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IV Lo zio Luigi telegrafò ad Altavilla che il nipote aveva fatta la
frittata. Il telegramma arrivò in casa Dorello mentre la famigliuola stava per mettersi a
tavola. Don Anselmo impallidì leggendolo, e lo porse senza dir parola alla cognata; la
quale lasciò cadere il cucchiaio nel piatto. Gli altri rimasero allibiti coi gomiti sulla
tovaglia, davanti alla finestra tutta verde del noce dell'orto. Nessuno osava fiatare; le ragazze, spaventate, si guardavano in faccia
quasi fossero state colte in fallo. Dopo qualche momento donna Barbara tornò a prendere
in silenzio il tondo del cognato per riempirlo, ma questi disse con un gesto calmo,
levando la mano collo smeraldo al dito. - No, non ho più fame. Si passò il tovagliuolo sulla bocca, quasi a tergerne l'amaro, lo
ripiegò, lo posò sulla sponda, e salì in camera sua a frugare nelle carte che erano
sullo scrittoio. La cognata rimasta colle figliuole, si cacciò le mani nei capelli, senza
dir nulla. Le ragazze sparecchiarono in silenzio, e andarono a rincantucciarsi
nelle loro stanzette. Lo zio canonico non uscì nel dopo pranzo. Verso sera la cognata
andò a picchiare timidamente all'uscio di lui. - Sto mettendo in ordine le sue carte, - disse il canonico leggendo
negli occhi sgomenti della povera madre. - Ci vorrà un po' di tempo, perché non mi sarei
aspettato di dovergli rendere questi conti così presto. La poveretta si lasciò cadere su di una sedia vicino all'uscio,
annientata, colle braccia in croce sulle ginocchia, seguendo macchinalmente cogli occhi
lagrimosi ogni gesto del cognato, il quale sembrava tranquillo. Infine, vieppiù
spaventata da quella calma, balbettò: - Siamo rovinati! - Voi altri no. Per voi altri finché vivrò ci penserò io, se volete
continuare a star con me; rispose il canonico. Ma lei piangeva in silenzio colle mani sul viso. Poi balbettò: - E lui?... - Ecco qui - rispose il cognato. - Egli ha settemila lire di sua rata
sul patrimonio paterno. Se si contenta di pigliare le vigne di Rosamarina, quantunque
valgano qualcosa di più, e quel che gli tocca della casa paterna, faremo le cose
all'amichevole, a risparmio di spese, e sarà meglio per tutti. - Settemila lire!... Son poche per vivere! Allora il prete si strinse nelle spalle, e fu il solo movimento brusco
che gli scappò. - Qualcosa di dote gli porterà la moglie. Poi ha un'eccellente
professione, e dovete pensare che gli altri vostri figliuoli non hanno neppure quella, e
non vi sono costati tanto! Egli ci ha rovinati tutti! La madre a tutte quelle ragioni rispondeva piangendo. Infine calmata
tutta a un tratto, quasi lo Spirito Santo l'avesse illuminata, colle membra ancora scosse
dai singhiozzi, e la faccia bagnata di lagrime, disse: - Andrò io stessa alla città, da mio figlio. Gli parlerò, gli
toccherò il cuore. Egli ha avuto sempre il cuore buono per la sua mamma! Il cognato la guardò in viso, come fosse colpito anche lui da
quell'ispirazione. Poi tornò a leggere il telegramma, e scosse il capo, per dire che era
inutile. - Fate come volete, conchiuse porgendole il dispaccio. La povera madre si mise in viaggio il domani all'alba, con un
fardelletto che Rosalia si affaccendò a metterle insieme tutta sgomenta quasiché
partisse per l'America nella carrozzaccia sconquassata che portava la posta alla stazione. Il cognato l'accompagnò sino al ballatoio. - Se si ravvede, se vuol tornare qui, la casa è sempre aperta,
diteglielo, per lui, ma per lui soltanto! Il giovane, non osando farsi più vedere dai genitori di Elena, era
andato a stare all'albergo. I suoi camerati in massa gli avevano prestato cento lire, col
viso serio, come gli fosse accaduta una sventura, e il più anziano, uno studente di
medicina, alla prima barzelletta che avevano arrischiato i compagni sull'avventura di lui,
sentenziò che sarebbe stato meno male se si fosse rotta una gamba. A Cesare per disgrazia
erano rimaste le gambe sane e vagabondava tutto il giorno, come un delinquente, finché
tornava a buttarsi rifinito sul letto, cogli occhi stralunati, e il viso sfatto. Così
