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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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 BulletStoria di una CapineraBullet

di: Giovanni Verga

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PARTE SECONDA

20 Novembre
Marianna! Marianna!... io lo amo! io lo amo! Pietà! pietà di me! Non mi disprezzare! son molto infelice! perdonami!
Mio Dio! perché questo castigo così duro? Ecco che bestemmio! Oh, mio Dio!... quanto ho pianto! Oh! Dio mio... vi ha una donna più sciagurata di me?...
L'amo! È un'orribile parola! è un peccato! è un delitto! ma è inutile dissimularlo a me stessa. Il peccato è più forte. Ho tentato di sfuggirgli, esso mi ha abbrancato, mi tiene in ginocchio sul petto, mi calpesta la faccia nel fango. Tutto il mio essere è pieno di quell'uomo: la mia testa, il mio cuore, il mio sangue. L'ho dinnanzi agli occhi in questo momento che ti scrivo, nei sogni, nella preghiera.
Non posso pensare ad alto; mi pare che ad ogni istante il suo nome mi venga sulle labbra, che ogni parola che profferisco si trasformi nel nome di lui; allorché lo ascolto son felice; quando mi guarda tremo; vorrei stargli vicina ad ogni momento e lo fuggo; vorrei morire per lui. Tutto ciò che sento per quell'uomo è nuovo, è strano, è spaventoso... è più ardente dell'amore che porto a mio padre; è più forte di quello che porto a mio padre; è più forte di quello che porto al mio Dio!... Questo è quello al mondo chiamano amore... l'ho conosciuto; lo veggo... È orribile! è orribile!... È il castigo di Dio, la perdizione, la bestemmia! Marianna, io son perduta! Marianna, prega per me!...
Ieri egli era andato a Catania per certi affari della sua famiglia. Avrebbe dovuto essere di ritorno prima di sera coll'omnibus di Trecastagne, e alle nove ancora non si vedeva. Figurati lo sgomento della sua famiglia e di tutti! Le notizie che corrono sono tristissime; non ci era chi non pensasse a qualche disgrazia. La madre ed Annetta piangevano; il signor Valentini era agitatissimo, ed andava ogni momento al ciglione che sovrasta la vigna da dove si può vedere un bel tratto del viottolo che mena al villaggio, poiché suo figlio avrebbe dovuto lasciar l'omnibus alla solita fermata e venirsene a piedi sin qui. L'oscurità era fitta; nel viottolo non si vedeva a dieci passi. Si erano spediti due messi per cercare di sapere la causa di quel ritardo e per annunciare più presto il suo ritorno. Il povero padre lo chiamava di tratto in tratto ad alta voce, come se avesse sperato di udirlo a rispondere da lontano. Tutti tendevano l'orecchio, ti puoi bene immaginare con quale ansia; si attendeva un minuti, dieci, la voce moriva lontan lontano nella valle, e succedeva il silenzio. Suonarono le nove e mezzo, le dieci! i piagnistei erano generali. Il signor Valentini era andato ad incontrarlo, solo, al buio, come un pazzo, per domandarne a tutti i viandanti, deciso a non fermarsi che allorquando avrebbe trovato il figlio. Ma, Dio mio! se non si vedeva anima viva! e il più ardito viandante non si sarebbe arrischiato a quell'ora di percorrere le strade, invigilate sospettosamente dai contadini che fanno la guardia al coléra! Quei pianti mi spezzavano il cuore; quel silenzio mi atterriva; quel buio mi sembrava pieno di orribili visioni. M'ero chiusa nella mia cameretta onde inginocchiarmi ai piedi del crocifisso e piangere, e pregare per lui. Di tratto in tratto interrompevo la mia preghiera, asciugavo le mie lagrime, soffocavo i miei singhiozzi per tendere l'orecchio, per mettere tutta l'anima mia nell'ascoltare. Al di fuori si udiva solo in lontananza il rumore di qualche fucilata che mi metteva in convulsione e l'uggiolare ch'era lugubre. Diventai superstiziosa. Pensai: "quando avrò detto cento avemarie udrò la sua voce". Ne dissi cinquanta tutte di un fiato; poi incominciai a recitar le altre più lentamente, perché mi pareva che avessi detto le prime troppo in furia, che il tempo prefissomi non fosse quello, che Dio non mi avrebbe esaudito perché avevo recitato le mie avemarie troppo distratta. Quand'ebbi detto le ultime dieci tornai da capo, lusingandomi che mi fossi sbagliata nel contare... Recitai le ultime due ad una ad una, interrompendomi per ascoltare... e mi parve di aver udito delle voci lontane... attesi, attesi... nulla!... il silenzio! Poi dissi a me stessa: "se la prima che parlerà sarà Annetta, egli arriverà fra un quarto d'ora...". Indi: "quanto il vento avrà fatto stormire le foglie degli alberi dieci volte, egli sarà quì".
I rami si agitavano, si agitavano e nessuno veniva!... Allora mi parve che soffocassi, che la mia testa si smarrisse, che il sangue mi scorresse in tutte le vene con tale impeto da spingermi a correre non so dove come una pazza; mi parve che quella stanza fosse angusta, che quel tetto mi schiacciasse! Uscii sulla spianata. Mi faceva male vederli piangere quei poveri parenti, ascoltare ansiosamente i menomi rumori della campagna, e sussurrarsi sottovoce delle lusinghe per ingannare sé stessi più che gli altri. Andai a sedermi sul muricciuolo, lontana da tutti, al buio, cogli occhi ardenti, fissi nelle tenebre, quasi mi sembrasse poterle diradare col mio desiderio, ascoltando l'uggiolare lontano dei cani e cercando d'indovinare se essi abbaiassero pel suo passaggio. Mio Dio! che soffrire! Ad un tratto mi parve che i battiti del cuore si arrestassero... udii un urlo lontano, un urlo che conoscevo. Il cuore cominciò a battere in tumulto, cominciò a far rumore quando avrei voluto unicamente ascoltare... Nulla! nulla!... mi ero forse ingannata... Poi si udì un altro urlo più vicino, più distinto; questa volta tutti lo udirono: era Alì che abbaiava. È lui! viene! è la voce di Alì!... Ah!... Alì correva, si avvicinava, urlava a festa, ci gridava la buona novella!... ci sapeva inquieti, spaventati e veniva correndo... s'udivano i tralci delle viti scossi bruscamente dalla sua corsa; ancora non si vedeva, ma avrei potuto precisare il punto dov'egli correva. Mi pareva che il cuore scappasse via dal petto. Tutti erano corsi lì, sul muricciuolo, vicino a me. Alì arriva, salta sul muro, è lui! è lui! Esso mi salta addosso latrando, festoso, eppure ansante, commosso anche lui, il povero Alì! Io lo abbracciai, lo abbracciai stretto stretto perché mi pareva di svenire, e scoppiai in lagrime.
Quando arrivò, quel povero Nino! pallido, stanco, trafelato! Veniva a piedi da Catania perché l'omnibus era partito prima di lui, e non aveva potuto trovare altra carrozza che volesse fare il viaggio a quell'ora. Suo padre era tornato con lui, lo baciava. Sua madre ed Annetta se lo tenevano fra le braccia. Tutti lo festeggiavano; tutti piangevano di giubilo. Egli mi avrà creduta egoista e cattiva, perché io corsi a rinchiudermi nel mio camerino, a piangere, a ridere, a singhiozzare liberamente, ad abbracciare i piedi del crocifisso, i mobili, le pareti!
Mio Dio! C'è un essere più infelice di me sulla terra?
Dacché cotesta tentazione si è impossessata di me, io non mi riconosco più. I miei occhi vedono più chiaro, la mia mente scopre misteri che per me avrebbero dovuto rimaner ignorati per sempre; il mio cuore prova sentimenti nuovi, che non avrebbe mai provato, che non avrebbe dovuto provare giammai: è felice, si sente più vicino a Dio, piange, si trova piccolo, isolato, debole. Tutto questo è spaventoso! Aggiungi minuzie insignificanti che diventano torture: uno sguardo, un gesto, un'inflessione di voce, un passo; - ch'egli segga a quel posto invece che a quell'altro; - ch'egli parli a quella persona piuttosto che a quell'altra. Tu non mi comprenderai; tu mi crederai folle!... Mio Dio! se lo fossi, come sarei felice! È un dubbio continuo, un'ansia, uno sgomento, una dolcezza indicibile. Aggiungi a tutto questo il pensiero della mia condizione, il rimorso del peccato, l'impotenza di lottare contro un sentimento ch'è più forte di me, che mi ha invaso, mi logora, mi vince, e mi rende felice soggiogandomi... la desolazione di trovarmi umile, di trovarmi quella sono... io sono meno di una donna, io sono una povera monaca, un cuor meschino per tutto quello che oltrepassa i limiti del chiostro, e l'immensità di quest'orizzonte che le si schiude improvvisamente dinanzi l'acceca, la sbalordisce... Io domando a me stessa se questo amore, questo peccato, questa mostruosità non è parte di Dio!... Vorrei esser bella come ciò che sento dentro di me; getto uno sguardo su di me, sorpresa io stessa di cotesta curiosità insolita, e mi rattristo non trovando in me che un fagotto di saja nera, dei capelli tirati sgarbatamente all'indietro, maniere rozze, timidità che potrebbe sembrare goffaggine... e mi veggo accanto altre ragazze eleganti, graziose, che non fanno peccato se amano come me... Arrossisco di me stessa, arrossisco del mio rossore... E poi... non ti ho ancora detto tutto! c'è un'altra croce; c'è il timore che cotesto segreto che mi chiudo gelosamente in seno venga scoperto! Aver paura del tuo rossore, del tuo pallore, del tremito della tua voce, del battito del tuo cuore! Sembrarti che tutta te stessa ti accusi, che tutti stiano a spiarti... e sentirti presso a morir di vergogna se questa disgrazia accadesse! Arrossisco di quello che sto scrivendo, di quello che tu leggerai... tu che sei parte di me!... e me l'impongo come una specie di penitenza... L'amo così pazzamente e morirei di vergogna s'egli lo sapesse! Vorrei gettargli le braccia al collo, e non oserei dargli la mano per tutto l'oro del mondo!... e se mi guarda chino gli occhi... E pensare intanto che mio padre... mia matrigna, che lui! potrebbero leggermi in cuore!...
