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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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 BulletStoria di una CapineraBullet

di: Giovanni Verga

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PARTE PRIMA

Avevo visto una capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare il rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu trovata stecchita nella sua prigione.
Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c'era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.
Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la storia di un'infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l'amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l'ala ed era morta.
Ecco perché l'ho intitolata: Storia di una capinera.
Monte Ilice, 3 Settembre 1854
Mia cara Marianna.
Avevo promesso di scriverti ed ecco come tengo la mia promessa! In venti giorni che son qui, a correr pei campi, sola! tutta sola! intendi? dallo spuntar del sole insino a sera, a sedermi sull'erba sotto questi immensi castagni, ad ascoltare il canto degli uccelletti che sono allegri, saltellano come me e ringraziano il buon Dio, non ho trovato un minuto, un piccolo minuto, per dirti che ti voglio bene cento volte dippiù adesso che son lontana da te e che non ti ho più accanto ad ogni ora del giorno come laggiù, al convento. Quanto sarei felice se tu fossi qui, con me, a raccogliere fiorellini, ad inseguire le farfalle, a fantasticare all'ombra di questi alberi, allorché il sole è più cocente, a passeggiare abbracciate in queste belle sere, al lume di luna, senz'altro rumore che il ronzìo degli insetti, che mi sembra melodioso perché mi dice che sono in campagna, in piena aria libera, e il canto di quell'uccello malinconico di cui non so il nome, ma che mi fa venire agli occhi lagrime dolcissime quando la sera sto ad ascoltarlo dalla mia finestra. Com'è bella la campagna, Marianna mia! Se tu fossi qui, con me! Se tu potessi vedere codesti monti, al chiaro di luna o al sorger del sole, e le grandi ombre dei boschi, e l'azzurro del cielo, e il verde delle vigne che si nascondono nelle valli e circondano le casette, e quel mare ceruleo, immenso, che luccica laggiù, lontan lontano, e tutti quei villaggi che si arrampicano sul pendìo dei monti, che sono grandi e sembrano piccini accanto alla maestà del nostro Mongibello! Se vedessi com'è bello da vicino il nostro Etna! Dal belvedere del convento si vedeva come un gran monte isolato, colla cima sempre coperta di neve; adesso io conto le vette di tutti i codesti monticelli che gli fanno corona, scorgo le sue valli profonde, le sue pendici boschive, la sua vetta superba su cui la neve, diramandosi pei burroni, disegna immensi solchi bruni.
Tutto qui è bello, l'aria, la luce, il cielo, gli alberi, i monti, le valli, il mare! Allorché ringrazio il Signore di tutte queste belle cose, io lo faccio con una parola, con una lagrima, con uno sguardo, sola in mezzo ai campi inginocchiata sul musco dei boschi o seduta sull'erba. Ma mi pare che il buon Dio debba esserne più contento perché lo ringrazio con tutta l'anima, e il mio pensiero non è imprigionato sotto le oscure volte del coro, ma si stende per le ombre maestose di questi boschi, e per tutta l'immensità di questo cielo e di quest'orizzonte. Ci chiamano le elette perché siamo destinate a divenire spose del Signore: ma il buon Dio non ha forse fatto per tutti queste belle cose? E perché soltanto le sue spose dovrebbero esserne prive?
Come son felice, mio Dio! Ti rammenti di Rosalia la quale voleva provarci che il mondo fosse più bello al di fuori del nostro convento? Non sapevamo persuadercene, ti ricordi? e le davamo la berta! se non fossi uscita dal convento non avrei mai creduto che Rosalia potesse aver ragione. Il nostro mondo era ben ristretto: l'altarino, quei poveri fiori che intristivano nei vasi privi d'aria. il belvedere dal quale vedevasi un mucchio di tetti, e poi da lontano, come in una lanterna magica, la campagna, il mare e tutte le belle cose create da Dio, il nostro piccolo giardino, che par fatto a posta per lasciar scorgere i muri claustrali al disopra degli alberi, e che si percorre tutto in cento passi, ove ci si permetteva di passeggiare per un'ora sotto la sorveglianza della Direttrice, ma senza poter correre e trastullarci... ecco tutto!
E poi, vedi... io non so facevamo bene a non pensare un poco di più alla nostra famiglia! Io sono la più disgraziata di tutte le educande, è vero, perché ho perduto la mamma!... Ma ora sento che amo il mio babbo assai più della Madre Direttrice, delle mie consorelle e del mio confessore; sento che io l'amo con più confidenza, con maggior tenerezza il mio caro babbo, sebbene possa dire di non conoscerlo intimamente che da venti giorni. Tu sai che io fui chiusa in convento quando non toccavo ancora i sette anni, allorché la mia povera mamma mi lasciò sola!... Mi dissero che mi davano un'altra famiglia, delle altre madri che mi avrebbero voluto bene... È vero, sì... ma l'amore che ho per mio padre mi fa comprendere che ben diverso sarebbe stato l'affetto della povera madre mia.
Tu non puoi immaginarti quello che io provo dentro di me allorché il mio caro babbo mi dà il buon giorno e mi abbraccia! Nessuno ci abbracciava mai laggiù, tu lo sai, Marianna!... la regola lo proibisce... Eppure non mi pare che ci sia male a sentirsi così amate...
La mia matrigna è un'eccellente donna, perché non si occupa che di Giuditta e di Gigi, e mi lascia correre per le vigne a mio bell'agio. Mio Dio! se mi proibisse di saltellare pei campi come lo proibisce ai suoi figli sotto pretesto di evitare il pericolo di una caduta o di un colpo di sole... sarei molto infelice, non è vero? Ma probabilmente è più buona e più indulgente verso di me, perché sa che non potrò godermi tutti questi divertimenti per molto tempo, e che poi tornerò ad esser chiusa fra quattro mura...
Intanto non pensiamo a quelle brutte cose. Adesso sono allegra, felice, e mi stupisco come tutta gente abbia paura e maledica il coléra... Benedetto coléra che mi fa star qui, in campagna! Se durasse tutto l'anno!
No, io ho torto! Perdonami, Marianna. Chi sa quanta povera gente piange mentre io rido e mi diverto!... Mio Dio! bisogna che io sia ben disgraziata se non devo esser felice che allorquando tutti gli altri soffrono! Non mi dire che son cattiva; vorrei esser soltanto come tutti gli altri, nulla di più, e godere coteste benedizioni che il Signore ha date a tutti: l'aria, la luce, la libertà!
Vedi come la mia lettera si è fatta triste senza che io me ne avvedessi! Non ci badare, Marianna. Salta a pie' pari questo periodo sul tiro una bella croce, così... Ora in compenso ti farò vedere la nostra graziosa casetta.
