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XII Nel salottino color d'oro, alla luce tranquilla della lampada, Elena,
inginocchiata sul tappeto, si trastullava colla sua bambina come fosse ridivenuta bambina
anch'essa. La spogliava per rivestirla a modo suo, si divertiva a vederla agitare le
gambucce e a baciarle i piedini color di rosa, sembrava invasa da impeti di frenesia al
sentirla galloriare, quasi la Barberina prendesse parte alla festa, colle manine tese e
brancicanti, cogli occhietti ancora vaghi e senza sguardo; si slanciava su di lei come
volesse soffocarla colle carezze, e la baciava con una specie di furore amoroso. Di tanto
in tanto si arrestava, anelante, seduta sulle calcagna, lisciandosi i capelli sulla
fronte, per riprender fiato, e balbettava al marito: - Guarda! guarda! che amore! Poi se la pigliava al seno, nudo, per sentirsi fra le braccia tutta la
sua creatura, andava a mettersi dinanzi allo specchio, discingendosi con arte,
acconciandosi sul capo un fazzoletto rosso a guisa di quelle Madonne che aveva viste
dipinte, assorta in un'ammirazione così ingenua della sua bellezza sensuale che diceva di
allattar lei la bimba, e non voleva la toccassero altre mani. La maternità era un'altra maniera di espandersi la sua sensualità
sottile, l'ambizione, la leggerezza, la bizzarria che c'era nel suo temperamento. Il
marito, lì davanti, colle sue cartacce sotto il braccio, col viso pallido dalla fatica,
col sorriso distratto, non aveva nulla di artistico agli occhi di tal moglie, nulla di
teatralmente affettuoso. Per poco non gli rimproverava: - Tu non le vuoi bene alla Barberina! In lui tutto era modesto: il lavoro, la tenerezza, la generosità
delicata. Quando facevano dei progetti per l'avvenire della bimba, dei castelli in aria,
quelli di Elena erano sempre i più belli e i più pittoreschi. Parlava di cercare una
bambinaia inglese, e una istitutrice toscana, maestri di musica, di disegno, di lingua,
che so io. Una volta lanciata, rifaceva colla figliuola i fantastici progetti della sua
giovinezza, che non si erano realizzati. Cesare non osava però rompere con una parola
quelle divagazioni sfrenate dell'immaginazione, sorrideva dolcemente, quasi per
richiamarla alla realtà. Ma in cuor suo si sentiva delle vaghe angoscie, come l'eco dei
dolori che quelle illusioni gli erano costate. Però le sue inquietudini si calmavano alla luce blanda di quella
lampada, fra quelle note pareti, al cinguettio infantile di quelle due voci adorate. E
ripeteva dentro di sé: - È una bambina anch'essa! e glielo diceva anche col suo sorriso
un po' triste, accarezzandole colla mano la testolina bruna allo stesso modo che
accarezzava la testolina bionda della figliuoletta: - Bambina! bambina mia! Tu sei ancora
una bambina. E sentiva una dolcezza melanconica, una specie di conforto al pensare
che la sua Elena era così giovane od inesperta, da non accorgersi quasi del male che
poteva fare, ch'egli era il suo protettore e la sua guida, e se pure un momento ella si
era smarrita per correre dietro il suo cervellino romantico, la colpa era di lui, che non
era stato abbastanza prudente, né abbastanza forte. Il sentimento della propria debolezza
era il suo maggiore tormento. Gli pareva di diffidare della moglie perché diffidava di se
stesso. Si attaccava tanto più a lei quanto meno si sentiva a livello di quel carattere
energico e risoluto. Egli era la donna, l'amante, senz'altra forza che la devozione,
l'abnegazione, il sagrificio. Ma quante cose non gli aveva sacrificato l'Elena! Quanti
pensieri gli tornavano in mente mentre accarezzava la testa di Elena! ed uno, il più
doloroso di tutti, che non si presentava mai nettamente, ma gli offuscava, gli avvelenava
ogni gioia, se Elena gli fissava gli occhi addosso, se gli rideva, se nella voce di lei
sentiva un'intonazione più dolce, s'ella chinava il capo sotto la sua carezza come una
colomba innamorata! No! no! era impossibile che quella colomba avesse guardato un altro
così! che gli avesse parlato in tal modo! Era una bambina! Era una bambina! Allora posava la testa sulle spalle di Elena, la cingeva colle
braccia, come per proteggerla, le parlava della figliuola per metter questa fra il
presente e il passato. - L'importante è d'impararle ad essere felice, la povera creaturina,
a contentarsi del suo stato. Non è vero, Elena? Quando si è contenti del proprio stato
si è felici. Noi non siamo ricchi. Abbiamo avuto dei guai tanti! Ti ricordi, povera
Elena? Ma ora son finiti. Non è vero che son finiti?... Dimmi, sei felice anche te? Elena diceva di sì col capo, cogli occhi, colle carezze, coi baci...
