka una ventina di ballerini e ballerine.
La vista del giovane in cappello a cilindro fece impressione certamente, poiché le danze furono sospese, e tutti si volsero a guardare con curiosità il nuovo venuto; poco dopo incominciò a farsi udire un mormorio di cattivo augurio contro quell'importuno che veniva a disturbare il loro passatempo.
«Egli viene a ridere di noi... il signorino!», esclamò una delle donne, che si appoggiava alla spalla di un uomo atletico, vestito di velluto e di volto assai caratteristico.
«Noi non andiamo a mischiarci alle sue smorfiose... quando essi si divertono!...», gridò un'altra.
«Non vogliamo seccatori qui! non vogliamo spie!», urlò una terza voce.
«Ora vado a prendere per le spalle questo piccino e te lo metto fuori», disse l'uomo erculeo alla sua donna.
E si avanzò, col cipiglio arrogante, verso il Brusio, il quale ancora esitava ad inoltrarsi.
«Che vuoi tu?», gli disse colla voce dura dell'imperio che esercitava sui suoi compagni quando gli fu faccia a faccia, covrendolo quasi col suo largo petto e la sua alta statura.
«Non ho da dirlo a te, né a nessuno qui!», rispose il giovane, irritato, quantunque avvinazzato, da quella brutale famigliarità, guardandolo fisso negli occhi.
«Per Cristo! non hai da dirlo a me?», rispose sghignazzando il colosso. «Ma sai che qui sei in casa mia, e che se ti prendo fra l'indice ed il pollice ti stritolo?!...»
«S'è casa tua ci resto!», disse Pietro coll'ostinazione dell'ubriachezza o del puntiglio giovanile; «in quanto a stritolarmi, provati!»
E incrocicchiò le braccia sul petto, stendendo un passo in avanti e spostandosi solidamente sulle sue gambe snelle ma nervose, come se aspettasse l'assalto.
L'altro fece ancora un passo, minacciandolo dello sguardo più che del gesto, con la bravata audace e cinica che dà la coscienza della superiorità fisica in tali uomini; e mormorò, con voce che cominciava ad essere rauca d'ira, accostandosi sin quasi a toccarlo col petto:
«Vattene!».
«No!», rispose Pietro bruscamente.
Il gigante stese le braccia per afferrarlo; le braccia muscolose del giovane lo ributtarono due o tre passi all'indietro con un vigore che il bravaccio non avrebbe mai supposto in quel corpo magro e svelto; allora mise un urlo di rabbia: l'urlo della iena che ha sentito pungersi mentre scherzava; e afferrata una sedia la slogò di un sol colpo sul pavimento, tornando quindi verso di Brusio con la sbarra pesante e ruvida fra le mani, che brandiva sulla sua testa come una clava. Pietro, dal canto suo, fu lesto ad impadronirsi del bastone di uno dei suonatori, che si erano salvati dietro le panche, e a pararsi il colpo con quello.
Allora cominciò un combattimento accanito e feroce fra l'uomo atletico, che mugghiava come un toro ferito per la rabbia che non poteva sfogare, rabbia accresciuta dalla inopinata resistenza che incontrava e che gli toglieva il prestigio d'invincibilità nell'opinione dei suoi compagni, ed il giovane alto, sottile, pallidissimo, colle grosse labbra chiuse e sdegnose, l'occhio scintillante, la fronte alquanto calva, altiera ed impassibile, su cui si appiccicavano i capelli arruffati e si schiacciava il suo cappello a cilindro. Per fortuna Pietro aveva studiato la scherma del bastone con maggiore attenzione di quanta ne avesse messa ad ascoltare le lezioni del canonico Russo; fu perciò col massimo piacere degli spettatori, comprese le femmine, che questi assistettero a quel duello singolare fra i due avversarii degni di starsi a fronte l'un l'altro; essi battevano le mani ai bei colpi, e incoraggiavano con acclamazioni i combattenti. Brusio non era più uno straniero per loro, un signorino, ora che maneggiava sì bene il bastone.
L'uomo vestito di velluto avea il braccio e le reni solidi come bronzo, e molta abilità in questa maniera di scherma, ciò che gli faceva menar colpi che calavano giù rombando terribilmente; il giovane però, se non avea la forza muscolare del suo avversario, lo vinceva nell'elasticità e sveltezza dei movimenti e nel sangue freddo inalterabile, che in lui era uno strano effetto della collera, con cui aggiustava i suoi colpi e parava quelli che gli venivano. Tutt'a un tratto una legnata violenta di Brusio spezzò la spada colla quale il bravaccio parava il colpo alla testa, e si vide quest'ultimo stramazzare a terra colle braccia stese: avea il cranio spaccato.
Successe uno straordinario tafferuglio: alcuni gridavano evviva, altri imprecavano e minacciavano Pietro più seriamente al certo di quanto fosse stato minacciato sino allora, poiché nella mezza luce si vedevano luccicare lame di coltelli affilati.
«Silenzio, canaglia!», si udì gridare una voce la quale avea tutte le gradazioni fra quella dell'uomo e quella della donna, «questo giovanotto lo proteggo io! è dei nostri!... Ha cuore e pugno... Egli vuol essere dei nostri, giacché è venuto; non è vero?»
«No! no! Sì! sì!», urlarono alcune voci avvinazzate: «Non vogliamo cappelli! non vogliamo signorini!...»; «Viva il signorino! egli ha il pugno di ferro; egli ha vinto Nicola!».
