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De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Tigre reale

Di: Giovanni Verga

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PARTE TERZA

 

X


Erano passate due settimane; la primavera era alquanto inoltrata, e la signora Erminia, cui rifioriva nuovamente la salute sulle guance, cominciava a ricevere e ad uscire in carrozza nelle ore più calde del giorno; ella era felicissima, si baloccava da mane a sera col suo bimbo, anzi erano in due a baloccarsi, sebbene Giorgio credesse farlo per compiacenza e ci mettesse una goffa serietà, ed Erminia pretendeva che già il bambino conoscesse il babbo alla voce ed al riso. La mamma Ruscaglia era sempre per casa, contenta come una pasqua del bel maschietto che veniva in linea più o meno retta da lei, e un mattino entrò con un viso misterioso a dire alla figliuola: «Indovina chi è arrivato? tuo cugino Carlo, in permesso per due mesi. Se vedessi che bel giovanotto, e come gli va bene la montura. È stato a Lissa, povero ragazzo, è stato di quelli del Re d'Italia, e fu pescato dopo quattordici ore ch'era in mare! Insomma, cose da far drizzare i capelli sul capo! Sentirai quando ti racconterà; ora viene dalle Indie, dall'America, che so io; insomma ha girato il mondo, e con tutto ciò non m'ha fatto suggezione; m'è parso di vederlo tal quale è partito pel collegio, e l'ho baciato proprio come un ragazzo. M'ha domandato di te, e m'ha detto che verrà oggi stesso.»

La Ferlita era uscito, e la signora Erminia era sola, cucendo dei nastrini su di una cuffietta del suo bambino. Ascoltava la mamma con tanto d'occhi aperti, e senza sapere ella stessa il perché non poté dire una sola parola, si fece bianca, e posò le mani e la cuffietta sulle ginocchia. La signora Ruscaglia chiacchierava sempre; Erminia pensava vagamente che infine era naturale che Carlo tornasse tosto o tardi, che ella l'aveva sempre preveduto, e che solo il sentirsi annunziare così all'improvviso il suo arrivo le cagionava quella sorpresa. Sua madre dopo aver ciarlato ancora una mezz'ora se ne andò. Erminia rimase un po' turbata dalla visita che aspettava; avrebbe desiderato quasi che non avvenisse, o che almeno ritardase di qualche giorno; sofffriva in anticipazione l'imbarazzo del primo trovarsi insieme col cugino, e delle prime parole; non sapeva se avrebbe dovuto dargli ancora del tu; avrebbe e non avrebbe voluto che suo marito si fosse trovato presente a quell'incontro. Finalmente si udì la famosa scampanellata ed il famoso passo. Carlo era un bel giovinotto, assai bruno, anche per un siciliano, ma di fisionomia simpatica ed aperta; ei le s'avvicinò così rapidamente, le prese le due mani e le scosse a più riprese con tanta cordialità, con tanta franchezza, che l'imbarazzo della cugina non ebbe tempo di manifestarsi, e svanì istantaneamente. Carlo sedette accanto a lei su di una sedia bassa, abbordò da buon marino la spinosa difficoltà del tu, e si misero a discorrere come se la loro conversazione fosse stata interrotta soltanto dal giorno innanzi. Ella respirava liberamente e gli sorrideva quasi per ringraziarlo del gran peso che le toglieva dal petto. «Sai,» le diceva il cugino; «mi facevi un po' soggezione prima di rivederti; adesso sei una matrona, hai dei figli! È bello il tuo bambino? Se non fosse stata la zia avrei rimandata la mia visita a domani, come un poltrone che piglia tempo. Appena t'ho vista m'è sembrato che ti avessi lasciata ieri, in quella piccola anticamera gialla, ti rammenti? e ti ho dato subito del tu come allora, perché ti ho trovata sempre la stessa... cioè no, adesso ti sei fatta più bella. E il tuo bambino, me lo fai vedere?»

«Sì, anzi, desinerai con noi; ti presenterò a mio marito.»

«Lasciamolo là il marito, è sempre una bestia antipatica. Ti pare che potrei darti del tu se egli fosse presente? e che saresti per me la stessa cugina d'allora? Quel signore che non mi conosce mi farebbe gli occhiacci, e francamente io lo troverei brutto perché mi ha rubato la mia Erminia; ché noi dovevamo essere marito e moglie, non è vero? Già dico così per ridere; eravamo proprio ragazzi! E abbiamo fatto benissimo a fare quello che abbiamo fatto tutt'e due; è passato tanto tempo! Tu eri una ricca signorina, ed io non avevo in prospettiva che i galloni di tenente, magri galloni, cugina mia! e nella mia carriera bisogna scacciare come il diavolo la tentazione del matrimonio. Se sapessi che bella e avventurosa vita, cara Erminia! e su quanti luoghi del mondo tuo cugino si è rammentato di te! Ti racconterò poi tutto quel che ho visto, qualche giorno... ne ho visto delle belle e delle brutte; ma sai, quando si hanno i primi galloni alle maniche anche le cose brutte sembrano belle. Li racconterò a te e a tuo marito, giacché infine mi presenterai a tuo marito; sarebbe strano che non mi presentassi a tuo marito. E tu come stai? sei contenta? sei felice? Adesso, vedi, non posso adattarmi a chiamarti con quell'altro nome... madama La Ferlita... No!»