Poscia tornava a baciucchiare la sua bambina, e a sballottarsela fra le braccia. Giurava
che oramai apparteneva alla sua creatura, nient'altro. L'unica vanità d'Elena era di mostrare la sua creaturina alla mamma,
alla sorella, alle amiche che venivano a trovarla, il visino roseo, nella cuffietta di
pizzo, quel corpicino infagottato in una lunga vesticciuola ricamata, se la conduceva a
spasso, sulle braccia della balia in gala. Avrebbe voluto adornarla tutti i giorni a
nuovo, come una pupattola, avere anche lei per la sua bimba una balia dal costume
pittoresco, colle spalline d'oro, tutta ricami e gale di nastri. Mentre componeva allo
specchio un quadretto di genere, colla bambina al seno, drappeggiandosi lo scialletto
sulle spalle, con un fazzoletto a colori vivi acconciato sul capo artisticamente,
cominciò a provarsi di nuovo i cappellini impennacchiati, le vesti alquanto passate di
moda. Rivide il sorriso agro delle amiche, e le occhiate insistenti degli ammiratori. A
poco a poco la bimba che strillava sempre, che le sgualciva il vestito, che le pigliava
tutto il tempo, fu lasciata alla balia. Elena tornò alle sue visite, ai suoi concerti
della Filarmonica, alla messa delle due, la domenica, prima di passare davanti al Caffè
d'Europa, e prima d'andare a fare la passeggiata alla Villa, dalle quattro alle cinque. Il
marito fu persuaso che il suo studio ingombrava il quartiere, e lo trasportò al pian di
sopra. Nelle due stanze un tappezziere allogò a credenza tutta la sua roba vecchia, in un
disordine artificioso e pieno di pretese suggerito dall'Elena. Fu preso un altro domestico
pel venerdì, canuto, maestoso, accuratamente raso, che aveva l'aria di aver fatto ballare
sulle sue ginocchia la padrona. Gl'intimi della casa si erano aumentati prodigiosamente.