Nulla avrebbe potuto sedare quello schiamazzo, e Pietro avrebbe corso fors'anche il più grave pericolo, minacciato dalla vendetta degli amici del caduto, quantunque difeso anche dal piccol numero dei suoi ammiratori; un altro combattimento, in più grandi proporzioni, era almeno imminente, se non fosse entrato in quel punto il padrone dello stabilimento; il quale, impassibile sin'allora a quanto era avvenuto, dietro il suo banco della prima camera, accorreva dimostrando nel gesto e nella fisonomia l'importanza della notizia che recava:
«I carabinieri!», diss'egli. «I carabinieri!» fu gridato da ogni parte.
E tosto amici e nemici si fusero in un lodevole accordo a nascondere in uno stanzino il mal capitato Nicola, cui, quantunque fosse rinvenuto e mandasse lamentevoli gemiti, nessuno avea badato, a lavare il pavimento lordo di sangue, e a tirare i suonatori da sotto le panche.
«La Fasola! la Fasola!», fu gridato da tutti.
Venti braccia soffocarono Pietro in un energico amplesso; e venti voci, anche di quelle che avevano minacciata la sua vita un momento innanzi, gli susurrarono: «Siamo amici, non è vero? Sei dei nostri!... Vuoi essere dei nostri?».
«Sì, son dei vostri!... amici! tutti amici!», rispose Pietro, urlando tanto forte da cercare di soffocare le stesse parole che proferiva; stendendo le mani alle venti mani nere e callose che gli venivano stese, onde stordire tutto quello che sentiva d'ignobile, di ributtante, di vile in quell'accozzaglia alla quale veniva a domandare le sue distrazioni; ballando anche lui quella ridda infernale sul sangue versato da poco e ancora tiepido... Egli, a misura che le acri esalazioni di quei cenci e di quei corpi, e l'esaltazione avvinazzata di quel tripudio cominciarono ad offuscargli il cervello, come il marsala non aveva potuto fare; egli, che aveva avuto ribrezzo a toccare la mano di quella femmina, spudorata corifea della festa, ch'era stata la donna di Nicola, cominciò a saltare più furiosamente degli altri, e stringersi più ebbro quell'abbietta creatura fra le braccia.
Due ore dopo mezzanotte egli usciva stordito, briaco da quell'orgia; ancora sbalordito dal baccano che avea fatto il suo cuore; mormorando come per illudersi anche in quel momento:
«Oh! la vita!... Questa è la vita!... Donne e vino!... Viva l'allegria!».
Da quel giorno, o piuttosto da quella notte, Pietro Brusio cominciò una vita indegna ed abbietta, di cui egli cercava occupare tutti gli istanti con gli eccessi più sfrenati, per non darsi il tempo neanche di vedere dov'era caduto. Egli faceva sforzi sovrumani per annegare nel frastuono, nell'ubbriachezza, quanto sentiva ancora di elevato e di nobile nel suo cuore, che gli rimproverava come un rimorso la vita che menava, e gli faceva pensare spesso, malgrado la sua disperata volontà, malgrado gli eccessi a cui ricorreva, a quella donna fatale di cui malediva la memoria.
Spesso fra le orgie più impure, nell'ubbriachezza più profonda, egli rimaneva in disparte, muto, pallido, coll'occhio fisso e pensieroso. Spesso, al contrario, stringendosi una di quelle femmine da trivio fra le braccia egli mormorava un nome cogli occhi umidi di lagrime: ciò che rendeva dapprincipio attoniti, e faceva ridere dappoi i suoi compagni di stravizzo.
Egli logorava la giovinezza del suo cuore e del suo corpo in questa vita febbrile, divorante, che s'era imposta; fuggiva lo sguardo della madre e delle sorelle come se avesse temuto di contaminarle col suo, come se avesse temuto che la muta eloquenza dell'occhio umido della madre gli facesse sentire tutta l'infamia dell'abbiettezza in cui affogava le sue memorie e il suo amore, che provava ancora rigoglioso e potente. Fuggiva gli amici di una volta, che forse avrebbero potuto rimproverarlo col loro freddo contegno; [fuggiva sin anche] Raimondo, cui non si sentiva bastante coraggio di avvicinare.
Siamo al Giovedì Grasso. Brusio ha passato più di quattro mesi di questa vita; è divenuto il corifeo di questa canaglia composta di femmine da trivio e di uomini perduti; e in quella sera, tutti mascherati in modo poveramente e orribilmente grottesco, vanno al Teatro a farvi pompa del cinismo del vizio, della brutalità della violenza, della petulanza della miseria colpevole; occupando la galleria, ove mangiano, bevono, contendono ed urlano anche nel tempo della rappresentazione, malgrado la presenza delle numerose Guardie di Pubblica Sicurezza e dei Reali Carabinieri. Dopo la recita aspettano l'apertura del ballo mascherato per lanciarsi, coi loro costumi sudici, in mezzo alla platea, per mischiarsi a quella società elegante che non sentonsi in diritto d'avvicinare coi loro cenci, e per farlo ne cercano il coraggio nell'ebbrezza, nell'esaltazione e negli eccessi.
Brusio, in prima fila fra di essi, sul proscenio, indossando un travestimento tutto suo, composto di cappuccio, casacca e pantaloni di pelle di montone (vestito che egli avea denominato da orso), si occupava metodicamente a dar fiato ad un enorme corno ad ogni scena nuova; e le rimostranze delle guardie di Questura erano soffocate dagli urli, dai suoni di trombe e di campane e dai fischi della mascherata numerosa che gli faceva codazzo.
Poco prima di mezzanotte fu aperto il ballo. Quella folla ululante irruppe come un torrente limaccioso nella sala.