«Ora ti farò vedere il mio Giannino», disse Erminia suonando il campanello.

«C'è tempo, perché starò qui due mesi, e verrò a trovarti tutti i giorni. Me lo permetti?»

«Anzi!» La balia entrava col bambino. «Che te ne sembra? Non è bello come un amore?» Domandò Erminia appena la nutrice fu uscita.

«Somiglia a suo padre.»

«Ma se non lo conosci!»

«Allora non somiglia né a te né a lui.»

«Il poverino non sta bene da due giorni! è un po' pallido, non ti sembra?»

«Come vuoi che sia bello o no a quell'età? Tuo marito è un bell'uomo?»

«Lo vedrai.»

«Gli vuoi bene? Già, guarda che sciocco! come si fanno queste domande? È geloso?»

«Niente affatto.»

«Manco male. Ma sai che col tuo bamboccio in grembo mi fai un effetto singolare!»

«Signor tenente, lei è pregato di non chiamare bamboccio il mio Giannino.»

«Scusami! Cosa vuoi? non so abituarmi all'idea di vederti mamma e La Ferlita. Se tu avessi avuto quindici o venti anni di meno, o se io fossi stato contrammiraglio!... Ti rammenti di quel tavolinetto presso il quale tu solevi ricamare? Infine quel che è stato è stato, e non gliene voglio a cotesto signor La Ferlita, a patto che ti renda felice. Non ti dirò che quando la zia mi ha scritto del tuo matrimonio, non m'abbia sentito qualcosa qui. Già, sai come siamo noialtri giovanotti della marina! un po' del collegio c'è sempre a bordo, e i lunghi quarti passati a guardare le stelle danno delle grandi malinconie. Non ti dico che tutti gli ufficiali si somiglino... quelli di cavalleria per esempio! altro che fanciulli! Se tu li avessi sentiti al Caffè d'Europa o alla Concordia! Se io fossi in cavalleria forse l'avrei presa per un altro verso, e adesso invece di avermela con tuo marito cercherei di farti la corte.»

«Carlo!...»

«O perché diventi rossa? Vedi che non te la faccio la corte, e che preferisco essere il tuo buon cugino di una volta, meno i castelli in aria. E poi, starò qui così poco che non abbiamo il tempo d'andare in collera.» - Erminia gli stese la mano con un sorriso, mormorando fra le labbra «Matto!» ma il rossore tardò alquanto a dileguarsi dalle sue guance.

In questo momento entrò un signore biondo, senza farsi annunziare. «Mio cugino Carlo», disse Erminia. «Mio marito.»

Giorgio accolse il cugino a braccia aperte e lo invitò a desinare. Carlo si scusò col pretesto di un pranzo di amici. Parlarono di viaggi e di cose diverse, e quindi La Ferlita li lasciò soli.

«Tuo marito non mi piace», disse il cugino accomiatandosi.

«Cosa gli trovi?»

«Nulla, è un bellissimo giovine, ma non mi piace.»

«Insomma a te non piace né mio marito né il mio Giannino. Cosa ti piace dunque?»

«Ma chi ti ha detto che non mi piaccia il tuo Giannino? e anche tuo marito... Anzi, se non fosse tuo marito mi sarebbe simpatico. Vuoi che te lo dica? mentre egli era qui sembrava che tu fossi a cento miglia... Non ti sei accorta che bordeggiavam sempre per non approdare al tu... Mi secca, ecco!»

Rimasta sola, Erminia stette alquanto pensierosa, col bimbo sulle ginocchia. Da lì a poco Giannino si mise a sgambettare e ad agitare le piccole braccia. Ella si scosse come se il suo pensiero, partito dall'anticameretta gialla che il cugino aveale rammentato, ritornasse ad un tratto da un lungo viaggio fatto nelle lontane regioni di cui Carlo avea parlato con suo marito, e tutta rossa in viso si chinò sul suo bambino, a ridere ed a giuocare con lui.

 

Il cugino venne tutti i giorni come avea promesso; ma ora la sua venuta non produceva più sull'Erminia l'imbarazzo della prima volta, e non le lasciava quell'inesplicabile turbamento che le avea lasciato la prima visita. Adesso si davano del tu anche in presenza di Giorgio. Avevano rivisto insieme quell'anticameretta gialla, che non sembrava più quella neppur essa, dopo tanto tempo; Carlo aveva finito per trovare bellino il bamboccio di prima, e veniva sempre con le tasche piene di confetti e di giocattoli che avrebbero potuto servire al più presto fra due o tre anni. La zia Ruscaglia era sempre in giro col suo nipote ufficiale, di cui era superba, e raccontava a tutti la storia delle quattordici ore passate in mare, e dei viaggi che non finivano più. Quindi per un motivo o per l'altro, i due cugini si vedevano tutti i giorni - ne avevano così poco da stare insieme! Però con tacito accordo non avevano più tornati sui «ti rammenti», dopo che una volta Erminia, seria seria e chinando gli occhi, avea risposto a lui che le parlava d'un certo volume del Prati: «Non mi rammento più. Adesso ho da pensare a mio figlio, e non leggo che di rado.»