Tu non sei mai stata a Monte Ilice, poverina! Che idea fu mai quella dei tuoi genitori d'andarti a seppellire in Mascalucia? Un villaggio!... delle case addossate ad altre case. delle vie, delle chiese!... Ne abbiamo visto anche troppe. Bisognava venire qui in campagna, fra i monti, ove per andare all'abitazione più vicina bisogna correre per le vigne, saltar fossati, scavalcar muricciuoli, ove non si ode né rumor di carrozze, né suon di campane, né voci di estranei, di gente indifferente. Questa è campagna! Noi abitiamo una bella casetta posta sul pendio della collina, fra le vigne, al limite del castagneto. Una casetta piccina piccina, sai; ma così ariosa, allegra, ridente. Da tutte le porte, da tutte le finestre si vede la campagna, i monti, gli alberi, il cielo, e non già muri, quei tristi muri anneriti! Sul davanti c'è una piccola spianata e un gruppo di castagni che coprono il tetto con un ombrello di rami e di foglie, fra le quali gli uccelletti cinguettano tutto il santo giorno senza stancarsi mai. Io occupo un amore di cameretta, capace appena del mio letto, un una bella finestra che dà sul castagneto. Giuditta, mia sorella, dorme in una bella camera grande, accanto alla mia, ma io non darei il mio scatolino, come la chiama celiando il babbo, per la sua bella camera; e poi ella ha bisogno di molto spazio per tutte le sue vesti e i suoi cappellini, mentre io, allorché ho piegato la mia tonaca su di una seggiola ai piedi del letto, ho fatto tutto. Ma la sera, quando dalla finestra ascolto lo stormire di tutte quelle fronde, e fra quelle ombre, che assumono forme fantastiche, veggo un raggio di luna agitarsi fra i rami come uno spettro bianco, e ascolto quell'usignolo che gorgheggia lontano lontano, mi si popola la mente di tante fantasie, di tanti sogni, di tante dolcezze, che se non avessi paura, aspetterei volentieri il giorno alla finestra.
Dall'altra parte della spianata c'è una bella capannuccia col tetto di paglia e di giunchi, ove abita la famigliuola del castaldo. Se vedessi la bella capanna, com'è piccina ma pulita! come tutto vi è in ordine e ben tenuto! La culla del bimbo, il pagliericcio, il deschetto! Per quella capannuccia sì che darei il mio stanzino. Mi pare che cotesta famigliuola, riunita in due passi di terreno, debba amarsi dippiù ed essere maggiormente felice; mi pare che tutte quelle affezioni, circoscritte fra quelle strette pareti, debbano essere più intime, più complete; il cuore commosso e quasi sbalordito dal cotidiano spettacolo di codesto orizzonte ch'è grande, debba trovare un gaudio, un conforto nel ripiegarsi in sé stesso, nel rinchiudersi fra le sue affezioni, nel circoscriversi in un piccolo spazio, fra i pochi oggetti che formano la parte più intima di sé stesso, e che debba sentirsi più completo, trovandosi più vicino ad essi.
Che ti scrivo, che ti scrivo mai, Marianna?... Tu riderai di me, e di darai del Sant'Agostino in gonnella. Perdonami, mia cara, ho il cuore così pieno che senza accorgermene cedo al bisogno di comunicarti tutte le nuove emozioni che provo. Nei primi giorni che uscii dal convento e venni qui, ero sbalordita, astratta, trasognata, come trasportata in un mondo nuovo; tutto mi turbava, tutto mi confondeva. Immaginati un cieco nato che per miracolo riacquisti la vista! Ora mi sono assuefatta a tutte coteste nuove impressioni. Ora mi pare di trovarmi il cuore più leggero, l'anima più pura. Parlo con me stessa, mi rispondo, faccio l'esame di coscienza; non quell'esame timido, pauroso, pieno di pentimenti e di rimorsi, quale lo facevamo al convento; ma un esame di contentezze, di felicità, benedicendo il Signore che me le concede, sentendomi sollevare sino a Lui da una lagrima, o col solo fissare gli occhi nella luna e nel firmamento stellato.
Mio Dio! se queste gioie fossero un peccato! se il Signore si sdegnasse di vedermi preferire al convento, al silenzio, alla solitudine, al raccoglimento, la campagna, l'aria libera, la famiglia!... Se fosse qui quel buon vecchio del nostro professore, scioglierebbe il mio dubbio, dissiperebbe il mio turbamento, mi consiglierebbe, mi conforterebbe forse... Allorché mi assalgono questi scrupoli, allorché son tormentata da codeste incertezze, io prego il Signore che m'illumini, che mi consigli, che mi aiuti. Pregalo anche tu per me, Marianna.
Intanto io lo lodo, lo ringrazio, lo benedico, lo prego di farmi morir qui, o di darmi la forza, la vocazione, la rassegnazione, se dovrò profferire i voti solenni e rinunziare per sempre a tutte queste benedizioni, per chiudermi in convento e dedicarmi a Lui, a Lui solo, intieramente. Non sarò degna di tanta grazia; sarò una peccatrice... ma allorché, sul far della notte, veggo la moglie de castaldo, che recita il rosario col suo figliuoletto più grandicello fra le ginocchia, seduta accanto al fuoco che cuoce la minestra di suo marito, dimenando col piede la culla in cui dorme il suo bimbo, mi pare che la preghiera di quella donna, calma, serena, piena di riconoscenza per la felicità prodigatale dal buon Dio, debba salire a Lui assai più pura della mia, che è piena di turbamenti, di ansie, di desiderî che non convengono al mio stato e dai quali non posso difendermi intieramente.
Vedi la lunga lettera che ti ho scritto! Non mi tenere più il broncio adunque, e rispondimi con una letterona più lunga della mia. Parlami di te, dei tuoi genitori, dei tuoi divertimenti e dei tuoi piccoli dispiaceri, come facevamo tutti i giorni, laggiù al convento, nelle ore di ricreazione, tenendoci abbracciate. Vedi, mi pare che io abbia chiacchierato a lungo con te, stringendoti le mani, come allora, e che tu mi abbia ascoltato col tuo solito risolino allegro e maliziosetto sulle labbra. Parlami dunque, parla a quattro bei fogli di carta (bada! che non mi contenterò di meno), essi mi racconteranno tutto quello che tu avrai detto loro per me. Ciarlami un po' di tutto e a lungo. Dimmi quello che vedi, quello che pensi, che te ne fai del tuo tempo, se ti annoi, se ti diverti, se sei contenta, felice come me, se pensi alla tua Maria; dimmi il colore della tua veste, perché già so che hai una veste, tu, come una signorina! Dimmi se hai dei bei fiori nel tuo giardino, se a Mascalucia ci son castagneti come qui, se hai assistito alla vendemmia. Parla dunque, ti ascolto. Non mi fare aspettar tanto a bocca aperta.
Addio, addio, Marianna mia, sorella mia; ti mando cento baci col patto di averli ricambiati.
La tua Maria
19 Settembre
Marianna mia.
Qui non arrivano che cattive notizie, non si vedono che volti spaventati. Il coléra infierisce a Catania. È un terrore, una desolazione generale.
Del resto non fossero questi timori, se non fossero queste angosce, qual vita più beata di quella che si mena qui? Il babbo va a caccia, o mi accompagna nelle lunghe passeggiate, quando potrei aver paura di smarrirmi nel bosco. Il mio fratellino, Gigi, corre, grida, fa chiasso, si arrampica sugli alberi, e vi lascia appeso tutti i giorni qualche brandello del suo vestito, e la mamma... (Marianna, se sapessi come mi vien difficile dare questo dolce nome alla mia matrigna! Mi pare di fare un torto alla memoria della mia povera madre... Ma pure bisogna chiamarla così!) e la mamma a sgridarlo, a dargli dei confetti, dei baci e degli scappellotti, a rammentargli gli abiti, a ripulirlo venti volte al giorno. Ella non fa che agucchiare e accarezzare i suoi figli, beati loro!... e spesso mentre dà un'occhiata alla cucina o alla domestica che prepara il desinare, mi rimprovera che io non son buona a nulla, nemmeno a far la cucina... Pur troppo è vero! ella ha ragione. Non faccio altro che correre pei campi, raccogliere i fiorellini, e ascoltare il canto degli uccelletti... alla mia età! Ho quasi venti anni!... capisci! Ne arrossisco io stessa; ma il mio caro babbo non ha cuore di sgridarmi; egli non sa far altro che accarezzarmi e dire: «Povera piccina! lasciatele godere questi giorni di libertà!».