Mio Dio! fatemi morire prima...
E se ti dicessi che questo mio timore non è assolutamente infondato?... che la mia matrigna stamane mi chiamò, e fissandomi di un'occhiata che sembrava mi penetrasse sino al cuore mi disse: «Tu sei troppo pallida e agitata da qualche tempo in qua: che hai?». Io tremava, balbettavo non so che cosa, ma non sapevo che dire. Ella ripigliò con quella stessa cera che mi faceva male: «Da qualche giorno mi sono accorta che c'è in te un gran cambiamento. Ragazza mia, se l'aria della campagna ti male, tuo padre non insisterà a tenerti qui, e ti permetterà di ritornare al tuo convento». Ed accompagnò queste parole con tale sguardo e tal suono di voce che parevami dicesse: «So tutto; conosco il tuo segreto!». Mi sentivo morire. Fortuna che mi trovavo seduta, perché altrimenti sarei caduta a terra, ed ella non si avvide che gli occhi mi si riempivano di lagrime, perché in quel momento entrò Giuditta tutta allegra. Oh, la mia povera mamma! che dorme laggiù nel Camposanto!... Come mi si sarei buttata fra le sue braccia, e le avrei domandato perdono sfogandomi in lagrime!
Giuditta le disse: «Mamma, sai? I signori Valentini c'invitano ad andare con loro alla casina dei Bertoni che son nostri vicini di campagna. Si ballerà, capisci! Sii buonina, via, mamma! Andiamoci... Che piacere sarà un ballo qui in campagna!». E quella cara Giuditta l'accarezzava con tanta grazia, che sua madre raddolcì immediatamente quell'aria severa. La baciò sorridendo e le disse una sola parola: «Pazzerella!».
Oh! benedetto il santo affetto di una madre che si rivela tutto in una parola o in una carezza! Benedetta la felicità dei nostri cari! Mi parvero sì belle entrambe in quel momento della benedizione che il Cielo pioveva su di loro, che pregai Iddio per tutti coloro che ne son privi al pari di me.
Giuditta corse ad abbigliarsi saltellando e cantarellando, e mi chiamò perché la pettinassi. Ella ha magnifiche treccie castagne; e tutti i giorni, quando le sciolgo i capelli per pettinarla, penso al gran peccato che sarebbe se fossero condannati ad essere recisi come i miei. Però quel giorno ero così turbata che non riuscivo a nulla di bene. Feci e disfeci venti volte le sue treccie, e ogni volta non ne rimaneva soddisfatta e le disfaceva con stizza. «Mio Dio!» esclamò. «Sembra che oggi tu lo faccia apposta!» «Perdonami, sorella!» le dissi «non ci ho colpa io!» «No, è che probabilmente ti annoi a pettinarmi.» «Oh, che dici mai, Giuditta! No, te lo giuro! Io faccio del mio meglio», risposi piangendo... Ella è buona infine, la mia cara sorella. Mi guardò sorpresa, si strinse nelle spalle, mi tolse il pettine dalle mani e mi disse: «Via, non c'è poi ragion di piangere. Farò da me.». Volevo abbracciarla, volevo baciarla per domandarle perdono, per sfogare quel groppo amaro che mi sentivo qui, nel cuore. Come sono sciocca ed uggiosa! era già tardi, non si aspettava che lei; ella ebbe ragione d'impazientirsi e di dirmi: «Ma, Dio mio! lasciami pettinare da me almeno!». Allora sono uscita asciugandomi gli occhi. Annetta m'incontrò sulla soglia e mi disse: «Ebbene, che fai? Non vieni anche tu?». «Che cosa vi salta mai in mente?» esclamò mia matrigna. «Una educanda!... Non ci mancherebbe altro!» Nino teneva gli occhi fissi su di me e non parlava; io lo vedevo, quantunque non lo guardassi. Frattanto sopraggiunse mio padre e si informò del motivo dei preparativi e di tutta quella festa. «E tu?» mi domandò poscia. «Io rimarrò in casa, babbo.» «Ma no; puoi venire anche tu; siamo in campagna.» «Babbo mio; amo meglio rimanere in casa.» «Rimarrò io con te allora.» (Caro babbo! quello che sì che mi ama!) «Che? e che ci accompagnerà?» disse sua moglie. «Potreste andare in compagnia dei nostri amici.» «Ma non sta bene, per la prima volta che andiamo da persone che non ci conoscono. Maria potrà benissimo rimanere in compagnia della fante e della castalda.» Ci fu ancora qualche diverbio; ma poi il babbo finì coll'accondiscendere alla volontà di sua moglie; poiché tu sai che il mio povero babbo non la contraddice mai per amor della pace.
Amica mia, ti confesso che per la prima volta in vita mia provai il dispiacere di essere esclusa io sola da un divertimento per cui tutti anticipatamente erano così allegri... E poi... vuoi saperlo? Ho provato un nuovo dolore... pensando che egli avrebbe veduto tante altre belle signorine, che avrebbe anche ballato con quelle!... Pensando a queste cose... il cuore mi si è riempito tutto di lagrime...
Ora son sola. Li ho visti partire, allegri, cantando. Egli solo pareva triste. Mi guardava come se avesse voluto domandarmi cento cose. Egli dava il braccio a mio sorella... Come era bella Giuditta col suo bell'abito cilestre, appoggiata al braccio di lui, ridendo chiacchierando con lui!
Io li ho accompagnati cogli occhi sinché svoltarono la viottola e scomparvero dietro la siepe di biancospino che sorpassa il muricciuolo della vigna. Poi ho udito ancora per qualche tempo le loro voci, le loro allegria che mi faceva male... Oh! Dio mio! come sono invidiosa! come sono cattiva!... Ho dovuto pensare a lui per singhiozzare; ho dovuto ricordarmi dello sguardo che fissava su di me per non invidiarli... Sono rimasta sola... Le stelle cominciavano a scintillare. Era una bella sera dell'autunno che si mantiene ancora dolce e tiepido. La castalda ha acceso il fuoco per la minestra e si è tolto in collo il suo bimbo. Il marito è ritornato dalle vigne, ha deposto lo schioppo accanto alla porta e si è messo a giocherellare col suo figliuoletto che si tiene fra le ginocchia. Tutto è calma, pace, serenità. Io sola sono inquieta, triste, infelice.
Ti scrivo tutto quello che mi passa pel cuore, e allorché le lagrime non mi lasciano più vedere quello che scrivo, guardo il cielo stellato e l'ombra degli alberi dalla mia finestra; penso a quella festa, e a tutta quella gente allegra, che si diverte, che è vicino a lui!... penso a lui!... E allora non posso più scrivere, non ho pensieri che per lui solo; bisogna che lo vegga almeno cogli occhi della mente, mentre egli laggiù balla e ride con un'altra... e ti dico addio...
21 Novembre
Marianna! Marianna! piangi con me! ridi con me! abbracciami! Egli mi ama! nol sai?... mi ama! intendi?... non posso dirti dippiù! Tu comprenderai tutto quello che vogliono dire queste due sole parole: mi ama!