Carlo era proprio un buon ragazzo, e avea tutte le giovanili delicatezze dell'alunno di collegio di marina, come avea detto. Ei le strinse la mano, un po' rosso in viso, e da quel giorno non le disse altro. Ma la cugina, che in fondo gli volea sempre bene, gliene fu grata dall'intimo del cuore, e glielo dimostrò tornando ad essere con lui affettuosa e gentile.

Però quello che proprio non andava giù a Carlo era il cugino. «Cosa diavolo ha tuo marito?» domandava ad Erminia. «Sembra che abbia perso la bussola!»

 

 

XI

 

Ecco cosa avea il marito:

Rendona m'avea detto: «Che va a fare La Ferlita ad Acireale? L'ho incontrato due volte alla stazione.»

«Sarà andato a Giarre; uno dei poderi di sua moglie è in quelle vicinanze.»

Giorgio, dopo quella stretta di mano singolarmente espressiva, che mi avea dato la sera in cui il dottore avea raccontato la storia della sua ammalata dell'Albergo dei Bagni, non mi avea detto più nulla, anzi avea evitato le più lontane allusioni a quella circostanza; nei rarissimi momenti in cui lo sorprendevo sovrappensieri si affrettava a intavolare un discorso qualsiasi, quasi avesse letto una indiscreta interrogazione ne' miei occhi. Del resto, meno quelle passeggere preoccupazioni, non si curava d'altro che della moglie e del figlio, il quale avea una salute cagionevole, e sembrava che tutto il suo mondo stesse in quelle due creature.

«La mia ammalata deve essere matta da legare», mi disse un giorno Rendona alla stazione di Acireale, dove andavo pei bagni. «Ha saputo che al Comunale vi sarà una rappresentazione straordinaria e vuole assistervi. Figurati, in quello stato! Io me ne son lavate le mani. È affare che riguarda il capo-stazione, e c'è caso che nella mezz'ora di viaggio abbia a finire in vagone.»

La sera di quella rappresentazione anch'io ero a Catania, e vedendo in teatro La Ferlita colla moglie ero andato nel loro palchetto. Avevo sempre prestato un'attenzione assai mediocre alla storia della russa ch'era inferma all'Albergo dei Bagni, poiché alloggiando nello stesso albergo non l'avevo mai vista, né avevo udito parlare di lei, e avevo dimenticato persino quel che ne aveva detto Rendona, allorché un improvviso movimento e il subitaneo pallore di cui si coperse La Ferlita mentre stava discorrendo, me ne fecero risovvenire di botto.

Il teatro era mezzo vuoto, e si vedevano pochissimi visi nuovi; ma verso la metà dello spettacolo si era aperto l'uscio di un palchetto in terza fila, di fronte a quello dove eravamo, e vi si era visto un po' di movimento in fondo; però nessuno era venuto a mettersi sul davanti; e il palchetto sembrava vuoto come prima. Nondimeno gli sguardi di Giorgio vi correvano sempre, anzi vi si sprofondavano con tale ansietà paurosa, che seguendoli vidi anch'io che c'era qualcheduno. Scorgevasi in fondo e nell'ombra qualcosa di bianco, delle forme indistinte che stavano immobili. Io ci rivolsi il cannocchiale un istante, e vidi chiaramente un pallido viso di donna, così scarno che il profilo sembrava scolpito nettamente dall'ombra, e che gli occhi sembravano nerissimi, enormi, luccicanti come fossero fosforescenti. Quegli occhi ardenti stavano rivolti verso di noi con una tenacità singolare. Giorgio era in preda ad una sorda agitazione; parlava con vivacità delle cose più disparate, e due o tre volte avea preso il suo cappello e l'avea posato con dei movimenti nervosi. Ad un tratto la figura che stava nell'ombra si alzò, e venne a sedere un momento sul davanti; era tutta vestita di trine e di raso bianco, senza un gioiello, coi folti capelli biondi annodati mollemente un po' bassi sulla nuca; avea dei guanti lunghi sino quasi al gomito, e attraverso la trasparenza del merletto si vedevano gli omeri scarni, il petto incavato, le braccia su cui i guanti s'increspavano; sotto la polvere di riso si indovinava il pallore cadaverico; ma nondimeno quel viso consunto, quelle labbra smorte, quell'occhio arso dalla febbre avevano un fascino irresistibile. Ella alzò il suo binoculo e lo puntò su di noi. Tre o quattro cannocchiali si erano rivolti verso quella strana figura che sembrava sorgere improvvisamente dall'ombra. La signora La Ferlita discorreva sempre gaiamente, e ad un tratto, ad un movimento del marito, alzò gli occhi anche lei. Giorgio senza finire quel che stava dicendo balbettò che andava a far delle visite ed uscì. L'incognita si ritrasse nel fondo del suo palchetto, né più si vide. Di tanto in tanto si udiva lassù, in terza fila, uno scoppio di tosse soffocata.