rientrando a casa trovò nella sua cameretta la mamma, seduta vicino all'uscio, pallida e
stanca anche lei, col suo fardelletto posato accanto sul tavolino. Ei sentì darsi un tuffo nel sangue e rimase immobile dinnanzi a lei,
avvilito, colle braccia penzoloni, gli occhi impietriti, il mento cascante. Sua madre s'era preparata tutto il discorso lungo la strada, colle
risposte di lui, figurandosi al vivo gli atti, le inflessioni di voce, i menomi gesti, il
pentimento del figliuolo il quale si sarebbe buttato piangendo fra le sue braccia, e
sarebbe tornato al paese con lei. Con quelle immagini nella mente andava fissando
lagrimosa i campi che fiancheggiavano la strada, gli alberi che sfilavano, quasi per
stamparseli in mente, per gustare la gioia del contrasto nel momento in cui avrebbe
rifatta quella strada con suo figliuolo. Il sole sorgeva glorioso come una promessa fra le
gole dei monti, e la poveretta diceva al sole colle mani giunte, fervidamente: - Vergine
santa! Vi ringrazio! Vi ringrazio, Dio mio! - Ma adesso al cospetto del figliuolo
atterrato, a guisa di un reo, lei rincattucciata accanto all'uscio come un'estranea, non
sapeva che dire, non si rammentava una sola di quelle parole che dovevano toccargli il
cuore. Scoraggiata, cominciò a far greppo in silenzio, al pari di una bimba, sporgendo il
labbro, e tremando tutta pei singhiozzi rattenuti. Quell'angoscia puerile diveniva
straziante su quella faccia sbattuta, sotto quei capelli bianchi. - Oh mamma! oh mamma! singhiozzava il figliuolo cadendole finalmente
ai piedi, colla faccia sui ginocchi di lei. - Oh mamma! - E non sapeva dir altro. La povera mamma piangeva cheta cheta, china su di lui, tastandolo
colle mani sulla faccia e sulle spalle; gli accarezzava il capo
come quando bambino se lo teneva allo stesso modo fra le ginocchia, singhiozzando ad alta
voce dalla gioia. Andava persuadendolo così: - Sai, l'annata è stata scarsa. Il grano è
andato tutto a male. Sulla vigna ha grandinato. Quest'inverno c'è stata una gran
mortalità di pecore, sì che i Forano hanno venduta la casa. Ci vuole l'aiuto di Dio! -
Tutte quelle povere ragioni dei poveretti che sono eloquenti soltanto per loro, e colle
quali le pareva che tutto fosse accomodato. Talché, sperando che Cesare fosse già
partito, le sembrava di scorgere il sole radioso del mattino in quella cameruccia
sconosciuta che le aveva stretto il cuore d'angoscia al primo entrare. Come furono più calmi andò a sedersi sulle ginocchia del figliuolo,
e se lo teneva abbracciato stretto, colla testa sull'omero, ripetendo in cuor suo: - Vergine santa, vi ringrazio! Sono state le anime del Purgatorio che
gli hanno toccato il cuore al figlio mio! È stata l'anima di suo padre! E si dava a rassettare ogni cosa per la stanza, quasi ora si sentisse
a casa sua, sollevata da un gran peso, colle mani tremanti tuttavia, disfaceva il suo
fagottino, guardando dove potesse mettere la roba: - Mi terrai qui, con te, non è vero?
Poi domani torneremo insieme al paese. Tuo zio ti manda a dire che t'aspetta a braccia
aperte. Andremo domani. Ora mi sento stanca, sono vecchia. Mi sento vecchia. - No, mamma, balbettò il figliuolo. Non posso più tornare a casa!... Fu come se ricordasse, e rimase colle sue robe sulle braccia, che non
sapeva dove metterle. Poi le posò un'altra volta sul canterano, giunse le mani scarne,
forte forte: - E cosa hai fatto che non puoi tornare a casa? Cosa hai fatto, figlio
mio?... Egli non rispose, scuotendo il capo, cogli occhi colmi di lagrime,
seduto tristamente sulla sponda del lettuccio, stringendo fra le mani il fazzoletto
fradicio. - Io son vecchia. Per me fa pure quello che vuoi. Ma pensa che le tue
povere sorelle rimarrebbero in mezzo a una strada se tuo zio ci abbandonasse anche lui. - Ah! mamma! rispondeva il giovane scuotendo il capo e col fazzoletto
fra le mani. Se sapeste! se sapeste! - Sì, sì, lo so, figlio mio! povero figlio mio! Lo so quel che devi
averci in cuore! Ma cosa puoi farci se siamo poveri! Tu non sai... tu non sai nulla!...
