EMILIO SALGARI
Le
Meraviglie del Duemila
1 - Il Fiore Della Risurrezione
2 - Una Risurrezione Miracolosa
3 - Le Prime Meraviglie Del Duemila
4 - La Luce Ed Il Calore Futuro
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Babele
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Classici Della Letteratura Italiana
EMILIO
SALGARI
Le meraviglie del Duemila
1 - IL FIORE DELLA RISURREZIONE
Il
piccolo battello a vapore che fa il servizio postale una volta alla settimana,
fra Nuova York, la più popolosa città degli Stati Uniti d'America
settentrionale e la piccola borgata dell'isola Nantucket, quella mattina era
entrato nel piccolo porto con un solo passeggero. Accadeva spesso, durante
l'autunno, terminata la stagione balneare, che rarissime persone approdassero a
quell'isola, abitata solo da qualche migliaio di famiglie di pescatori che non
s'occupavano d'altro che d'affondare le loro reti nei flutti dell'Atlantico.
"Signor
Brandok", aveva gridato il pilota, quando il battello a vapore s'era
ormeggiato al ponte di legno "siamo giunti."
Il
passeggero, che durante la traversata era rimasto sempre seduto a prora senza
scambiare una parola con nessuno, s'era alzato con una certa aria annoiata, che
non era sfuggita né al pilota, né ai quattro marinai.
"I
divertimenti di Nuova York non lo hanno guarito dal suo spleen" mormorò il
timoniere del piccolo battello, volgendosi verso i suoi uomini. "Eppure,
che cosa manca a lui? Bello, giovane e ricco... se fossi io al suo
posto!..."
Il
passeggero era difatti un bel giovane, tra i venticinque e i ventott'anni, di
statura alta come sono ordinariamente tutti gli americani, questi fratelli
gemelli degli inglesi, coi lineamenti regolarissimi, gli occhi azzurri ed i
capelli biondi.
Aveva
invece negli sguardi un non so che di triste e di vago che colpiva coloro che
lo avvicinavano, e nelle sue mosse qualcosa di pesante e di stanco, che
contrastava vivamente col suo aspetto robusto e florido.
Si
sarebbe sospettato che un male misterioso minasse la sua gioventù e la sua
salute, nonostante la bella tinta rosea della sua pelle, quella tinta che indica
la ricchezza e la bontà del sangue delle forti razze anglosassoni.
Come
abbiamo detto, udita la voce del pilota, il signor Brandok s'era alzato quasi a
fatica, come se si risvegliasse in quel momento da un lungo sonno.
Sbadigliò
due o tre volte, gettò uno sguardo assonnato sulla riva, toccò appena la tesa
del suo cappello per rispondere al saluto rispettoso dei marinai e scese
lentamente sul pontile di legno.
Invece
di dirigersi verso la borgata, le cui casette s'allineavano a duecento passi
dal porticciolo, si mise a camminare lungo la spiaggia, colle mani affondate
nelle tasche dei pantaloni e gli occhi semichiusi, come fosse in preda ad una
specie di sonnambulismo.
Giunto
all'estremità della borgata si fermò e aprì gli occhi, fissandoli su un gruppo
di monelli scalzi ad onta dell'aria frizzante, che si rincorrevano lungo le
dune ridendo e schiamazzando.
"Ecco
degli esseri felici" mormorò con un tono d'invidia. "Essi almeno non
sanno che cosa sia lo spleen."
Stette
qualche istante immobile, poi scosse il capo, mandò un lungo sospiro e riprese
la passeggiata, per fermarsi alcuni minuti dopo dinanzi a una bella casetta a
due piani, tutta bianca, colle persiane verniciate e un giardinetto chiuso da
una cancellata in legno.
"Che
cosa farà il dottore?" mormorò, guardando le finestre. "Starà
tormentando qualche cavia o qualche povero coniglio. Il segreto di poter
rivivere dopo cent'anni, bell'idea! Io credo che quel buon Toby perda
inutilmente il suo tempo. Eppure egli è molto più, felice di me."
Tornò
a sospirare, attraversò lentamente il giardinetto il cui cancello era aperto e
salì la scala, senza quasi rispondere al saluto di una grassa e rubiconda
fantesca che gli aveva gridato dalla cucina:
"Buon
giorno, signor Brandok; il mio padrone è nel suo studio."
Il
giovine era già al secondo piano. Aprì una porta ed entrò in una stanza
piuttosto vasta e bene illuminata da due ampie finestre, tutta circondata da
scaffali di noce pieni di un numero infinito di storte e di bottiglie
variopinte.
Nel
mezzo, curvo su una tavola, vi era un uomo sui cinquantacinque anni, di forme
quasi erculee, con una lunga barba un po' brizzolata e tutto intento ad
osservare un coniglio che pareva, a prima vista, o morto o addormentato.
Udendo
aprirsi la porta si levò gli occhiali e si voltò con una certa vivacità,
esclamando con voce giuliva:
"Ah!
sei tornato, amico James? Ti sei stancato presto di Nuova York e mi pare che tu
non abbia un'aria molto soddisfatta".
Il
giovine si lasciò cadere sopra una sedia che si trovava presso la tavola e
rispose con un mesto sorriso.
"Dunque?"
chiese l'uomo attempato, dopo un breve silenzio.
"Sono
più annoiato di prima ed è un miracolo che sia qui" rispose Brandok.
"Perché?"
"Avevo
già deciso di fare un bel salto dal faro della Libertà e di sfracellarmi sul
molo."
"Una
brutta sciocchezza, mio caro James. A ventisei anni, con un milione di
dollari..."
"E
cento milioni di noia che mi fa sbadigliare da mattina a sera" disse il
giovine, interrompendolo. "La vita diventa ogni giorno più insopportabile
e finirò per sopprimermi. Un viaggio all'altro mondo non mi dispiacerebbe.
Forse là m'annoierò meno."
"Viaggia
in questo mondo, amico."
"Dove
vuoi che vada, Toby?" disse Brandok. "Ho visitato l'Australia,
l'Asia, l'Africa, l'Europa e mezza America. Che cosa vuoi che vada a
vedere?"
Il
dottore s'era messo a passeggiare per la stanza, con le mani dietro al dorso,
la testa bassa, come se un profondo pensiero lo preoccupasse. Ad un tratto si
fermò dinanzi al coniglio, dicendo:
"James,
ti piacerebbe vedere come camminerà il mondo fra cent'anni?".
Il
giovane Brandok aveva alzato la testa che teneva inclinata su una spalla,
interrogando il dottore collo sguardo.
"Sì,"
riprese Toby "io voglio vedere che cosa sarà l'America fra venti lustri.
Chissà quali meraviglie avranno inventato allora gli uomini. Macchine
straordinarie, navi colossali, palloni dirigibili e mille altre cose
strabilianti. Ormai il genio umano non ha più freno e gl'inventori nascono come
i funghi."
"Hai
trovato finalmente il modo di prolungar la vita?" chiese Brandok, con tono
leggermente ironico.
"Di
fermarla, invece."
"Ah!"
"Ne
vuoi una prova?"
"Possibile
che tu abbia fatta una simile scoperta?" esclamò Brandok, con stupore.
"So che tu da molti anni ti dedichi a certi esperimenti."
"E
sono pienamente riusciti" disse il dottore. "Vedi questo
coniglio?"
"È
morto?"
"No,
dorme da quattordici anni."
"È
impossibile."
"Fra
poco te lo farò risuscitare con una semplice puntura e un bagno tiepido."
"Quale
filtro misterioso hai scoperto? Non ti prendi gioco di me, Toby?"
"A
quale scopo? Chiudiamo le porte perché nessuno ci oda o ci veda, e tu
assisterai ad una risurrezione meravigliosa."
Fece
girare le chiavi, chiuse un po' le finestre, accostò una sedia al tavolino e
dopo aver offerto al suo giovine amico un sigaro, disse:
"Ascoltami
ora; poi verrà l'esperimento".
Toby,
dopo essere stato alcuni momenti silenzioso, raccolto in se stesso, s'era
alzato per prendere da uno degli scaffali un vaso di vetro contenente una
piccola pianta disseccata, che pareva unica nel suo genere.
"Ne
hai mai veduta una simile, amico James?"
Il
giovine Brandok guardò il dottore con una certa sorpresa, dicendo:
"Vorrei
sapere che cosa c'entra questa pianticella coi conigli che dormono da tanti
anni. Immagino che non avrai l'intenzione di aumentare le mie noie".
"Niente
affatto" riprese Toby, imperturbabilmente. "Tu dunque non conosci
questo fiore, quantunque tu abbia assai viaggiato?"
"Sai
bene che io di botanica non me ne sono mai occupato."
"Allora
non hai mai udito parlare del fiore della risurrezione?"
"No,
mai" disse il giovine.
"Ascoltami
dunque: la storia è interessante e non t'annoierà. Cinquant'anni or sono, un
mio collega, il dottor Dek, viaggiava nell'Alto Egitto collo scopo di trovare
un'antica miniera di metalli in cui lavoravano un tempo dei sudditi dei
Faraoni. Un giorno incontrò un arabo infermo ed il dottore lo curò
amorosamente, salvandogli la vita. Il figlio del deserto era povero, eppure
volle ricompensare il suo salvatore, dandogli un tesoro che da solo valeva
tutte le pietre preziose del mondo."
"In
che cosa consisteva?" chiese Brandok, che cominciava ad interessarsi
vivamente a quel racconto che assomigliava ad uno di quelli delle Mille ed una
Notte.
"In
una piccola pianta disseccata, che dall'arabo era stata scoperta in una
antichissima tomba, nel seno di una sacerdotessa egiziana che per bellezza non
aveva avuto uguali. Il dottor Dek, ascoltando i pomposi elogi fatti a quel
piccolo fiore, sepolto chissà quanti secoli prima dell'era cristiana e che portava
dei bottoncini arsi dal sole ed ingialliti, non aveva potuto trattenersi dal
sorridere."
"Ed
io avrei fatto altrettanto" disse Brandok.
"Ed
avresti avuto torto," disse Toby "poiché l'arabo prese la pianta, la
bagnò con alcune gocce d'acqua e sotto gli sguardi del dottore si compì un
prodigio meraviglioso. La pianta, appena sentì inumidirsi, cominciò a fremere,
poi ad agitarsi, i suoi tessuti si raddrizzarono e i suoi bottoni si
gonfiarono, poi si schiusero. Il fiore a poco a poco sbocciava, dopo venti secoli
e più di sonno, svolgendo i suoi leggeri petali, i quali si distendevano come
raggi superbi intorno ad un punto centrale, pieni di eleganza e di
freschezza."
"Strano
fenomeno!" esclamò Brandok, che pareva avesse dimenticato il suo spleen.
"Quel
fiore," proseguì il dottore "assomigliava ad una margherita raccolta
in qualche giardino incantato. Quella risurrezione misteriosa durò parecchi
minuti, poi il fiore a poco a poco rovesciò la sua corolla dalle tinte
iridescenti, scoprendo in mezzo ai petali alcuni granelli antichissimi. Ahimè!
La preziosa semente che il fiore della risurrezione custodiva con tanta gelosa
cura, da tanti secoli era irrimediabilmente sterile. A quale suolo affidare
quei granelli? Quale sole avrebbe potuto tenerli in vita? Sorpreso e ammirato,
il dottore portò seco la meravigliosa pianta e rinnovò in Europa centinaia di
volte l'esperimento del vecchio arabo, e sempre il piccolo fiore del deserto,
la pianta misteriosa degli antichi Faraoni, risuscitò nella sua immortale
bellezza mercé alcune gocce d'acqua. Morendo, il dottor Dek regalò il fiore
della risurrezione al discepolo ed amico suo James, il quale ripeté anch'egli,
con eguale successo, la prodigiosa esperienza. Infine il fiore della pianta
egiziana venne offerto ad Alessandro Humboldt ed il grande naturalista lo
risuscitò più volte davanti ai suoi dotti colleghi. Fra le sue mani la pianta
misteriosa non fece che rinascere e morire, senza che egli potesse penetrarne i
segreti; ad ogni operazione ripeteva colla tristezza del genio impotente:
"Nulla c'è in natura che somigli a questa pianta!""
"E
nessuno ha mai potuto penetrare il mistero di quella pianta che tolta dal
sepolcro, dopo migliaia di anni risuscitava grazie ad una goccia d'acqua e
riapriva la sua corolla eternamente bella, come per dire al mondo: "Ecco
come ero al tempo dei Faraoni"?" chiese Brandok.
"Sì,
uno solo: io!" disse Toby.
"Tu!?"
"Sì,
io" ripeté il dottore.
"Dunque?..."