Ieri a sera, ti rammenti? ero con quella triste lettera dinanzi agli occhi, coi gomiti appoggiati al tavolino. Le lagrime cadevano chete chete sulla carta, e senza che me ne avvedessi cassavano quello che avevo scritto. Tutt'a un tratto si udì rumore al di fuori... il rumore di un passo!... Sapresti dirmi perché il rumore di taluni passi si senta col cuore come se il cuore udisse? e perché scuota tutti i nervi, e faccia gelare tutto il sangue?... Levai gli occhi... la finestra era aperta, e dietro la finestra c'era un'ombra, una voce che mi chiamava sommessamente... Lui! intendi?... Lui!... Se non gridai si fu perché mi mancò il respiro. «Perdonatemi, signorina,» mi diceva egli «perdonatemi» non diceva altro. Io non osava guardarlo: ma quelle parole mi scendevano al cuore dolci come il miele. «Vostra madre è ingiusta e cattiva con voi. Tutti laggiù si divertono, ed io ho pensato a voi ch'eravate qui sola... Ho fatto male;» aggiunse dopo una breve pausa, durante la quale avrà udito i battiti del mio cuore; «mi perdonerete?» Allora levai gli occhi su di lui e lo vidi coi gomiti appoggiati sul davanzale e il mento sulle mani come l'avevo visto altra volta. Egli aveva pensato a me e la sua voce tremava! «Signore!...» gli dissi, «signore!...» e non sapevo dire altro. Allora egli si mise a sospirare così che sospirai anch'io, ed egli mi disse: «Ascoltatemi, Maria...» e non diceva altro, e si passava la mano sugli occhi, pareva che balbettasse, lui, un uomo! io tremai tutta come se quel nome mi penetrasse da tutti i pori della viva carne. Mi diceva Maria!... capisci?... Perché mi faceva quell'effetto il sentirmi a chiamare per nome? «Ascoltatemi», ripigliò; «voi siete una vittima.» «Oh! no, signore!» «Sì, voi siete la vittima della vostra posizione, della cattiveria di vostra matrigna, della debolezza di vostro padre, del destino!» «No, signore, no!» «Perché dunque siete costretta a farvi monaca?» «Nessuno mi ha costretta, signore... è stata la mia libera volontà...» «Ah!» ed egli sospirò di nuovo, anzi mi parve che si asciugasse gli occhi. Io non potevo vederlo distintamente perché egli stava al buio, nel vano della finestra, e le lagrime mi velavano gli occhi. «La necessità», ripresi. Egli non disse nulla. Poi dopo alcuni istanti di silenzio mi domandò, ma la sua voce era rauca: «E rientrerete in convento?». Esitai, ma risposi: «Sì». Egli tacque di nuovo. Non disse più nulla. Allora aspettai, aspettai lungamente ch'egli mi dicesse qualche cosa; mi asciugai gli occhi per vedere se fosse partito: era ancora lì, allo stesso luogo, nella stessa positura, soltanto aveva il viso celato fra le mani. Ciò mi diede animo e feci un passo per scostarmi dalla candela che mi infastidiva... Tu sai quanto sia angusto il mio camerino; in un passo si arriva alla finestra... Egli mi udì, alzò il capo e vidi che piangeva. Mi stese la mano senza dire una parola. Ci fu un istante che non vidi più nulla né con la mente né cogli occhi e mi trovai colle mani nelle sue. «Maria» mi diceva, «perché andrete in convento?» «Lo so io, forse? È necessario, nacqui monaca.» «Voi mi lascerete adunque?...» e piangeva in silenzio come un fanciullo, senza aver l'orgoglio che hanno gli altri uomini di nascondere le lagrime. Credo che piangessi anch'io perché mi trovai le gote tutte bagnate, ed anche le mani... ma le mani potevano esser umide delle lagrime di lui che vi sentivo cadere sopra a goccia a goccia... anzi quando fui sola e chiusa nella mia cameretta... rimproverami, sgridami se vuoi... ma io baciai le mie mani ancora umide...
Rimanemmo molto tempo così in silenzio. Egli diceva soltanto: «Quanto son felice!». «Anch'io!» risposi quasi senza avvedermene. Vedi, Marianna, piangevamo e dicevamo d'esser felici! Ma ancora non ci eravamo detto che ci amavamo. Avevo il cuore inondato di tanta dolcezza che non pensavo più a nulla, e non mi vergognavo più di star con un uomo... con lui... sola di notte! Non parlavamo, non ci guardavamo... Tenevamo gli occhi fissi nel cielo, e mi pareva che le anime nostre si parlassero attraverso l'epidermide delle nostre mani e si abbracciassero nei nostri sguardi che s'incontravano nelle stelle.
Marianna! Questa parte di Dio ch'è stata data alla creatura deve essere ben grande se innanzi ad essa tutto è meschino, il peccato come il delitto, i doveri come le affezioni più care... Se essa può fare un paradiso di una sola parola!...
Ora ti lascio. Ho il cuore troppo pieno per pensare ad altro. Scrivendoti ho provato ancora le stesse emozioni... Ora ho bisogno di rimaner sola, di sognare e di pensare di esser felice...
26 Novembre
Quanto siamo meschini, amica mia, se non possiamo essere giudici della nostra istessa felicità. Ti ho scritto una lettera che oggi è un'amara ironia, che non posso leggere senza piangere. Ascolta. Eravamo lì, alla finestra, silenziosi, felici, sognando. Tutt'a un tratto si udì rumore; Vigilante abbaiava. Si udì la voce di mio padre e quella di Gigi. Mi trassi indietro bruscamente, e chiusi la finestra. Tremavo tutta come se avessi commesso un gran fallo. Il babbo mi trovò a letto, avevo la febbre e mi durò tutta la notte. Giuditta non venne; la sentivo parlare nell'altra stanza; sembrava irritata e di assai cattivo umore. Il giorno dopo mi levai così pallida che il babbo voleva mandare pel medico. Più tardi la mamma mi chiamò nella sua stanza e al solo guardarla in viso mi sentii piegar le ginocchia. Ella mi parlò lungamente de' suoi doveri, dei miei, della mia vocazione, della necessità impostami dalla mia povertà di dar retta a quella vocazione. Mi parlò dei pericoli che una ragazza destinata al chiostro può incontrare anche nelle più semplici relazioni, e finì coll'ordinarmi che per l'avvenire, quando giungeranno estranei in casa nostra, fossero anche i signori Valentini, io dovrò restarmene chiusa nel mio camerino.
Mio Dio! come sopportai la tortura di quelle ammonizioni?... sembrava che ella si divertisse a punzecchiarmi a colpi di spillo, ad accusarmi in enigma di mille torti, e non mi fece neanche intendere se avesse scoperto oppure no che Nino aveva lasciato il ballo per venirmi a trovare.
Più di una volta, mentre ella parlava, mi sentii sul punto di svenire; ma ella non si avvide del mio pallore, del mio tremito, non si avvide che dovetti afferrarmi alla spalliera di una seggiola perché non mi reggevo più. Se si fosse accorta del mio stato, ne avrebbe avuto pietà certamente, e mi avrebbe risparmiato quel supplizio. Quando potei rimaner sola andai a mettermi a letto; la febbre mi aveva riassalita; mi sentivo malata e avrei voluto morire.
Giuditta non venne neanche allora. Mi teneva il broncio!... Che le ho fatto, mio Dio?... Mi pareva di essere come quei delinquenti che tutti sfuggono e che nessuno ardisce avvicinare... Arrossivo di quella finestra che stava lì, di faccia al mio letto, come un'inflessibile accusatrice. Quella solitudine, quell'abbandono mi facevano male; verso sera chiamai mia sorella, avevo bisogno di vederla, di essere confortata. Anche il mio caro babbo mi sembrava più serio del solito. Giuditta venne infine, ma mi sembrò assai fredda. Mi gettai nelle sue braccia, e mi parve che quel pianto che mi faceva tanto bene l'irritasse.
Ora son sola. Mi pare che tutti mi fuggano; sono odiosa a me stessa. Hanno ragione, sono molto colpevole! Dio solo può perdonarmi: Dio verso di cui ho peccato amando una sua creatura più di Lui... Agucchio, agucchio, gli intieri giorni presso la finestra di cui le tende sono accuratamente chiuse, e piango quando ho la felicità di non esser veduta e di potermi sfogare... e gli occhi mi abbruciano... Il cielo è nuvoloso, i campi son desolati, il mormorio del bosco mi fa paura; gli uccelli non cantano più... soltanto qualche volta, laggiù l'assiuolo piange... Me ne sto delle ore intiere colle mani incrociate sulle ginocchia a guardare attraverso i vetri della finestra quei grossi nuvoloni bigi che corrono verso il ponente, e le cime di quegli alberi che si agitano lentamente e scuotono le loro foglie morte. È l'inverno della natura che sopraggiunge, com'è sopraggiunto l'inverno dell'anima! Il mio Carino è fuggito, poverino! l'ho trascurato tanto! ed è andato a recare altrove la sua allegria e il suo vispo cinguettare, perché l'atmosfera in cui vivo è malinconica assai. Vigilante solo viene di tanto in tanto a cercarmi, mi domanda un sorriso, vuole le mie carezza, si avanza pian pianino, come esitante, domandandomi coi suoi begli occhi se è indiscreto, poi si arresta indeciso, e dimena la coda, e si lecca il muso, tutte cose che vogliono dire: «Perdonami la mia insistenza;» e viene a posarmi la testa sui ginocchi per dirmi che mi vuol bene ancora, e allorché si allontana è triste, ma dimena ancora la coda e si ferma sull'uscio per dirmi addio.
Tutto il giorno odo nelle altre stanze la voce dei signori Valentini che sono a discorrere insieme ai miei. Due o tre volte ho udito una voce che mi ha penetrato nel cuore... la sua!
Lui! lui! sempre lui! sempre cotesta spina fitta nel cuore, questa tentazione nella mente, questa febbre nel sangue! lui sempre fisso dinanzi agli occhi, lì, presso quella finestra, col volto fra le mani!... Il suono di quella voce sempre nelle orecchie, le mani sempre umide di quel pianto!... Dio mio! Dio mio!