I palchetti erano gremiti di elegantissime dame e di signori mascherati con lusso. Poco dopo si aprì l'uscio di un palchetto di seconda fila ed entrò la contessa di Prato, mascherata da baccante, accompagnata dal marito e da un bel giovanotto biondo, sottotenente negli Usseri di Piacenza, che le tolse dalle spalle la mantelletta Fatma di peluscio. Giammai la signora aveva brillato di tutta la pompa affascinante delle sue seduzioni irresistibili, come quando si avanzò sul parapetto della loggia colle braccia, le spalle ed il petto nudi nel suo abito diafano di velo, col suo sorriso sulle labbra, con quel piccolo grappolo d'uva e quell'unica foglia verde a metà nascosti tra i riflessi cenerognoli de' suoi capelli neri, che vi si inanellavano attorno alla fronte e le cadevano mollemente sul collo.
Pietro non alzò nemmeno gli occhi verso i palchetti. Non osava di farlo, di dissipare forse collo spettacolo di quella profusione di eleganze e di bellezze che ornavano le loggie, il denso vapore avvinazzato e fangoso in cui si avvolgeva; non osava d'incontrare un viso ch'egli non voleva vedere per non avere a dubitare un'altra volta della sua ragione.
L'orchestra suonava un valtzer; la folla avea incominciato a ballarlo gesticolando e gridando. Tutt'a un tratto fu veduta una figura umana, imbacuccata in pelli nere che la facevano mostruosa, montare di un salto sul palcoscenico, e gridare colla sua voce più forte, stendendo il braccio con un gesto imperioso verso l'orchestra:
«Abbasso il valtzer! Non vogliamo valtzer! Non vogliamo balli aristocratici... Vogliamo la Fasola!...».
Quella voce che comandava, quel gesto che imponeva fecero fermare i ballerini che danzavano e i professori che suonavano; e cominciò un immenso frastuono. Dai palchi partirono alcuni fischi acutissimi, tratti certamente con l'aiuto delle chiavi.
Allora quell'uomo, quel mostro, alzò la testa orribile a vedersi col suo pallore cadaverico sui suoi lineamenti dimagriti, collo scintillare dei suoi occhi infuocati fra i peli che gli cadevano dal cappuccio sulla fronte; e quello sguardo che fissò su quei cavalieri giovani, ricchi, eleganti; su quelle mani in guanti bianchi che si sporgevano fuori dei palchi ad imporgli silenzio; su quelle signore belle, profumate, splendenti di gemme; su quella folla dorata che faceva il più vivo contrasto con quella brutta, cinica, briaca, cenciosa, che l'accompagnava, quello sguardo fu d'odio immenso, indicibile, e anche di feroce vendetta.
«Abbasso gli aristocratici!», gridò egli, Pietro, il giovane aristocratico per istinto; «abbasso i guanti bianchi! Vogliamo la Fasola! Suonate la Fasola
A quelle parole successe un immenso schiamazzo di urli che applaudivano alle sue parole e chiamavano la Fasola, questa danza popolare. I carabinieri, quantunque avessero spiegato la massima energia nel cercare di calmare l'effervescenza, erano in troppo piccol numero per imporsi a quella folla resa audace dalla sua istessa insolenza; finalmente si fece venire il picchetto di Guardia Nazionale ch'era alla porta.
In questa una fischiata solenne e generale, partita dai palchi, sembrò sfidare la collera di quella gentaglia irritata: le mani inguantate di bianco non volevano lasciarsi sopraffare dalle mani nere e callose.
Nella platea scoppiò un grido generale di rabbia. Alcune signore svennero allo spettacolo di quella folla urlante che levava braccia nere e facce infuocate e furibonde, come ad imprecare, verso i palchetti, e in mezzo alla quale scintillavano alcuni ferri aguzzi. I carabinieri misero le mani sui revolvers, e la Guardia Nazionale entrò nella sala colle baionette in canna.
Rinunziamo a descrivere lo stato d'esasperazione di Brusio a quella sfida imprudente che l'aveva percosso come uno schiaffo; egli saltò in mezzo alla folla gridando:
«Ora faccio scendere tutta questa canaglia coi guanti a ballare la Fasola con noi! Vado a prenderveli per le orecchie!».
E si fece largo in mezzo alla calca. Nessuno, né carabinieri, né Guardia Nazionale badarono a quell'uomo che usciva, a quella jena assetata di vendetta, che spingeva in avanti il collo anelante come un animale sitibondo. In due salti egli fu sulla scala del second'ordine, e si avanzò pel corridoio.
Tutt'a un tratto egli si fermò, come percosso dal fulmine, coll'occhio smarrito, col volto pallido e convulso: si era trovaro faccia a faccia a Narcisa, che partiva dal Teatro, spaventata di quel frastuono.
La contessa aveva messo un grido nel vedere quell'uomo che correva come un pazzo contro di lei, facendo scintillare nel suo pugno la lama larghissima di un coltello a manico; quella figura informe ed orrenda sotto le pelli che la coprivano, della quale gli occhi soltanto luccicavano come due carbonchi sul volto che sembrava una maschera di cera gialla. Ella si era stretta contro la parete, aggrappandosi al braccio del conte, come per farsene schermo.
Pietro aveva avuto uno sguardo, un solo, per lei; il coltello gli era caduto di mano; poi era fuggito, correndo a salti, urlando disperatamente, come l'animale che voleva figurare.
«Oh! questa donna! questa donna!... questo demonio!», gridava egli, correndo all'impazzata pel Molo.