"Adagio,
questo è un segreto. Durante un viaggio che feci venticinque anni or sono in Egitto,
potei avere uno di quei fiori e studiare e anche spiegare i misteri della sua
risurrezione. E da quel fiore mi è sorta l'idea di fermare la vita umana per
farla risvegliare dopo un numero più o meno lungo di anni. Perché se poteva
rivivere un umile fiorellino, non avrebbe potuto fare altrettanto un organismo
così completo come quello dell'uomo? Ecco la domanda che mi rivolsi e alla cui
soluzione impiegai venticinque anni di studi ininterrotti."
"E
ci sei riuscito?"
"Pienamente"
rispose Toby.
S'era
alzato, avvicinandosi al tavolino e aveva preso fra le mani il coniglio che
pareva morto, avendo le gambe e la testa irrigidite.
"Ha
odore, questo animale? Fiutalo, James. Credi che sia morto?"
"È
freddo e il cuore non batte più."
"Eppure
la sua vita non è altro che sospesa da quattordici anni."
"È
dunque la morte artificiale che hai scoperto?"
"Una
semplice puntura del mio filtro misterioso è bastata per fermare le pulsazioni
del cuore di questo animale e per conservarlo per un così lungo tempo."
"È
meraviglioso!"
"Forse
meno di quello che sembra" disse il dottore. "Sai che cosa sono i
fakiri?"
"Dei
fanatici indiani che eseguono degli esperimenti meravigliosi."
"E
che si fanno seppellire talvolta per quaranta e anche cinquanta giorni entro
una cassa sigillata, colla bocca e le narici turate da uno strato di cera, e
che poi risuscitano senza aver l'aspetto d'aver sofferto. Un bagno nell'acqua
calda, un po' di burro sulla loro lingua per renderla più pieghevole ed eccoli
ritornare alla vita. Ora vedrai."
Prese
da uno scaffale una piccola fiala di vetro che conteneva un liquido rosso, vi
immerse una siringa, poi punse replicatamente il coniglio, la prima volta in
direzione del cuore e la seconda volta alla gola.
L'animale
non aveva dato alcun segno di vita ed aveva conservata la sua rigidezza.
"Aspetta,
James" disse il dottore, vedendo apparire sulle labbra del giovine un
sorriso d'incredulità.
In
un angolo vi era un bacino di metallo, sotto cui ardeva una lampadina ad
alcool. Il dottore v'immerse un dito per assicurarsi del calore dell'acqua, poi
levò la vaschetta, deponendola sulla tavola.
"Fai
fare un bagno al morto?" chiese Brandok.
"Cioè
all'addormentato" corresse il dottore. "È necessario allentare a
questo dormiglione i nervi che da tanti anni non agiscono più."
"Se
tu riesci a far rivivere questo animale, io ti proclamo il più grande
scienziato del mondo."
"Non
esigo tanto" rispose Toby, ridendo.
Immerse
il coniglio nel bacino, tenendogli la testa fuori dell'acqua, poi si mise ad
alzare ed abbassare le gambe anteriori, come per provocare la respirazione e
aspettò, guardando l'amico che s'era fatto tutto serio.
"Pare
che tu cominci a credere al buon risultato della strana operazione" gli
disse il dottore. "È vero, James?"
"Non
ancora" rispose il giovine.
"Eppure
sento che la testa del coniglio comincia a diventar calda."
"Effetto
del calore dell'acqua."
"E
che la carne freme."
"Non
vedo muoversi le gambe."
Ad
un tratto mandò un grido di stupore; il coniglio aveva aperti gli occhi e fissava
il dottore colle pupille dilatate.
"Ti
sembra morto ora?" disse Toby, con accento beffardo.
"Ti
guarda!" esclamò il giovine.
"Lo
vedo."
"Agita
le zampe!"
"E
respira anche."
"Miracolo!...
Miracolo!..."
"Zitto,
James, non gridar tanto forte."
"È
meravigliosa questa risurrezione!"
"Non
dico di no."
"Una
scoperta che metterà sossopra il mondo."
"Niente
affatto, perché io mi guarderò bene dal divulgarla. Non siamo che in tre sole
persone a conoscerla: io, tu ed il notaio del borgo, quell'eccellente signor
Max."
"Perché
la conosce anche il notaio?" chiese Brandok.
"Lo
saprai più tardi: guarda il risultato per ora."
Aveva
levato dalla vaschetta il coniglio e l'aveva messo sul tavolino, avvolgendolo
in un pezzo di stoffa di lana.
L'animale
aveva gli occhi aperti, respirava liberamente raggrinzando il naso, però si
vedeva che era debolissimo, non riuscendo a reggersi sulle zampe, né cercava di
fuggire. Doveva essere istupidito.
"Non
morrà?" chiese Brandok.
"Stasera
lo vedrai mangiare e correre assieme ai suoi compagni che tengo giù nel mio
giardino. Non è il primo che io faccio risuscitare; la settimana scorsa ne ho
fatto rivivere un altro dinanzi al notaio ed anche quello dormiva da
quattordici anni. Ora mangia, saltella e dorme come gli altri, e tutti i suoi organi
funzionano perfettamente bene."
"Toby,"
esclamò Brandok, con profonda ammirazione "tu sei un grand'uomo; tu sei il
più grande scienziato del secolo."
"Di
questo, o dell'altro?" chiese il dottore.
"Che
domanda è questa?"
"Mio
caro James, tu devi aver fame ed il pranzo è pronto. L'aria di mare mette
appetito e la mia vecchia Magge mi ha promesso un superbo piatto di pesce.
Lasciamo qui il coniglio e andiamo a riempirci lo stomaco: la cuoca sarà già
arrabbiata per il ritardo. Avremo anche il notaio al pudding."
"Perché
il notaio?..."
Il
dottore, invece di rispondere, si affacciò alla finestra, e vedendo un garzone
che stava innaffiando le zolle del giardino, gli gridò:
"Tom,
avverti Magge che siamo pronti per assaggiare le sue triglie e le sue dorate, e
per le due attacca il poney. Dobbiamo fare una gita allo scoglio di Retz".
Cinque
minuti dopo, il dottore e il signor Brandok seduti in una elegante saletta da
pranzo, dinanzi ad una tavola bene imbandita, gustavano con molto appetito le
grosse ostriche di New Jersey, le più deliziose che si trovino sulle coste
orientali dell'America settentrionale, le dorate e le triglie preparate dalla
brava Magge, innaffiando le une e le altre con dell'eccellente vino bianco dei
vigneti della Florida.
Il
dottore non parlava; pareva tutto intento a divorarsi quei deliziosi pesci, i
migliori forse che possegga l'Atlantico settentrionale.
Brandok
invece, cosa assolutamente nuova, sembrava che non fosse più tormentato dallo
spleen; chiacchierava per due, tempestando il compagno di domande su quella
meravigliosa scoperta che doveva, a sentir lui, portare la rivoluzione nel
mondo. Con tutto ciò non riusciva che a strappare qualche sorriso allo
scienziato.
"Dunque
queste triglie e queste dorate ti hanno reso muto" gridò ad un tratto
Brandok, che cominciava ad arrabbiarsi. "Sono venti minuti che i tuoi
denti continuano a masticare e che invece la tua lingua rimane immobile."
"No,
mio caro James, io penso" rispose il dottore, ridendo.
"Pare
che tu abbia dimenticato la tua scoperta."
"Tutt'altro."
"Allora
parliamone."
"Al
pudding."
"Che
cosa c'entra quel pasticcio?"
"Ti
ho detto che verrà ad assaggiarlo anche il notaio della borgata, quel bravo
signor Max."
"Ma
insomma che cosa c'entra lui?"
"Perdinci,
se c'entra! Se dopo cent'anni nessuno più si ricordasse di me e mi lasciassero
dormire per sempre? Tanto varrebbe morire."
"Toby!"
esclamò Brandok "Che cosa hai intenzione di fare?"
"Vedere
come camminerà il mondo fra cent'anni e null'altro."
"Come!
Tu vorresti..."
"Fare
un sonno di venti lustri."
"Sei
pazzo?"
"Non
lo credo" rispose il dottore con voce tranquilla.
Brandok
aveva picchiato sulla tavola un pugno così violento, da far traballare i
bicchieri e rovesciare una bottiglia.
"Tu
vorresti?..." gridò.
"Farmi
rinchiudere nel rifugio che mi son fatto preparare sulla cima dello scoglio di
Retz, per risvegliarmi fra cento anni, mio caro. Si incaricheranno i
discendenti del notaio e il futuro sindaco di Nantucket o i suoi successori, a
farmi ritornare in vita. Lascio ventimila dollari appunto per farmi
risuscitare, unitamente alla fiala contenente il misterioso liquido che mi
dovranno iniettare nei punti indicati nel mio testamento."
"Ti
ucciderai!"
"Allora
vuol dire che tu non hai alcuna fiducia nella mia grande scoperta."
"Sì,
piena fiducia; però tu non sei un coniglio e poi cento anni non sono
quattordici" disse Brandok.
"Abbiamo
sangue e muscoli al pari delle bestie e un cuore che funziona egualmente.
Volevo farti la proposta di addormentarti con me; ora vi rinunzio."
"Tu
hai pensato a me?"
"Sì,
sperando che con un riposo di cento anni il tuo spleen finirebbe per
andarsene."
"Se
l'altro giorno volevo gettarmi dal faro della Libertà! Vedi in quale conto
ormai tengo la mia vita. Mi vuoi per compagno, Toby? Sono pronto. Anche se
morissi, non perderei nulla."
"Dunque,
ti piace la mia idea?"
"Sì,
francamente."
"Sei
eccentrico come un vero inglese."
"E
non sono forse un inglese?" disse Brandok ridendo.
Il
dottore s'alzò, andò a prendere su una mensola una polverosa bottiglia che doveva
contare un bel numero d'anni e la sturò, empiendo i due bicchieri.
"Medoc
del milleottocentoottantotto" disse. "Dopo ventiquattr'anni di riposo
deve essere diventato eccellente. Alla nostra risurrezione nel
duemilatre!" esclamò, alzando il bicchiere. Lo svuotò di un fiato, stette
qualche minuto soprappensiero, poi disse:
"Quanto
possiedi, James...?".
"Cinque
milioni di lire."
"In
cartelle dello Stato?"
"Sì."
"Devi
cambiarle in oro, amico mio. Fra cent'anni quelle cartelle potrebbero non avere
più valore alcuno, mentre invece l'oro rimane sempre oro, sia che si trovi in
verghe od in pezzi da venti lire. Io posseggo soltanto ottantamila dollari,
tuttavia spero che mi basteranno, anche fra cento anni, per non morir di fame.
Sono già a posto nel piccolo sotterraneo che ho fatto scavare sotto la mia
tomba, in una cassaforte, colla chiave a segreto."
"E
sei certo che i nostri corpi si conserveranno?"
"Meravigliosamente"
disse il dottore. "Ci conserveremo come fossimo carni gelate."
"Geleremo?"
"Sì."
"Chi
metterà del ghiaccio nella nostra tomba?"
"Non
ce ne sarà bisogno. Ho scoperto un certo liquido che abbasserà la temperatura
della nostra tomba a 20 gradi sotto lo zero."
"E
si manterrà?"
"Finché
non sfonderanno la nostra cupola di cristallo per farci risuscitare. Staremo
benissimo là dentro, te lo assicuro. Ah! ecco quel bravo notaio; giunge a tempo
per assaggiare il pudding della mia cuoca e per vuotare un bicchiere di questo
delizioso medoc."
Nella
stanza vicina aveva udito Magge che gridava:
"È
sempre in ritardo, signor Max! Cinque minuti ancora e non assaggiava più il mio
pudding. Un'altra volta me lo farà bruciare".
La
porta del salotto s'era aperta fragorosamente ed il notaio era entrato con un
passo così pesante, da far traballare le bottiglie ed i bicchieri.
Il
signor Max era un uomo sulla sessantina, grasso come una botte e col viso
rubicondo nel cui mezzo faceva bella mostra un naso che poteva stare a
paragone, senza arrossire, con quello del guascone Cyrano di Bergerac.
"Buon
appetito, signori" gridò, con una voce da granatiere. "Come va,
signor Brandok? V'è passato lo spleen dopo la vostra gita a Nuova York?"
"Comincia
a lasciarmi un po' di tregua, signor Max," rispose il giovine "e
spero che fra alcuni giorni se ne starà tranquillo per un buon secolo. Poi
vedremo."
"Ah!...
ho capito" disse il notaio, ridendo. "Toby ha trovato un
compagno."
"Che
mi terrà buona compagnia" disse il dottore, empiendo un bicchiere.
"Assaggiate
questo medoc, mio caro notaio; non se ne trova di simile nemmeno in
Francia."
Magge
entrava in quel momento, portando su un piatto d'argento un bel pasticcio dalla
crosta dorata, che fumava ancora e che spandeva un profumo delizioso.
"È
attaccato il poney?" chiese il dottore.
"Sì,
padrone" rispose la cuoca.