Le serate musicali della signora Elena erano affollate di baronesse e di marchese più o
meno decadute, di signore senza titolo ma che davano il tono alla moda, di uomini tutti
della miglior società che potevano parlare sul serio delle loro relazioni aristocratiche,
e venivano davvero da casa B. e dalla duchessa C. colle violette all'occhiello, e il
cappello a molle sotto il braccio, a fare il loro dito di corte alla signora Elena, in
crocchio attorno alla poltrona di lei, in aria di amabile confidenza, con quella
disinvolta cortesia che ha in ogni parola, in ogni atto, in ogni inflessione di voce,
delle sfumature finissime di alterigia, che affascina le donne, fa imporporare di sdegno
la fronte degli uomini che ne sono feriti senza esserne presi di mira, e umilia i timidi e
i delicati. Essi mostravano di non accorgersi se mancava qualche cosa nel servizio, se il
domestico che doveva aver l'aria per bene commetteva qualche goffaggine, se il padrone di
casa era più timido dei suoi invitati. Ma Elena arrossiva, si sentiva avviluppare da un
certo impaccio anche lei, perdeva la sua disinvoltura nella preoccupazione continua di non
esser ridicola per colpa altrui. Il marito che non aveva avuto il coraggio di opporsi a
quel nuovo tenore di vita, si eclissava spontaneamente per la sua riserbatezza abituale,
ed anche per un certo amor proprio fine ed ombroso il quale gli faceva evitare dei
contrasti umilianti che indovinava per istinto. Egli voleva solo che Elena fosse felice, e
dopo tutti i guai che avevano passati insieme, e nei quali gli pareva che avessero avuto
una gran parte gli stenti attraverso i quali erano passati, gli pareva ora di dovere a lei
quel compenso; credeva di riattaccarsela più strettamente colle soddisfazioni e coi
divertimenti che le procurava per mezzo del suo lavoro. Ella avrebbe detto: - C'è lì in
un angolo, nascosto, noncurato, un uomo a cui devo questo lusso, queste feste, questi
omaggi. - Contava sulla gratitudine per rinsaldare l'affetto che vedeva vacillare negli
sguardi distratti di lei. Gli amici che bevevano il suo thè e logoravano i suoi tappeti
non lo conoscevano quasi. Il tono elegante della moglie, senza volerlo, lo allontanava da
lei. Le grandi maniere che Elena scimmiottava per tenersi a livello della sua società, e
che non poteva cambiare da un momento all'altro come i servitori a giornata spogliavano la
livrea e spegnevano i lumi, allargavano sempre più quella specie di separazione fra
marito e moglie. Egli tornava a casa stanco, disfatto, quando Elena usciva dal suo
spogliatoio vaporosa ed elegante come una figura da giornale di mode. Ella gli domandava
affrettatamente se avesse bisogno di qualche cosa, suonava per chiamargli la serva. Si
lagnava: - Dio mio! a quest'ora! Con tanta gente che ci ho! - Trovava alle volte qualche
minuto per sparire fra due usci, e andava a mettere la sua testolina ornata di rose
purpuree o di camelie nel vano del suo uscio, dicendogli: - Non vieni un momento? Un
momento solo! per farti vedere e non aver l'aria di non so che. - Poi la mattina, stanca,
assonnata, tornando dal teatro, o dal ballo, o dalle serate di musica si lasciava
accarezzare sbadatamente, impazientandosi se egli le intrigava un nodo, o le strappava una
forcellina. - Dio mio! Dio mio! Tu non sai come son stanca! Tu ti alzi adesso! E la bimba?
ha pianto? Perché non sei passato da casa Galli, un momento, per farti vedere? Che sonno!
lasciami dormire! Ma lui colla sua tacita devozione, colla sua generosità ignorata, coi
suoi servizi senza pompa, col suo aspetto modesto, non poteva appagare il bisogno
irrequieto di emozioni vietate, il sentimentalismo isterico, le tentazioni malsane, che la
complicità di una vita facile doveva sviluppare ed irritare in Elena. Ella si creava
ingenuamente delle sofferenze ideali, si atteggiava da incompresa, da vittima, nel tempo
stesso che godeva il frutto di quei sacrifici ignorati. Cercava ancora il sogno della sua giovinezza delusa, ma rimaneva
inespugnabile in mezzo a tutto un avvicendarsi di intrighi galanti, e di scandali color di
rosa. Prima fu un poeta che la ispirò. Una gloria futura, che scriveva dei versi - a Lei!