Alle volte, quando aspettavi la mesata, tuo zio non dormiva la notte. A Natale, che
massaro Nunzio non aveva mandati i denari del vino, e il camparo era tornato colle mani
vuote dalla fiera, che giornata! Per noi non importava, perché le tue povere sorelle sono
avvezze a tutto, e con quattro legumi... Ma il martello era per te... Colui non sa come
fare, in paese forestiero! - diceva tuo zio. Allora ho pianto tanto, seduta in un
cantuccio della camera, ché pensavo - Lui, non sa come fare in paese forestiero! - e mi
pareva di vederti andare affamato per le vie della città che non conoscevo, di là dei
monti, a quell'ora che solevi tornare a casa, quand'eri al paese, e le tue sorelle ti
conoscevano al rumore dei passi, e dicevano: - Questo è lui che torna a casa. - Vedi, le
tue sorelle non sono belle come tante altre, no, non sono belle come tante altre, ma ti
vogliono bene di più... e parlavano sempre di te, la sera, mentre facevano la calza nel
tinello, sotto il quadro grande, e dacché sei partito ti rammenti? che eravamo tutti sul
ballatoio, finché ti si poté vedere, non hanno mancato un giorno di rifarti il tuo
letto, come se avessi dovuto tornare, la sera, e la tua stanza è rimasta tal quale l'hai
lasciata, e nessuno se ne è mai servito, nemmeno quando si raccolsero tante di quelle
carrubbe, ma tante, che non si sapeva dove metterle, e ce n'erano persino due cestoni
sotto il letto di tuo zio. Tuo zio ha detto - Mettetene una manciata nel forno, che gli
piacciono tanto a lui, quando tornerà. - No, mamma! ripeteva il figliuolo. - Io non posso più tornare a
casa... - Ma cosa hai fatto, che non puoi tornare a casa? Dillo a tua madre!
Cosa hai fatto? - Ho fatto... che ella è fuggita da casa sua per amor mio. È fuggita
con me. Ha abbandonato i suoi parenti, e non ha più nessuno, mamma! A quella risposta la poveretta non seppe più che dire. Non pensava
più all'abbandono del figliuolo e allo sgomento di ricomparir con quella notizia alla
presenza del cognato. Aveva dinanzi agli occhi le sue ragazze che fuggivano coll'amante
come quell'altra, il sottosopra della casa al primo momento che si scopriva la terribile
disgrazia. Allora si mise a raccogliere lentamente le sue cose, accasciata, senz'altra
speranza. In quel momento le cadde sotto gli occhi il ritratto di Elena, inchiodato a capo
del letto, nella sua bella cornice dorata, colle labbra e le sopracciglia possenti sul
volto color d'ambra. La poveretta rimase un istante immobile lì accanto, col suo fagottino
in mano, umiliata dalle sue vesti meschine e dalla sua figura timida e magra, colle povere
dita ossute intrecciate nel nodo del fardelletto. Oramai sentiva che tutto era finito, e
che sarebbe stato inutile lottare coll'incantesimo di quella bellezza che le aveva tolto
il cuore del figliuolo. Soltanto soffriva uno schianto doloroso, e una desolata pietà pel
suo ragazzo che doveva penar tanto nel vederla partire. Ella non pensava ad altro. Gli
diceva: - Senti, io devo andarmene perché il treno sta per partire. È meglio tornar
presto al paese giacché le tue sorelle son rimaste sole, e tuo zio si adirerà
maggiormente se gli facciamo aspettare la risposta. Sarà tanto di risparmiato nella spesa
del viaggio. Ora lui sconvolto andava su e giù per la stanza, come cercasse
qualche cosa, collo sguardo fisso e vitreo. Sua madre sulla soglia, gli disse: - Io pregherò Dio perché tocchi almeno il cuore di tuo zio. Le anime
sante mi aiuteranno, Cesare! Ei si era messo il cappello in capo, macchinalmente, e voleva levarle
di mano il fardelletto, senza sapere che facesse. - Ora abbracciami! - gli disse la madre
- ché se tuo zio non vuol perdonarti forse non ti vedrò mai più. Son vecchia, e potrei
morire. - Mamma! disse lui. Vorrei esser morto! La madre, mentre se lo teneva fra le braccia, trasalendo in tutte le
membra, rispose: - Cosa vuoi che io faccia? Le tue sorelle non hanno altro sostegno se