"Allora
sbrighiamoci."
In
pochi minuti fecero sparire il pudding, vuotarono una tazza di tè, poi scesero
nel cortile, dove li attendeva un carrozzino tirato da un piccolo cavallo
bianco che sembrava impaziente di partire.
"Andiamo"
disse il dottore, raccogliendo le briglie ed impugnando la frusta. "Fra
mezz'ora saremo allo scoglio di Retz."
Era
una splendida giornata d'autunno, rinfrescata da una brezza vivificante
impregnata di salsedine, che soffiava dal settentrione.
L'Oceano
Atlantico era in perfetta calma, quantunque il flusso avventasse fra le
scogliere che proteggevano le spiagge dalle ondate le quali s'infrangevano con
mille boati, balzando e rimbalzando. Delle barche pescherecce colle loro belle
vele dipinte di giallo e di rosso a strisce e macchie nere, che davano loro l'apparenza
di gigantesche farfalle, spiccavano vivamente sull'azzurro cupo delle acque,
spingendosi lentamente al largo, mentre in alto stormi di grossi uccelli
marini, di gabbiani e di fregate volteggiavano capricciosamente.
Uscito
dalla cinta, il piccolo cavallo aveva preso una via abbastanza larga che
costeggiava l'oceano, slanciandosi ad un trotto rapidissimo, senza che il
dottore avesse avuto bisogno di eccitarlo colla frusta.
Brandok
era ridiventato taciturno, come se lo spleen lo avesse ripreso; il notaio pure
non parlava, tutto occupato a fumare la sua pipa che eruttava un fumo denso
come la ciminiera d'un battello a vapore.
Il
dottore badava che il poney filasse diritto e non mettesse le zampe in qualche
crepaccio o s'avvicinasse troppo alla scogliera, che in quel luogo cadeva a
picco sull'oceano.
Dei
ragazzi di quando in quando sbucavano dalle macchie di pini e di abeti che si
prolungavano verso l'interno dell'isola e rincorrevano per qualche tratto il
carrozzino, gridando a squarciagola:
"Buona
passeggiata, dottore!".
Il
paesaggio variava rapidamente, accennando a diventare più selvaggio, man mano
che s'accostavano alla spiaggia orientale dell'isola. Non si vedevano più
casette né abitanti. Soltanto le macchie dei pini e degli abeti diventavano più
numerose e più folte e le scogliere più alte e più ripide; le onde dell'Oceano
Atlantico vi s'infrangevano con una violenza tale, che pareva si sparassero
delle cannonate in fondo ai piccoli fiordi scavati dall'eterna azione delle
acque.
Era
un rombo continuo, sempre più fragoroso, che impediva ai tre amici di parlare.
La
strada era finita, però il poney non cessava di trottare, senza manifestare
alcuna fatica e faceva traballare maledettamente la carrozzella.
Ad
un tratto si fermò dinanzi ad una parete rocciosa, dietro la quale si udiva
l'oceano muggire furiosamente.
"Siamo
giunti" disse il dottore, balzando a terra. "Ecco lo scoglio di
Retz."
"E
lassù hai preparato la nostra tomba?" chiese Brandok.
"Ed
in una posizione bellissima" rispose il dottore. "Il muggito delle
onde ci canterà la ninna nanna, senza tregua, fino al giorno della nostra
risurrezione."
"Se
torneremo in vita."
"Dubiti
ancora, James?"
"Non
prenderti nessun pensiero per i miei dubbi. Ti ho detto che la vita ormai è
diventata troppo pesante per me, quindi poco m'importerebbe anche se non mi
risvegliassi mai più. Mostrami dunque la nostra ultima dimora."
"Non
l'ultima."
"Come
vuoi."
"Vieni,
James."
Legò
il poney al tronco d'una betulla, poi prese un piccolo sentiero scavato nella
viva roccia che s'innalzava a zigzag. La rupe, chiamata impropriamente lo
scoglio di Retz, era di mole enorme, alta un centinaio di metri, e formava il
capo più alto dell'isola, verso oriente.
La
sua fronte massiccia, tagliata a picco, opponeva un formidabile ostacolo all'irrompere
delle onde dell'Atlantico, quindi non vi era pericolo che cedesse, nemmeno dopo
cent'anni.
Giunti
sulla cima, che era piatta, anziché terminare a punta, Brandok scorse una
muraglia, della circonferenza di quattro o cinque metri, che era sormontata da
una cupola di cristallo munita di un parafulmine altissimo.
"È
quella la nostra ultima dimora?" chiese.
"Sì"
rispose il dottore.
"Quando
l'hai fatta costruire?"
"Lo
scorso anno."
"Lo
sanno gli abitanti della borgata?"
"No,
perché ho fatto venire gli operai ed i vetri da Nuova York."
"E
la rispetteranno?"
"Lo
scoglio è mio: l'ho acquistato dal comune, con contratto regolare, ed il notaio
ha l'ordine di far distruggere il sentiero che conduce quassù e di cingere la
scogliera con una cancellata di ferro altissima."
"Che
ho già ordinata" disse il signor Max. "Nessuno verrà a
disturbarvi."
"Entriamo"
disse il dottore.
Con
una chiave a segreto aprì una porticina di ferro tanto bassa che non si poteva
entrarvi che carponi, ed i tre uomini si introdussero nel piccolo edificio.
L'interno
era tutto coperto da vetri molto spessi incastrati in robuste cerniere di rame,
e di notevole non aveva che un letto molto largo e basso, con coperte piuttosto
pesanti ed un piccolo scaffale su cui stavano delle bottiglie e delle siringhe.
"Ecco
la mia dimora, o meglio la nostra" disse Toby, rivolgendosi all'amico.
"Ti rincresce?"
"Niente
affatto" rispose il giovane, che guardava l'oceano attraverso la cupola di
vetro. "Spero che nessuno verrà a disturbarci prima del giorno che avremo
fissato nel nostro testamento. Che piacere udire il fragore delle onde! Ecco
una bella compagnia."
"Ritengo
inutile che tu ti provveda di un letto. Questo è più che sufficiente per tutti
e due."
"Ed
il sotterraneo dove hai depositato i tuoi valori?"
Il
dottore si curvò, levò una piastra di ferro che si trovava ai piedi del letto e
mostrò una stretta gradinata scavata nella viva roccia, che doveva mettere in
qualche cella sotterranea.
"La
cassaforte si trova là dentro" disse.
"Vi
rinchiuderò anche i miei valori. Domani andrò a Nuova York a cambiare la mia
carta e le mie azioni ferroviarie in oro. Ne avremo abbastanza al nostro
risveglio. A quando il nostro sonno?"
"Fra
otto giorni; appena avranno chiusa la base della roccia colla cancellata."
"Una
domanda ancora, mio caro dottore. Se si dimenticassero di risvegliarci? Sai che
io non ho nessun parente."
"Io
ho una sorella che ha sette figli" rispose Toby. "Spero che fra
cent'anni esisterà ancora qualche pronipote per venire a riaprirci gli occhi, o
per impossessarsi del nostro tesoro nel caso che noi fossimo proprio morti; e
poi vi è il notaio ed ho anche depositato un atto presso il sindaco. Non temere
James: qualcuno verrà a raccogliere la nostra eredità."
"I
miei successori non si dimenticheranno di voi, siatene certi" disse il
signor Max.
"Hai
nessun'altra obiezione da fare, James?" chiese Toby.
"No"
rispose il giovane.
"Sei
risoluto a tentare l'esperimento?"
"Hai
la mia parola."
"Allora,
torniamo a casa mia a fare gli ultimi preparativi."
Uscirono,
chiusero la porticina, scesero lo scoglio e salirono sulla carrozzella senza
aggiungere altra parola.
Dobbiamo
confessare però che tutti e tre erano visibilmente commossi.
Otto
giorni dopo, prima del tramonto del sole, Brandok, il dottore ed il notaio
lasciavano inosservati la borgata e si mettevano in cammino per lo scoglio di
Retz.
Avevano
ormai prese tutte le disposizioni per quella dormita che doveva durare
cent'anni, e tutte le misure perché in quel lunghissimo tempo nessuno si
recasse a disturbarli.
Il
signor Brandok aveva già fatto trasportare nottetempo i suoi milioni e li aveva
rinchiusi nella cassaforte nascosta nel piccolo sotterraneo; aveva venduto
tutti i suoi possedimenti, lasciando una parte del ricavato al comune
dell'isola purché vegliasse sulla tomba; il dottore aveva regalato la sua
casetta alla sua cuoca e fatto innalzare intorno alla piccola costruzione la
cancellata di ferro sulla quale aveva fatto collocare parecchie lastre di
metallo colla scritta: Proprietà privata del dottor Toby Holker.
Quando
giunsero sulla cima della rupe il sole stava per tramontare in un oceano di
fuoco.
Tutti
e tre s'erano fermati, guardando l'oceano che fiammeggiava sotto i riflessi del
tramonto e che s'increspava leggermente sotto la brezza della sera.
In
lontananza un grande piroscafo fumava, dirigendosi verso la costa americana;
lungo le scogliere dell'isola alcune barche pescherecce s'avanzavano
dolcemente, tornando verso il porto della piccola borgata; alla base della rupe
le onde s'infrangevano rompendo il silenzio che regnava sull'immenso oceano. I
tre uomini tacevano: il notaio sembrava profondamente commosso; Brandok e Toby
un po' preoccupati. Rimasero così parecchi minuti, guardando ora le barche ed
ora il sole che pareva si tuffasse in acqua; poi ad un tratto il dottore si
scosse, dicendo:
"Non
ti penti della parola data, James?".
"No"
rispose Brandok, con voce calma.
"Anche
se non dovessimo risvegliarci mai più?"
"Nemmeno."
"Signor
Max, salutiamoci ed abbracciamoci, poiché non ci rivedremo mai più, a meno di
un miracolo."
"Bisognerebbe
che campassi centoquarant'anni, una età impossibile" disse il notaio,
sospirando. "Io morrò, mentre voi risusciterete."
"Un
abbraccio, amico, e lasciamoci."
Il
signor Max, vivamente commosso, cogli occhi umidi, si strinse fra le braccia il
dottore, tenendoselo per qualche momento sul petto.
"Addio,
signor Brandok" disse poi, con voce rotta, porgendogli la mano. "Vi
auguro di tornare in vita e di ricordarvi di me."
"Ve
lo promettiamo" rispose il giovane. "Addio, signor Max: noi andiamo a
dormire."
Il
notaio s'allontanò, volgendosi più volte per un gesto d'addio; poi scomparve
pel sentiero che conduceva alla base della rupe dove aveva collocato una grossa
cartuccia di dinamite, per distruggerlo.
"Vieni
James" disse Toby, quando furono soli. "Guarda un'ultima volta
l'oceano."
"L'ho
guardato abbastanza, e poi non lo troveremo certo cambiato, se
risusciteremo."
Aprirono
la porticina ed entrarono nella loro tomba, che gli ultimi raggi di sole
illuminavano a sufficienza, facendo scintillare la cupoletta di vetro.
Toby
prese dalla mensola una bottiglia e due bicchieri e la stappò.
"Un
buon bicchiere di champagne" disse, versando lo spumeggiante nettare.
"Alla nostra risurrezione, James!"
"O
alla nostra morte, che per me sarà lo stesso" rispose il giovine,
forzandosi di sorridere. "Almeno lo spleen non mi tormenterà più."
Vuotarono
d'un fiato i bicchieri, poi il dottore chiuse in un plico alcuni documenti che
collocò entro una cassetta di metallo.
"Che
cosa fai, Toby?" chiese Brandok.
"Qui
dentro vi sono le fiale contenenti il misterioso liquido che dovrà ridarci la
vita, e insieme la ricetta che insegnerà come dovranno servirsene coloro che
verranno a risvegliarci."
"Hai
finito?"
"Sì.
Un altro bicchiere."
"Sia"
rispose Brandok.
Vuotarono
la bottiglia, poi il dottore sturò una fiala ed empì due piccole tazze. Era un
liquore rossastro, un po' denso, che aveva un profumo speciale.
"Bevi"
disse, porgendo una delle tazze a Brandok.
"Cos'è?"
"Il
narcotico che ci addormenterà, o meglio che sospenderà la nostra vita e che
impedirà alle nostre carni di corrompersi."
Il
giovane prese la tazza con mano ferma, guardò il liquido in trasparenza, poi lo
tracannò senza che un muscolo del suo viso avesse trasalito.
"È
un po' amaro, però non è cattivo" disse. "Ah! che freddo, Toby. Mi
pare di avere un blocco di ghiaccio al posto del cuore."
"Non
è nulla, e poi durerà poco. Gettati sul letto e copriti."