La signora Erminia non mi avea domandato chi fosse quella sconosciuta la quale per un istante avea attirato la curiosità di una metà degli spettatori, né io avrei saputo dirglielo; ma era tornata a casa taciturna, e sembrava meno allegra di prima. Mi disse per altro essere in pensiero pel suo Giannino che da qualche giorno stava maluccio. Giorgio stette un'ora presso la culla a tempestare Rendona di domande, di dubbi e di timori esagerati, e passò il rimanente della sera colla moglie, più affettuoso che mai e quasi riconoscente. Malgrado di tutto ciò si tradiva in lui un certo sforzo, come se volesse vincere una inesplicabile irrequietezza; sembrava in certi momenti che temesse qualche cosa.

Io ero ritornato ai miei bagni. Una volta mi era sembrato d'incontrare nel piccolo giardino dell'albergo quella stessa donna che mi avea fatto sì strana impressione al teatro; era la medesima figura estenuata e triste, in cui la fierezza e un certo che di vivo e di ardente, sembravano ribellarsi ancora; andava lenta, stanca, appoggiandosi al braccio di qualcuno - un signore alto e biondo - e mi fissò in volto quei medesimi occhioni divoranti e accerchiati di un solco bruno.

Il giorno stesso vennero a dirmi che la signora che occupava il grande appartamento del primo piano desiderava parlarmi. Non conoscevo la signora del primo piano, non mi aspettavo quell'ambasciata fatta in modo singolare, ma non fui incerto un istante sul chi ella fosse, e di chi avesse a parlarmi. Scendendo al primo piano sentivo un presentimento doloroso che mi stringeva il cuore.

Allorché entrai stava presso la finestra; quantunque fosse la metà di maggio, avea fatto accendere un gran fuoco. Il sole era tramontato e nella stanza regnava la luce incerta di quell'ora, sebbene anche le due lanterne fossero accese. Dalla finestra si vedevano alcuni fiocchetti di nuvole rade, ancora leggermente illuminate sul cielo più scuro, che andavansi sfilacciando qua e là. Il viso della donna rimaneva al buio, sprofondata com'era in una gran sedia a bracciuoli. Era vestita di nero; avea una treccia bionda, allentata e quasi disciolta, che serpeggiava sulla spalliera e le mani dimagrate e bianche scintillavano di gemme. I suoi occhioni grigi, profondamente infossati, sembravano ardere e consumarsi, le labbra pallide e chiuse avevano una piega dolorosa. La morte avea lambito colla sua ruvida lingua quel viso trafelato, così bianco come se non vi scorresse più una sola goccia di sangue, e vi avea lasciato delle sfumature livide. Non la dimenticherò mai più.

Ella inchinò il capo con un triste sorriso, e mi fé cenno colla mano di mettermi a sedere.

Taceva, come dovesse superare uno sforzo, o ricordarsi di quel che voleva dirmi; c'era ancora qualcosa che non era vinta e che si ribellava in lei; la fronte altera di quella tigre ferita a morte avea un'aria di maestà.

«Ella sarà sorpresa del mio invito,» mi disse lentamente, «ma io la conosco da un pezzo, e non ho tempo di aspettare una presentazione. Ella è amico del signor La Ferlita... l'ho visto spesso con lui a Firenze, allorché egli ebbe un duello... si rammenta?... ed anche qui vicino, a Catania... li ho visti insieme.»

Chiuse gli occhi un momento, o almeno mi parve, ché così com'era situata il suo viso non si distingueva chiaramente. Dopo due o tre secondi di silenzio riprese con un accento che mi parve più profondo.

«Adesso anche lei sa chi sono io... Giorgio le avrà parlato di me.» Costei abbordava il punto spinoso della nostra conversazione con tale altera e disinvolta franchezza che di noi due io ero al certo più imbarazzato di lei. Mi porse la mano secca, arida, arsa. «Ora spero che mi perdonerà il disturbo che le ho dato», aggiunse con una voce che mi penetrò sino all'anima; sentivo confusamente quel che avrebbe dovuto esserci nel cuore di Giorgio se egli si fosse trovato al mio posto. Ella dopo un altro silenzio, forse dopo aver superato un'ultima esitazione:

«Il signor La Ferlita è ammogliato?» mi domandò.

«Si.»

«È felice?»

«Lo credo.»

Ammutolì e reclinò la fronte sulla mano. Che cosa sarà stato in quell'anima? Quando rialzò il capo il suo profilo sembrava essersi pietrificato; il naso e la fronte spiccavano nell'ombra con linee secche ed angolose, ma era perfettamente rassegnata o impassibile.

«Grazie, signore», mi disse. «Un'ultima preghiera... non gli dica nulla di questa mia fantasia da inferma, non gli dica nemmeno di avermi vista.»

Mi accomiatò con un'ultima stretta di mano, e rimase immobile e calma. Soltanto allorché fui sull'uscio, voltandomi verso di lei, la vidi che si teneva il fazzoletto sul viso.