Si fermò sull'ultimo limite di questo, quando non vide più dinanzi a sé che il mare bruno ed immenso, su cui scintillavano le stelle. Fissò uno sguardo ebete, smarrito su quella superficie che si stendeva a perdita di vista, luccicante di riflessi fosforici; su quelle stelle che splendevano sulla sua testa... Due o tre volte avanzò il passo verso quell'abisso che poteva inghiottire la sua vita coi suoi vortici spumeggianti; e ciascuna volta egli sentì una forza che l'afferrava e lo tratteneva... Finalmente cadde accosciato sul suolo umido e spazzato qualche volta dalle onde, prorompendo in lagrime amare, ardenti, ma non più disperate.
Egli pianse a lungo: quel pianto, che non aveva potuto versare da circa cinque mesi, forse lo salvò.
«Questa donna ha ragione», mormorò quando fu calmo, come aveva detto allorquando gli era parso che il suo cuore si fosse spezzato: «quali diritti ho io al suo amore, alla sua attenzione, fin'anche?... Io, Pietro Brusio!... Ma io voglio averli, questi diritti che Dio m'ha dato, che in un istante di scoraggiamento io ho sconosciuto, ho ripudiato, ma che sento in me... Questa donna anderà superba un giorno dell'amore di Pietro Brusio!!».
E rialzando la testa, quasi lieto ed altiero di quel nuovo indirizzo che dava alla sua vita, di quell'espiazione che s'imponeva del passato, della speranza che gli brillava negli occhi ridenti, guardò il cielo quasi calmo, quasi giocondo ora. Si alzò, e con passo fermo s'incamminò verso la sua casa. Egli andò ad abbracciare la madre nel letto, come per darle la lieta notizia, mescolando le sue lagrime a quelle di gioia di lei, che ritrovava il figlio suo; e dandole la sola spiegazione della metamorfosi che uno sguardo ed un pensiero avevano potuto operare in lui con queste sole parole:
«Perdonami, madre mia!... perdonami!».
Due mesi intieri ebbe la forza di non cercare Narcisa, di non vederla. Usciva di rado, la sera; e sempre in compagnia di sua madre e delle sue sorelle.
L'aveva dimenticata?
No! Egli aveva tal forza perché viveva per lei, con lei, in lei; perché tutta la sua vita era ormai Narcisa.
Egli lavorava con un entusiasmo quasi accanito, con una lena che soltanto poteva dargli l'esaltazione in cui si trovava; e fece passare tutto il suo cuore nell'opera sua. Due mesi dopo avea finito un dramma che rileggeva cogli occhi brillanti di sorriso; del quale era contento; che amava quasi di una parte dell'amore di cui amava Narcisa; che amava come un'emanazione di lei. Quando egli fu soddisfatto dell'opera sua, di se stesso; quand'egli si sentì più vicino a Narcisa, allora la cercò.
La sua casa era deserta e le imposte dei veroni chiuse.
La cercò inutilmente otto giorni pei passeggi e al Teatro; ne domandò agli amici: nessuno l'avea più veduta.
Risoluto di trovarla ad ogni costo andò a far visita in casa A*** e colla signora condusse il discorso sino alla contessa.
«A proposito, che n'è di lei?», domandò.
«Credevo che lo sapeste, voi suo amante: è partita.»
«Partita!»
«Sì, da venti giorni.»
«E per dove?»
«Per Napoli.»
«Anderò a Napoli!», disse a se stesso Brusio.
VI
Parecchie settimane dopo, in Napoli, ad una delle serate che dava il barone di Monterosso, noi ritroviamo Narcisa, accompagnata dal marito e dal giovanotto ufficiale di cavalleria negli Usseri, che abbiamo incontrato con lei a Catania. Il sottotenente, che apparteneva ad una delle più nobili famiglie del Napoletano, l'avea presentata ad una signora di mezza età, la quale recava con tutta disinvoltura gli occhiali sul naso, appartenente anch'essa alla più alta società e che col suo ingegno si è fatto un nome che comincia ad esser celebre anche fuori d'Italia. Le due donne, l'una circondata e adulata pel potere dei suoi vezzi, l'altra pel prestigio del suo nome, sedevano l'una presso all'altra su di un canapè, accerchiate da uno stuolo di cortigiani.
Il barone di Monterosso venne a complimentare la signora contessa R***, e a dire anche due parole d'occasione a Narcisa.
«Avrò la fortuna, signora contessa», disse, parlando alla donna matura, «di presentarle stasera un uomo, che, ancora giovanissimo, si è aperta diggià la più brillante carriera nella letteratura drammatica.»
«L'autore di Gilberto forse?», domandò la signora.
«Lo conosce?»
«No; ne ho udito semplicemente parlare; è un dramma che ha incontrato moltissimo, a quel che pare; e di cui i giornali si sono disputati i meriti con quell'accanimento che dà sempre della rinomanza all'autore. È napoletano?»
«È siciliano; si chiama Pietro Brusio.»
«Brusio?... Non ho mai udito questo nome...»
«Fra otto giorni questo nome sarà pronunziato come quello di Giacometti e di Gherardi del Testa.»
«È una celebrità in erba, dunque?»
«Sì, signora contessa: una celebrità che nasce, ma in mezzo ad una splendida aurora. Il suo dramma è stato replicato quattro volte a richiesta, e domani fu desiderato per la quinta; l'impresario glielo ha pagato come non si sogliono pagare quasi mai le produzioni letterarie in ltalia, e l'ha impegnato a scrivere pei Fiorentini con un appuntamento che lo farà vivere da signore.»