Mentre
Brandok obbediva, il dottore bevve anch'egli la sua tazza, poi s'accostò
barcollando ad un vaso di terra che si trovava in un angolo ed afferrato un
martello che si trovava li presso, con un colpo vigoroso ne spezzò il
coperchio, poi raggiunse frettolosamente il compagno.
Una
temperatura da Siberia aveva invaso la stanza. Pareva che da quel vaso
misterioso uscisse una corrente d'aria gelata, come quella che spira nelle
regioni polari.
Il
dottore guardò Brandok: il giovane non dava più segno di vita. Pareva che la
morte l'avesse colto di colpo.
"Fra...
cento... anni..." ebbe appena il tempo di balbettare il dottore, e
stramazzò a fianco dell'amico. Nello stesso momento l'ultimo raggio di sole si
spegneva e le prime ombre della notte scendevano sul sepolcreto.
2 - UNA RISURREZIONE MIRACOLOSA
Una
mattina degli ultimi giorni di settembre del 2003, tre uomini salivano
lentamente lo scoglio di Retz, aiutandosi l'un l'altro per superare le rocce,
non essendovi alcuna traccia di sentiero.
Il
primo era un uomo piuttosto attempato, fra i cinquanta e i sessant'anni, eppure
ancora assai vigoroso, senza barba e senza baffi, le braccia e le gambe
lunghissime, perfino troppo in proporzione del tronco, e gli occhi molto
dilatati e quasi bianchi.
Gli
altri due erano più giovani di qualche dozzina d'anni, anch'essi bene
sviluppati, con muscolature possenti e cogli occhi egualmente bianchi e smorti.
In
tutti e tre poi si osservava uno sviluppo assolutamente straordinario della
testa e specialmente della fronte.
I
loro vestiti erano d'una certa stoffa color caffè chiaro, che pareva una seta,
e consistevano in casacche larghissime, e in calzoni corti ed ampi, fermati
sotto il ginocchio.
Giunti
sull'orlo superiore dello scoglio, si erano fermati dinanzi ad un'alta
cancellata di ferro arrugginito e corroso dai sali marini che racchiudeva una
piccola costruzione di forma circolare, sormontata da una cupoletta di vetro.
Una
lastra di metallo situata in cima ad un palo, portava la seguente scritta, ancora
abbastanza visibile: Proprietà privata del dottor Toby Holker.
"Ci
siamo" aveva detto l'uomo attempato, levandosi da una tasca una chiave
vecchissima, d'una forma speciale, e una carta ingiallita. "Che belle
chiavi si usavano cent'anni fa!"
"E
sperate di farlo risuscitare il vostro antenato signor Holker?" domandò
uno dei due che lo accompagnavano.
"Almeno
le sue ossa le troveremo, ed anche quelle del suo amico" rispose il signor
Holker.
"Ed
i milioni, giacché voi siete l'unico erede."
"È
vero, signor notaio."
"Potrete
aprire?"
"Proviamo"
rispose il signor Holker.
Introdusse
la chiave nella toppa e, dopo qualche sforzo, fece scattare il chiavistello.
"Non
fabbricavano male a quei tempi, i fabbri," disse, spingendo il cancello.
"Non credevo che dopo cent'anni le serrature funzionassero ancora."
Il
piccolo recinto era coperto di ginestre e di sterpi e di cumuli di erbe secche.
Si capiva che nessuno, da moltissimo tempo, era entrato colà.
"Vediamo"
disse Holker, aprendosi il passo fra gli sterpi.
S'accostò,
non senza provare una certa emozione, alla piccola costruzione e, rizzandosi
quanto era lungo, appoggiò il viso alla cupoletta di vetro.
Subito
un grido gli sfuggì.
"È
incredibile! Sono là ambedue e mi sembrano intatti! Che il mio antenato sia
proprio riuscito a scoprire un filtro così meraviglioso da poter sospendere la
vita per cent'anni?"
I
suoi due compagni, avevano gettato uno sguardo attraverso i vetri, e anch'essi
non avevano potuto frenare un grido di stupore.
"Sono
là! Sono là!"
"E
pare che dormano" disse Holker, che era in preda ad una viva emozione.
"Signor
Holker, vi sareste ingannato?" chiese il notaio.
"Non
so che dire; ora ho una lontana speranza di poter rivedere vivo il mio
antenato."
"Entriamo,
signore. Avete la chiave del sepolcreto?"
"Sì;
non entriamo subito, però."
"Perché?..."
"Il
mio antenato ha lasciato scritto che si lasci prima la porta aperta per qualche
minuto."
"Non
riesco a comprenderne il motivo" disse il compagno del notaio.
"Per
non esporci ad un potente raffreddore, signor sindaco" disse Holker.
"Si fa presto a buscarsi una polmonite."
"Che
vi sia molto freddo lì dentro?"
"Sembra
che il dottor Toby, oltre il filtro avesse anche scoperto un certo liquido
capace di sprigionare un freddo polare."
"Deve
trovarsi in quel vaso che scorgete là in quell'angolo."
"Aprite,
signor Holker" disse il notaio. "Sono impaziente di assistere alla
risurrezione di quei due uomini."
Fecero
il giro della piccola costruzione, finché scoprirono una porticina di ferro.
Holker
introdusse la chiave nella serratura ed aprì facilmente. Subito una corrente
estremamente fredda investì i tre uomini, costringendoli a retrocedere
rapidamente.
"Vi
è un banco di ghiaccio là dentro!" esclamò il sindaco. "Che cosa
contiene quel vaso per produrre un simile freddo? Che gli scienziati di
cent'anni fa valessero meglio di quelli d'oggi?"
"Grand'uomo
quel mio antenato" disse Holker. "Farò una ben meschina figura io,
vicino a lui!..."
Attesero
alcuni minuti, poi, quando la corrente fredda diminuì, uno alla volta
s'introdussero nel sepolcreto, avanzandosi carponi, essendo la porta assai
bassa e stretta.
Si
trovarono in una stanza circolare, colle pareti coperte da lastre di vetro, ben
connesse da armature di rame.
Nel
mezzo vi era un letto abbastanza largo e su di esso, avvolti in grosse coperte
di feltro, si scorgevano due esseri umani coricati l'uno presso l'altro.
I
loro volti erano gialli, gli occhi chiusi, e le loro braccia, che tenevano
sotto le coperte, parevano irrigidite. Non si riscontrava su di loro alcun
indizio di corruzione delle carni.
Il
signor Holker s'era accostato rapidamente a loro e aveva sollevato le coperte.
"È
incredibile!" esclamò. "Come si possono essere conservati così questi
due uomini, dopo cent'anni? Possibile che siano ancora vivi? Nessuno lo
ammetterebbe."
I
suoi compagni si erano anche essi accostati e guardavano con una specie di
terrore quei due uomini, chiedendosi ansiosamente se si trovavano dinanzi a due
cadaveri o a due addormentati.
Quello
che si trovava a destra era un bel giovane di venticinque o trent'anni, coi
capelli di color biondo rossiccio, di statura alta e slanciata; l'altro invece
dimostrava cinquanta o sessant'anni, aveva i capelli brizzolati, ed era più
basso di statura e di forme più massicce.
Sia
l'uno che l'altro erano meravigliosamente conservati: solo la pelle del viso,
come abbiamo detto, aveva assunto una tinta giallastra, simile a quella delle
razze mongoliche.
"Qual
è il vostro antenato?" chiese il notaio.
"Il
più vecchio. L'altro è il signor James Brandok."
"Agirete
subito?"
"Senza
ritardo."
"Siete
medico, è vero?"
"Come
il mio antenato."
"Sapete
come dovete operare?"
"Il
documento lasciato da Toby Holker parla chiaro. Non si tratta che di far due
iniezioni."
"Ed
il liquido misterioso?"
"Deve
trovarsi in quella cassetta" rispose il signor Holker, indicando una
scatola di metallo che si trovava in fondo al letto.
"Torneranno
subito in vita?"
"Non
credo; forse dopo che li avremo immersi nell'acqua tiepida."
"Dovremo
quindi portarli fino alla borgata?"
"Non
è necessario" rispose il signor Holker. "Ho dato ordine al mio
macchinista di raggiungermi col Condor e non tarderà a venire. Porterò il mio
antenato ed il signor Brandok a casa mia, a Nuova York. Desidero che tutti
ignorino per ora la risurrezione di questi due uomini."
Mentre
parlava aveva aperto la cassetta di ferro dove si vedevano dei documenti, due
fiale di cristallo piene d'un liquido rossastro e delle siringhe.
"Ecco
il filtro misterioso" disse, prendendo le fiale. "Agiremo senza perdere
tempo."
Denudò
il petto dei due addormentati, poi immerse una siringa in una delle due fiale,
dicendo:
"Una
iniezione in direzione del cuore e una nel collo: vedremo se avranno qualche
effetto".
"Signor
Holker," disse il notaio "voi che siete dottore, vi sembra che siano
morti? Hanno un certo aspetto..."
"Di
mummie egiziane?"
"No,
perché le loro carni hanno ancora una certa freschezza."
"Allora
di persone non morte" disse il signor Holker.
"Sapete
che non dispero?"
"Batte
il loro cuore?"
"No."
"Sono
freddi?"
"Sfido
io, colla temperatura che regnava qui dentro! Sono immersi in una specie di
catalessi, che mi ricorda gli straordinari esperimenti dei fakiri
indiani."
"Dunque
non disperate?"
"Mah...
Constato solamente che sono meravigliosamente conservati dopo venti lustri.
Aiutatemi, signor Sterken."
"Che
cosa devo fare?"
"Tenete
semplicemente una di queste fiale, mentre io inietto il liquido scoperto dal
mio antenato."
"Che
sia invece fatale?"
"Io
eseguisco la sua ultima volontà; se muore, ammesso che dorma ancora, non sarà
colpa mia. Proviamo!..."
Il
signor Holker prese la siringa, appoggiò la punta acutissima sul petto del
dottore in prossimità del cuore e fece una iniezione abbondante, sottocutanea.
Ripeté la medesima operazione sul collo, prese la vena giugulare, poi attese,
in preda ad una profonda ansietà, tenendo in mano il polso del suo antenato.
Nessuno parlava: tutti tenevano gli sguardi fissi sul dottore, colla speranza
di sorprendere su quel viso giallastro una mossa qualsiasi, che potesse essere
indizio d'un ritorno alla vita. Era trascorso un minuto, quando il signor
Holker si lasciò sfuggire un grido di stupore.
"È
incredibile!"
"Che
cosa avete?" chiesero ad una voce il notaio ed il sindaco.
"Quest'uomo
non è morto!"
"Batte
il suo polso?"
"Ho
sentito una leggera vibrazione."
"Che
vi siate ingannato?" domandò il notaio, che era diventato pallidissimo.
"No...
è impossibile... il polso batte... leggermente sì, tuttavia batte... Non sogno
io."
"Dopo
cent'anni!..."
"Silenzio...
ascoltiamo se anche il cuore dà qualche segno di vita..."
Il
signor Holker aveva appoggiato il capo sul largo petto del suo antenato.
"È
freddo?" chiese il sindaco.
"Finora
sì."
"Cattivo
segno: i morti sono sempre freddi."
"Aspettate,
signor sindaco, il filtro ha appena cominciato ad agire."
"E..."
"Tacete!
Meraviglioso!... incredibile!... Cos'ha inventato il mio antenato? Che cosa
sono in suo paragone i medici moderni? Degli asini, compreso me!"
"Batte
dunque il cuore?" chiesero ad una voce il sindaco ed il notaio.
"Sì...
batte..."
"Non
v'ingannate?"
"Sono
un medico."
"Eppure
la tinta giallastra non scompare ancora" disse il notaio.
"Dopo...
dopo il bagno forse... Sì, il cuore batte!... È un miracolo!... Ritornare in
vita dopo cent'anni! Chi lo crederebbe?"
"Ed
il polso?"
"Vibra
sempre con maggior forza."
"Rivolgetevi
al signor Brandok, dottore" disse il sindaco.
In
quel momento un fischio sonoro echeggiò al di fuori.
"Il
mio Condor" disse il signor Holker. "Giunge in tempo!"
"Desiderate
qualche cosa dal vostro macchinista?" domandò il notaio.
"Che
porti una leva per aprire il sotterraneo. Ed ora occupiamoci del signor
Brandok",
Denudò
il petto del giovane e ripeté su di lui le iniezioni fatte già al signor Toby.
Due
minuti dopo, udì un lieve fremito nei polsi, e constatò per di più che la tinta
giallastra tendeva a scomparire e che un lievissimo rossore compariva sulle
gote dell'addormentato.
"Quale
miracolo!" ripeteva il signor Holker. "Domani questi uomini
parleranno come noi."
Il
notaio era ritornato con un negro di statura imponente, un vero ercole, con
spalle larghissime, braccia grosse e muscolose.
"Harry,"
disse il signor Holker, rivolgendosi verso il gigante "prendi queste due
persone, e portale sul Condor. Bada di non stringerle troppo."