Ogni volta che penso alla mia povera mamma che dorme laggiù nel Camposanto di Catania, mi vengono le lagrime agli occhi. Ma qui ci penso più spesso, perché mi pare di essere straniera nella casa di mio padre. Nessuno ci ha colpa. Non sono abituati a vedermi, ad avermi fra i piedi: ecco tutto.
La mia matrigna poi, se mi rimprovera che io non son buona a nulla, ne ha le sue buone ragioni; gli è pel mio bene, e il torto è sempre mio. Mia sorella non è molto espansiva, perché non è pazzerella come me; ma mi vuol bene e non si lagna del disagio che io le arreco occupando quel piccol camerino ov'è rincantucciato il mio lettuccio e che altre volte le serviva da guardaroba, mentre adesso tutte le sue scatole e le sue vesti ingombrano la sua camera. Gigi è sempre quel caro fanciullo allegro e chiassone che tu conosci; mi salta al collo venti volte al giorno, e mi consola con un bacio allorché la mamma mi sgrida per ragione dei suoi vestiti laceri. Ma che colpa ci ho io se al convento non mi hanno insegnato a rattoppare i vestiti? Veramente toccherebbe a me. Giuditta è una signorina, e per altro ella è troppo occupata tutto il giorno fra i suoi abiti e le sue acconciature, ed ha ragione di occuparsene tanto, perché le belle vesti, i bei nastri, le stanno così bene che sembrano fatti apposta per lei... E poi ella è ricca della dote di sua madre; il mio babbo, come sai, non è che un modestissimo impiegato. A che dovrebbe pensare ella dunque alla sua età? L'altro ieri, mentre si provava una veste nuova, le domandai il permesso di abbracciarla, tanto era bella! Ella non volle permetterlo, ed a ragione, per non sgualcire la stoffa. Quanto sono sciocca, Marianna! Come se si fosse trattato della mia meschina tonaca di saja che non corre mai il rischio di gualcirsi!
Ah! ma la famiglia è una benedizione del cielo! La sera, quando il babbo chiude le porte, io provo un sentimento ineffabile di contentezza, come se si restringessero i legami che mi uniscono ai miei cari nell'intimità della vita domestica. Invece qual penoso sentimento di tristezza non provavamo tutte noi, povere recluse, te ne rammenti? allorché s'udiva risuonare il mazzo delle chiavi del portinaio, e stridere i chiavistelli! Allora il mio pensiero correva ai poveri carcerati e il mio cuore si stringeva; me ne son confessata cento volte, ne ho fatto cento penitenze, e giammai ho potuto difendermi da coteste idee. La mattina, prima di aprire gli occhi, allorché mi risveglia il cinguettìo degli uccelletti che si disputano le miche di pane che io lascio apposta per loro sul davanzale della finestra, il mio primo pensiero si è la contentezza di trovarmi in mezzo alla mia famiglia, accanto al mio babbo, al mio fratellino, a Giuditta, che mi abbracceranno e mi daranno i buon giorno; che io non avrò uffizî da recitare, né meditazioni da fare, né silenzî da serbare; che io aprirò la mia finestra, appena salterò giù dal letto, onde fare entrare quell'aria imbalsamata, quel raggio di sole, quello stormire di fronde, quel canto di uccelli; che io uscirò sola, quando vorrò, a correre e saltellare ove meglio mi piacerà, che non incontrerò volti austeri, né tonache nere, né corridoi oscuri... Marianna! ti confesso all'orecchio un gran peccataccio!... Se mi facessero una bella vestina color caffè!.. senza crinolina, veh! Oh! questo poi no!... Ma una vestina che non fosse nera, con la quale potessi correre e scavalcare i muricciuoli, che non rammentasse ad ogni momento, come questa brutta tonaca, che laggiù a Catania, quando sarà finito il coléra, mi attende il convento!...
Non ci pensiamo. Sono una scapata, sono una matta!... Perdonami, mia cara Marianna, ho scherzato; ma intanto non ti ho detto ancora che ho un bell'uccelletto, un grazioso passerotto, allegro, vispo, che mi vuol bene, che mi risponde, che vola a prendere l'imbeccata dalle mie mani, e mi pizzica le dita, e si diverte ad arruffarmi i capelli. La sua storia è un po' triste, è vero, dapprincipio: il babbo me lo portò un giorno avvolto nel fazzoletto, e il fazzoletto era macchiato di sangue! poverino! era forse quella la sua prima volata ed un colpo di fucile l'aveva ferito in un'ala! Fortunatamente la ferita non era grave. Che cattivi e barbari divertimenti hanno mai gli uomini! Vedendo quel sangue, udendo quel pigolare... - il poverino si lamentava del gran dolore che doveva provare!... - io piansi con lui ed arrivai sino a dar torto al mio caro babbo. Tutti ridevano di me, persino Gigi. Lavai la ferita del meschinello, ma non sperai che campasse. Invece eccolo lì che saltella e fa il chiasso! Qualche volta il poverino si duole ancora della sua ferita e viene a rannicchiarsi nel mio grembo pigolando e strascinando la sua aluccia, come se volesse narrarmi il suo guaio. Io lo conforto coi baci, l'accarezzo, gli dò delle miche di pane e del miglio, ed egli se ne va tutto vispo a posarsi sul davanzale per volgersi di nuovo verso di me cinguettando, sbattendo le ali e allungando il collo a bocca spalancata.
Ieri l'altro un brutto gattaccio mi fece provare un grande spavento. Il mio Carino, sai si chiama Carino?, era sul tavolo a ruzzare, poiché egli fa mille buffonerie! a sconvolgere e disordinare tutte le carte, cinguettando sempre, e poi si volgeva a guardarmi coi suoi occhietti arditi, il furbo, come se provasse gusto a farmi dispetti, quand'ecco d'un balzo sul tavolino quel gattaccio nero, che allungava lo zampino per adunghiarlo! Io misi un grido, il povero Carino strillò anche lui, e fu assai lesto a rifugiarsi in seno a me. Non so come lo nascondessi fra le mie mani, nel mio grembiule; ma tremavamo tutt'e due. Al mio grido accorsero tutti di casa. Mia matrigna mi rimproverò di averla spaventata per nulla, dicendomi che non sono più nell'età delle fanciullaggini, e che il gatto avrebbe fatto il suo dovere acchiappando il mio Carino; Giuditta rideva, e quel pazzerello di Gigi istigava il gatto a ghermirmi l'uccelletto che mi tenevo in grembo. Quel poverino lo sentivo tremare nelle mie mani dalla gran paura avuta, e il cuore gli batteva forte forte. Mi sarei fatta uccidere piuttosto che abbandonarlo! Da quel giorno non dimentico mai di chiudere l'uscio della mia camera ove lascio il mio Carino. Io l'odio quel gattaccio!
Invece voglio un gran bene al cane del castaldo, un bel can da pagliaio, tutto nero, altro così, che nei primi giorni mi faceva una gran paura coi suoi latrati, ma che adesso mi accarezza dimenando la coda, leccandomi le mani, fregandosi i fianchi alla mia tonaca e dicendomi coi suoi occhi intelligenti che mi ama. Infatti egli è il mio guardiano, mi accompagna nelle mie passeggiate, non mi lascia di un passo, corre innanzi ad esplorare il terreno, e ritorna a gran salti dimenando la coda e abbaiando allegramente. Quando io lo chiamo, egli già sa ch'è l'ora della nostra passeggiata (quest'ora arriva venti volte al giorno) e vorresti vedere che urli, che salti, che carezze!