non tuo zio. Che vuoi che io faccia? E andava ripetendo le stesse parole, mentre scendeva adagio adagio la
scala, tenendosi alla ringhiera. Ad un tratto egli parve che si ricordasse di qualche
cosa, corse in camera sua di nuovo, e tornò coi pochi denari che gli rimanevano in mano. - Tenete, vi serviranno pel viaggio. Non ho altro, mamma! - Ecco cos'è! osservò la mamma. Se fossimo ricchi né tu né io
avremmo questa croce in cuore adesso! - Aspettate, aspettate, ché voglio accompagnarvi alla stazione. Al momento di montare in carrozza, mentre la povera forestiera
guardava attonita e sgomenta il via vai della folla, e teneva stretta di nascosto sotto lo
scialle la mano del figliuolo, ché così si sentiva stretto il cuore dall'angoscia e le
pareva che glielo strappassero colle unghie, egli ripeté ancora: - Aspettate, che voglio accompagnarvi per un altro po'. Non gli bastava il cuore di staccarsi da lei. Ella lo sentiva,
tenendogli sempre stretta la mano sotto lo scialle, seduta accanto a lui nel carrozzone,
guardando la pianura grigia di stoppie che fuggiva dietro a loro. Infine dovette
lasciarlo, per montare nella carrozzella sconquassata che aspettava i viaggiatori del
paesetto, coi ronzini dormenti all'ombra magra delle robinie. E l'era parso che egli le
avrebbe detto ancora: - Aspettate, che voglio accompagnarvi sino al paese... -
stringendogli sempre la mano di nascosto sotto lo scialle. Egli affacciato allo sportello, premendosi il fazzoletto sulla bocca,
seguiva cogli occhi il mantice polveroso del legnetto che ondeggiava e traballava
allontanandosi per la straduccia bianca. Quando non vide più nulla, si rincantucciò in
un angolo, buio come l'animo suo, nella notte che avviluppava diggià ogni cosa, piangendo
come un ragazzo. Ma allorquando i lumi della città cominciarono a risplendere
nell'orizzonte, anch'egli si rischiarò, ripreso dall'immagine di Elena, e rifletteva che
sua madre andava calmandosi essa pure, pensando alla famigliuola che l'aspettava al
villaggio. Così la fiumana della vita li ripigliava e li allontanava sempre più. La madre arrivò a casa di notte, affranta. Le ragazze dormivano, suo
cognato solo vegliava aspettandola, come avesse indovinato che doveva tornare subito. Egli
non disse una parola, mentre la cognata posava il fardelletto, e le sporse una sedia. Ma a
lei quel silenzio le serrava maggiormente la gola. Allora il canonico, vedendola presa da
un tremito nervoso in tutte le membra andò ad empirle un bicchier d'acqua. - Pensate che se vi ammalate sarà anche peggio per le vostre
figliuole - le disse egli con voce calma. - Alla fin fine non è morto nessuno. La poveretta si fece animo, e raccontò finalmente tutto quello che
sapeva, fissando timidamente in volto il cognato, per seguir ansiosamente l'effetto delle
sue parole. Il prete rimase impassibile. Alla fine disse: - Ora bisogna maritarli. E siccome sua cognata lo guardava attonita: - Se no sarebbe uno scandalo. Nel paese, a diritto o a torto, passo
pel capo di casa, e il vescovo mi toglierebbe la messa. Del resto
non potete impedire che vostro figlio si mariti. Se gli negate il consenso, glielo danno i
tribunali. - Io non glielo nego - balbettò ella timidamente, agitata fra la
speranza e il timore, parendole che il cognato inclinasse di già a perdonare. Il cognato approvò col capo in silenzio. Allora la povera madre proruppe in lagrime di consolazione. - Lo
sapevo che le anime del Purgatorio non ci avrebbero abbandonato! singhiozzava; e voleva
correre a svegliare le figliuole per dar loro la buona novella che lo zio canonico
perdonava al nipote e gli apriva le braccia. Ma il prete la fermò dolcemente, posandole sulla spalla la mano
coll'anello, e disse: - Adagio! Quanto a perdonare, perdono; ché devo andare a celebrar
messa domani, ma altro non voglio né devo fare. Quel poco che posso per la famiglia di