"Sì,
padrone."
"Sono
pronti i materassi?"
"E
anche la tenda."
"Sbrigati,
ragazzo mio."
Il
signor Holker spostò il letto e mise le mani su una piastra di ferro di forma
circolare, munita d'un anello.
"Deve
essere qui sotto il sotterraneo contenente i milioni del mio antenato e del
signor Brandok" disse.
"Vi
saranno ancora?" chiese il notaio.
"Solo
noi potevamo sapere che i due addormentati ve li avevano posti, e poi noi
abbiamo veduto che tutto era in ordine qui dentro, quindi nessuno può esservi
entrato."
Passò
la leva portata dal macchinista nell'anello e alzò, non senza fatica, la
piastra.
Essendo
già calate le tenebre, accese una lampada elettrica e scorse una scaletta
scavata nella viva roccia.
Scese
giù, seguito dal notaio e dal sindaco e si trovò in una celletta di due metri
quadrati contenente due casseforti d'acciaio.
"Sono
qui dentro i milioni" disse.
"Li
fate portare sul vostro Condor?" chiese il notaio.
"Appartengono
al mio antenato ed al signor Brandok. Essendo vivi, non ho più alcun diritto su
queste ricchezze... Harry!"
Il
negro che era già tornato, dopo aver portato via Toby e Brandok, scese nel
sotterraneo.
"Aiutami"
gli disse Holker.
"Basto
io, signore" rispose il gigante. "I miei muscoli sono solidi e le mie
spalle larghe."
Prese
la cassa più grossa e la portò via.
"Signori,"
disse Holker, quando anche la seconda fu levata "la vostra missione è
finita. Il signor Brandok ed il mio avo sapranno ricompensarvi presto della
vostra gentilezza."
"Ce
li condurrete un giorno?" chiese il notaio.
"Ve
lo prometto."
"Siete
ormai certo che essi tornino in vita?" domandò il sindaco.
"Io
lo spero, dopo un buon bagno nell'acqua tiepida. Fra quattro ore io sarò a
Nuova York e domani vi darò mie notizie."
Uscirono
dal sepolcreto e dalla cinta, chiudendo il cancello e si diressero verso il
margine della rupe che si affacciava sull'oceano, dove si vedeva vagamente e
fra le tenebre, una massa nera che agitava sopra di sé delle ali mostruose.
"Accendi
il fanale, Harry" disse il signor Holker.
Uno
sprazzo di luce vivissima si sprigionò, illuminando tutta la cima della rupe e
la massa che si agitava presso il margine.
Era
una specie di macchina volante, fornita di quattro ali gigantesche e di eliche
grandissime, collocate al di sopra di una piattaforma di metallo, lunga e
stretta, difesa all'intorno da una balaustra. Nel mezzo, collocati su un
soffice materasso e riparati da una cortina, si trovavano il dottor Toby e
Brandok, coricati l'uno presso l'altro. Il negro stava invece all'estremità
della piattaforma, dietro ad una piccola macchina, munita di parecchi tubi.
"Arrivederci
presto, signori" disse Holker, salendo sulla piattaforma e sedendosi
presso i due risuscitati.
"Buon
viaggio, signor Holker" risposero il notaio ed il sindaco. "Dateci
domani notizie del dottore e del signor Brandok."
"A
cento miglia all'ora, ragazzo mio" disse Holker al negro. "Ho molta
fretta."
Le
ali e le eliche si misero in movimento e la macchina volante partì con velocità
fulminea, passando sopra l'isola di Nantucket e tenendo la prora verso il
sud-ovest. Il signor Holker esaminava intanto il dottore Toby ed il suo
compagno, appoggiando spesso la mano sui loro petti e tastando di quando in
quando anche i polsi.
La
vitalità tornava lentamente nei due addormentati. Il loro polso cominciava già
a battere, assai debolmente però, ma ancora non respiravano ed il cuore
rimaneva muto.
"Vedremo
dopo il bagno" mormorava il signor Holker. "Morti non sono, quindi
non devo disperare. Quale sorpresa per loro quando riapriranno gli occhi!
Rivivere dopo cent'anni! Quale meraviglioso filtro ha scoperto il mio antenato!
E, cosa inesplicabile, non sono invecchiati!"
Il
Condor intanto continuava la sua corsa fulminea. Aveva passato l'isola e correva
sopra l'oceano, mantenendosi ad un'altezza di centocinquanta metri.
La
sua lampada mandava sempre un lungo sprazzo di luce che si rifletteva sulle
onde.
A
mezzanotte, verso ovest, si scorsero a un tratto delle ondate di luce bianca
che salivano a grande altezza.
"Nuova
York, padrone" disse il negro.
"Di
già?" rispose Holker. "Hai superato le cento miglia all'ora, mio buon
Harry. Sbrighiamoci, e bada di non urtare qualcuno."
Si
era alzato e guardava verso quelle luci.
"Arriveremo
presto" mormorò.
Venti
minuti dopo il Condor correva sopra un raggruppamento di case immense, di torri
e di campanili.
Descrisse
alcuni giri in aria, proiettando il fascio di luce sui tetti delle case, poi
calò su una vasta terrazza di metallo, situata sulla cima d'un palazzo di venti
piani.
"Siamo
giunti, padrone" disse il negro.
"Prendi
i due addormentati e portali nella mia camera. E silenzio con tutti!"
3 - LE PRIME MERAVIGLIE DEL Duemila
Erano
trascorse altre due ore, quando il dottor Toby pel primo aperse finalmente gli
occhi, dopo cent'anni che li aveva tenuti chiusi.
Dopo
una immersione durata un quarto d'ora, in una vasca piena di acqua tiepida,
aveva già cominciato a dare qualche segno di vita e a perdere la tinta
giallastra, nondimeno era stata necessaria una nuova iniezione del filtro
misterioso perché il cuore riprendesse finalmente le sue funzioni.
La
rigidità dei muscoli era rapidamente scomparsa ed il colorito roseo era tornato
sul suo volto in seguito alla ripresa della circolazione del sangue.
Appena
aperti gli occhi, il suo sguardo si fissò sul signor Holker che gli stava
presso, occupato a soffregar il petto di Brandok.
"Buongiorno..."
gli disse il pronipote, accostandoglisi rapidamente.
Toby
era rimasto muto; nondimeno i suoi occhi parlavano per lui.
Vi
era nel suo sguardo dello stupore, dell'ansietà, fors'anche della paura.
"Mi
udite?" chiese Holker.
Il
dottore fece col capo un segno affermativo, poi mosse le labbra a più riprese, senza
che potesse emettere alcun suono. Certo la lingua non aveva ancora riacquistata
la sua elasticità dopo essere stata per tanti anni immobilizzata.
"Come
vi sentite? Male forse?"
Toby
fece un gesto negativo, poi alzò le mani facendo dei segni assolutamente
incomprensibili pel signor Holker. Ad un tratto le abbassò puntandole verso il
signor Brandok, che stava coricato in un letto vicino.
"Mi
chiedete se il vostro compagno è vivo o morto, è vero?"
Il
dottore accennò di sì.
"Non
temete signor... zio, se non vi rincresce che vi chiami con questo titolo di
parentela, poiché appartengo alla vostra famiglia come discendente di vostra
sorella... Non temete, anche il vostro compagno sta per tornare alla vita e fra
poco riaprirà gli occhi. Provate molta difficoltà a muovere la lingua? Vediamo,
zio... sono dottore anch'io al pari di voi."
Gli
aprì la bocca e tirò parecchie volte quell'organo, che pareva si fosse
atrofizzato, ripiegandolo poi in tutti i sensi, per fargli riacquistare la
perduta agilità.
"Agisce
ora?"
Un
suono dapprima confuso uscì dalle labbra del dottor Toby, poi un grido:
"La
vita! La vita!".
"Mercé
il vostro filtro, zio."
"Cent'anni?"
"Sì,
dopo cent'anni di sonno" rispose Holker "non credevate certo di poter
tornare vivo."
"Sì!
Sì!" borbottò il dottore.
In
quell'istante una voce fioca chiese:
"Toby?
Toby?".
Il
signor Brandok aveva aperto gli occhi e guardava il suo vecchio amico con uno
stupore facile a comprendersi.
"Toby!"
ripeté per la terza volta, tentando di rizzarsi sul guanciale.
"Non
vi movete, signor Brandok" disse Holker. "Sono lieto di darvi il
buongiorno e di udirvi anche parlare. Rimanete coricati; vi è necessario un
buon sonno, del vero sonno."
S'avvicinò
ad un tavolino su cui stavano parecchie fiale, ne prese una e versò il
contenuto in due tazze d'argento.
"Bevete
questo cordiale" disse, porgendo ad entrambi le tazze. "Vi darà
forza... ah!... mi scordavo di dirvi che i vostri milioni sono al sicuro, qui
in casa mia... Ricoricatevi, fate una buona dormita e questa sera pranzeremo
insieme, ne sono certo."
Il
dottor Toby aveva mormorato:
"Grazie,
mio lontano parente".
Poi
aveva quasi subito chiusi nuovamente gli occhi. Il signor Brandok dormiva di
già, russando sonoramente.
Il
signor Holker rimase nella stanza parecchi minuti, curvandosi ora sull'uno ora
sull'altro dei risuscitati, e ripetendo con visibile soddisfazione:
"Ecco
il vero sonno che farà ricuperare loro le forze. Meraviglioso filtro!... Ecco
un segreto che, se divulgato, renderà il mio antenato l'uomo più famoso del
mondo. Lasciamoli riposare. Credo che ormai siano salvi".
Otto
ore dopo il dottor Toby veniva svegliato da un sibilo leggero, che pareva
venisse dal disotto del guanciale.
Assai
sorpreso, s'era alzato a sedere, gettando intorno a sé uno sguardo meravigliato.
Nella stanza non vi era nessuno e Brandok continuava a russare nell'altro
letto.
"Chi
mi ha fischiato agli orecchi?" si chiese. "Che io abbia
sognato?"
Stava
per chiamare Brandok, quando udì una voce che pareva umana, sussurrargli agli
orecchi:
"Gravi
avvenimenti sono avvenuti ieri nella città di Cadice. Gli anarchici della città
sottomarina di Bressak, impadronitisi della nave Hollendorf, sono sbarcati
nella notte, facendo saltare parecchie case, con bombe. La popolazione è
fuggita e gli anarchici hanno saccheggiata la città. Si chiamano sotto le armi
i volontari di Malaga e di Alicante che verranno trasportati sul luogo
dell'invasione con flotte aeree. Si dice che Bressak sia stata distrutta e che
molte famiglie anarchiche siano rimaste annegate".
Il
dottore aveva ascoltato, con uno stupore facile ad indovinarsi, quella voce che
annunziava uno spaventevole disastro, poi aveva sollevato rapidamente il
guanciale, poiché la voce s'era fatta udire più precisamente dietro la sponda
del letto, e scorse una specie di tubo sul cui orlo era scritto:
"Abbonamento al World".
"Una
meraviglia del Duemila!" esclamò. "I giornali comunicano direttamente
le notizie a casa degli abbonati. Che abbiano soppressa la carta e le macchine
per stamparla? Ai nostri tempi queste comodità non si conoscevano ancora. Come
è progredito il mondo!"
Stava
per chiamare l'amico, che non si decideva ad aprire gli occhi, quando udì
uscire dal tubo un altro fischio, poi la medesima voce che diceva:
"Guardate
la scena".
Nel
medesimo istante il dottore vide illuminarsi un gran quadro che occupava la
parete di fronte al letto e svolgersi una scena orribile e d'una verità
straordinaria.
Degli
uomini erano comparsi in mezzo a delle case e correvano all'impazzata,
lanciando delle bombe che scoppiavano con lampi vivissimi.
I
muri si sfasciavano, i tetti crollavano; uomini, donne e fanciulli
precipitavano nelle vie, mentre larghe lingue di fuoco si alzavano sopra quegli
ammassi di macerie, tingendo tutto il quadro di rosso.
Gli
anarchici continuavano intanto la loro opera di distruzione, e le scene si
succedevano alle scene con vertiginosa rapidità e senza la minima interruzione.
Era una specie di cinematografo, d'una perfezione straordinaria, veramente
stupefacente, che riproduceva con meravigliosa esattezza la terribile strage
annunciata poco prima dal giornale.
Per
dieci minuti quel rovinio continuò, poi finì con una fuga disordinata di gente,
che si rovesciava verso una spiaggia, mentre il cielo rifletteva la luce degli
incendi.
"Straordinario"
ripeteva il dottore, quando la parete tornò bianca. "Che progresso ha
fatto il giornalismo in questi cento anni! E chissà quante meraviglie dovremo
vedere ancora. Brandok, hai finito il tuo sonno?"