Ho udito qualche volta un passo dietro la mia finestra, e il cuore m'è sembrato scapparmi dal petto. Provo delle vertigini, degli smarrimenti, dei deliri. Non posso più piangere, non posso più dormire, non posso pregare!... Oh! Marianna mia!...
Che penserà egli di me non vedendomi più? Saprà che mi è stato proibito?... mi maledirà forse?... sarà in collera?... mi dimenticherà?... Vedi quanto son caduta al basso! Prego Iddio di farmelo dimenticare e mi pare d'impazzire al solo pensiero che egli possa dimenticarsi di me! Qualche volta, all'alba, quando sono ben sicura che nessuno potrebbe sorprendermi, apro pian pianino la finestra per vedere laggiù in fondo alla valle, la casa dove egli abita, dove egli dorme forse a quell'ora, per vedere il suo tetto, la sua finestra, quel vaso di gelsomini,quella vite che ombreggia la sua porta... Poi cerco d'indovinare il punto del davanzale dove egli appoggerà i gomiti allorché aprirà la finestra, la zolla dove egli poserà la prima pedata, la traccia che seguirà nell'aria il suo primo sguardo che cercherà la mia finestra... perché il cuore mi dice che il suo sguardo sarà per la mia finestra, e che egli saprà che io sono stata qui a vederlo dormire, a pensare a lui. Sempre a lui! nei sogni, prima d'addormentarmi, al primo svegliarmi, nella preghiera! Oh! Marianna! prega per questa povera peccatrice che è più debole del suo peccato; mandami l'abitino della Madonna del Carmine che fu benedetto a Roma; mandami il tuo libriccino di preghiere. Voglio pensare a Dio; voglio pregare la Madonna che mi protegga, che mi nasconda sotto il suo manto misericordioso agli occhi del mondo, a me stessa, alla mia vergogna, alla mia colpa, al castigo di Dio!...
20 Dicembre
Sono stata malata, amica mia, molto malata, ecco perché non ti ho più scritto. Ci furono dei giorni in cui tutti piangevano, ed io ringraziavo Iddio che mi dava la pace dello sfinimento. Ho visto tutti quei volti pallidi intorno al mio letto, tutte quelle lagrime che si dissimulavano con un sorriso ancora più doloroso... ed i miei occhi vedevano come in sogno e guardavano tranquillamente... ho visto tutti i miei cari, tutti... lui solo no!... gli avranno proibito di venire; eppure, colla squisita sensibilità degli infermi, io sentivo ch'egli era lì, dietro quella finestra, a piangere, a pregare... ed i miei occhi stanchi della vita si affissavano su quei vetri da dove un raggio di sole invernale veniva a posarsi sul mio letto. Non saprei esprimerti quello che provavo dentro di me; mi sentivo più calma, più leggera, in un'atmosfera di pace e di serenità; pensavo sempre a lui, ma con tale tranquilla dolcezza che mi pareva essere fra gli angeli, ed uno di questi che si chiamava Nino mi avesse preso per mano, mi chiamasse per nome, e guardassimo entrambi le stelle come in quella notte.
Fa freddo, piove, sai com'è triste il rumore di quella pioggia che batte sui vetri della finestra! Gli uccelletti vengono tremando a cercar rifugio sotto la gronda; il vento sibila nel castagneto; all'infuori di quel rumore, ch'è malinconico, tutto è silenzio. Stamattina mi son levata da letto per la prima volta, barcollante, rifinita di forze. Se vedessi come ti scrivo!... appoggiata ad un monte di guanciali, arrestandomi ogni momento per riprender lena, per asciugare il sudore della mia fronte... eppure fa freddo, vedi! La testa mi pesa, la mano mi trema, il pensiero è confuso, vacillante. Mi hanno detto che sei venuta a trovarmi... Non me ne rammento, Marianna mia! sarà stato in uno di quei giorni che non avevo coscienza di quello che si faceva vicino a me. Questo piccolo stanzino ove ho tanto sofferto, quel lettuccio, quel crocifisso, quei mobili mi pare che sieno diventati parte di me. Ho passato tante lunghe ore nella malinconica inerzia della convalescenza fantasticando non so che, a guardare tutti gli oggetti della mia cameretta; ché la forma dei mobili, e la fisionomia, direi, delle pareti mi son care. Ora i medici dicono che sto meglio, Dio sia lodato! Poiché bisogna sempre lodarlo in quello che Egli fa, il buon Dio!... Mio padre, Giuditta, Gigi, tu e Annetta ne sarete tutti contenti... e lui! anche lui...
Com'è dolce ritornare alla vita dopo essere stati sul punto di abbandonarla! Non fosse altro che per vedere tutti quei volti ridenti, per ricevere tutte quelle carezze, per sentirsi amati, per guardare il cielo, per sentire il vento, la pioggia, il pigolare degli uccelletti che hanno freddo. Tutto sembra nuovo e bello; sembra che la mente stanca si risvegli, e a misura che il pensiero corre ad una cosa cara si prova una grata sorpresa di trovarla più viva. Si ama tutto, si benedice Iddio! Tutti mi prendono la mano che è scarna e pallida, la stringono, la baciano... lui solo no! lui solo!...
Mi sono alzata vacillante, appoggiandomi ai mobili, ed ho aperto la finestra. Mio Dio! com'è incantevole tutto quello che veggo, malgrado che faccia freddo, e il suolo sia coperto di neve e gli alberi non abbiano foglie, e il cielo sia nero! Ho veduto laggiù quella casetta, dopo tanto tempo! quella vite quel davanzale, quella porta... il gelsomino non c'è più, la vite è sfrondata, le porte sono chiuse, tutto ha un'aria di tristezza, eppure mi è parso il paradiso... Mi è sembrato veder socchiudere la finestra... Mio Dio!... ho gli occhi così deboli!... Ho veduto un'ombra nel vano delle imposte... Lui!... lui! è lui! mi ha veduta!... mi attendeva! Oh! Dio! Dio! è lui, Marianna! non lo vedi? è lui!
26 Dicembre
Finalmente il medico mi ha permesso [di] affacciarmi alla porta in sul mezzogiorno, quando il tempo sarà bello. Dicono che ho bisogno di tanti riguardi perché la mia salute è delicata. Anche mia madre, poverina!, era di salute delicata, ed è morta giovane. Ieri fu il Natale, quella bella festa di Natale che al convento ci passare una notte di canti e allegrezze, e la commovente messa di mezzanotte... ti rammenti? I signori Valentini son venuti tutte le sere della Novena a giuocare insieme ai miei parenti. Li ho uditi parlare e ridere nella stanza da pranzo, ove era acceso un buon fuoco, cogli usci ben chiusi, e il vento che mugolava al di fuori, e qualche volta anche la grandine che scrosciava sui tetti. Come devono esser stati felici lì in crocchio, ben caldi, ben riparati, mentre al di fuori faceva freddo e pioveva!
Oggi abbiamo solennizzato la festa con un buon pranzo, ma senza i signori Valentini... per colpa mia, l'ho capito, per non farmi incontrare con lui. E la festa è stata senza allegria in confronto del bel pranzo del giorno onomastico di mio padre, te ne rammenti?
La mattina splendeva un bel sole. Sono uscita un momento dinanzi alla porta; mi sopraccaricarono di scialli e di mantelli, e il babbo mi sorreggeva. Come tutto era lieto e mi sorrideva! il cielo splendente di un azzurro purissimo, il sole che indorava la neve di cui l'Etna era tutto coperto, e il mare ceruleo, i campanili di quei villaggi che biancheggiavano fra gli alberi, quei campi in cui il verde dell'erba contrastava col bianco della neve, quel bosco che taceva perché non c'era vento e non aveva più foglie da lasciar cadere, quella spianata ove abbiamo tanto ballato e giocherellato, quelle galline che razzolavano sulla paglia, quella capannuccia che fumava della neve che squagliava al sole, gli uccelletti che cinguettavano sul tetto, Vigilante disteso sulla soglia che si scaldava al sole, la castalda che sciorinava i panni bagnati sui rami del castagno spogli di fronde, e canterellava volgendo uno sguardo di ineffabile contentezza materna ai suoi due bimbi che si trastullavano sulla porta.
Dio sia benedetto! Dio sia lodato della gioia, della felicità che accorda all'uccello che canta, alla foglia che nasce, al rettile che si scalda, al sole che brilla, alla madre che si tiene al seno il [suo] bimbo, alla povera anima mia che esulta e lo ringrazia.
Come viene presto la notte d'inverno! avrei voluto star fuori lungamente a riempire di quell'arietta frizzante il mio povero petto affaticato, e strascinarmi alla meglio, appoggiata al braccio di mio padre, sino al limite di quel bel castagneto ove ho passato tante ore felici! Avrei voluto assidermi su quel muricciolo che il musco ha tappezzato di verde. Faceva freddo, il sole mi diceva addio, laggiù nella vallata si levava una fitta nebbia, gli uccelli non cantavano più. Come è mesto il silenzio del tramonto in inverno! Mio padre vole ch'io rientrassi in casa, e che mi mettessi a letto mentre la più bella luna del mondo faceva scintillare i vetri della finestra. Avrei desiderato che almeno mi lasciassero quel bel lume di luna, ma chiusero anche le imposte. Son malata, capisci? fa freddo... bisogna pure!...