Ti ho parlato del mio cane, del mio passerotto, di quel brutto gattaccio, e non ti ho ancora detto che abbiamo dei vicini di campagna che vengono a trovarci spesso, e che passiamo quasi tutte le sere a giocare in loro compagnia, e facciamo delle belle passeggiate nell'ora del tramonto. essi abitano una casetta in fondo alla valle, a poca distanza nostra, che si può vedere dalla mia finestra. Sono i signori Valentini; li conosci? Il babbo e la mamma dicono che sono brava gente. Io e l'Annetta, loro figlia, che ha quasi la mia età, siamo amiche; ma non come fra te e me, vedi! Non esserne gelosa; perché io ti amo assai più di lei, e voglio che tu mi ami assai più di tutte le altre tue amiche.
Quando mi scriverai? Mi hai fatto aspettare la tua lettera quattordici lunghissimi giorni! Vedi come io ti rispondo subito e a lungo? Se mi farai aspettare altri quattordici giorni per dirmi che mi vuoi tutto il bene che io ti voglio, che mi rimandi cento e cento baci che ti mando, allora io amerò la mia nuova amica più di te. Pensaci!
P.S.
Dimenticavo di dirti che i signori Valentini, oltre l'Annetta, hanno pure un figlio, un giovanotto ch'è venuto spesso con sua sorella, e che si chiama Antonio; però lo chiamano Nino.
27 Settembre
Marianna, perché non sei qui a passeggiare, a trastullarti, a divertirti con noi? Perché non posso abbracciarti e dirti ad ogni istante: vedi com'è bello questo? vedi com'è piacevole quest'altro?... e mostrarti quanto io son felice, mio Dio! felice come non potrei desiderare dippiù! Che sarebbe poi se tu fossi qui!...
Ieri verso il tramonto abbiamo fatto una passeggiata coi signori Valentini nel bosco dei castagni. Che bel bosco! se tu lo vedessi, Marianna! Un'ombra deliziosa, qualche raggio di sole morente che s'insinua fra le fronde, uno stormire grave e prolungato dei rami più alti, il canto degli uccelli, e poi, di tratto in tratto, silenzio solenne e profondo. Sotto quelle immense volte di rami, fra quelli andirivieni sterminati di viali si avrebbe quasi paura, se la stessa paura non fosse piacevole. Le foglie secche frusciavano sotto i nostri passi; di tratto in tratto qualche uccelletto spaventato, che fuggiva, scuoteva con improvviso stormire le poche fogliuzze che lo nascondevano; Vigilante, il nostro bel cane, correva innanzi festoso, abbaiando dietro i merli spaventati; Annetta, Gigi e Giuditta si davano il braccio e cantarellavano; il signor Nino li seguiva col suo fucile ad armacollo; il resto della comitiva era molto lontano, e ci gridava ad ogni istante che non corressimo tanto perché l'erta del monte è faticosa. Il signor Nino anch'egli ha un bel cane, un bel bracco, dalle orecchie lunghe, e picchiettato tutto di nero: si chiama Alì e ha già stretto amicizia con Vigilante. Giuditta ed Annetta ad ogni passo restavano impigliate per le loro lunghe vesti a qualche sterpo; ma io no, ti assicuro! io corro, saltello, ma non inciampo mai, né le siepi lasciano i segni sulla mia tonaca. Il signor Nino mi veniva appresso, mi raccomandava di badare che non cadessi, temeva per me, poverino!... Se non fosse per la vergogna, quasi quasi lo sfiderei a correre, quel signorino! Giuditta si lamentava ad ogni momento di sentirsi stanca. Che donne son quelle, Marianna? non sanno fare dieci passi senza aver bisogno del braccio di un uomo, e senza lasciare qualche brandello della veste ad ogni cespuglio! Benedetta la mia tonaca! Il signor Nino mi ha offerto venti volte il braccio, come se ne avessi bisogno, io! l'avrà fatto apposta per farmi arrabbiare! Perché dunque non l'ha offerto a mia sorella che si lagnava della salita e che ne aveva bisogno lei? non io!
Quando siamo giunti in cima al monte, che magnifico spettacolo! Il castagneto non arriva sin là, e dalla vetta del monte si può godere la vista di uno sterminato orizzonte. Il sole tramonta da un lato, mentre la luna sorgeva dall'altro: alle due estremità due crepuscoli diversi, le nevi dell'Etna che sembrava di fuoco, qualche nuvoletta trasparente che viaggiava per l'azzurro del firmamento come un fioco di neve, un profumo di tutte le vigorose vegetazioni della montagna, un silenzio solenne, laggiù il mare che s'inargentava ai primi raggi della luna, e sul lido, come una macchietta biancastra, Catania, e la vasta pianura limitata da quella catena di monti azzurri, e solcata da quella striscia lucida e serpeggiante che è il Simeto, e poi, grado grado salendo verso di noi, tutti quei giardini, quelle vigne, quei villaggi che ci mandano da lontano il suono dell'avemaria, la vetta superba dell'Etna che si slancia verso il cielo, e le sue vallate che già sono tutte nere, e le sue nevi che risplendono degli ultimi raggi del sole, e i suoi boschi che fremono, che mormorano che si agitano. Marianna, ci son delle ore in cui vorrei piangere, in cui vorrei stringere le mani a tutti quelli che mi son vicini, in cui non potrei profferire una sola parola, mentre mi si affollano in testa mille pensieri... Guarda!... io non so come non stringessi la mano al signor Nino che mi era accanto!... Son sempre matta!
Credo che tutti in quel momento avran provato quello che io provavo, poiché tutti tacevano. Il signor Nino istesso, ch'è sempre allegro, come tu sai, taceva anche lui!!!
Poi siam discesi correndo, schiamazzando, ridendo, facendo paura agli uccelli (che ne facevano a noi allorché scappavano con istrepito improvviso fra le foglie) e giocando a rimpiattino fra gli alberi, nonostante che i nostri genitori si sfiatassero a gridarci di non correre. Alì e Vigilante prendevano parte a quella festa saltando e abbaiando allegramente. Di tanto in tanto, fra quelle immense ombre, un raggio di luna penetrava fra i rami, strisciava sui tronchi inargentandoli, e disegnava bizzarre figure sulle foglie morte che tappezzano il suolo. Il signor Nino correva anche lui come un fanciullo, come un matto, né più né meno di tutti noi. Due o tre volte l'ho sopravanzato e ne sono andata orgogliosa. Vincere un uomo!... E siccome faceva buio tra gli alberi, ed egli non poteva vedermi arrossire... così non mi vergognavo... e allorché m'ero lasciati di molto addietro tutti gli altri... e anche lui... sostavo ansante, senza poter tirare il fiato, ma tutta giuliva, e non avevo paura di trovarmi sola al buio, perché udivo le loro voci, gli abbaiamenti dei cani... e poi il signor Nino non aveva il suo bravo schioppo ad armacollo?
Uscendo dal bosco fu un'altra festa allorché vedemmo i lumi della nostra casetta. Sai com'è piacevole in campagna, nel silenzio, fra il buio, vedere da lontano quelle finestre rischiarate, quel lume ospitale che ci guida, che ci chiama, che ci fa pensare alle pareti domestiche e a tutte le tranquille contentezze della famiglia?