Udendo
quella chiamata, il giovane aprì finalmente gli occhi, sbadigliando come un
orso che si sveglia dopo il lungo sonno invernale.
"Come
ti senti, amico mio?" chiese Toby.
"Benissimo."
"Il
tuo spleen?"
"Per
ora non m'accorgo che mi tormenti. E... dimmi, Toby, abbiamo sognato, o è
proprio vero che noi abbiamo dormito un secolo?"
"La
prova l'abbiamo nelle nostre casseforti, che hanno portato qui mentre ci
riposavamo."
"Chi
potrà credere che noi siamo risuscitati?"
"Il
mio parente di certo, poiché è venuto lui a toglierci dal sepolcreto."
"E
dove ci troviamo noi? Ancora a Nantucket?"
"Non
lo saprei davvero."
"E
tu come stai?"
"Provo
un turbamento che non so spiegarmi e mi pare di essere molto debole."
"Sfido
io, dopo un così lungo digiuno?" disse Brandok, ridendo. "Non senti
appetito? Io mangerei volentieri una bistecca, per esempio."
"Adagio,
mio caro. Non sappiamo ancora come funzioneranno i nostri organi interni."
"Se
il cuore, ed i polmoni non danno segno d'aver sofferto, dopo una così lunga
fermata, suppongo che anche gli intestini riprenderanno il loro lavoro."
"Eppure
temevo che si atrofizzassero" disse Toby.
In
quel momento la porta si aprì ed il signor Holker comparve, seguito dal
gigantesco negro che portava dei vestiti simili a quelli che indossava il suo
padrone e della biancheria candidissima.
"Come
state, zio? Mi permettete di chiamarvi così, d'ora innanzi?"
"Certo,
mio caro tardo nipote" rispose il dottore. "Mi trovo abbastanza
bene."
"Anche
voi, signor Brandok?"
"Ho
solamente un po' di fame."
"Buon
segno; vestitevi e poi andremo a pranzare. Le vesti saranno un po' diverse da
quelle che si portavano cent'anni fa, però sono più comode e dal lato igienico
nulla lasciano a desiderare, essendo disinfettate perfettamente."
"E
anche la stoffa mi sembra diversa."
"Stoffa
vegetale. Già da sessant'anni abbiamo rinunciato a quella animale, troppo
costosa e poco pulita in paragone a questa. Ah! Troverete il mondo ben
cambiato; per ora non vi dico altro per non scemare la vostra curiosità. Vi
aspetto nella sala da pranzo."
Il
dottor Toby e Brandok si cambiarono, fecero un po' di toeletta, poi lasciarono
la stanza, inoltrandosi in un corridoio le cui pareti lucidissime avevano degli
strani splendori, come se sotto la vernice che le copriva vi fosse qualche
strato di materia fosforescente, ed entrarono in un salotto abbastanza ampio,
illuminato da due finestre larghe e alte fino al soffitto, che permettevano
all'aria di entrare liberamente.
Era
ammobiliato con semplicità, non esente da una certa eleganza. Le sedie, la
credenziera, gli scaffali situati negli angoli e perfino la tavola che occupava
il centro, erano formati di un metallo bianco e lucentissimo che assomigliava
all'alluminio.
Il
signor Holker era già seduto a tavola, la quale era coperta da una tovaglia
colorata che non sembrava di tela.
"Avanti,
miei cari amici," disse, andando loro incontro "il pranzo e
pronto."
"E
dove lo mangeremo?" chiese Brandok, che non aveva scorto sulla tavola né
piatti, né bicchieri, né posate, né salviette, né cibi di alcun genere.
"Ah!
mi scordavo che un secolo fa gli albergatori erano pure indietro di cento
anni!" disse Holker, ridendo. "Hanno progredito anche loro.
Guardate."
S'accostò
ad una parete ed abbassò una lastra di metallo lunga un paio di metri e larga
una trentina di centimetri, unendola alla tavola in modo da formare un piccolo
ponte. L'altra estremità s'appoggiava ad una piccola mensola sopra la quale sta
scritto: "Abbonamento all'Hôtel Bardilly".
"E
ora?" chiese Brandok che guardava con crescente stupore.
"Premo
questo bottone ed il pranzo lascia le cucine dell'albergo per venire sulla mia
tavola."
"Dove
si trova questo Hôtel? In questa casa?"
"Anzi,
è piuttosto lontano: sulla riva opposta dell'Hudson."
"Siamo
dunque a Nuova York?!" esclamarono ad una voce Toby e Brandok.
"Dove
credevate di essere? Ancora a Nantucket?"
"Quando
ci avete trasportati?" domandò Brandok al colmo della sorpresa.
"Ieri
sera. Alle otto ho lasciato l'isola e a mezzanotte eravate qui."
"In
quattro sole ore, mentre cent'anni fa se ne impiegavano sedici e con una
scialuppa a vapore!" esclamò il dottore.
"Abbiamo
camminato colle invenzioni, mio caro zio" disse Holker. "Ah! ecco il
pranzo."
Un
sibilo acuto era sfuggito da una piccola fessura della mensola, poi una
porticina si era aperta automaticamente all'estremità della lastra di metallo
che si univa alla tavola e una piccola macchina, seguita da sei vagoncini di
alluminio di forma cilindrica, s'avanzò, correndo su due incavi che servivano
da rotaie.
"Il
pranzo che manda l'albergo?" chiesero Toby e Brandok.
"Sì,
signori, e con tutto il necessario. Come vedete è una cosa molto comoda che mi
dispensa dall'avere una cuoca ed una cucina" rispose Holker.
Aprì
il primo vagoncino che aveva una circonferenza di quaranta centimetri e una lunghezza
uguale e levò dei bicchieri, delle posate, delle salviette e quattro bottiglie
che dovevano contenere del vino o della birra. Dagli altri quattro estrasse
successivamente dei piccoli recipienti contenenti del brodo ancora caldissimo,
poi dei piatti con pasticci e vivande svariate, delle uova, dei liquori e così
via. Tutto il necessario insomma per un pranzo abbondante.
Quand'ebbe
terminato, premette un bottone, la porticina si aprì ed il minuscolo treno
scomparve, retrocedendo colla velocità d'un lampo.
"Che
cosa ne dite, signor Brandok?" chiese Holker.
"Che
ai nostri tempi queste comodità mancavano assolutamente. E tornerà il
treno?"
"Certo,
per riprendere le stoviglie."
"E
come arriva qui?"
"Per
mezzo d'un tubo, e cammina mosso da una piccola pila elettrica, d'una potenza
tale però che le imprime una velocità di quasi cento chilometri all'ora. Queste
vivande non sono state rinchiuse nei loro recipienti che da qualche minuto;
infatti vedete che fumano, anzi scottano."
"E
l'albergatore come viene avvertito dal cliente di ciò che desidera?"
"Per
mezzo del telefono. Al mattino il mio servo trasmette all'Hôtel il menù per il
pranzo e per la cena e le ore in cui desidero mangiare, ed il treno giunge con
precisione matematica."
"Non
tutti potranno permettersi un lusso simile" osservò il dottore Toby.
"Certo,"
rispose Holker "ma quelli che non possono abbonarsi all'Hôtel se la
sbrigano anche più presto."
"A
mangiare forse, non certo a prepararsi il pranzo."
"Il
lavoratore non fa più cucina in casa, non avendo tempo da perdere. Otto o dieci
pillole, ed ecco inghiottito un buon brodo, il succo d'una mezza libbra di bue,
o di pollo o di una libbra di maiale o di un paio d'uova, d'una tazza di caffè
e così via. Cent'anni fa si perdeva troppo tempo; camminavate ed agivate colla
lentezza delle tartarughe. Oggi invece si gareggia coll'elettricità. Mangiate,
signori miei, o i cibi si raffredderanno. Una tazza di buon brodo, signor
Brandok, prima di tutto, poi sceglierete quello che più vi piace. Vi avverto
che è un pranzo a base di vegetali; ma queste pietanze non sono meno nutrienti,
e non vi parranno meno saporite. Poi parleremo finché vorrete."
4 - LA LUCE ED IL CALORE FUTURO
Il
dottor Holker aveva detto la verità. Il brodo era squisitissimo, ma nessuna
pietanza era di carne di bue, di maiale e di montone. Solo dei pesci: tutti gli
altri piatti si componevano di vegetali, fra cui molti che erano assolutamente
sconosciuti a Toby ed a Brandok.
In
compenso il vino era così eccellente che né l'uno né l'altro mai ne avevano
gustato di simile.
"Signor
Holker," disse Brandok, che mangiava con un appetito invidiabile, come se
si fosse svegliato solo da dieci o dodici ore "siete vegetariano
voi?"
"Perché
mi fate questa domanda?" chiese il lontano pronipote del dottore.
"Ai
nostri tempi si parlava molto di vegetarianismo, specialmente in Germania ed in
Inghilterra. Si vede che quella cucina ha fatto dei progressi."
"Perché
non trovate delle bistecche?"
"Sì,
e mi stupisce come i moderni americani abbiano rinunciato alle succose
bistecche ed ai sanguinanti roast beef."
"Sono
piatti diventati un po' rari, oggi, mio caro, e pel semplice motivo che i buoi
ed i montoni sono quasi scomparsi."
"Ah!"
"Ve
ne stupite?"
"Molto."
"Mio
caro signore, la popolazione del globo in questi cento anni è enormemente
cresciuta, e non esistono più praterie per nutrire le grandi mandrie che
esistevano ai vostri tempi. Tutti i terreni disponibili sono ora coltivati
intensivamente per chiedere al suolo tutto quello che può dare. Se così non si
fosse fatto, a quest'ora la popolazione del globo sarebbe alle prese colla
fame. I grandi pascoli dell'Argentina e i nostri del Far-West non esistono più,
ed i buoi ed i montoni a poco a poco sono quasi scomparsi, non rendendo le
praterie in proporzione all'estensione. D'altronde non abbiamo più bisogno di
carne al giorno d'oggi. I nostri chimici, in una semplice pillola dal peso di
qualche grammo, fanno concentrare tutti gli elementi che prima si potevano
ricavare da una buona libbra di ottimo bue."
"E
l'agricoltura come va senza buoi?"
"Anticaglie"
disse Holker. "I nostri campagnoli non fanno uso che di macchine mosse
dall'elettricità."
"Sicché
non vi sono più neanche cavalli?"
"A
che cosa potrebbero servire? Ce ne sono ancora alcuni, conservati più per
curiosità che per altro."
"E
gli eserciti non ne fanno più uso?" chiese il dottor Toby. "Ai nostri
tempi tutte le nazioni ne avevano dei reggimenti."
"E
che cosa ne facevano?" chiese Holker, con aria ironica.
"Se
ne servivano nelle guerre."
"Eserciti!
Cavalleria! Chi se ne ricorda ora?"
"Non
vi sono più eserciti?" chiesero ad una voce Toby e Brandok.
"Da
sessant'anni sono scomparsi, dopo che la guerra ha ucciso la guerra, l'ultima
battaglia combattuta per mare e per terra fra le nazioni americane ed europee è
stata terribile, spaventevole, ed è costata milioni di vite umane, senza
vantaggio né per le une né per le altre potenze. Il massacro è stato tale da
decidere le diverse nazioni del mondo ad abolire per sempre le guerre. E poi
non sarebbero più possibili. Oggi noi possediamo degli esplosivi capaci di far
saltare una città di qualche milione di abitanti; delle macchine che sollevano
delle montagne; possiamo sprigionare, colla semplice pressione del dito, una
scintilla elettrica trasmissibile a centinaia di miglia di distanza e far
scoppiare qualsiasi deposito di polvere. Una guerra, al giorno d'oggi,
segnerebbe la fine dell'umanità. La scienza ha vinto ormai su tutto e su
tutti."
"Eppure
quest'oggi, appena svegliato, mi fu comunicata dal vostro giornale una notizia
che smentirebbe quello che avete detto ora, mio caro nipote" disse Toby.
"Ah
sì! La distruzione di Cadice da parte degli anarchici. Bazzecole! Ormai questi
bricconi irrequieti saranno stati completamente distrutti dai pompieri di
Malaga e di Alicante."
"Dai
pompieri?"
"Non
abbiamo altre truppe al giorno d'oggi, e vi assicuro che sanno mantenere
l'ordine in tutte le città e sedare qualunque tumulto. Mettono in batteria
alcune pompe e rovesciano sui sediziosi torrenti d'acqua elettrizzata al
massimo grado. Ogni goccia fulmina, e l'affare è sbrigato presto."
"Un
mezzo un po' brutale, signor Holker, e anche inumano."