La sera si aspettavano i signori Valentini a cena. Che bella sera è mai quella del Natale! Anche qui, in questa solitudine, tutto ha un'aria di festa: il contadino che arriva canterellando dalla pianura per fare il Natale colla sua famigliuola, il fuoco che crepita sotto una buona caldaia, le villanelle che ballano al suono della cornamusa. Ho visto in cucina i preparativi della cena, la legna sul braciere, le candele e le carte da giuoco preparate sulla tavola; sul tavolino presso la finestra un piatto di confetture ed alcune bottiglie di rosolio. È tutto il lieto apparecchio di una veglia di Natale da passarsi in famiglia. Ho contato le seggiole disposte attorno alla tavola, erano otto... la mia non c'era più... Ho visto però il posto dove soleva assidermi e la seggiola ch'egli occupava presso di me quando guardava le mie carte.
Ho pensato a tutte coteste cose stando in letto tutta sola, in quel piccolo camerino ch'è oscuro, silenzioso, ed ha un aspetto melanconico. Avrei voluto addormentarmi, avrei voluto non udire quei discorsi, quelle voci, quell'allegria vicino a me... Ho passato la notte agitatissima senza poter chiudere occhio. Credo che abbia ancora la febbre. Son così debole! Ho trattenuto il respiro tutta la notte per ascoltare le parole di lui, per indovinare dal suono della sua voce se egli fosse tristo o allegro. L'ho udito tre volte; una volta disse «grazie», un'altra volta «tocca a me», l'ultima «signorina». Se tu potessi immaginarti tutto quello che c'è in coteste parole! se potessi esprimerlo!
Hanno giuocato sino alla mezzanotte. Io li ho udito da qui. Poi si son messi a tavola... Ora sono stanca, la testa mi vacilla... Ti ho scritto per tenermi desta... per fare qualche cosa anch'io...
Parliamo di te piuttosto... e tu hai fatto buon Natale? sei contenta? sei felice?
Voglio stordirmi; voglio far forza a me stessa questi ultimi giorni; voglio vincere questa prova durissima. Dio ch'è misericordioso mi aiuterà! Scrivimi, scrivimi. Fra breve forse ci rivedremo, e allora quante cose avrò a dirti!
30 Dicembre
Oh! Marianna! Marianna mia! quanto ho pianto! quanto ho sofferto! I signori Valentini partiranno domani! intendi? Non c'è più coléra! non c'è più nulla!... partiranno!...
Non lo vedrò più!... L'ho saputo a caso, pochi momenti or sono. Non hanno almeno avuto la pietà di dirmelo!...
M'è sembrato di morire, ho rimproverato Dio che mi fece guarire! Ho pianto tutta la notte. Il petto mi duole assai. Qualche volta ho singhiozzato così forte che Giuditta mi avrà udito.
Sono una sfacciata! non ho più ritegno; non ho che un solo pensiero; sono uscita come una pazza a chiedere informazioni alla castalda. È per domani! Egli è venuto a dire addio alla mia famiglia, e non me l'hanno fatto vedere almeno per l'ultima volta!... e non lo vedrò più... e non l'ho saputo che a notte fatta, quand'era buio... quando non potevo più scorgere e salutare quella casetta dove egli passerà l'ultima notte!...
Che gente è quella, Dio mio?... che gente senza cuore, senza pietà e senza lagrime!...
Che notte! che notte orribile! Com'è angusto questo stanzino, come son cupi questi luoghi! Tutta la notte la pioggia ha scrosciato sui vetri, il vento ha fatto scuotere le imposte, il tuono pareva che ci rovinasse addosso col tetto della casa, e i lampi penetravano fin dentro coi loro sinistri bagliori... Avevo paura e non osavo segnarmi... sono una maledetta, una scomunicata, poiché anche in quel momento non pensavo che a lui... e più di una volta ho pregato Iddio ed ho sperato che quell'uragano durasse, non saprei dire io stessa quanto, purché egli non partisse, purché rimanesse sempre vicino a me... questo solo!... non vederlo, non parlargli, ma saperlo laggiù, in fondo a quella valle, sotto quel tetto, dietro quella finestra, inviargli un saluto la mattina, baciare cogli occhi quella soglia, quella terra, quell'aria... È troppo poi questo? Dio mio! se mi contento di questo!...
Ma egli non ha dunque pensato che io muoio per lui? che io son debole, inferma? Non ha pianto, non ha sofferto anche lui? Perché non è venuto un momento, un sol momento, da lungi soltanto per farsi vedere un'ultima volta, per dirmi addio?
Perché non mi ha fatto udire la sua voce? perché non è passato pel bosco? perché non ha tirato una fucilata in aria? perché non ha fatto abbaiare il suo cane che mi domandava se gli volessi bene, e sulla testa del quale avea posato la mano accanto alla mia?
Mio Dio! Mio Dio!...
Ti scrivo dal letto, su di un grosso libro che mi tengo sulle ginocchia. Qualche volta ho dei brividi di freddo, delle vertigini; ma se non ti scrivessi non potrei star qui rinchiusa, mi parrebbe di divenir pazza. Non ho più lagrime e l'angoscia mi divora come un cane rabbioso. Provo una smania, una febbre, un delirio! Cotesta pioggia che cade, cotesto vento che sibila, cotesti tuoni, cotesti lampi sono insoffribili; questo tetto mi schiaccia, queste pareti mi soffocano. Vorrei aprire la finestra, vorrei sentirmi battere sulla fronte questa pioggia ghiacciata, vorrei bevermi questo vento freddo; vorrei godermi quei fulmini, quella tempesta che urla, che si contorce, che geme come me. Se mi avessero detto che doveva tanto soffrire!... Perché mi hanno tratta fuori dal convento, codesta gente senza pietà? Perché non mi hanno lasciato morir colà, sola, senza aiuto, di coléra, di abbandono.
...
Ah!... Zitto!... Ascolta, Marianna!... Non hai sentito?... Mi è sembrato... là, dietro quella finestra, fra il vento, la pioggia, il turbine... un passo... sì! sì! è lui!... è lui! Il cuore mi si spezza! Mi afferro la testa con ambo le mani, perché mi sembra che anche qualche cosa della mia testa mi sfugga! È lui! Che fa? che vuole? Ha picchiato sui vetri!... Dio! Dio mio!... fatemi morire! fatemi morire! Mi dice addio! Egli! egli!... ed io! ed io!... Che cosa succede dentro di me, Dio mio?... Ho avuto un colpo di tosse... È il mio addio... Egli l'avrà udito... Non veggo più... Mi sento morire... Dio mio! Se mi trovassero morta con questa lettera, questa vergogna!
31 Dicembre
Dio ha avuto pietà di me; ho riaperto gli occhi e mi sono trovata ancora questa lettera fra le mani. Nessuno l'ha vista; l'uscio è ancor chiuso. Il sole già rischiara il mio stanzino da tutte le commessure delle imposte. Gli uccelli cinguettano sul davanzale... Il sole! com'è orribile! ma dunque la tempesta?... ma dunque?...
Balzo dal letto... Non ho forza di reggermi in piedi... non ho il coraggio di aprire la finestra.
Pure...
...
Dio mio, sia fatta la vostra volontà!...
Tutto è finito! Ho visto quella casa muta, quelle imposte chiuse, un'aria di silenzio, di desolazione e di abbandono tutto all'intorno che spezza il cuore!
Ho interrogato questo cielo che ci ha veduti vicini, questi alberi che hanno stormito sul suo capo, questi monti che poche ore innanzi ci erano ancora comuni e che adesso son soli, tristi, abbandonati!...
È partito! è partito!
Sotto la mia finestra ho visto sul suolo molle di pioggia e bianco di neve le sue orme... l'ultime sue orme!... Il suo piede vi si è posato, la sua mano ha toccato questo davanzale... egli è stato lì! lì! Quest'aria lo ha circondato e tutto quello che io veggo l'ha veduto!... ed ora non c'è più... nulla, nulla!
Ho trovato sul davanzale una rosa appassita, una povera rosa che egli mi aveva quasi rubato, e che io gli avevo lasciato rubare. La pioggia l'ha infradiciata. È una reliquia. L'ho qui sul petto... e quando le forbici recideranno i miei capelli vi metterò in mezzo quel povero fiore morto, e li manderò a mia sorella...
7 Gennaio, 1855
Oggi è l'ultimo giorno che passeremo qui a Monte Ilice. Domattina partiremo per Catania. Se toccheremo Mascalucia ti rivedrò.
Se vedessi come tutto qui è triste! Il cielo nuvoloso, l'aria fredda, le valli che son velate di nebbia, i monti che son coperti di neve, gli alberi che non hanno le foglie, gli uccelletti che non hanno allegria, il sole ch'è pallido, quelle lunghe file nere di corvi che si aggirano gracidando per l'aria, que' contadini rannicchiati attorno al fuoco.
I miei non ne potevano più di starsene qui, soli, nella cattiva stagione, e adesso che la paura del coléra è cessata, il babbo non vede l'ora di andarsene. Io me ne sto delle ore intiere a pensare a non so che cosa, appoggiata sul davanzale, quando il sole splende, o guardando tristamente il cielo attraverso i vetri.