 

 

XII

 

La Ferlita in quel tempo avea, senza dubbio, «il diavolo» che gli avea scoperto il cugino Carlo. Fosse la salute malsana del suo bambino, fosse altro motivo, era evidente che faceva grandi sforzi per dissimulare una insolita agitazione, colmava di carezze il bimbo, ed era pieno di attenzioni e di premure per la moglie; ma in modo singolare, con una certa inquietudine, come se volesse farsi perdonare qualche torto, come avesse qualcosa che lo pungesse, o come se temesse di perdere madre e figlio. Ne' suoi mille progetti d'andare a passare l'estate in campagna, di cominciare grandi lavori nelle sue terre, di andare ai bagni di Alì, c'era dell'irrequietezza. Gli rincresceva moltissimo che lo stato del bimbo non gli permettesse di mettere in esecuzione su due piedi l'idea fissa che faceva capolino sotto tutte le forme, quella di lasciare la città.

Un giorno ch'ero andato a fargli visita, mi domandò: «Tu che sei all'Albergo dei Bagni... ci sono molti forestieri?»

«Pochi, per la stagione che corre.»

Egli mi fissò, e non aggiunse altro. Un'altra volta domandò a Rendona: «E la tua ammalata? come sta?»

«Come quelli che se ne vanno.»

«Dev'essere assai triste morire così sola in paese lontano!» aggiunse dopo alcuni istanti di silenzio.

«È giunto suo marito.»

«Poveretta! chissà dove correrà il suo pensiero! chissà quanto avrà sofferto per arrivare a tal punto! chissà quale passione l'avrà uccisa!»

«Oh la passione! di passione non si muore, mio caro, quando non è accompagnata dalla tubercolosi o dal tifo.»

«Tu parli da medico!» rispose Giorgio con un certo sorriso.

«Non sono medico soltanto, e ho avuto anch'io i miei amoretti grandi e piccini. Ho pianto, in quel beato tempo che avevo più arrendevole la glandula lacrimale, e mi sono strappato i capelli, quando ne avevo molti; ma vedi, non sono morto, e sto benissimo.»

«Si vede! Anzi hai messo pancia. Però ti calunnii alquanto, mio povero dottore; avrai avuto degli amoretti, ti sarai strappato i capelli, conosci le trentanove maniere in cui un galantuomo se ne può andare all'altro mondo, ma ignori completamente quel che sia una passione... e meglio per te! Potresti vincere la morte, tu che hai tanto studiato? sai che ci sia un rimedio contro la tisi? Quando si è colpiti di quel male, che si chiama una passione, vedi... è una disgrazia, è una fatalità... ma è inutile lottare, e bisogna subirla fino all'ultimo.»

«Se fosse così, sarebbe meglio mandare pel prete alla prima febbre - e in buona coscienza io credo di fare il mio dovere lottando colla malattia della mia russa, quantunque non abbia la menoma speranza.»

«Bravo, dottore!» disse facendosi un po' rossa la signora Erminia, la quale sino allora non avea ardito prender parte alla conversazione. «Mi pare che sia proprio così! Molti mali ci vengono addosso appunto per la paura che ne abbiamo, e ci vincono più facilmente allorché ci lasciamo sopraffare senza combatterli... certe cose bisogna guardarle coraggiosamente in faccia per vedere quali sono... e alla fine forse non ci è nulla di irresistibile, né di fatale.»

La Ferlita ascoltava la moglie sorridendo con una specie di tenera compiacenza, di rispetto e d'indulgente compatimento. «Mia cara Erminia,» le disse poscia accarezzandola con la voce, «come vuoi parlare tu di cotesti mali e del modo di vincerli!... Tu sei una bambina, tu! la sorella maggiore del nostro Giannino!...»

 

Uno o due giorni dopo La Ferlita ricevette una lettera col bollo di Acireale. Prima di aprirla le mani gli tremavano; poi entrò nella camera dove erano la moglie e il bambino infermo per dire che un affare urgente lo chiamava la sera stessa a Giarre. Io mi trovava presente, insieme a Rendona, e mi parve scorgere in Giorgio una singolare agitazione. Anche la moglie se n'era accorta di sicuro, poiché lo fissava con un'aria mal dissimulata di sorpresa, mentre metteva innanzi mille pretesti per fargli differire quella gita. Il bambino infatti, sebbene non destasse serie inquietudini, avea peggiorato. «Andrai domani,» gli diceva Erminia, «infine a Giarre non può essere avvenuto nulla di così urgente. Domani il nostro Giannino starà meglio, e tu partirai più tranquillo.»

«Come hai trovato mio figlio?» domandò Giorgio a Rendona, sempre con quel turbamento inesplicabile nella voce, in tutta la persona.

«Come stamane. La sera poi di solito la febbre si fa più gagliarda.»

«Bisogna assolutamente che io vada a Giarre stasera... se credi che lo stato del mio Giannino non me lo permetta, dimmelo...»

«No... non ho detto questo...»

«Allora a rivederci, Erminia; sarò di ritorno col primo treno di domani. Vedi che il nostro Rendona è tranquillo?»