"Se
non si facesse così, le nazioni si vedrebbero costrette ad avere delle truppe
per mantenere l'ordine. E del resto siamo in troppi in questo mondo, e se non
troviamo il mezzo d'invadere qualche pianeta, non so come se la caveranno i
nostri pronipoti fra altri cent'anni, a meno che non tornino, come i nostri
antenati, all'antropofagia. La produzione della terra e dei mari non basterebbe
a nutrire tutti, e questo è il grave problema che turba e preoccupa gli
scienziati. Ah! se si potesse dar la scalata a Marte che ha invece una
popolazione così scarsa e tante terre ancora incolte!"
"Come
lo sapete voi?" chiese Toby, facendo un gesto di stupore.
"Dagli
stessi martiani" rispose Holker.
"Dagli
abitanti di quel pianeta!" esclamò Brandok.
"Ah,
dimenticavo che ai vostri tempi non si era trovato ancora un mezzo per mettersi
in relazione con quei bravi martiani."
"Scherzate?"
"Ve
lo dico sul serio, mio caro signor Brandok."
"Voi
comunicate con loro?"
"Ho
anzi un carissimo amico lassù che mi dà spesso sue notizie."
"Come
avete fatto a mettervi in relazione coi martiani?"
"Ve
lo dirò più tardi, quando avrete visitato la stazione elettrica di Brooklyn.
Eh! Sono già quarant'anni che siamo in relazione coi martiani."
"È
incredibile!" esclamò il dottor Toby. "Quali meravigliose scoperte
avete fatto voi in questi cent'anni!"
"Molte
che vi faranno assai stupire, zio. Appena vi sarete completamente rimessi, vi
proporrò di fare una corsa attraverso il mondo. In sette giorni saremo
nuovamente a casa."
"Il
giro del mondo in una settimana!..."
"È
naturale che ciò vi stupisca. Ai vostri tempi s'impiegavano quarantacinque o
cinquanta giorni, se non m'inganno."
"E
ci sembrava d'aver raggiunto la massima velocità."
"Delle
tartarughe" disse Holker, ridendo. "Poi faremo anche una corsa al
polo nord a visitare quella colonia."
"Si
va anche al polo, ora?"
"Bah!...
è una semplice passeggiata."
"Avete
trovato il mezzo di distruggere i ghiacci che lo circondano?..."
"Niente
affatto, anzi io credo che le calotte di ghiaccio che avvolgono i due confini
della terra siano diventate più enormi di quello che erano cent'anni fa; eppure
noi abbiamo trovato egualmente il mezzo di andare a visitarli e anche a
popolarli. Vi abbiamo relegati là..."
Un
sibilo acuto che sfuggì da un foro aperto sopra una mensola che si trovava in
un angolo della stanza, gl'interruppe la frase.
"Ah,
ecco la mia corrispondenza che arriva" disse Holker, alzandosi.
"Un'altra
meraviglia!" esclamarono Toby e Brandok alzandosi.
"Una
cosa semplicissima" rispose Holker. "Guardate, amici miei."
Premette
un bottone al disotto d'un quadro che rappresentava una battaglia navale. La
figura scomparve, innalzandosi entro due scanalature, e lasciando un vano d'un
mezzo metro quadrato. Dentro v'era un cilindro di metallo coperto di numeri
segnati in nero, lungo sessanta o settanta centimetri, con una circonferenza di
trenta o quaranta.
"Il
mio numero d'abbonamento postale è il 1987" disse Holker. "Eccolo
qui, e in un piccolo scompartimento sono state collocate le mie lettere."
Mise
un dito sul numero, s'aprì uno sportellino e trasse la sua corrispondenza, poi
fece ridiscendere il quadro e premette un altro bottone.
"Ecco
il cilindro ripartito" disse. "Va a distribuire la corrispondenza
agli inquilini della casa."
"Come
è giunto qui quel cilindro?" chiese Brandok.
"Per
mezzo d'un tubo comunicante coll'ufficio postale più vicino, e rimorchiato da
una piccola macchina elettrica."
"E
come si ferma?"
"Dietro
il quadro vi è uno strumento destinato ad interrompere la corrente elettrica.
Appena il cilindro vi passa sopra, si ferma e non riparte se io prima non riattivo
la corrente premendo quel bottone."
"Vi
è un cilindro per ogni casa?"
"Sì,
signor Brandok; devo avvertirvi che le abitazioni moderne hanno venti o
venticinque piani e che contengono dalle cinquecento alle mille famiglie."
"La
popolazione d'uno dei nostri antichi sobborghi" disse il dottore.
"Non ci sono dunque più case piccole?"
"Il
terreno è troppo prezioso oggidì, e quel lusso è stato bandito. Non si può
sottrarre spazio all'agricoltura. Ma comincia a far buio; sarebbe tempo d'illuminare
il mio salotto. Ai vostri tempi che cosa si accendeva alla sera?"
"Gas,
petrolio, luce elettrica" disse Brandok.
"Povera
gente" disse Holker. "E come doveva costar cara allora
l'illuminazione!"
"Certo,
signor Holker" disse Brandok. "Ora invece?"
"Abbiamo
quasi gratis la luce ed il calore."
Dal
soffitto pendeva un'asta di ferro che finiva in una palla, composta d'un
metallo azzurro.
Il
signor Holker l'aprì facendola scorrere sopra l'asta e tosto una luce
brillante, simile a quella che mandavano un tempo le lampade elettriche, si
sprigionò, inondando il salotto.
Ciò
che la produceva era una pallottolina appena visibile che si trovava infissa
sotto la sfera, e la luce che tramandava, espandeva un dolce calore assai
superiore a quello del gas.
"Che
cos'è?" chiesero ad una voce Brandok e Toby.
"Un
semplice pezzetto di radium" rispose Holker.
"Il
radium!" esclamarono i due risuscitati.
"Si
conosceva ai vostri tempi?"
"L'avevano
già scoperto" rispose Toby. "Ma non si usava ancora a causa
dell'enorme suo costo. Un grammo non si poteva avere a meno di tre o
quattromila lire. E poi non s'era potuto trovare ancora il modo di applicarlo,
come avete fatto ora voi. Tutti però gli predicevano un grande avvenire."
"Quello
che non hanno potuto fare i chimici del 1900 l'hanno fatto quelli del
Duemila" disse Holker. "Quel pezzetto lì non vale che un dollaro e
brucia sempre, senza mai consumarsi. È il fuoco eterno."
"Meraviglioso
metallo!..."
"Sì,
meraviglioso, perché oltre a darci la luce, ci dà anche il calore. Ha detronizzato
il carbon fossile, la luce elettrica, il gas, il petrolio, le stufe ed i
camini."
"Sicché
anche le vie sono illuminate con lampade a radium?" chiese Toby.
"E
anche gli stabilimenti, le officine e così via."
"E
nelle miniere di carbone non si lavora più?"
"A
che cosa servirebbe il carbone? Poi cominciavano già ad esaurirsi."
"La
forza necessaria per far agire le macchine degli stabilimenti, chi ve la dà
ora?"
"L'elettricità
trasportata ormai a distanze enormi. Le nostre cascate del Niagara, per esempio,
fanno lavorare delle macchine che si trovano a mille miglia di distanza. Se noi
volessimo, potremmo dare di quelle forze anche all'Europa, mandandole
attraverso l'Atlantico. Ma anche laggiù hanno costruito delle cascate sui loro
fiumi e non hanno più bisogno di noi."
"Amico
James," disse Toby "ti penti d'aver dormito cent'anni per poter
vedere le meraviglie del Duemila?"
"Oh
no!" esclamò vivamente il giovane.
"Credevi
di veder il mondo così progredito?"
"Non
mi aspettavo tanto."
"E
il tuo spleen?"
"Non
lo provo più, tuttavia... non senti nulla tu?"
"Sì,
un'agitazione strana, un'irritazione inesplicabile del sistema nervoso"
disse Toby. "Mi sembra che i muscoli ballino sotto la mia pelle."
"Anche
a me" disse Brandok.
"Sapete
da che cosa deriva?" chiese Holker.
"Non
saprei indovinarlo" rispose Toby.
"Dall'immensa
tensione elettrica che regna ormai in tutte le città del mondo ed a cui voi non
siete ancora abituati. Cent'anni fa l'elettricità non aveva ancora raggiunto un
grande sviluppo, mentre ora l'atmosfera ed il suolo ne sono saturi. Ma vi
abituerete, ne son certo. E per oggi basta. Andate a riposare e domani mattina
faremo una corsa attraverso Nuova York sul mio Condor."
"È
un'automobile?" chiese Brandok.
"Sì,
ma di nuovo genere" rispose Holker, con un sorriso. "Cominceremo così
il nostro viaggio attraverso il mondo."
Era
appena spuntata l'alba, quando Holker entrò nella stanza del suo antenato e del
signor Brandok, gridando:
"In
piedi miei cari amici!... Il mio Condor ci aspetta dinanzi alle finestre del
salotto e l'hôtel ci ha già mandato il tè".
Non
ci volevano che le parole "ci aspetta dinanzi alle finestre" per far
balzare giù dal letto il dottore ed il suo compagno.
"L'automobile
davanti alle finestre!" avevano esclamato, infilando i calzoni.
"Vi
sorprendete?"
"A
che piano siamo?" chiese Brandok.
"Al
diciannovesimo. Si respira meglio in alto ed i rumori della via giungono
appena."
"Allora
che automobile è la vostra, per salire a simile altezza?"
"Lo
vedrete; sbrigatevi, amici, perché ho desiderio di condurvi stamane fino alle
cascate del Niagara, per mostrarvi i colossali impianti elettrici che
forniscono la forza a quasi tutti gli stabilimenti della Federazione. Prima
andremo a vedere la stazione ultrapotente di Brooklyn, dovendo dare mie notizie
al mio amico marziano. Quel brav'uomo deve essere un po' inquieto pel mio lungo
silenzio e saprà con piacere la notizia della vostra risurrezione."
"Come!"
esclamò Toby. "Tu lo avevi informato che un tuo antenato dormiva da cento
anni?"
"Sì,
zio" rispose Holker. "Ci facciamo di tratto in tratto delle
confidenze, perché siamo legati da una profonda amicizia."
"Senza
esservi mai veduti?" esclamò Brandok.
"Dietro
alcune mie indicazioni avrà scarabocchiato il mio ritratto."
"E
tu?" chiese Toby.
"Ho
il suo."
"Come
sono dunque gli abitanti di Marte? Somigliano a noi?"
"Dalle
descrizioni che abbiamo ricevuto da loro, non sono affatto simili a noi;
tuttavia in fatto di civiltà e di scienza, sembra che non siano a noi
inferiori. Figuratevi, zio, che hanno delle teste quattro volte più grosse
delle nostre e che quindi, con un simile sviluppo di cervello, non devono
essere più arretrati di noi."
"Ed
il corpo?"
"I
martiani, da quanto abbiamo potuto comprendere, sono anfibi che rassomigliano
alle foche, con braccia cortissime, che terminano con dieci dita, e piedi molto
grandi e palmati."
"Dei
veri mostri, insomma!" esclamò Toby, che ascoltava con viva curiosità quei
particolari.
"Non
sembra infatti che siano troppo belli" rispose Holker. "Ma andiamo a
prendere il tè, o lo troveremo freddo. Riparleremo dei martiani e del loro
pianeta quando saremo alla stazione ultrapotente di Brooklyn."
Lasciarono
la stanza ed entrarono nel salotto. La piccola ferrovia con un solo vagoncino,
stava ferma all'estremità della piastra di metallo. Non fu però quella che
attrasse l'attenzione di Brandok e del dottore, bensì un'ombra gigantesca che
si agitava dinanzi alle due ampie finestre.
"Che
cos'è?" chiesero, slanciandosi innanzi.
"Il
mio Condor" rispose tranquillamente Holker.
"Un
pallone dirigibile?" chiese.
"No,
signori, una macchina volante che funziona perfettamente, dotata d'una velocità
straordinaria, tale da poter gareggiare colle rondini ed i colombi viaggiatori.
Ve n'erano ai vostri tempi?"
"Qualche
pallone dirigibile, sempre pericoloso" disse Toby.
"E
siccome i palloni causavano troppe disgrazie, noi da cinquant'anni abbiamo
abbandonato l'idrogeno per le ali. Prendiamo il tè, poi avrete il tempo di
osservare il mio Condor e di vederlo manovrare."
Strappò
quasi per forza il dottore e Brandok dalle finestre e trasse dal vagoncino le
tazze, la salvietta ed il recipiente contenente la profumata bevanda, nonché
dei biscotti.
"Non
siate troppo impazienti" disse. "Bisogna vedere le cose una alla
volta o vi affaticherete troppo. Il tempo non ci manca."
Bevettero
il tè, bagnandovi qualche biscotto, poi Holker salì sul davanzale che era molto
basso e mise i piedi sulla piattaforma della macchina volante su cui erano
state collocate quattro comode poltroncine.