Mio Dio! questa è la morte... la morte della natura come la morte del cuore... come la morte della povera rosa...
E pensare che questi luoghi erano tanto belli! che sono stata tanto felice qui!
Mi son riconciliata con Dio, colla mia vocazione. Ho visto che la pace, la quiete, la tranquillità non si trovano che laggiù, in quella cella, ai piedi di quel crocifisso; che tutte le gioie del mondo lasciano infine un senso di amarezza... tutte!
Eppure mi pare di lasciare una parte del mio cuore in questi luoghi ove ho passato tante ore tristi e tanti giorni deliziosi. Ad ogni oggetto che ho visto, ho pensato: domani non lo rivedrò più! Questa sera ho fatto un'ultima passeggiata nel bosco; mi sono assisa un'ultima volta su quel muricciolo; ho contemplato quella capannuccia posta di faccia alla nostra porta, e stando alla finestra ho guardato con un senso inesplicabile di mestizia gli alberi, i monti, quei burroni, il cielo ove si spegneva il raggio del giorno... e li ho salutati per l'ultima volta, ed ho salutato persino la pietra coperta di musco, sin la gronda che si stende sul mio capo. Tutte queste cose hanno una fisonomia particolare, la fisonomia malinconica degli oggetti che sembrano dirci addio... Ed il mio addio sarà eterno. L'anno venturo, allorché questi monti che adesso tacciono e sono tristi, saranno allegri di suoni, di luce e di fragranze, quando le villanelle canteranno per le vigne e la lodoletta pei cieli, i miei parenti torneranno qui... Essi rivedranno questi luoghi deliziosi... Io no! Io sarò lontana, chiusa in convento... e per sempre.
Ho riveduto quella casetta... Sembra che pianga, che abbia paura, sola, fredda, silenziosa, perduta in fondo alla valle. ho chiuso l'ultima volta la mia finestra; ho visto il crepuscolo morire sui vetri e le stelle accendersi ad una ad una nel firmamento; le pareti illuminate dalla candela dell'ultima sera hanno una fisionomia particolare; quel lettuccio, quel crocifisso, quei mobili, tutte quelle piccole cose son diventate intelligenti, sono meste, mi hanno detto addio... Anch'io son mesta... ho pianto, e mi son sentito alleggerire il cuore.
Catania, 9 Gennaio
Mia cara Marianna, tu mi avrai aspettato inutilmente. Non toccammo Mascalucia, perché avremmo allungato di molto il nostro viaggio e il tempo era al cattivo: ma avrei desiderato tanto di vederti!... Adesso siamo qui da ieri sera, e domani rientrerò in convento.
Siamo partiti da Monte Ilice verso le dieci, col tempo che minacciava pioggia. Tant'è, ogni cosa era disposta per la partenza e la mamma non avrebbe voluto di nuovo disfare di nuovo i bauli e le valigie per tutto l'oro del mondo. Meglio così. A che rimanere più a lungo lassù? Il cielo stesso sembrava scacciarci. Nondimeno allorché oltrepassai la soglia di quella casa mi sentii un gruppo al cuore. Volli passare in rassegna un'ultima volta quelle stanzine, la spianata, la capannuccia del castaldo, il muricciolo, quel bel castagno che stende i suoi rami sul tetto! Ho abbracciato le pareti, i mobili del mio camerino; ho aperto un'ultima volta la finestra per udire quello stridere dei gangheri che piangeva. ho fatto il giro della casetta onde vedere la mia finestra dal di fuori com'egli l'avrà vista... onde cercare d'indovinare il luogo dov'egli ha posto i piedi...
Tutti erano allegri, Giuditta, Gigi, anche il babbo e la mamma; Vigilante saltellava, poverino, come se non sapesse che l'abbandonavamo. La castalda ci dava il buon viaggio con tutti i suoi bimbi che le si aggrappavano alle vesti; un uccelletto tremante di freddo è venuto a posarsi su di un ramoscello senza foglie del castagno e si è messo a pigolare anche lui.
Siamo partiti a piedi; in fondo alla valle ci aspettavano gli asinelli per andare sino a Trecastagne, poiché tu sai che su questi monti non si può venire che a cavallo. Di tratto in tratto ci volgevamo a guardare un'ultima volta quei luoghi che abbandonavamo. Allo svoltar del viottolo, laggiù nella valle, siam passati vicino quella casetta... Il cuore non mi reggeva a guardarla, eppure le menome particolarità di essa mi son rimaste scolpite in mente. La finestra di lui ha le imposte verdi e un vetro è rotto; sul davanzale c'è un segno di umidità al posto dov'era il vaso di gelsomini; il vento ha strappato i tralci della vite che si stendevano sulla porta e li ha gettati a terra; sulla spianata, dinanzi alla porta, ci son ancora dei vetri rotti e alcuni brani di lettere e di giornali fradici dalla pioggia che il vento fa svolazzare di qua e di là; sul davanzale c'è ancora una pipa rotta. Tutte quelle cose parlano e dicono: Non c'è più! ci ha lasciato! siamo soli!
Quello era il viottolo pel quale egli veniva da noi. Quante volte ci sarà passato!... Da quel punto doveva vedere la nostra casetta far cupolino lassù attraverso i castagni. Quante volte l'avrà guardata!... E quante volte i suoi sguardi si saranno posati su queste pietre coperte di musco, e vi sarà seduto col suo bel cane disteso ai piedi!...
Marianna! non mi regge il cuore a tutte codeste memorie!
Siamo andati a cavallo sino a Trecastagne ove ci aspettava la carrozza. Il povero Vigilante ci faceva festa per invitarci a condurlo con noi. Che potevo io fare? L'ho accarezzato ed ho avuto quasi le lagrime agli occhi vedendolo allontanarsi per forza, strascinato dal castaldo che l'aveva legato al guinzaglio.
Rivolsi un ultimo sguardo sul mio caro Monte Ilice e non vidi più né la casa, né la capannuccia, né la vigna. Vidi soltanto una massa bruna ch'è il castagneto e il resto confuso nella nebbia e biancheggiante di neve.
Montammo in carrozza e partimmo.
Quando siamo entrati in città, il cuore mi si è fatto leggero leggero. Guardavo fuori lo spettacolo e mi pareva ravvisar lui in ogni persona che incontravo... Mi avranno creduto una sfacciata!... quando vedevo un crocchio di gente non potevo frenarmi di mettere il capo fuori lo sportello; ero tutta sossopra come se fossi certa di vederlo in quel cerchio... la carrozza passava oltre rapidamente e il cuore mi si stringeva come se non avessi avuto il tempo di ravvisarlo fra quella gente. Chi sa dove abitano i signori Valentini? Venti volte questa domanda m'è venuta sulle labbra, ma non ne ho avuto il coraggio. Catania è tanto vasta! Non è come quei nostri cari monti! Colà si sapeva sempre ove cercare una persona! Coteste immense vie mi son sembrate tetre; tutta cotesta gente mi è parsa triste. Siamo arrivati a casa, la casa di mia matrigna, ove mi son trovata come un'estranea in mezzo alla mia famiglia che ne baciava le pareti.
Chi sa se i signori Valentini sapranno del nostro arrivo? Chi sa se verranno? Chi sa se lo vedrò passare per la strada?... Mio Dio! la nostra strada è tanto deserta! Non si viene a passeggiare da queste parti... a meno che.. Ma egli potrebbe... Chi sa dove egli sarà a passeggiare in questo momento? E se poi mi vedessero alla finestra!...
Mia matrigna mi ha detto che domani rientrerò in convento. Ha creduto certamente darmi una consolazione, e non sa che mi son sentita come agghiacciare di terrore...
Non ci pensavo più... Ma bisogna rassegnarsi... Quella è la mia dimora. Dio mi perdonerà e metterà il balsamo in questo povero cuore che non avrebbe mai dovuto allontanarsi da Lui.
Rivedrò la mia celletta, il mio crocifisso, i miei fiori, la chiesa, le educande mie compagne... te sola no! tu non verrai più in convento!... sia fatta la volontà del Signore!... Qualche volta almeno tu verrai a trovare la tua povera amica che è tanto infelice... Chi sa se potrò più scriverti e sfogarmi con te?...
Addio! Addio!
10 Gennaio
Ti scrivo un sol rigo che forse sarà l'ultimo. La carrozza è giù che aspetta. Il babbo, la mamma, Gigi e Giuditta si son vestiti da festa per accompagnarmi.
Ho pianto; mi asciugo gli occhi; respiro un'ultima boccata di quest'aria libera.
I signori Valentini sono venuti a dirmi addio... Lui non c'era! Mi hanno abbracciato. Che piangere si è fatto con Annetta!
Scenderò la scala; monterò in carrozza, e fra venti minuti tutto sarà finito!
Addio anche a te... Addio! Il cuore mi si spezza.
Dal convento, 30 Gennaio
Non ho voluto lasciare passare il mese senza scriverti. Tu avresti potuto credere che io sia triste, infelice, mentre qui, ai piedi degli altari, nelle pratiche austere del nostro rito ho trovato, se non la pace, almeno la calma del cuore.