«Domani andrò ai Fiorentini», disse la dama, «stasera mi presenti il suo protetto; lo pregherò di passare da me le sere in cui ricevo.»
Il barone s'inchinò allontanandosi per dar retta ad altri invitati.
Narcisa ballò come una silfide e confessò al suo cavaliere di mai essersi divertita come in quella sera.
Verso mezzanotte il barone si avvicinò di nuovo al divano ove sedevano Narcisa e la contessa, accompagnato da un giovane alto e bruno, di cui l'espressione fredda, altiera e quasi severa era appena temperata dal contegno grazioso che gl'imponeva l'atto che andava a compiere.
«Mi permetta, signora contessa R***», disse il barone con il garbo di un uomo di società, «che abbia l'onore di presentarle il signor Pietro Brusio, il giovane autore di cui le feci parola.»
Pietro s'inchinò in silenzio, mentre la dama originale l'esaminava con tutta flemma, attraverso gli occhiali, dal capo alle piante e gli faceva i complimenti d'uso. Anche Narcisa esaminava il nuovo arrivato con una curiosità che andò a finire nella maggior sorpresa.
Ella stentò a riconoscere il giovane incognito che a Catania incontrava ad ogni passo, divorando degli occhi il suo sguardo, e che passava le notti sul marciapiede dirimpetto alla sua casa, in quel giovane che le stava dinanzi con la fronte nobile, quantunque solcata dalle febbrili emozioni della creazione, e dai delirii sublimi del pensiero; coi lineamenti sbattuti dalle fatiche del lavoro, dalle lotte ardenti dell'idea, che aveva sentita immensa, colla forma, che spesso non sentiva abbastanza. Egli avea l'occhio brillante della confidenza che dà la giovinezza e l'avvenire, quando si affaccia ridente; il suo vestito irreprensibile sviluppava la forte e maschia eleganza del corpo; si presentava con tutta la grazia di un abituato alle più aristocratiche riunioni. Ciò che più di ogni cosa servì a farglielo riconoscere, meglio che l'altiero portamento della fronte, ch'egli non avea saputo rendere grazioso in quel momento come il sorriso a cui aveva forzato il suo labbro sdegnoso nel presentarsi alla contessa R***, fu questo.
La contessa gli parlava con la famigliarità che dà la parentela del genio, e gli stringeva la mano. Il cerchio degli ammiratori di lei gli si affollava d'attorno, e lo guardava con occhio invidioso. Tutt'a un tratto ella lo vide diventar pallido come un cadavere, e dirizzarsi sulla persona con un movimento macchinale che non seppe padroneggiare; e ciò fu quando il barone (ch'era rimasto al suo fianco frapponendosi fra di lui e Narcisa) si allontanò. Pietro aveva veduto la contessa di Prato, alla quale il sottotenente dirigeva un complimento ch'ella non ascoltava. Brusio rimase un momento immobile, senza poter parlare, cogli occhi, che si erano fatti di una sorprendente lucidità, fissi in quelli di lei, mentre una leggiera convulsione faceva tremare sul suo labbro superiore i baffi castagni.
La signora R***, che gli parlava in quel momento, fu sorpresa di non avere risposta, e lo guardò con curiosità.
Pietro staccò quasi con isforzo gli occhi da quelli di Narcisa, che lo fissavano col loro sguardo limpido e chiaro, per volgerli all'ufficiale, che anch'esso lo guardava sorpreso, arricciandosi le basette.
Egli fu freddo, distratto, impacciato tutto il tempo che rimase a discorrere colla donna celebre. Quando questa gli parlava dello splendido avvenire che la riuscita della sua produzione l'autorizzava ad aspettarsi, rispose tristamente:
«Forse, signora contessa, giammai in tutta la mia vita potrò compiere un lavoro come quello che scrissi in otto giorni, e al quale il pubblico ha avuto la bontà di fare buon viso».
«È solo modestia che le fa dir ciò?»
«No, signora; forse è presentimento.»
«Bisognerebbe, in tal caso, non ammettere questo dramma come parto del suo ingegno, ma piuttosto...»
«Del cuore?», interruppe il giovane; «sì, signora!».
«Ella ha ragione: in un momento di passione si possono operar miracoli che parrebbero impossibili a tentarsi un minuto dopo. Pel bene del suo avvenire voglio augurarmi che tale non sia il suo Gilberto
«Chi lo sa?»
E lo sguardo del giovane, che s'inchinava per allontanarsi, incontrò quello di Narcisa fisso su di lui con un'espressione che dimostrava più della semplice curiosità.
Si ordinavano le coppie per un valtzer; e l'ufficiale venne a presentare il suo braccio a Narcisa, che vi abbandonò il suo corpo flessibile, splendida di tutta la sua strana bellezza; coi capelli, intrecciati di perle, cadenti sulle spalle bianchissime e vellutate; col bel seno anelante sotto il velo ed il merletto che lo copriva; col suo sorriso indefinibile sulle labbra, e gli occhi che, senza esser brillanti, avevano un'onda di voluttà nei loro raggi.
Ella si avanzò lentamente, mollemente, come immedesimandosi al corpo dell'uomo a cui si accompagnava, con un inimitabile movimento del suo collo da cigno, quasi le perle e i fiori che s'intrecciavano ai suoi capelli, e il volume di questi, fossero troppo pesanti per quella piccola testa; presentendo nello sguardo sorridente e scintillante tutto quel torrente d'impetuose voluttà che il valtzer, questo ballo degli innamorati, dovea darle; come appoggiando tutti i delicati tesori del suo corpo al braccio del suo cavaliere, per trarne quella foga d'esaltazione che la musica, l'eccitamento, il contatto del corpo dell'uomo elegante doveano darle.