- a Te sola! - a Te che sai! colle sopracciglia aggrottate, e la destra
nello sparato del panciotto, ritto su di un piede come un gallo, in mezzo alle dame che
stralunavano gli occhi onde far credere ciascuna di esser lei, la sola, quella che
sapeva. Elena aveva voluto avere anche lei nel suo salotto quel cappone dalle penne di
fagiano. Leggevano insieme Musset ed Heine, contraffacendo il ghigno satanico. Egli s'era
spinto sino a tollerare Stecchetti per parlarle delle carni bianche, dei baci
dietro la veletta. Ella rimaneva assorta, sprofondata nella gran poltrona di velluto
nero, col libro sulla ginocchia, le labbra scolorite, gli occhi vaghi ed erranti in cerca
delle larve che creava ella stessa. La bambinaia le irritava continuamente i nervi, una
volta al giorno, cogli strilli della Barberina, strilli che la mamma non poteva soffrire.
- Mio Dio! mio Dio! Son queste le gioie della maternità? - E si metteva la testa fra le
palme, disperata, con un arsenale di boccettine e di sali a portata di mano. Di tanto in tanto donn'Anna, ansante dall'adipe, saliva le scale di
marmo, e veniva a sfogarsi colla figliuola, regalandole anch'essa il racconto di suoi
guai, - don Liborio che correva dietro le donne, Roberto che non otteneva più
l'avanzamento, Camilla che non si maritava mai. - Gran disgrazia! rispondeva Elena. - Col
poco che ha Roberto, bella prospettiva, quel matrimonio! Lasciateli in pace, mamma! Quando
non si hanno almeno centomila lire di entrata, è meglio restar a casa. - A te cosa ti manca? Di', cosa ti manca? - Nulla! rispondeva Elena. Cesare, sopraffatto dal lavoro, era
felice allorché poteva rubare qualche minuto alle sue occupazioni, e veniva a sederlesi
accanto, modestamente orgoglioso del benessere che le procurava, timidamente affettuoso.
Le parlava dei suoi progetti, della loro bambina, di tutte quelle cose che gli sembravano
altrettanti legami fra di loro. Come la vedeva distratta e indifferente, le chiedeva
anch'esso: - Che hai? Cosa desideri? - Nulla, rispondeva Elena. Egli si sentiva stringere il cuore a quella parola, all'aria di quel
viso, al tono di quella voce. Tornavano ad assalirlo suo malgrado dei sospetti angosciosi,
delle memorie tristissime, una amara inquietudine che lo tentava, lo spingeva a cercare di
leggere negli occhi e sulla fronte di lei. No! no! Egli se ne accusava internamente e gliene domandava perdono.
Non voleva cercare in quegli abissi del cuore dove si snodano inesorabili e feroci tutte
le serpi della gelosia. Non voleva dubitare di lei, non voleva soffrire come aveva
sofferto. Non voleva passare quelle notti insonni accanto al suo capezzale, e quei giorni
di sole implacabile. Ella era stata fantastica, leggiera anche, ma colpevole no! Lo
dimostrava l'imprudenza stessa di quella lettera, il non saper dissimulare, la sincerità
delle sue stranezze. Follie della mente, null'altro. Ella viveva troppo in quell'atmosfera
artificiale delle sue letture romanzesche. La lettera a Cataldi era stata l'episodio di un
romanzetto da educanda. Ora era entrata nella vita vera, era madre, era troppo altera per
non pensare a sua figlia. Poi era troppo circondata, troppo adulata. L'esuberanza morbosa
della sua sensibilità avrebbe trovato uno sfogo in quell'esistenza di cui tutte le ore
erano prese ripiene di distrazioni diverse, di allettamenti che si eludevano
scambievolmente. Sì, era stata educata come una principessa, don Liborio l'aveva detto.
Aveva bisogno di vivere a quel modo, ciò la rialzava nella sua stima stessa, l'avrebbe
resa più fiera e invulnerabile, rialzava anche lui, il marito che gliene dava il mezzo.