La moglie non rispose, lo accompagnò sino all'uscio, e ritornò a mettersi accanto alla culla, tenendo gli occhi fissi sul bimbo. Uscendo con me, Rendona mi disse:

«Che maniera singolare di farmi siffatte domande in presenza della moglie! Un po' inquieto lo sono, è vero; ma avrebbe fatto meglio ad indovinarlo, anziché costringermi a spaventare quella povera donna.»

 

Siccome ritornavo ad Acireale, incontrai La Ferlita alla stazione al momento di partire. Era solo, senza bagaglio, e parve sorpreso vedendomi, come se non sapesse che quasi tutti i giorni facevo quel va e vieni; egli prese un biglietto per Giarre; c'era uno scompartimento vuoto e l'occupammo noi due. Giorgio parlava poco, e stette col capo allo sportello dalla parte del mare per quasi tutto il tempo del brevissimo viaggio. Alla stazione di Aci-Castello credeva fossimo diggià arrivati, e quando il treno si rimise di nuovo in movimento appoggiò i gomiti alle ginocchia e il capo fra le mani. Prima ancora di giungere ad Acireale, mentre il convoglio fischiava e andava balzelloni rallentando la corsa, egli era alzato e s'era messo ritto dinanzi allo sportello che guardava dal lato opposto all'albergo dei Bagni, appoggiandosi alla manopola. Non si mosse, più, e tutto il tempo che il treno stette fermo, non disse una parola. Gli domandai prima di lasciarlo se avremmo fatto il ritorno insieme col treno dell'indomani; ma rispose che non lo sapeva di sicuro, e che forse sarebbe tornato a Catania in carrozza. Lo sportello si chiuse, e mentre il convoglio ripartiva, non si affacciò nemmeno per vedere la gente che usciva dalla stazione.

All'albergo si passava la sera leggicchiando, pestando sul piano, o fumando e passeggiando in giardino. Verso le undici si udì arrivare una carrozza dalla parte di Giarre; io stavo per salire in camera mia quando m'imbattei faccia a faccia con La Ferlita.

Giorgio si arrestò bruscamente, poi mi venne incontro risolutamente e mi strine la mano con forza. «Infine,» mormorò, «dovea essere così! Andiamo in sala, in giardino, in camera tua, dove vuoi. Avrai tutto compreso...»

Io avevo compreso perfettamente e lo condussi in giardino; la sera era mite, ma importuni non ce n'erano a quell'ora. Mentre cercavamo un banco, al buio, egli mi disse con voce sorda:

«Soprattutto... non mi far della morale; sai che è inutile.»

«Io non te ne ho mai fatta, caro Giorgio; da dove diavolo ti è venuta questa idea...»

«M'è venuta... che avrei dovuto evitarti, e incontrandoti mi son vergognato di me.»

Alcune finestre dell'albergo disegnavano qua e là sulla facciata bruna dei quadranti luminosi. Giorgio, ritto dinanzi a me, sembrava interrogarle tutte collo sguardo.

«Dov'è?» mi domandò alfine, come se avessimo già parlato di qualcheduno. «Faccio male, lo so! Hai visto come mi guardava quella povera Erminia? Sembrava che mi leggesse in cuore. E il mio Giannino?... chissà come starà a quest'ora?... Hanno un bel dire... In questo momento se alcuno mi bruciasse le cervella mi farebbe un gran bene... Ma sento che è più forte di me... quella poveretta si muore... sai... L'ho sempre dinanzi agli occhi, e se oggi fossi stato costretto a non poter venire qui mi pare che la testa mi sarebbe scoppiata!...»

Egli andava su e giù pel viale; strappava le foglie degli arbusti che masticava con una specie di rabbia. Ad un tratto lo vidi che si celava il viso fra le mani, e scoppiò in singhiozzi senza poter proferire una sola parola.

Quell'uomo che si accasciava sotto il dolore faceva pietà; Giorgio, di solito così fatuo, così spensierato, si contorceva per nascondermi le sue lagrime e la sua debolezza. Tentai prendergli una mano; egli mi respinse dolcemente e continuò a a piangere.

«Se tu sapessi quanto costino certe gioie fatali!» mi disse alfine con un accento che penetrava l'anima «e quanto si soffra a esser così miserabile!»

«Giorgio!»

«Lo so che sono un miserabile! Ho ingannato quella povera Erminia, ho lasciato mio figlio quando sarebbe stato mio dovere di assisterlo, ho lasciato la mia casa, la mia felicità... il cuore mi si spezzava a lasciarli... e son partito!»

«Perché sei partito dunque?»

«Perché» e mi piantò in viso uno sguardo da insensato «perché bisognava... perché ella mi ha scritto.»

«E la tua visita a che le gioverà?»

«Non lo so! a nulla! Bisognava andare.»

«Hai provato a pensare il contrario, ad affermarti nell'idea che non avresti dovuto andare... né per te, né per lei?»

Egli rispondeva come fosse fuori di sé.

«Provare? a che provare? Se è più forte di me, ti dico!... Si, le conosco tutte le vostre ragioni, le vostre convenzioni, i vostri doveri!... lo so, sono uno sciagurato!... ed eccomi qui come un dannato!»