Nulla varrà a riprodurre, ad accennare soltanto, l'impressione voluttuosamente affascinante di quel corpo leggiero da silfide, che librava, direi, le ali coll'espressione del suo sguardo, per abbandonarsi a tutto il trasporto di quel ballo.
Le coppie cominciarono a girare; la musica eseguiva Il Bacio di Arditi.
Dopo il primo giro, quando la contessa si fermò, anelante, come cullandosi al braccio del suo splendido cavaliere, sfiorandogli un'ultima volta il viso coi suoi capelli; colle guance accese, il petto anelante, gli occhi umidi di languore e di piacere, incontrò un altro sguardo, umido ancor esso di una indicibile espressione d'angoscia e quasi di cruccio, che brillava su di una fronte alquanto calva e pallida di una spaventosa pallidezza. Ella fissò un lungo sguardo su quello che si fissava su di lei.
«Vogliamo ricominciare?», le sussurrò all'orecchio l'ufficiale, passandole il braccio attorno alla vita da bajadera.
«È inutile... mi sento stanca... Non ballo più...»
Ella cercò cogli occhi un'altra volta quello sguardo supplichevole e nello stesso tempo minaccioso: era scomparso.
«Oh! questo Bacio! questo Bacio!... avrò da sentirlo dappertutto!...», mormorava Pietro delirante scendendo le scale.
«Domani ai Fiorentini si darà un dramma che ha fatto furore; a quanto si dice; avrete la compiacenza di accompagnarmici?», domandò Narcisa al marito.
Questi s'inchinò in silenzio.
L'indomani, infatti, alle 9 e mezzo, la contessa, che non si ricordava di essere entrata in teatro a tal ora, era in un palchetto di seconda fila sul proscenio. Il sipario non era ancora alzato e la sala era affollatissima.
La contessa recava in mano un magnifico mazzo di viole bianche che posò sul parapetto insieme all'occhialetto.
Il dramma fu recitato in mezzo ad una di quelle ovazioni che sembrano strappate agli spettatori quando l'autore ha saputo scuotere tutte le corde dei cuori colla sua mano potente: era una di quelle opere spontanee, tutte di un sol getto, che sono belle perché sono vere, che sono inimitabili perché sono semplici e comuni. Narcisa rivide quel giovanetto che passava le notti sotto i suoi veroni; lo rivide nel protagonista di quel dramma, con tutti i suoi fremiti d'amore e i suoi disinganni disperati, ella sentì che quel dramma parlava di lei, era scritto per lei, in tutte quelle sfumature di rimembranze che l'accennavano ad ogni passo... L'ufficiale, che avea battuto le mani quando l'aristocrazia aveva applaudito, osservò con sorpresa che ella rimaneva indifferente alle sue sollecitudini, tutta assorta in quel Gilberto che ad ogni parola destava in lei una reminescenza e le svelava quale amore quasi sopra[n]naturale avea saputo destare.
Nel mezzo della scena che l'avea commossa dippiù, ella, coll'ispirazione improvvisa e adorabile della donna leggiera e capricciosa, s'era tolto dal dito un magnifico anello di brillanti e l'avea legato al nastro del mazzetto.
Alla fine del second'atto l'autore, chiamato fragorosamente dal pubblico, venne sulla scena. Egli non ebbe che uno sguardo, in mezzo al turbine di quegli applausi frenetici, in mezzo all'agitazione di quella folla che si levava gridando il suo nome, in mezzo all'inebbriamento di quell'ovazione quasi delirante: uno sguardo che andò a posarsi su di un palchetto di un proscenio al second'ordine.
Egli vi vide la contessa... verso della quale si chinava sorridendo il biondo giovanotto dalla brillante divisa di ufficiale degli Usseri.
Pietro dimenticò quegli applausi, quelle corone che gli cadevano ai piedi, quei fiori che lo coprivano come in un nembo, quelle acclamazioni al suo nome; egli non badò più neanche ad un mazzo di viole bianche che gli era caduto ai piedi dal palchetto di Narcisa e che avea raccolto, per fuggire come un delirante, come un uomo che teme d'impazzire, poiché tutti questi applausi non potevano dargli quello sguardo ch'era venuto a cercare sino a Napoli, che avea voluto comprare a prezzo delle ispirazioni del suo genio, e che avea visto rivolto sul giovane sottotenente.
La folla chiamò invano replicate volte l'autore.
«Che ne dite del dramma?», domandò la contessa all'ufficiale, dopo l'ultimo atto, approfittando del tempo in cui il conte era uscito per fare ordinare la carrozza dal jo[c]key che aspettava sul corridoio.
«Molto bello, in verità; e anche assai applaudito.»
«E dell'autore?»
«Che volete che ne dica?... ch'è un autore come tutti gli altri», soggiunse colui con il supremo disprezzo degli uomini di spada.
«Eppure quest'uomo è celebre!», aggiunse la contessa avvolgendosi nella sua vespertina di cachemire bianco.
«Sarà anche questo.»
«Sento che amerei quest'uomo come una pazza!», esclamò Narcisa punta dal freddo motteggio del suo vagheggino, colla viva schiettezza del suo carattere mobile ed impetuoso.
«Confessate almeno che questa franchezza è odiosa!...», rispose ridendo il sottotenente, poiché non sapeva se dovesse prendere la cosa sul serio, sebbene l'espressione affatto nuova della contessa gli desse molto a pensare.