Oltre la sensibilità pericolosa, ella aveva anche nel cuore le delicatezze squisite. Ella
avrebbe pensato a Cesare che l'amava come ella voleva essere amata, che viveva solo per
lei, pel lusso in cui la faceva brillare, per le gioie che le procurava, che racchiudeva
tutta la sua gioia, tutti gli splendori della sua vita, tutte le feste del suo cuore nel
sorriso che le stava sul labbro, quando entrava nel suo studiolo, accompagnata dal fruscio
superbo della sua veste, per dirgli - Ancora alzato? Povero Cesare! Dalle finestre lucenti le ombre nere degli uomini, i profili eleganti
delle signore, si allungavano nella queta oscurità del molo, ciangottante del sommesso
mormorio del riflusso, nel formicolio dei lumicini delle barche ancorate, sotto il cielo
alto e stellato. Gli uomini si affollavano sui terrazzini spalancati, dietro le tende
trasparenti, sotto la lumiera scintillavano le gemme. Una voce calda e potente cantava al
piano la romanza in voga. La padrona di casa, più bella di tutte nel suo pallore color d'ambra,
sembrava volesse eclissassi nel fondo della poltrona, colla fronte sulla palma, il bel
braccio ignudo dorato dai riflessi di tutta quella luce, quasi sotto il fascino di due
occhi ardenti che la fissavano dal vano di un uscio, ostinati, provocatori nella loro
insistenza, su di un viso pallido e capelluto che attirava l'attenzione nella severa
uniformità di tutti quei vestiti d'etichetta. - Fategli la carità di rivolgergli un'occhiata, a quel povero
Fiandura. Elena si strinse nelle spalle, e cercò di sorridere, poiché il duca
Aragno non era di quelli cui si può dare dell'insolente. Più tardi, quando la folla
cominciò a diradare dalle sale, nel crocchio degli intimi, le dame all'occaso che si
arrabattavano in tutti i modi per afferrarsi al mondo che le abbandonava, cominciarono a
sussurrare: - Fiandura! Fiandura! Dei versi di Fiandura! - sottovoce, con delle sfumature
di sorrisi beati, battendo discretamente in anticipazione le mani inguantate. Il poeta era arcigno, inflessibile, comprimendo tutte le tempeste del
cuore col guanto grigio, scuotendo l'olimpica chioma ad un rifiuto superbo. Allora tutte
quelle Muse e quelle Grazie stagionate si rivolsero in coro alla padrona di casa, con
gesti supplichevoli, con un interesse ridicolmente esagerato. Elena arrossendo suo
malgrado, disse con voce calma: - Andiamo, Fiandura... per queste signore... Egli rispose con uno sguardo profondo, inarcando i baffetti ad un
leggero sorriso, inchinandosi in modo che voleva dire: - Per voi! per voi sola! - Poi levò al soffitto la fronte ispirata. Il successo fu enorme. Quelle signore sembravano invase dal demone
dell'entusiasmo. Aragno batteva le mani come un ossesso. E il baccano fu tale che
all'uscio del salotto comparve il viso sorridente di Cesare, un po' sbattuto e stanco,
recante ancora le tracce del suo lavoro ingrato e senza poesia. - Vedete per chi?!... Vedete per chi?!... sussurrò il poeta caldo
ancora di ispirazione all'orecchio di Elena, seduta in disparte, smarrita nella folla che
ingombrava la sua casa, cogli occhi ardenti e vaghi, sul viso smorto. - Per quest'uomo che
scrive delle citazioni! ed io che vi porto in cuore come un raggio di sole, come un
profumo, come un tormento, devo lasciarvi nel talamo di quest'uomo... Ah! se sapeste,
Elena! quanti sogni, quante follie! quali tentazioni mi assalgono!... - Tacete! disse ella. - No! Non posso. Mi sento pazzo, Elena! Vorrei stamparvi in faccia al
mondo la stimate del mio amore! Vorrei morire ai vostri piedi! - Tacete! - Domani! balbettò Elena con voce sorda. |
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