mio fratello lo dò volentieri. Ma non ho la prebenda di un vescovo, e non posso tirarmi
sulle braccia anche la famiglia dei figli di mio fratello. Ognuno a casa sua. Se voi altri
volete andare a stare con vostro figlio, padronissimi. Ma in casa mia no! pensateci bene. Il giorno appresso dopo pranzo, lo zio canonico, invece di fare la
solita passeggiata fuori del paese, andò a trovare il notaio suo amico, e scrissero
insieme a don Liborio una bella lettera. In casa dell'Elena, passato il primo sfuriare della burrasca, s'erano
un po' calmati. Soltanto don Liborio invece di fare la solita partita continuava a girare
i pollici sulla tabacchiera, seduto di faccia al ritratto di Elena che gli voltava sempre
la schiena. Roberto, come un'ombra, arrivava all'ora solita, stringeva la mano in giro a
tutti, e andava a mettersi al suo posto, colla sua regolarità d'impiegato. Al giungere della lettera dello zio canonico che prometteva il
consenso della madre del giovane, e voleva sapere quel che avrebbero assegnato in dote
all'Elena, donn'Anna saltò su tutte le furie, ricordandosi dell'offesa mortale che
avevano fatto alla sua casa, e cominciò a strillare che la gallina si piuma dopo morta, e
invece loro erano ancora in vita, lei e suo marito, e non intendevano spogliarsi a
beneficio di un'ingrata che li aveva piantati a quel modo. Del resto poi avevano un'altra
figlia da maritare, e quella siccome era buona ed amorevole, meritava più dell'Elena.
Lui, se aveva fatto quella prodezza voleva dire che si sentiva di mantenere la moglie,
senza bisogno della dote. La sua figliuola portava con sé non una ma cento doti, con
tutte quelle virtù che possedeva, e come l'avevano insegnata lei. Il signor avvocato
poteva ringraziare Dio e i Santi per la fortuna che aveva acciuffata, e non andare a
cercar altro. Don Liborio, rigido come un Bruto, calcandosi sul capo il berretto
ricamato, aggiungeva: - Io non ho dote da assegnare! Io non ho più figlia! Quanto al consenso lo diedero con tutte e due le mani. Alla fin fine
avevano viscere paterne, e la mamma arrivò anche ad intenerirsi ricordando che a quel
giovane gli aveva voluto bene, ed era arrivata a considerarlo come uno della famiglia. Don
Liborio, rabbonito, confessò che gli era stato simpatico anche a lui, e per questo gli
avevano aperto il cuore e l'uscio di casa, favore che non soleva accordare a tutti,
Roberto era lì per farne testimonianza. Roberto, lì presente, accanto alla Camilla,
affermava col capo. - Un avvocato può arrivare a tutto al giorno d'oggi! - finiva don
Liborio. - In quel giovane c'è la stoffa di un ministro. E donn'Anna soggiungeva: - Lo zio canonico poi, ch'è un servo di Dio, non dovrebbe badare
tanto al sottile, per levare due anime dal peccato. Ella rilasciò generosamente alla figliuola tutti gli abiti e il
corredo che possedeva da ragazza. Il giovane aveva la sua rata di patrimonio paterno, pel
valore di settemila lire, rappresentato dal fondo rustico di Rosamarina, e la rata della
casa. Siccome il tempo stringeva e mancavano i denari di metter su un quartierino, i due
sposi decisero d'andare a passare l'autunno nella loro proprietà. Essi arrivarono in una piovosa giornata di ottobre, preceduti da un
carro carico dei bauli, casse e cassettini di Elena. Il primo giorno alla Rosamarina fu
malinconico, in quelle stanzuccie nude, dove si ammonticchiavano quei cassoni come in un
magazzino di ferrovia, al cadere di quella giornata scialba, colla prospettiva del
paesetto perduto nella nebbia, grigiastro e scolorito nel cielo scuro. Il giovane avrebbe
voluto correre subito ad Altavilla per abbracciare sua madre. Ma il canonico gli fece
sapere che ella stava poco bene, e l'avrebbe vista in chiesa, quando poteva cominciare ad
uscire di casa. Nel paese dicevano: - Come principia allegramente questo matrimonio d'amore! |
Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com |
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