Non sai che in questi otto giorni siamo diventati intimissimi coi signori Valentini? La brava gente! ci pare che sieno nostri amici da vent'anni. Annetta è una cara ragazza e non ride della mia tonaca e delle mie singolari maniere da educanda; siamo insieme dal mattino alla sera; si passeggia, si chiacchiera, si giuoca, si fa colazione e qualche volta anche si desina assieme. Se ti dicessi che ho imparato a giocare anch'io!... Per carità non dirlo ad anima viva! Però ancora non sono molto brava e perdo quasi sempre; ma il signor Nino ha la bontà di star di continuo a dirigermi, a consigliarmi, e si contenta di non giocare lui. Quando tornerò al convento di dimenticare tutte le quaranta carte.
Il convento! mio Dio!... Ecco la sola nube che offuschi cotesto ridente orizzonte. Ma non ci pensiamo per ora, Marianna mia, siamo allegri e felici; sia poi quel che Dio vuole!
E intanto che noi siamo qui, lontani, dal pericolo, sicuri, tranquilli, e che ci divertiamo, quanta povera gente che piange, che soffre! quante miserie, quante lagrime, quante vittime! Le notizie che ci giungono sin qui, ogni quattro o cinque giorni, sono assai tristi! Dio mio, pietà di tanti tribolati!
Quanti sospetti! quanti terrori! Tu saprai che i nostri contadini credono agli avvelenatori, ai razzi avvelenati, che so io... Meschinelli! sono come me che, quando ho molta paura, veggo i fantasmi! Perciò tutte le notti si veggono per le valli, sui monti, dappertutto, i fuochi, i segnali delle guardie, si odono continuamente delle schioppettate, come se si volesse far paura a dei lupi intelligenti, a delle belve umane!... -Ciò è triste; ma la notte, fra il buio e il silenzio, fra questa commozione generale, è anche spaventevole!
Son triste anch'io, non è vero? e un momento innanzi ero allegra parlandoti dei nostri divertimenti. Mi dici che anche tu ti diverti e che sei in buona compagnia; ti credo, ma giurerei che non varrà certamente la nostra. Mi dici anche che non rientrerai più in convento... beata te!... Ma se dovessi rientrarvi senza di te?... Voglio stare allegra adesso; penserà Iddio al resto!... Il mio Carino è guarito; s'è fatto grandicello ed anche un poco cattivo; è vispo, chiassone, ardito, e gli è venuta una vociaccia! Se lo lasciassi fare, credo che avrebbe l'audacia di tener testa al gatto. Il povero Vigilante s'ebbe un cattivo colpo di bastone dal castaldo, ed è venuto strillando il suo guaio. Io l'ho accarezzato, gli dò sempre qualche boccone ghiotto, e adesso non lascia più la soglia del mio camerino.
Mi pare che non abbia dimenticato di dirti nulla. Scrivimi presto e lungamente. Dimmi che mi vuoi bene, e che vuoi bene anche alla mia Annetta, che te ne vuol molto.
Addio, addio, addio.
1 Ottobre
Se sapessi, Marianna! se sapessi!... Il peccataccio che ho fatto!... Mio Dio! come avrò il coraggio di dirtelo? Non mi sgridare!... a te, a te sola lo confesserò... ma all'orecchio, veh! e sommessamente... Non mi guardare in viso!... Abbracciami e ascolta...
Ho ballato!... intendi? ho ballato!... ma senti... non mi sgridare!... non c'era nessuno... il babbo, Giuditta, Gigi, la mamma, Annetta, i signori Valentini... e il signor Nino... Anzi ho ballato con lui... Ascolta! mi giustificherò... vedrai che non sono stata io... che non fu mia colpa... che mi costrinsero... L'altra sera i signori Valentini portarono il loro armonium; suonò Annetta, poi anche Giuditta; ballarono tutti, Annetta, mia sorella, e un poco anche Gigi. Si dovette disfare il letto di mia sorella per formare la sala da ballo. Dopo che Giuditta ebbe finito di ballare, il signor Nino venne ad invitarmi, io mi sentivo ardere il viso e avrei voluto trovarmi cento piedi sotterra. Balbettavo, non sapevo che dire. Rifiutai, rifiutai venti volte, te lo giuro; tutti ridevano e battevano le mani; il babbo venne a prendermi per la mano, ridendo anche lui mi accarezzò, mi disse che po' poi non c'era il gran male a ballare anch'io. Tentai inutilmente far comprendere che non sapevo ballare affatto, che non mi avevano insegnato neanche cotesto; il signor Nino s'impegnò di dirigermi lui; non ci vedevo più provavo le vertigini sentivo un ronzìo alle orecchie, e le gambe mi tremavano; mi lasciai condurre, mi lasciai trascinare senza sapere io stessa quello che facessero di me. Quanto soffersi, Marianna!... Eppure... allorché egli mi prese per la mano... allorché mi passò il braccio attorno alla vita... mi sembrò che la sua mano ardesse, che mi bruciasse il sangue nelle vene, che mi facesse scorrere un'onda di gelo sino al cuore!... ma nello stesso tempo parvemi che mi confortasse. Il cuore mi si spezzava sentendo battere quell'altro cuore contro il mio! Tutti avranno riso di me! Ridi anche tu. Si, anch'io adesso ne rido. Chi è delle fanciulle della nostra età che non abbia ballato almeno venti volte? Chi sa se in principio provarono tutte quello che io provai?... Ma in seguito ti confesso che quella musica, quei volti allegri, le parole che egli mi sussurrava all'orecchio per rincorarmi, la sua mano che stringeva la mia, fecero quasi svanire il mio turbamento, anche direi la vergogna... Povera Marianna! non mi rimproverare!... Quasi quasi mi parve d'esser felice...
Marianna mia! perdonami! non lo farò più! Del resto spero che mi lasceranno tranquilla; avranno riso abbastanza della mia tonaca e della mia goffaggine... anche lui... il signor Nino... Ma no! son sicura che egli non volle farmi ballare per ridere di me... ma la sua intenzione era di farmi piacere... e difatti è stato troppo buono per me, per una povera educanda che non sapeva muoversi, che inciampava ad ogni passo, che soffriva di capogiro... egli che balla così bene! Se tu l'avessi visto ballare con Giuditta!... lei sì che sa ballare, lei!
Dopo si fece un po' di musica. Annetta e Giuditta cantarono alcune belle ariette da teatro. Vollero in seguito che cantassi anch'io ad ogni costo!... Dimmi tu che cosa avrei potuto cantare all'infuori del Salve Regina? Ebbene, dissero che si contentavano anche del Salve Regina! Volevano prendersi spasso di me certamente, il mio babbo pel primo che mi costrinse a cantare! Nel coro, tu lo sai bene, cantavamo quasi al buio, dietro le gelosie, col velo sul viso, infine fra persone intime; ma cantare lì, allo scoperto, fra tanta gente!... c'era anche il signor Nino!... Pure dovetti cantare! non le parole, s'intende, ma la sola musica. La voce mi tremava, mi mancava il fiato; ebbero però la bontà di essere indulgentissimi, di non ridere, ed anzi di applaudirmi. Pare che la sia davvero una bella musica, quella del Salve Regina!... Ho visto il signor Nino così commosso!... e guardarmi con certi occhi!... lui ch'è sempre allegro e motteggevole!
Ti ho scritto tutto quello che faccio, tutto quello che penso, tutti i miei divertimenti, tutti i miei peccatacci, a costo anche di buscarmi da te una ramanzina... Io non avrei osato confessarmene con quel buon vecchio del nostro cappellano... ma se non ti narrassi tutto, sorella mia, se non mi sfogassi con te raccontandoti tutte queste cose, mi pare che esse mi opprimerebbero. Ho bisogno di parlartene a lungo, di rammentarne tutti i particolari, di pensarci sopra, e di parlarne a me stessa, di vederle scritte sopra la carta, di sognarle... Ci son dei momenti in cui questa folla di pensieri fermenta, e mi riempie la testa di vertigini, m'inebbria, mi stordisce. Son folle, tutte queste nuove sensazioni saranno troppo violente per me, abituata alla pace ed al raccoglimento claustrale. Io son felice di poterne parlare almeno con te, di poter riversare nel tuo cuore quella parte del mio che trabocca.