È vero. Si prova uno sgomento invincibile entrando qui, sentendosi chiudere alle spalle quella porta, vedendosi mancare ad un tratto l'aria, la luce, sotto questi corridoi, fra questo silenzio di tomba e il suono monotono di queste preci. Tutto rattrista il cuore e lo spaurisce: quelle fantasime nere che si veggono passare sotto la fioca luce della lampada che arde dinnanzi al crocifisso, che s'incontrano senza parlarsi, che camminano senza far rumore come se fossero spettri, i fiori che intristiscono nel giardino, il sole che tenta invano [di] oltrepassare i vetri opachi delle finestre, le grate di ferro, le cortine di saia bruna. Si ode il mondo turbinare al di fuori e i suoi rumori vengono ad estinguersi su queste mura come un sospiro. Tutto quello che viene dal di fuori è pallido e non fa strepito. Son sola in mezzo a cento altre derelitte.
Ho perduto anche la consolazione della famiglia; non posso vederla che in presenza di molta gente, in una gran sala oscura, attraverso la doppia grata che difende la finestra. Le nostri mani non possono stringersi scambievolmente. L'intimità sparisce. Non restano che fantasmi che si parlano attraverso le gelosie, e ogni volta domando a me stessa se quello è mio padre, quel padre che mi sorrideva e mi abbracciava, s'è quella stessa Giuditta che saltellava con me, s'è quello stesso Gigi ch'era così vispo e allegro. Ora son serî, freddi, malinconici; mi guardano attraverso le grate della gelosia come viventi che si affacciano alla tomba per vedere cadaveri che parlano e si muovono.
Eppure tutte queste privazioni, tutte queste austere pratiche servono a distaccare il cuore dalla fragilità della terra, ad isolarlo, a farlo pensare a sé stesso, a dargli quella mutua calma che viene da Dio e dal pensiero che così si abbrevia il nostro pellegrinaggio sulla terra. Mi son confessata. Ho detto tutto! tutto! Quel buon padre ha avuto compassione del mio povero cuore malato. Mi ha confortato, mi ha consigliato, mi ha aiutato a strapparmi il demone dal seno. Mi sento più libera, più tranquilla, più degna della misericordia di Dio.
Domani entrerò in noviziato. Hanno voluto indugiare ancora pochi giorni perché la mia salute è malferma. Non mi son rimessa mai intieramente dalla malattia che soffersi lassù a Monte Ilice. Ogni due o tre giorni ho la febbre e tossisco tutte le notti. Ma Dio mi darà la forza di sopportare la prova del noviziato. D'ora innanzi però non potremo vederci che assai di raro e non potrò scriverti perché non vedrò tanto spesso Filomena, quella buona sorella laica che si è incaricata di trasmetterti le mie lettere.
Non vedrò più nemmeno il mio povero babbo!... Sia fatta la volontà del Signore!
Marianna, raccomandami a Dio perché io subisca codesta prova con rassegnazione.
8 Febbraio, 1856
Ho compito il noviziato. Mi hanno ottenuto una dispensa per ragioni della mia salute ch'è sempre cattivissima. Ho spesso la febbre, tossisco e son diventata così debole che la menoma fatica mi stanca. Però il cuore è calmo, e questa è la maggiore benedizione che Dio abbia potuto accordarmi. Qualche volta la fragilità si ribella, la tentazione mi riassale, allora mi prostro ai piedi dell'altare, passo le notti inginocchiata sul freddo pavimento del coro, macero il mio corpo coi digiuni e colle penitenze e allorché la materia è doma, allorché le mie forze son rifinite, la tentazione è vinta, e la calma ritorna.
Quest'anno di prova è stato assai duro. Ma il buon Dio me ne ha fatto trionfare. Ho veduto partire la mia famiglia al sopravvenire del coléra, l'estate scorsa; ho provato anche l'abbandono dei miei... sono stata sul belvedere a fissare gli occhi su quei bei luoghi ove un tempo anch'io era con loro... Ahimè! i bei tempi!... Ho pensato a tante cose... Ho pianto, sì, è vero, mi son sentita debole qualche volta, ma infine ho trionfato.
Ogni cosa qui serve a rinchiudere l'anima in sé stessa, a circoscriverla, a renderla muta, cieca, sorda per tutto quello che non è Dio. Eppure anche ai piedi del Crocifisso, quando mi assalivano quelle tentazioni... e pensava a quella nostra casetta, a quei campi, a quella capannuccia, a quel fuoco che cuoceva la minestra della castalda, domandavo a me stessa se quella povera contadina che si cullava i suoi bimbi sulle ginocchia, senza le mie tentazioni, senza i miei scrupoli, senza i miei rimorsi, non sia più vicina a Dio di me che mortifico con mille privazioni il mio spirito ribelle.
Quante volte non mi sono passati dinanzi agli occhi quei monti, quei boschi, quel cielo ridente!... Quante volte non ho detto: a quest'ora essi son seduti in crocchio sotto quel castagno; a quest'ora passeggiano pel viale della vigna; a quest'ora Vigilante abbaia, gli uccelletti pispigliano sulla gronda!... e quando mi son destata come di sognare mi son trovato il viso tutto bagnato di lagrime.
E poi un altro pensiero... un altro fantasma... lì... sempre lì, fisso dinanzi agli occhi... ai piedi della croce, in mezzo alla folle che ascolta la messa in chiesa, al capezzale del mio letto, dietro quella cortina di saja verde! la tentazione che mi afferra pei capelli, che mi strappa dalla preghiera, che mi fa piangere, che mi fa delirare...
Delle volte mi è sembrato di divenir pazza, e ne ho ringraziato Iddio, perché i pazzi non sono colpevoli... La domenica, fra tutta, quella gente laggiù in chiesa mi sembra di veder lui!... Mi segno, corro ai piedi del confessore spaventata, piangente; il buon vecchio tenta confortarmi, e mi prescrive quelle penitenze che devono scancellare dal mio cuore codesta macchia, ma che riescono inefficaci perché io sono una gran peccatrice.
...
Ma egli avrebbe potuto venire in chiesa una sola volta almeno... ad ascoltar la messa... senza neanche alzare gli occhi verso il coro... ma soltanto per farsi vedere... Egli saprà che son qui e non ha cercato di vedermi!
Dio! Dio mio! Perdonami, Marianna... vedi come son colpevole! come sono infelice!.. È il demone che mi assale quando meno me lo aspetto...
Quante volte, pregando il Signore che mi tolga da cotesta croce, non ho abbassato gli occhi verso la chiesa per vedere se egli fosse là, per cercarlo tra la folla! e la preghiera è spirata sulle mie labbra!... e il mio pensiero si è arrestato su di lui!... a vaneggiare, a sognare di correre pei campi, di ascoltare quel passo, quel colpo bussato alla finestra, e a guardare quelle stelle, e toccare quella mano accarezzando la testa di quel bel bracco e sentirmi alle orecchie quel nome: Maria! come se venisse dal cielo!...
Oh Dio mio, son fragile, son debolissima... ma lotto, mi difendo... Non ci ho colpa, Dio mio!.. È più forte di me, della mia volontà, del mio rimorso, della mia fede.
Tu mi scrivi che sei felice, che sei contenta anche fuori del convento. Ringrazia il buon Dio, Marianna mia, che ti ha serbato la mamma, che non ti ha fatto nascere povera, che non ti ha confitto nel cuore questa spina, che non ti ha fatta debole, isterica, nervosa, malaticcia.
Solo quando questa materia si dissolverà io non soffrirò più. Ecco perché vorrei staccarmi dal mondo che mi afferra ostinatamente, ed alzo gli occhi e le braccia supplichevoli verso il cielo...
Ora che son ritornata presso alla mia buona Filomena, che ha pietà delle mie pene e mi procura il conforto di scriverti e di ricevere le tue lettere, ti scriverò qualche altra volta prima di profferire i voti solenni. Tu verrai alla cerimonia, non è vero?
Voglio dire addio a tutti coloro che mi son cari attraverso a quella gelosia, tra il fumo degli incensi e il suono dell'organo. Voglio che tutti quei volti amici mi confortino all'arduo passo, perché il mio povero cuore è debole; ho bisogno di poter fissare i miei occhi nei tuoi e in quelli del babbo, di mia sorella, di Gigi, di Annetta, allorché sentirò la forbice stridere fra i miei capelli...
Ho paura, ho paura, Marianna!... Ho paura di quelle forbici... Ho paura di quel momento!...
Ho paura di lui... s'egli venisse in chiesa quel giorno!... Dio mio! No! no! son debole, Dio mio!... no! per pietà!...
Tu verrai insieme a tuo padre, Giuditta, mio fratello, la mamma, Annetta, i signori Valentini...
Dio mio! sia fatta la vostra volontà!
27 Febbraio
Marianna mia! sorella mia!... M'era sembrato d'essermi agguerrita contro il dolore, ma quest'altro che sopravviene mi lacera, mi schiaccia, mi annichilisce! Eccomi più debole, più meschina di prima! Dio mio!... Anche cotesto!... Anche cotesto!...
Quello che ho saputo, Marianna! quello che ho saputo!... Avresti mai potuto immaginarlo? Sono stata malata per più di due settimane. Ora mi son levata, ti scrivo, piango con te.