Rimase così qualche tempo, col viso fra le mani, poscia si scosse, udendo suonare la mezzanotte, e con accento risoluto:

«Addio!» mi disse. «Bisogna che vada. Lasciami andare.»

 

 

XIII

 

I lumi erano spenti quasi tutti nel corridoio che metteva alle stanze di Nata; l'uscio era socchiuso; Giorgio aprì esitando e vide la camera debolmente illuminata. Ella era ritta accanto al seggiolone, vestita di bianco, immobile, rivolta verso l'uscio. Gli andò rapidamente incontro, strisciando sul tappeto come un fantasma, più bianca della veste che indossava, colle braccia tese e gli occhi ardenti, e l'avvinse in un abbraccio da lupa.

Non diceva nulla. Lo teneva sempre così, sul suo petto. Di tratto in tratto gli afferrava il capo, lo scostava per fissargli uno sguardo felino negli occhi senza dire una parola, e tornava a stringerselo al seno con impeto.

Per caso si udì un lieve rumore dietro l'uscio: ella si volse come una fiera:

«Chiudi!» fu la sola parola che gli disse, con voce che lo fece trasalire.

«Chi può essere di là»

«Mio marito. Ma non ci abbadare. Tu avrai il tuo revolver... se la fatalità lo spinge sin qui, lo uccido.»

E senza curarsi dell'impressione che quelle parole potevano fare su di lui, si rimise a fissarlo con occhi insaziati.

«Ti aspettavo!» gli disse poscia sordamente.

Ei la baciava: le labbra di lei rimanevano immobili.

«Hai preso moglie?» domandò alfine.

Ma non gli diede tempo di rispondere: gli si avventò al collo con un che di selvaggio:

«Qui! Dammi la tua fronte!... e le tue labbra! Qui...»

Ad un tratto si irrigidì, e gli si abbandonò nelle braccia; Giorgio la trascinava verso la poltrona.

«Non è nulla!» balbettava ella col capo arrovesciato all'indietro «non aver paura. Dammi quella boccetta... lì...»

Come l'ebbe sturata, si sentì al forte odore che dovea essere un cordiale efficacissimo. Nata comprese la titubanza di lui, gli sorrise tristamente, e togliendogliela di mano ripetè con impazienza:

«Non aver paura, non potrà farmi un gran male; e adesso ne ho bisogno!»

Appena ebbe bevute due o tre goccie che avea versato in un cucchiaino, le gote le arsero di una fiamma improvvisa, e si mise a ridere in modo che stringeva il cuore. «Come fa bene! mi sembra che mi abbia messo del fuoco... qui.»

Giorgio stava a guardarla con occhi aridi, senza poter trovare una parola né una lagrima; si sentiva soffocare da un cumulo di sentimenti, d'affetti e d'angoscie diverse. Ella, con triste civetteria da inferma s'era abbigliata con cura; aveva annodato i suoi capelli in due grosse trecce, avea delle trine preziose sul petto roso dalla tisi. - Egli la vedeva sempre in fondo a quel palchetto della Pergola, e nei viali del giardinetto in via Principe Amedeo, leggiadra e sarcastica.

«A che pensi? Non voglio che pensi a tua moglie», gli disse ella con collera.

Giorgio sprofondò il capo nelle spalle.

«L'ami cotesta donna? No, non mi rispondere», aggiunse vivamente mettendogli una mano sulla bocca. «L'ho vista al teatro... è bella!»

Chiuse gli occhi e due lagrime scesero per le sue guance lentamente, cadendo a piccole scosse. Successe un lugubre silenzio in quel colloquio d'amanti. A un tratto Nata spalancando gli occhi e fissandoli sbarrati in quelli di lui:

«Perché mi guardi così? Son diventata brutta? Ho ancora i capelli molto belli, guarda! snodali... Non aver paura di me, non morrò ancora! E poi, t'amo tanto!»

In così dire brancicando gli si avviticchiava al collo, e gli appoggiava la testa in seno con una specie di voluttà disperata.

Tutt'a un tratto gli mise le mani sul petto, scostandolo con una forza che Giorgio non avrebbe supposto in lei, e con gli occhi ardenti e fisi su di lui.

«Dimmi che non ami questa donna! dimmi che non l'ami!»

Giorgio chinò gli occhi.

«Dimmi che non l'hai amata, che ami me sola. Dimmelo!»

Ei mentì, senza saper di mentire, e senza vergogna di mentire. Allora ella seguitò a fisarlo in quel modo, e dopo alcuni secondi di quel silenzio, con un accento intraducibile:

«Hai un figlio di costei?»

Giorgio taceva umiliato; ma Nata all'improvviso attirò bruscamente il capo di lui sul suo grembo, vi appoggiò il suo e cominciò a piangere.

«Non piangere!» esclamò Giorgio che si sentiva spezzare il cuore.