Scrivimi, scrivimi subito. Non far passare tanto tempo prima di rispondermi. Confortami, discorri colla tua povera amica, ch'è inquieta, sconcertata da tutti cotesti rumori, da tutte coteste novità, da tutte coteste nuove impressioni, e trema come un uccelletto, spaventato persino dai curiosi che stanno ad osservarlo, i quali non avranno certamente intenzione di fargli del male, ma gliene fanno col solo stargli d'attorno.
Vorrei piangere, vorrei ridere, vorrei cantare, vorrei stare allegra. Ho bisogno di una tua lettera. Ho bisogno di parlare con te, intendi? Abbracciami, Marianna mia... Se potessi piangere, e nasconderti il viso in seno!...
10 Ottobre
Giovedì fu una bella giornata! Era la festa del babbo! Non occorre dirti che sin dallo spuntar del giorno tutta la nostra famigliuola in moto, e la nostra casetta riboccante di gioia e di allegria. La mamma aveva già fatto tirare il collo a un tacchino, e sorvegliava ai preparativi del desinare. Giuditta avea regalato al babbo un bel berretto di seta, che aveva ricamato di nascosto per fargliene una sorpresa; io non potei far altro che recargli un bel mazzo di fiori di campo, che avevo raccolti all'alba ed erano ancora umidi di rugiada. Era un povero mazzolino il mio; ma il buon padre gradì il mio regalo quanto quello di mia sorella e ci abbracciò entrambe colle lagrime agli occhi. I nostri amici vennero a trovarci fin dallo spuntare del giorno, facendosi precedere da grida festose, da schioppettate tirate in aria, e dagli abbaiamenti di Alì. Che festa! I signori Valentini recavano anch'essi dei bei mazzi, ma di veri fiori da giardino, che avevano fatto venire apposta da Viagrande. Il mio povero mazzolino sembrava tutto vergognoso accanto a quei fiori superbi. Ci regalarono anche un bel lepre ucciso il giorno innanzi... Ma il signor Valentini non va mai a caccia... bensì suo figlio... La mamma gradì più il lepre che i fiori... Per parte mia ti confesso che da qualche
giorno son quasi riconciliata con i cacciatori... sarà effetto di abitudine... Eppoi che cosa possiamo capirci noi altre in simili divertimenti ai quali gli uomini prendono tanto gusto? Il babbo volle che i nostri amici rimanessero a pranzo con noi. Fu una bella giornata! Si cantò, si rise, si stette molto allegri, si ballò anche... io no, sai!
Dopo il pranzo la solita passeggiata. La sera era bellissima; ma, non so perché, io non fui così gaia, così contenta com'erano tutti, e come fui l'altra volta. Mi piaceva udire il lieve fruscìo della foglia che cadeva, lo stormire degli alberi, il canto lontano dell'assiuolo, mi piaceva ad aver paura dove l'ombra era più oscura, e tarmi sola in disparte, poiché di tratto in tratto mi si velavano gli occhi di lagrime.
Qual mistero c'è dentro di noi, Marianna? Avrei dovuto essere così allegra in quel giorno in cui tutti lo erano! Non saprei spiegare a me stessa questa stranezza. Sarà forse un cervellino strambo il mio, cui meglio conviensi la quiete del chiostro, e che qui trovasi fuori di posto, agitato, inquieto, ed anche un poco pazzerello.
Addio. Ti scriverò quanto prima. Questa lettera è breve, ed anche asciutta, mentre ti dovrei una bella lettera lunga lunga che ti narrasse cento altre cose, tutte le sciocchezze che mi vengono in mente, tutto quello di cui non posso chiacchierare con te a viva voce. Ma che vuoi?... oggi non mi sento in lena. Sono stanca, svogliata, e non ho le idee ben chiare. A domani dunque.
23 Ottobre
Mi rimproveri ch'io abbia lasciato senza risposta la tua lettera, ed hai ragione, Marianna mia; me ne ero già rimproverata io stessa. Non so quello che m'abbia, non so... Il più piccolo lavoro, la menoma occupazione mi affatica... Sgridami... Sono un'infingarda... Vorrei stare tutto il giorno seduta all'ombra dei castagni; vorrei passare le notti a fissare gli occhi nel firmamento. Tutto quello che più mi allettava mi è venuto a noia. Non voglio più passeggiare nel castagneto, non voglio più cantare, non posso più ridere, tutto m'infastidisce. La tua povera Maria è assai triste! Non so io stessa il perché. Sarà forse il Signore che avrà voluto farmi provare quanto fugaci siano i piaceri e le gioie che non sono nella vita del chiostro. Oh, mio Dio! ci son dei momenti in cui quasi ho paura di me stessa... perché anche la mia preghiera è distratta!... Dio mio! perdonatemi! confortatemi! Dio mio, sorreggetemi!
Il mio Carino è diventato quasi selvatico perché da molti giorni non mi trastullo più con lui. Mi fugge! Sono diventata tanto cattiva adunque? Vigilante non mi fa più le sue solite carezze, perché non gliele ricambio, e si avvede che mi infastidiscono.
Se fossi malata, Marianna? Ti confesso all'orecchio che quasi quasi vorrei esser malata, perché allora tutta cotesta noia, tutta cotesta stanchezza dell'anima avrebbe un motivo e non mi spaventerebbe.
Tu però che sei sana, che sei allegra, che sei felice, scrivimi, scrivimi spesso. Amami cento volte dippiù perché adesso ho maggior bisogno che tu mi voglia bene, perché io ti voglio bene assai dippiù, e perché l'unico dolce sentimento che mi sia rimasto è una gran tenerezza pei miei cari, per tutti quelli che conosco; figurati poi per te!
2 Novembre
Marianna, son convinta che a noi, poveri cuori deboli e timidi, tutto cotesto tumulto del mondo, tutte coteste sensazioni potenti, tutti cotesti piaceri facciano un male immenso. Siamo degli umili fiorellini avvezzi alla dolce tutela della stufa, che l'aria libera uccide.
Ti rammenti come io ti scrivessi di essere allegra, felice, due mesi or sono? Come ogni nuova emozione fosse un tesoro pel mio cuore avido di contentezza? Come ringraziassi il mio buon Dio di tutte quelle sensazioni piacevoli a cui si schiudeva l'anima mia benedicendolo?... È vero, Marianna! Purtroppo è vero quello che ci dicevano sempre le monache, e che il Padre Anselmo ripeteva dal pulpito; le vere gioie tranquille, serene, durevoli, son quelle del chiostro. Io non saprei spiegartene la ragione, ma quelle del mondo non son sempre le stesse. Io l'ho provato... io che mi trovo così cangiata! Tutto mi stanca, mi pesa, mi dà noia... tutto mi è argomento d'inquietudine, di turbamento... ed anche di sgomento... Lo stesso non saper trovare una ragione agli impeti improvvisi di allegria folle e quasi delirante, ed alle repentine tristezze che mi assalgono, mi spaventa. Mi sento infelice in mezzo a tutti cotesti doni del Creatore che benedissi altra volta...