«Ha però sempre il merito della franchezza!», replicò con tutta flemma Narcisa: «Quest'uomo io l'amo... poiché la sua celebrità è opera mia!... opera di cui posso andare superba!... Partite per la guerra, signore, a farvi uccidere per me o a ritornare generale d'armata, e allora... ma allora soltanto... forse.... io vi amerò come sento che amo in questo momento quell'uomo!».
«Signora!», esclamò l'ufficiale coi denti stretti, facendosi pallido.
«Non mi accompagnate sino alla mia carrozza?», disse senza scomporsi Narcisa, dandogli la busta dell'occhialetto da recarle, nel momento che suo marito rientrava nel palchetto.
Brusio era ritornato a sua casa agitatissimo, e passò la notte senza dormire.
Ella! Narcisa! avea assistito al suo trionfo, avea palpitato dei suoi sentimenti, gli avea gettato quel mazzetto che avea fatto appassire a furia di baci!... Ma ella non era sola!... quell'uomo, quel soldato, sì giovane, sì bello, sì splendido! che le parlava sì da presso... che le sorrideva in quel modo!... Tutt'a un tratto le sue dita incontrarono l'anello che era legato al mazzo; un dubbio atroce lo fece impallidire: quei fiori, che la donna adorata avea lasciato cadere su di lui, invece di essere l'espressione della simpatia, non dimostravano piuttosto uno di quei volgari applausi, uno di quegli splendidi regali con cui si paga l'abilità di un istrione?... Quest'idea lo martellò a lungo; e l'indomani, ancora sotto questa impressione, scrisse il seguente biglietto a Narcisa - sarcasmo pungente ed amaro velato dalla forma più delicata:
Signora contessa,
Ieri ebbi la fortuna di raccogliere un mazzo che le cadde dal palchetto sulla scena. Se, unita ai fiori che lo compongono, non vi avessi trovato una gemma di qualche valore, io l'avrei forse conservato come un ricordo dippiù della simpatia di cui mi onorarono gli spettatori; ma nel dubbio d'ingannarmi sulla destinazione del suo prezioso regalo, poiché tali sogliono essere le ricompense dei commedianti celebri, mi fo un dovere di rimetterlo alle mani dalle quali è partito.
La prego, signora, di gradire la testimonianza della mia più distinta considerazione, ecc.
Suggellò il biglietto, dopo averlo firmato, aspettando con impazienza l'ora convenevole per ricapitarlo.
Bisogna dire che il giovane, esagerando la sua suscettibilità, scrivendo quella lettera di orgoglioso rimprovero sotto le frasi gentili, cedeva ad una segreta speranza di mettersi in relazione con Narcisa; e che egli avea adottato quel mezzo come ne avrebbe adottato un altro, se gli si fosse presentato.
A mezzogiorno suonò, e disse al domestico che comparve, consegnandogli la lettera ed il mazzo:
«V'informerete dalla servitù del signor barone di Monterosso dell'abitazione della signora contessa di Prato, e andrete a recarle questa lettera insieme ai fiori e all'anello, personalmente», aggiunse in ultimo, accentuando la parola.
«Ascoltate....», disse quindi, mentre il servitore stava per uscire, esitando tuttavia a proferire quelle parole che gli pareva svelassero la sua segreta speranza che cercava dissimulare a se stesso: «se vi dicono esserci risposta aspettatela».
Attese con ansietà febbrile i tre quarti d'ora che il domestico impiegò a ritornare colla risposta. Finalmente l'udì sulle scale e andò ad incontrarlo nel salotto, dominandosi a pena.
Gli venne recato su di un vassoio da lettere un biglietto da visita; al di sotto del titolo Conte di Prato in litografia, c'era scritto a mano: prega il sig. Brusio di far trovare alle 8 due suoi amici al Caffè d'Europa.
«Un duello!», esclamò Pietro sorpreso di leggere tutt'altro di quello che sperava: «confesso che me l'aspettava pochissimo. Quello che non so comprendere è perché il signor conte spinga la permalosità sino a sfidarmi per un mazzo rimandato... a meno che...».
Rimase pensieroso alcuni secondi, senza compire la frase, girandosi il biglietto fra le dita.
«Non importa»; disse quindi riscuotendosi; «quest'uomo è destinato; io l'ucciderò, com'è vero che mi chiamo Pietro e che quest'uomo mi ha insultato a Catania...»
Uscendo per prevenire i testimoni passò dal barone di Monterosso e vi trovò un altro suo amico.
«V'incontro a proposito»; diss'egli stringendo le due mani che gli venivano stese, «ho un affare col conte di Prato e venivo a pregarvi della vostra assistenza.» E raccontò ai due amici il fatto della mattina che avea causato la sfida del conte.
«Le condizioni?», domandò il barone.
«Vi dò carta bianca; l'appuntamento è per stasera, alle otto, al Caffè d'Europa. Vi prevengo soltanto che non accetterò accomodamenti.»
Alle dieci i due padrini vennero a trovarlo al Teatro S. Carlo per riferirgli le condizioni stabilite.
«Diavolo!», esclamò il barone, «l'affare sembra più serio che io non mi fossi immaginato. Il conte è furioso, a quanto pare; ed ha proposto condizioni d'inferno: trenta passi, dieci passi liberi per ciascheduno. C'è da divertirsi con due uomini che possono venire a scaricarsi le pistole sul petto a dieci passi!»
«Accetto!», esclamò Pietro col suo accento vivo e brusco.
«Caspita! lo sapevamo; giacché abbiamo accettato per voi... Quando c'entra quel demonio di contessa...»