Che è mai questa cosa meschina ch'è dentro di me, che geme, che soffre, che non sa strapparsi da tutte coteste miserie per elevarsi a Dio?...
Ma essi avrebbero dovuto farmelo ignorare... Sono senza pietà!... No! piuttosto io son debole, io son colpevole! Dio mi punisce.
Il signor Nino sposerà mia sorella... intendi?... Son venuti a darmi la lieta novella!... È un buon matrimonio... ambedue sono ricchi... Giuditta è contenta, felice... Non ho avuto il coraggio di domandar loro in grazia di risparmiarmi la prova della visita d'uso... perché anch'egli verrà... Sento che non avrò la forza di quest'altro sacrifizio... mi ucciderà...
Ed egli!... egli... l'avrà?
Ma pregherò tanto Iddio... per me... e per lui... mi flagellerò tanto... piangerò tanto che Dio ci darà ad entrambi la forza di superare la prova crudele.
Ho pianto; sino a quando non avevo più lagrime.
Il mio petto si lacera; la mia testa vaneggia; vorrei dormire; vorrei soprattutto che il Signore mi risparmiasse questo dolore...
Sia fatta la volontà di Dio!
28 Febbraio, mezzanotte
Dio sia lodato! la prova è subìta. Mi è parso di morire... ma è passata... ora è tutto finito...
Mi avevano fatto prevenire, come anche tutte le monache nostre parenti, la madre abbadessa, e la direttrice delle novizie. Noi aspettavamo nella sala grande che precede il parlatorio; ero seduta fra l'abbadessa e la madre direttrice. Sono arrivati puntualmente all'ora stabilita. Ho udito la carrozza che si fermava alla porta, i loro passi che salivano le scale e si avvicinavano alla grata... Mi son levata barcollante... non ci vedevo... Ho sentito la campana che mi chiamava... La direttrice aprì la cortina; mi aggrappai alla tenda; mi lasciai cadere sulla panca di legno; vidi in confuso quella inferrata affollata di visi... ma non mi avranno veduta; qui faceva buio. Essi parlavano. Dopo un po' di tempo ho potuto udire anch'io. Parlava mia matrigna... anche il babbo... Giuditta non diceva nulla... e neanche lui... Mia sorella aveva una veste e un cappellino color di rosa, sembrava felice. Lui le stava accanto; aveva il suo cappello fra le mani e lo lisciava coi guanti... Non piangevo... mi pareva di sognare... ero sorpresa come non soffrissi dippiù... poi si alzarono... Il babbo mi disse addio, la mamma mi sorrise, Giuditta mi ha mandato un bacio, Gigi mi chiese dei dolci... egli s'inchinò. Lo vidi allontanarsi... Egli era al fianco di Giuditta: sulla soglia le diede il braccio... Indi la porta si rinchiuse, i passi si allontanarono... poi non si udirono più. La carrozza partì... rimasi al silenzio. Più nulla!... Nulla!... Son sola!...
10 Marzo
Fra un mese prenderò il velo. Si fanno già i preparativi per la festa. Tutti mi colmano di carezze. Non passa giorno che il babbo e la mamma non vengano a trovarmi. Hanno voluto solennizzare quest'avvenimento. Ci sarà della musica, dei fuochi d'artificio, degli invitati. Il mio caro babbo sembra felice che anch'io prenda stato, com'egli dice. Giuditta è venuta anche lei qualche volta. Se vedessi come la rende bella la felicità! Che Dio la benedica!
Anche tu sei fidanzata, Marianna mia? Mi scrivi che sei felice! Così sia! Ma non dimenticare nella felicità la tua povera amica che abbisogna più che mai del tuo affetto. Di tanto in tanto quando ne avrai il tempo, vieni a trovarmi. Se sapessi come sono felice in quei pochi e rari momenti in cui rivedo le persone che mi vogliono bene! Sai che è atto di carità visitare i poveri carcerati!
Tu che sei sposa, tu che sei felice, dimmi com'è fatta quella gioia, quella festa, quel gaudio che deve provar mia sorella; dimmi che cosa ci deve essere nel suo cuore vedendosi sempre accanto la persona amata senza scrupoli, senza rimorsi, senza paure, benedetta, festeggiata, accarezzata da tutti; dimmi come deve essere fatta la felicità di pensare che ella sarà di lui, ch'egli le apparterrà, che lo vedrà tutti i giorni, tutte le ore, che l'udrà parlare, che si appoggerà al braccio di lui, che gli dirà all'orecchio tutto quello che le passerà per la mente, che si chiamerà col nome di lui, che verrà il giorno in cui si cullerà sulle ginocchia i suoi figli e insegnerà loro ad amarlo, a pregare il buon Dio per lui... Pensare che tutto sarà una festa, e che questa festa non avrà mai fine! Com'è buono il Signore a concedere tanta felicità.
Ho saputo che lo sposalizio si farà domenica... Che Dio li benedica!
Domenica, 29 Marzo, mezzanotte
Marianna mia, ti scrivo dalla mia cella, di notte, temendo che il mio lumicino venga scoperto attraverso la cortina, e che mi sia tolto anche il meschino conforto di aprirti tutta l'anima mia. Che giornata è stata questa per me, Marianna! Non cesserò dunque mai di soffrire?
Son sola, tremante di freddo; tutto è silenzio, non si ode che il pendolo dell'orologio come il passo di uno spettro che passeggi pei vasti corridoi oscuri. Sono stata tutto il giorno nel coro a pregare, a piangere al cospetto di Dio. Ora son debole, stanca, non ne posso più, ma sono alquanto più calma.
È domenica!... Tu comprenderai tutto quello che c'è in questa parola... e non dico altro... È stato oggi!...
Mi hanno portato i rinfreschi della festa, sai!...
Non si rammentarono che sono malata e che mi farebbero male?
Come avrebbero potuto pensarci? Tutti sono allegri, è un giorno di giubilo... La colpa è mia che sono una povera donnicciuola infermiccia ed uggiosa. Che festa sarà stata mai quella!...
Tutta la scorsa notte non ho potuto dormire... Anch'essi non avranno dormito aspettando l'alba di questa domenica... sognando ad occhi aperti quei fiori, quegli abiti da festa, quella folla, quei visi ridenti...
Anch'io ho visto, ho sognato tutte quelle cose. Ho veduto Giuditta così bella col suo abito da sposa, col suo velo bianco, e la sua corona di fiori d'arancio!...
E lui... lui che le dava la mano, le sorrideva... andavano in chiesa, circondati d'amici, di parenti, di persone care... l'altare era tutto illuminato, l'organo suonava... Poi si sono inginocchiati ed hanno chiamato Dio a testimonio della loro felicità.
Dio ch'è misericordioso avrà fatto dimenticare a lui quella sera in cui mi prese la mano, quelle parole che mi disse, il raggio di quelle stelle, quella notte d'uragano in cui a dirmi addio, quel bussare che fece alla finestra, la tosse che mi assalì...
Anch'io l'ho dimenticato... Voglio dimenticarlo...
Tutto è finito... tutto...
Vedi che son rassegnata, Marianna, che Dio ha avuto pietà di me!... Domani mi preparerò al gran passo con gli esercizi spirituali. Non ti scriverò; non vedrò più nessuno, neanche mio padre... È l'agonia.
Quei due cuori felici avranno pensato qualche momento, in mezzo al turbine della loro felicità, a questa povera donna che si muore qui, sola, derelitta?
Vieni alla cerimonia... Sarà per domenica, 6 Aprile. È un'altra domenica, come tu vedi... soltanto quest'altra è triste!... Verrai? Ti aspetto. Addio.
Non ti pare assai malinconica?
Sabato, 5 Aprile
Ti scrivo un rigo in fretta per rammentarti che ti aspetto, che ho bisogno di te, di voi tutti; che ho bisogno di forza e di coraggio.
Mi hanno portato il velo, i fiori, la veste nuova; è una bella veste da sposa. Si fanno gli ultimi apparecchi. È per domani...
Se vedessi che movimento insolito, che frastuono, che giubilo! è una festa per tutte coteste povere recluse. Quest'immenso sepolcreto si anima soltanto allorché si spalanca per un'altra vittima.
È un bel giorno d'Aprile. Il tempo è stato cattivo sino ad oggi; ma adesso brilla un bel sole. Sono stata sul belvedere a respirare un ultimo sorso di vita.
Quante cose ho visto da lassù, Marianna! i campi, il mare, quell'immenso mucchio di palazzi, l'Etna laggiù, in fondo... Tutte queste cose sembrava che avessero un'aria triste...
Avrei voluto vedere un'ultima volta Monte Ilice, la nostra casetta, quel bel castagneto... Non ho potuto vederli... non li vedrò più... ho un gruppo qui nel cuore!...
Dalla strada saliva sino al belvedere un frastuono, un rumore di carri, di vetture, di voci, di gente che lavora, che va e viene... Tutta quella gente ha degli affari, delle gioie, delle pene, cammina, vive... Quegli uccelli che volano lontano...
Fra me e tutta questa vita che mi circonda, domani, fra poche ore, si leverà un muro insormontabile, un abisso, una parola, un voto...
Come passerò questa notte?... Se ti avessi almeno qui con me!...
Ho paura!...
Dio mio, sorreggetemi!

 

 

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.48

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