Vorrei ritornare fra quelle buone pareti del convento. Vorrei inginocchiarmi in quel coro; vorrei abbracciare i piedi di quel crocifisso; vorrei baciarti, e nasconderti il viso in seno, e sfogarmi delle lagrime che mi si aggruppano in cuore.
Non mi deridere, Marianna; compiangimi, piuttosto; compiangimi, ché son molto triste, e non so spiegarmi la mia tristezza, e non so trovarne la causa, e sono forse cattiva e ingrata verso il buon Dio che mi ha colmata di tante benedizioni, ingrata verso il mio caro babbo che si sforza di dissipare la mia tristezza con mille carezze, ingrata verso la mia famiglia, verso i miei amici...
Non posso più scriverti. Vorrei piangere. Ho passato quasi tutta la notte alla finestra, fissando gli occhi nel buio profondo che mi sembrava pieno di larve, ascoltando l'uggiolare lontano dei cani, il ronzìo degli insetti notturni... e non ho avuto paura!...
Se potessi abbracciarti!... se potessi piangere!... Scrivimi almeno tu!... Scrivimi! Non ti dico altro.
10 Novembre
Mia cara Marianna, tu sei inquieta per me, per lo stato dell'anima mia; mi fai mille domande che non comprendo, che m'imbarazzano, alle quali non saprei rispondere; mi chiedi mille spiegazioni che non saprei dare a me stessa. Se tu fossi qui, se ci parlassimo all'orecchio, abbracciate, sotto gli alberi, ove l'ombrìa è più densa, tu che sei già una signorina, tu che non anderai più in convento, che conosci il mondo, tu forse sapresti trovarci il bandolo! tu forse sapresti rispondere alle mie domande, sciogliere i miei dubbi, e mi conforteresti, e mi tranquilleresti. Ma che posso dirti io?...
Le tue stesse interrogazioni m'inquietano, mi turbano... Perché mi domandi la ragione del non averti più parlato dei signori Valentini nelle mie ultime lettere che sono sì meste, mentre te ne parlavo tanto nelle mie prime ch'erano così allegre? Perché hai osservato che mentre il nome del signor Nino è ricordato venti volte nelle mie prime, sembra poi evitato con molto studio nelle ultime? Come l'hai osservato? Io stessa non me n'ero accorta... Dio mio! non saprei nemmeno dirtene il perché! Ma tu hai ragione e mi hai fatto scorgere che anche adesso c'è voluto uno sforzo per scrivere quel nome... Ti sarai anche accorta che la mia mano ha tremato... E se mi vedessi in viso!
Marianna! Marianna mia!...
Ora ti scriverò tutto, vedi!... Ti metterò il mio cuore fra le mani; tu l'interrogherai, l'analizzerai meglio di me, e come io non saprei... Tu mi dirai che cosa devo fare per vincere cotesta malattia che mi travaglia, e per tornare ad essere gaia, spensierata e felice... Tu mi aprirai le braccia...
Non so quello che si agita dentro di me; ma dev'essere qualche cosa di male, perché io abbia esitato a confidartelo, perché io mi trovi, direi, come colpevole, perché io sia posseduta da una vergogna, da un'inquietudine, da un timore inesplicabile, come se avessi un secreto da nascondere a tutti, e che tutti tenessero gli occhi fissi su di me per scoprirlo.
Qual è cotesto secreto? Mio Dio! io stessa non saprei dirlo... Ti narrerò tutto! tutto! Se tu potrai indovinarlo me lo additerai, ed io ti prometto di vincerlo, s'è un male od una tentazione; ti prometto di esser buona, di pregar Dio perché mi dia forza e m'illumini, e mi aiuti...
Ho analizzato tutta me stessa per vedere dove sia questo male, da che provenga questo turbamento; ho passato in rassegna tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, fin le mie occupazioni, le persone con cui parlo, gli oggetti che veggo... Non trovai nulla, tranne che... Ma tu mi crederai matta, e riderai di me.
Ti ho scritto altre volte che noi ci siamo fatti intimissimi coi signori Valentini. Annetta è per me un'altra Marianna... Ma tu mi hai fatto pensare che quel suo fratello mi fa un certo effetto... È vero: direi quasi che mi fa paura...
No, non son cattiva, Marianna! Non mi condannare! È una stravaganza, una follia certamente. M'avveggo che ho torto e cerco di vincere me stessa... perché colui è un buonissimo giovane, ed anche pieno di attenzioni per me... Ma io non saprei spiegarti l'impressione che egli produce in me... Non è antipatia, non è avversione... eppure lo temo... eppure ogni volta che lo incontro arrossisco, impallidisco, tremo, e vorrei fuggirmene.
Ma poi egli mi parla, lo ascolto, rimango a lui vicina... non so perché... mi pare che non potrei staccarmene... e penso al Padre Anselmo, allorché ci parlava dal pulpito del fascino dello spirito del male, ed ho paura...
Dio mio! Non ti dico già che sia lo stesso... È un paragone. Vorrei poterti spiegare l'effetto che egli mi fa...
Eppure egli è cortesissimo con tutti, ed anche con me... ed io non son cattiva, ti giuro!... Io gli son grata delle sue delicate premure...
Uno degli scorsi giorni, dopo il famoso ballo, egli mi disse, in un momento in cui eravamo solo: «Io vi ringrazio, signorina». «Di che?» «Di avermi fatto il favore di ballare con me. Se sapeste com'ero felice!» E diceva questo in certo modo che io mi sentiva tutta turbata. Dio mio! come sono esagerati gli uomini nei loro complimenti!... Ma non so perché egli mi abbia detto questo sottovoce... e mi parve anche di accorgermi ch'egli abbia arrossito... e forse per questo anch'io mi feci rossa... e non seppi rispondergli nulla...
Vedi a qual delicatezza egli arriva per farmi piacere! Un'altra volta mi disse: «Come vi sta bene cotesta tonaca!». Mi ha detto questo!... La mia brutta tonaca nera!... Non saprei spiegartene la ragione... ma mi parve che ne provassi un gran piacere; arrossivo, balbettavo e non sapevo che farmi.
Tu mi dirai che son matta, e avrai ragione, perché non sono certamente le sue cortesie che possono sconvolgermi così tutta quanta.
Perché adunque allorché ascolto la sua voce mi confondo? Perché quando incontro il suo sguardo fisso su di me mi sento a un tratto una vampa al viso e come un brivido al cuore?
Senti, Marianna; io credo di aver trovato la ragione di tutto questo. In convento ci hanno abituate a farci tale idea degli uomini in generale e dei giovanotti in particolare, che non possiamo incontrarne uno senza sentirci tutte sossopra. Perché dunque Giuditta, mia sorella, che pure è più giovane di me, non prova mai il menomo imbarazzo discorrendo con lui? Perché anzi scherza con lui, e ride, e gli parla a lungo con franchezza, senza arrossire, mentre se io dovessi fare altrettanto mi parrebbe di morire?... Nullameno... Dio mel perdoni... mi pare che per questa ragione talune volte io provi per mia sorella un sentimento che somiglia all'invidia...
Oh! Dio mio! Chiamatemi a voi, nel vostro convento, fra la calma, il silenzio, il raccoglimento; calmate la mia mente, rischiarate la mia ragione!