«Non piangerò più... no, non piangerò più...» le lagrime le si asciugarono nell'occhio febbrile e corrucciato. «Ho il diritto ad essere felice anch'io... Che m'importa di costei!... dille che ti ho amato prima di lei... dille che morrò presto... dille... Non ho avuto la forza di morire senza vederti... Quando ti scrivevo così... non credevo che dovessi morire così presto... non sapevo cosa fosse sentire la vita che fugge... non mi sentivo il cuore così pieno... Se sapessi com'è triste il morire! e morir sola, in un albergo! Mio marito è venuto adesso, all'ultimo momento... gli ha scritto i medico... così è sicuro di non mancare al suo dovere laggiù... per più di un mese... e ha messo in salvo il dovere e la convenienza... Cosa vuoi che me ne faccia di quest'uomo? cos'è per me? Ti ho fatto ribrezzo quando ho detto che se in questo momento fosse venuto a mettersi fra di noi sarebbe stata una fatalità!... Cos'è tutto il mondo adesso che sto per lasciarlo?... Cosa ho da temere dippiù? Cosa devo aspettarmi? Non ho che te, e ti voglio! intendi? a dispetto di tua moglie, a dispetto di tuo figlio, a dispetto di tutti!...»

Parlava con voce sorda e brusca, risolutamente, e con un che di fosco e di fatale. Egli avea i capelli irti, molli di sudore, l'abbracciava con una frenesia spaventosa, quasi fosse in preda a un delirio; sembravagli che quelle ossa che si avviticchiavano a lui scricchiolassero; l'ebbrezza del suo amore era mostruosa, quasi la dividesse con un cadavere; l'immagine di sua moglie, di suo figlio infermo, della sua dimora tranquilla, della sua felicità domestica, mischiavasi a quel fantasma della donna che avea tanto amato in un orribile e doloroso incubo. Ella irrigidita, quasi svenuta, metteva dei piccoli gridi selvaggi, e difendeva i veli del suo petto con pudore d'inferma. Ad un tratto si mise a stracciarli lei stessa, fuori di sé, poi gli si abbondonò nelle braccia con rigidità catalettica, balbettando, singhiozzando, annaspando colle mani verso il letto. Egli ve l'adagiò, colle vesti disfatte, i capelli sparsi, stecchita come un cadavere.

Delle lagrime le scorrevano lente lente per le guance; avea gli occhi chiusi, e le labbra contratte da una convulsione dei muscoli del viso scoprivano la doppia fila dei suoi denti lucidi ancora come perle.

Mentre sembrava che dormisse, spalancò gli occhi all'improvviso, guardandolo sbigottita, come delirante, e lo respinse con impeto.

«No! quella donna... quella donna ch'è sempre lì, fra di noi!... No! no!»

Da quel momento si mise a vaneggiare per quasi mezz'ora; infine si assopì penosamente. Giorgio udiva il suo respiro sibilante, la sentiva trasalire fra le sue braccia; di tanto in tanto ella si scuoteva con un gran sussulto e gli fissava in volto dei grandi occhi sbarrati senza vederlo; dormiva colla testa arrovesciata all'indietro; il naso sembrava acuto e sottile; gli occhi erano incavernati; due grandi sfumature livide solcavano le gote; i capelli erano sparsi in disordine sul cuscino; la veste bianca la modellava rigidamente, distesa com'era sul letto; attraverso la scollatura semiaperta si vedeva il petto solcato da ombre profonde. Giorgio fissava su di lei che dormiva gli occhi affascinati. Quell'orribile notte d'amore durava eterna.

Finalmente apparvero i primi barlumi del giorno sui quadri che ornavano le pareti e sul bianco cortinaggio; i mobili cominciarono a disegnarsi nettamente in una luce ancora incerta; allora l'inferma si svegliò.

«Ho dormito... mi sento bene!» mormorò, «mi sento proprio bene.»

Cercò brancolando la mano di Giorgio, e si voltò verso di lui. Al chiarore dell'alba il suo viso sembrava ancora più incadaverito.

«È giorno diggià? Come ho dormito a lungo!... Aiutami ad alzarmi, voglio vedere l'alba.»

Ei la sollevò di peso, e tenendosi colle braccia al collo di lui, l'inferma andò sino alla finestra. Tutti nell'albergo dormivano ancora; alcuni impiegati della stazione andavano e venivano fra le rotaie colle lanterne accese: un gallo ritto e pettoruto su di una catasta di regoli, provava il suo mattutino; il cielo era di un azzurro cupo, striato di vapori lattiginosi, e leggermente rosato verso l'oriente; sul mare ancora grigio e fosco si vedeva per l'ampia distesa la lunga fila delle vele dei pescatori.

«Che pace!» mormorò Nata. «Quanta gente felice ci sarà a quest'ora!»

Giorgio rabbrividì.

«Addio!» gli disse ella risolutamente, ma con uno sforzo - avea la voce commossa e gli occhi pieni di lagrime. «Ritornerai stasera?»

«Si»

«Me lo prometti?»

Gli teneva le mani.

«Sarà per poco ancora!... Vieni... Non ho che te. Sarà per poco ancora!»

Giorgio l'abbracciò col cuore preso come in una morsa, ed ella si lasciò baciare, immobile, colle labbra chiuse e gli occhi fisi.

Egli uscì barcollando.

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Ultimo Aggiornamento:17/07/2005 14.01

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