«La contessa?»
«Eh, via!... forse che domani andate a cacciarvi una palla in corpo quasi colle pistole appoggiate sullo stomaco per quel povero mazzo che c'entra quanto un pretesto?!... Il conte è irritatissimo per l'assiduità che spiegaste nel far la corte a sua moglie, per cui la seguitaste da Catania a Napoli; e si è servito di questo pretesto per sfidarvi onde evitare il rumore.»
«Vi assicuro che non ho ancora l'onore di essere conosciuto personalmente da quella signora...»
«Il conte però sembra che vi conosca molto bene... A domani!»
A mezzanotte Brusio rientrando trovò una lettera che il cameriere gli disse aver recato due ore avanti una giovane assai elegante, che erasi annunciata per la cameriera della contessa di Prato. Egli aprì con febbrile impazienza la lettera profumata, della quale il bellissimo carattere inglese era tracciato con mano incerta, e vi lesse:
Signore,
Il conte l'ha sfidato. Le condizioni di questo duello sono orribili: due uomini che si battono alla pistola non si battono per una semplice riparazione; si battono per uccidersi. Questo duello è un delitto.
A Napoli si è molto parlato del suo scontro di un mese fa con un giornalista il quale ancora guarda il letto; si dice ancora che ella è un terribile tiratore; il conte anche lui possiede questa sciagurata destrezza... E questi due uomini, che si odiano a morte, andranno, domani, dope essersi abbigliati freddamente, come al solito, dopo di aver fatto attaccare la carrozza, dopo di essersi salutati civilmente, a mettersi a 15 o 20 passi di distanza colle pistole in mano, mirando col triste sangue freddo che deve dare in mano dell'uno la vita dell'altro... Oh! signore!... lo ripeto: questo è delitto!... questo è il più spietato assassinio legale!... O il conte resta ucciso ed io avrò il rimorso di essere stata causa della sua morte... o invece...
Signore... a Catania conobbi un giovane nobile e generoso... che mostrava d'amarmi... Io invoco questa memoria per scongiurare tale disgrazia... Questo duello non deve aver luogo! Si ritratti, signore, il conte accetterà le sue più semplici scuse, e le basterà di fare il primo passo perch'egli le venga incontro a stringerle la mano. Se ha una madre pensi a questa madre, se ha un'amante pensi all'amante, signore... e farà il più nobile sacrifizio che amor proprio d'uomo possa fare evitando questo duello.
Narcisa Valderi
Pietro fu tristamente colpito da quella lettera. Egli si aspettava tutt'altro, egli credeva di trovare affettuose parole di donna amante, e per contro rinvenne la moglie che supplicava il duellista famoso per la vita del marito; egli non vide, non seppe scorgere tutto ciò che lasciava [in]travedere, che accennava anche quella lettera che parlava delle reminiscenze di Catania... poiché a quelle reminiscenze non si era data più importanza di quanta se ne dà a sentimenti che non si dividono; avea riletto due o tre volte una parola, quell'o invece... che un momento avea fatto la sua speranza, come se avesse cercato interpretare tutto il senso di quei puntini che la seguivano, e trovarvi quello che il suo cuore voleavi vedere; ma quei puntini potevano anche nascondere, come spesso, il nulla.
Se Narcisa gli avesse scritto semplicemente: Pietro, non uccidete mio marito, ritrattatevi: egli non si sarebbe ritrattato, ma non avrebbe neanche fatto il passo che fece, rimandandole la lettera, come una suprema impertinenza.
Sorridendo del suo riso amaro, scrisse, in basso della stessa lettera della contessa, queste sole linee, che gli parve la completassero, e ne fossero la degna risposta, mormorando fra i denti stretti dal sarcasmo: «Ah! costei ha paura che io le uccida il marito!... costei si rivolge al giovane di Catania, e ne accenna la memoria, come si farebbe di un balocco ad un fanciullo; per ottenere il suo intento!... Ma non sa questa donna quali lagrime stillino ancora queste memorie?!...».
Le due linee dicevano: «Se amassi una donna, come io e nessuno può amare - e questa donna mi chiedesse una viltà - io la negherei a questa donna. - Alla signora contessa di Prato posso assicurare che il conte, suo sposo, non correrà alcun pericolo».
Sì, egli l'amava tanto, colei, malgrado tutto quello che aveva sofferto per lei, e forse a causa di ciò, malgrado i torti che si figurava aver ella verso di lui, da farle il sacrifizio della vita senza neanche pensarci, senza neanche farglielo indovinare; mentre l'assicurava della vita di suo marito, ricusandosi nel tempo istesso a far le sue scuse al conte, - ciò che valeva offrirsi come un bersaglio ai colpi di lui.
Quest'uomo che non sapeva se la sera del domani dovesse venire per lui; quest'uomo che andava fra poche ore a barattare una vita giovane e ricca d'avvenire, acclamata, festeggiata, contro un colpo di pistola, dormì tranquillo tutta la notte, poiché si sentiva più vicino a Narcisa, la sirena che gli avrebbe fatto adorare l'inferno per mezzo delle sue seduzioni.
All'alba era alzato e si vestiva. Nel punto di scendere le scale consegnò al cameriere la lettera della contessa dicendogli:
«Recate al suo indirizzo questa lettera, e dite alla contessa di avervela io data nel punto di montare in carrozza. Fate avanzare».
«La carrozza!», gridò il cameriere.
I briosi cavalli lo trasportarono rapidamente all'abitazione del barone, nella strada del Pilierò, ove aspettavano i due testimoni.

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.39

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