16 Novembre
Lunedì l'incontrai nel castagneto. Per fortuna Gigi mi accompagnava. Egli aveva il suo schioppo ad armacollo e cantarellava da lontano prima che si fosse accorto di noi. Tu non sai che dolce voce egli abbia! Io lo riconobbi subito: mi sembrava che il cuore mi scappasse dal petto, e avrei voluto allontanarmi, fuggirmene, per quel solito sciocchissimo turbamento... Il suo cane, Alì, ci vide pel primo, e ci corse incontro latrando e facendoci festa. Bisognava rimaner lì, non è vero?... malgrado che mi fossi fatta di brace, malgrado che tremassi tutta... Egli si sarà accorto del mio turbamento. Si avvicinò e mi stese la mano; dovetti dargli la mia, perché qui si usa stringere la mano anche agli uomini, e non mi par bene... poiché egli dovette accorgersi che la mia povera mano tremava...
Per tornare a casa si doveva attraversare la parte più fitta del castagneto, e sul limite, ch'è assai roccioso, c'erano molti sterpi e spine. Egli volle accompagnarmi e darmi il braccio. Tremavo talmente ch'egli mi disse: «Appoggiatevi francamente, signorina; voi inciampate ad ogni passo». Ed era vero. Si fece un bel tratto di strada in silenzio, e camminando io spingevo apposta col piede le foglie secche che coprivano il suolo, per nascondergli il battito del mio cuore. Egli avrà avuto pietà del mio imbarazzo, poiché tentò rompere quel silenzio dicendomi: «Che bella giornata! che bella passeggiata abbiamo fatto!» e sospirava... Anzi Gigi si lagnò che io gli camminassi sui piedi... Poi ci mettemmo a sedere su di un muricciuolo accanto alla vigna, e lui mi si pose al fianco. Io non vedevo che il calcio del suo schioppo che disegnava sulle zolle certe bizzarre figure. Alì venne a posare la sua grossa testa sui miei ginocchi sorridendomi con quei suoi begli occhi pieni di vita; io lo accarezzavo ed esso mi ringraziava dimenando la coda. Il suo padrone mi disse: «Vedete come vi vuol bene Alì? Lo amate voi?». Non so perché quell'innocentissima domanda mi commosse tutta, e mi parve d'amare immensamente quel povero Alì... E accarezzò anch'egli il suo cane... e allora le nostre mani s'incontrarono, e sentii che la mia tremava. Il mio silenzio istesso m'imbarazza. Cercavo una rispostane non seppi balbettare che: «Come è bello il vostro cane, signore!...»
Egli non disse più nulla e sospirò. Perché sospirava? Sarà anch'egli infelice, poverino! Infatti da qualche giorno m'è parso più malinconico... ed in quel momento che egli sospirava provavo per lui una gran tenerezza, e non più il solito sgomento, bensì un sentimento tanto amichevole che avrei desiderato essere un uomo come lui, un suo amico, un fratello, per gettargli le braccia al collo e chiedergli che cosa lo affliggesse così, per confortarlo o per dividere almeno con lui le sue pene.
Oh! sì! son peccatacci grossi!... e chi sa quanto dovrò soffrire nel farne la confessione! Poi ne ho sulla coscienza un altro più grosso ancora... una viva curiosità... di conoscere che cosa lo rattristasse in quel modo... Noi altre donne siamo tanto curiose!... Ma capisci benissimo che non osai domandarglielo.
D'allora non lo vidi più che la sera, insieme ai suoi. Non ardisco più uscir sola. Agucchio, agucchio alla mia finestrella, e tutti i giorni allorché odo la sua voce o il fischio con cui chiama il suo cane, laggiù nel bosco, allorché mi sembra vedere un'ombra passare rapidamente fra i gruppi lontani degli alberi, il cuore mi batte come quando eravamo rimasti in silenzio, l'una accanto all'altro, colle mani posate sulla testa di quel bel cane.
Tutte le volte che l'incontro provo lo stesso turbamento, ed è perciò che evito d'incontrarlo. Ma accade delle volte che non posso sfuggirlo, capisci!... che devo dissimulare il mio soffrir e restar lì. Quand'egli mi guarda, il cuore mi balza nel petto, e vorrei morire per nascondere il mio rossore... Mi pare che tutti gli occhi sieno fissi su di me a domandarmi perché arrossisco... ed io, Dio mio!... non saprei dirlo... non lo so! Pure appena posso approfittare del primo pretesto vado a rifugiarmi nella mia cameretta, a nascondere fra i guanciali il viso infuocato, e piangere... non so... ma mi pare che il pianto mi faccia bene e mi alleggerisca di un gran peso!
Frattanto ieri l'altro, mentre mi asciugavo gli occhi, vidi un'ombra alla finestra. Era lui! che appoggiava i gomiti al davanzale e si teneva il volto fra le mani... Ti lascio immaginare come rimanessi! Anche lui era assai turbato. Volle sorridere e mi parve che piangesse, tanto quel sorriso era triste. Poscia balbettò: «Perché ci fuggite, signorina?». Avrei desiderato che il suolo si fosse aperto ad inghiottirmi. Per fortuna sopraggiunse mia sorella. mi fu d'uopo uno sforzo miracoloso per calmarmi o piuttosto per imporre al mio viso di mentire, e andai a raggiungere la comitiva che si sollazzava sulla spianata. Giuditta era accanto a lui, gli parlava, rideva, era tranquilla, non tremava... lei!
Oh! il convento! il convento! Ecco quello che mi abbisogna, che è fatto per me. Al di fuori non c'è che turbamento e sofferenze.
Vedi... mi crederanno cattiva lui pel primo! Dio che mi legge in cuore sa che io non sono tale, che io non ci ho colpa se la mia timidità, le mie abitudini tanto diverse dalle loro mi fanno sembrar cattiva! Ma chi mi crederà?... Ieri mentre tutti rientravano in casa, perché il fresco della sera era divenuto frizzante, egli mi si accostò, triste, pallido, mi prese la mano, tremavo talmente che non seppi ritirarla, ero sbalordita... egli mi disse colla sua voce più dolce: «Che vi ho mai fatto, signorina? Perché mi fuggite?...».
Mio Dio! Mio Dio! Avrei voluto buttarmi ai suoi piedi, domandargli perdono, dirgli che s'ingannava, che non era colpa mia... Non so che cosa dissi, non so che cosa balbettai. Sopraggiunse Annetta, mi buttai fra le sue braccia, e mi sfogai in pianto.
Marianna mia, cerca un conforto per me, aiutami!... Anche tu mi abbandoni! Son sola, sono triste, sono infelice!... Prega Iddio che mi faccia presto ritornare alla mia tranquilla e modesta esistenza, e che nel silenzio di quei corridoi si estingua il soffio tempestoso che viene dal mondo a turbare la sbigottita anima mia.
Ti ho scritto cogli occhi velati di lagrime; non so nemmeno quello che ho scritto. Perdonami ed amami, ché ho molto bisogno di essere amata.
17 Novembre
L'altra sera, dopo ch'egli mi disse quelle parole, allorché entrai nella stanza dove stavano radunati i miei parenti coi signori Valentini ero così turbata che tutti se ne avvidero. Mia matrigna fece una scena; mi rimproverò che io sono una ragazza male educata, capricciosa, che mi abbandono a degli impeti di gioia e degli accessi di malinconia ingiustificabili. Mio padre tentò difendermi sostenendo ch'io fossi indisposta.
Tutti gli altri tacevano. Quel supplizio durò quasi mezz'ora. Allorché potei chiudermi nel mio stanzino io ringraziai il Signore e lo pregai fervidamente di chiamarmi a sé.
Passai una cattivissima notte senza nemmeno chiudere occhio. Ho interrogato il mio cuore, ed ho paura.
Marianna mia, se non temessi di far peccato e di addolorare mio padre, Giuditta, mio fratello, te... e tutti quelli che mi vogliono bene... io vorrei morire di coléra.
Addio.

 

 

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.39

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