Harry,
il negro gigante, stava dietro alla macchina, tenendo le mani su una piccola
ruota che faceva agire due immensi timoni di forma triangolare, costruiti con
una specie di tela lucidissima, montati sopra una leggera armatura di metallo.
Brandok
e Toby si erano appena seduti, che il Condor s'innalzò subito obliquamente fino
al di sopra delle immense case, descrivendo una serie di giri d'una precisione
ammirabile. Quella macchina, inventata dagli scienziati del Duemila, era
davvero stupefacente e, quello che è più, d'una semplicità straordinaria.
Non
si componeva che di una piattaforma di metallo che pareva più leggero
dell'alluminio, con quattro ali e due eliche collocate le une lateralmente alle
altre, tutte di tela, con stecche d'acciaio e una piccola macchina che le
faceva agire.
Il
gas, come si vede, non vi entrava per nulla; la meccanica aveva trionfato sui
palloni dirigibili del secolo precedente.
Toby
ed il suo compagno guardavano con stupore quel congegno straordinario che si
alzava e si abbassava e girava e rigirava come fosse un vero uccello.
Altri
consimili ne volavano in gran numero sopra i tetti dei palazzi, gareggiando in
velocità, per la maggior parte montati da signore che ridevano allegramente, e
da fanciulli schiamazzanti.
Ve
n'erano di tutte le dimensioni: di grandissimi che portavano perfino venti
persone, e di piccolissimi, appena sufficienti per due; ed altri formati da
sole due ali somiglianti a quelle dei pipistrelli, che reggevano una
poltroncina montata da una sola persona e che pure manovravano con non minore
precisione e rapidità degli altri.
In
alto, in basso, s'incrociavano saluti e chiamate, poi la flottiglia aerea si
disperdeva in tutte le direzioni, calando sulle vie, sulle piazze, sulle
immense terrazze delle case o fermandosi dinanzi alle finestre od ai poggioli
per imbarcare nuove persone. Brandok e Toby erano diventati muti, come se lo
stupore avesse paralizzato loro la lingua.
"Non
dite nulla, dunque?" chiese finalmente Holker. "Avete perduta la
favella?"
"Io
mi domando se sto sognando" disse Brandok. "È impossibile che tutto
ciò sia realtà."
"Mio
caro Brandok, siamo nel Duemila."
"Tutto
quello che vorrete; eppure stento a persuadermi che il mondo, in soli cent'anni,
sia così progredito. Trasformare gli uomini in uccelli! È incredibile!"
"E
non vi è pericolo che queste macchine volanti cadano?" chiese Toby.
"Qualche
volta succedono degli scontri; le ali si spezzano, le eliche si lacerano e
allora guai a chi cade: eppure chi ci bada? Forse che ai vostri tempi non
s'urtavano le vecchie ferrovie e le navi? Sono incidenti che non commuovono
nessuno."
"Che
macchine sono quelle che fanno agire le ali?"
"Macchine
elettriche di grande potenza. Come vi ho detto, in questi cent'anni
l'elettricità ha fatto dei progressi stupefacenti."
"E
quale velocità potete imprimere a queste navi volanti?"
"Anche
150 chilometri all'ora."
"Sicché
avete abolito i treni ferroviari?" chiese Brandok.
"Oh
no, mio caro signore, non son più quelli che si usavano ai vostri tempi, troppo
lenti per noi, ma ne abbiamo ancora moltissimi. Capirete che queste macchine
volanti non si possono caricare soverchiamente. Non servono che per divertirsi
o per compiere delle piccole corse di piacere. E pei lunghi viaggi attraverso
gli oceani anche" proseguì Holker. "Noi abbiamo dei veri vascelli
aerei, che partono regolarmente da tutti i porti dell'Atlantico e del Pacifico
e che in trentasei ore vi sbarcano in Inghilterra, ed in quaranta nel Giappone
o nella Cina o nell'Australia."
"Non
vi sono più navi sui mari?"
"Oh
sì, ne abbiamo ancora; ma non sono più quelle che si usavano nel secolo scorso.
Ne vedrete molte quando attraverseremo l'Atlantico. Ho pensato anzi di lasciare
alle cascate del Niagara il mio Condor e di condurvi a Quebec colla ferrovia
canadese, per imbarcarvi poi di là per l'Europa."
"Mio
caro nipote," disse Toby "tu trascuri i tuoi affari; suppongo che
avrai qualche occupazione."
"Sono
medico nel grande ospedale di Brooklyn; per ora non si ha bisogno di me, avendo
io due mesi di vacanza."
"Anche
tu dottore!" esclamò Toby.
"Che
farà una ben meschina figura dinanzi all'uomo che ha fatto una così grande
scoperta."
"Ne
sarai l'erede" disse Toby.
In
quel momento il Condor si abbassò bruscamente su una vasta piazza brulicante di
gente che pareva impazzita.
"Che
cosa accade laggiù?" chiese Brandok, che si era curvato sul parapetto
della piattaforma.
"È
la piazza della Borsa" rispose Holker.
"Sembra
che quegli uomini abbiano il fuoco addosso. Vanno e vengono quasi
correndo."
"E
anche la gente che si affolla nelle vie vicine pare che cammini sui
tizzoni" disse Toby. "Eppure non saranno borsisti quelli là."
"Camminavano
diversamente cent'anni fa?" chiese Holker, con una certa sorpresa.
"Erano
molto più calmi gli uomini, mentre ora vedo che perfino le signore marciano a
passo di corsa, come se avessero paura di perdere il treno."
"Io
ho sempre veduto, da quando son venuto al mondo, correre così
frettolosamente."
"Ah!
Ora comprendo," disse Toby. "È la grande tensione elettrica che
agisce sui loro nervi. Il mondo è impazzito o quasi."
"Harry,"
disse Holker "muovi verso Brooklyn."
Il
Condor s'alzò d'un centinaio di metri e si slanciò verso l'est con una velocità
di cinquanta chilometri all'ora.
Vie
immense apparivano sotto agli aeronauti, se così si potevano chiamare,
fiancheggiate da palazzi mostruosi di venti, venticinque e perfino di trenta
piani, che dovevano contenere migliaia di famiglie ciascuno, la popolazione di
un villaggio. Mille fragori salivano fino agli orecchi dei due risuscitati,
prodotti chissà da quali macchine gigantesche: fischi, colpi formidabili,
detonazioni, scoppi, e si vedevano, lungo le pareti e sulla cima di colonne di
ferro, roteare con velocità straordinaria delle macchine volanti di dimensioni
mai viste.
"Che
cosa fanno laggiù?" chiese Brandok.
"Sono
officine meccaniche" rispose Holker.
"Chissà
quante migliaia di operai lavoreranno là dentro!"
"Vi
ingannate, mio caro signore; gli operai oggidì sono quasi scomparsi. Non vi sono
che dei meccanici per dirigere le macchine. L'elettricità ha ucciso il
lavoratore."
"Cosa
è avvenuto di quelle masse enormi di lavoratori che esistevano un tempo?"
"Sono
diventati pescatori ed agricoltori; il mare e le campagne a poco a poco hanno
assorbito gli operai."
"Sicché
non vi saranno più scioperi?"
"È
una parola sconosciuta."
"Ai
nostri tempi si imponevano, e come! Specialmente dopo l'organizzazione fatta
dal grande partito socialista. Che cosa è avvenuto anzi del socialismo? Si
prediceva un grande avvenire a quel partito."
"È
scomparso dopo una serie di esperimenti che hanno scontentato tutti e
contentato nessuno. Era una bella utopia che in pratica non poteva dare alcun
risultato, risolvendosi infine in una specie di schiavitù. Così siamo tornati
all'antico, e oggidì vi sono poveri e ricchi, padroni e dipendenti come era
migliaia d'anni prima, e come è sempre stato dacché il mondo cominciò a
popolarsi. Qualche colonia tedesca e russa sussiste nondimeno ancora, composta
da vecchi socialisti che coltivano in comune alcune plaghe della Patagonia e
della Terra del Fuoco, ma nessuno si occupa di loro, né hanno alcuna
importanza, anzi, vanno scomparendo poco a poco."
"Il
ponte di Brooklyn!" esclamò Brandok. "Lo riconosco ancora. Ha dunque
resistito fino ad oggi?"
"Già,
sono più di centoventi anni che è lì. Gl'ingegneri dei vostri tempi erano buoni
costruttori" disse Holker.
"Come
è diventato immenso quel sobborgo!" esclamò il dottore guardando con
ammirazione la distesa di palazzi immensi che si estendeva a perdita d'occhio.
"Quattro
milioni di abitanti" disse Holker. "Ormai gareggia con Nuova
York."
"E
Londra che cosa sarà mai?"
"Una
città di dodici milioni."
"E
Parigi?"
"Una
metropoli sterminata, più grossa ancora. Harry, va diritto alla stazione ultrapotente."
Il
Condor, oltrepassato il ponte, aveva affrettato il volo.
Anche
di sopra all'antico sobborgo di Nuova York si vedevano volteggiare un gran
numero di macchine volanti, cariche di persone che si dirigevano per lo più
verso l'Hudson o verso il mare.
Il
Condor, dopo essere passato sopra la città, si diresse verso una piccola altura
su cui si vedeva ergersi una torre immensa munita sulla cima di un'antenna
smisurata, che pareva un cannone mostruoso minacciante il cielo.
"La
stazione ultrapotente" disse Holker. "Vedete là a fianco della torre
anche un tubo lucente, di dimensioni pure enormi?"
"Sì,
e cos'è?" chiese Toby.
"È
il più grande cannocchiale che esista al mondo."
"Deve
essere immenso."
"È
lungo centocinquanta metri, signori miei, una vera meraviglia che permette di
vedere la luna ad un solo metro di distanza."
"Sicché
voi avete realizzato l'antico sogno dei nostri astronomi."
"Ah!
Anche i vostri scienziati hanno tentato di avvicinare di tanto il nostro
satellite?"
"Sì,
nipote mio," rispose Toby "e senza riuscirvi. Sicché ora la luna è
ormai conosciuta minutamente?"
"Conosciamo
anche le sue più piccole rocce."
"È
popolata?"
"È
un corpo spento, senz'aria, senz'acqua, senza vegetazione e senza
abitanti."
"Già,
anche i nostri astronomi l'avevano supposta così."
"E
Marte a quanta distanza lo vedete col vostro cannocchiale?" chiese
Brandok.
"A
soli trecento metri."
"Che
meraviglie!"
"Adagio,
Harry, scendi piano."
Il
Condor aveva superata una vasta cinta che circondava la stazione e scendeva
dolcemente, descrivendo delle curve allungate.
Alle
otto del mattino s'adagiava a trenta metri dall'enorme telescopio.
Un
uomo sulla sessantina, che aveva una testa ancor più grossa del signor Holker
ed il viso completamente rasato, era uscito dall'immensa torre che s'innalzava
nel centro della cinta e si era affrettato ad andare incontro ai visitatori,
dicendo:
"Buon
giorno, dottore; è un po' di tempo che non vi si vede qui".
"Buon
giorno, signor Hibert" aveva risposto Holker. "Vi conduco due miei
amici giunti ieri dall'Inghilterra e che sono curiosi di visitare la vostra
stazione e di avere notizie dei martiani."
"Siano
i benvenuti" rispose il signor Hibert, stringendo la mano agli ospiti.
"Sono a loro disposizione."
"Il
più grande astronomo d'America" disse Holker, dopo la presentazione.
"La gloria di aver messa in comunicazione la terra con Marte la dobbiamo a
lui."
"Credevo
che fossero stati gli scienziati europei" disse Toby. "So che se ne
occupavano molto, un tempo."
"L'America
li ha preceduti" disse Holker.
"Sarei
curioso di sapere come siete riuscito a dare a quei lontani abitanti notizie
della terra. Dovete aver superate delle difficoltà immense."
"Eppure,
che cosa direste se io vi raccontassi che l'idea di fare dei segnali a noi,
nacque prima nel cervello dei martiani?" disse l'astronomo.
"Mi
pare impossibile!" esclamò Brandok.
"Eppure
è precisamente così, mio caro signore. Già da molti lustri, anzi fin dal 1900 e
anche prima, i nostri vecchi astronomi e anche quelli europei, specialmente
l'italiano Schiaparelli, avevano notato che su quel pianeta apparivano di
quando in quando, specialmente dopo il ritiro delle acque che ogni anno
invadono quelle terre, delle immense linee di fuoco che si estendevano per
migliaia di chilometri."
"Me
ne ricordo" disse il dottor Toby. "L'ho già letto su una vecchia
collezione di giornali del 1900 che conservo in casa mia. Si credeva allora che
quei fuochi fossero segnali fattici dagli abitanti di Marte."
"In
questo secolo i nostri astronomi, vedendo che quelle linee di fuoco si
ripetevano con maggior frequenza e che descrivevano per lo più una forma
rassomigliante ad una "J" mostruosa, supposero che fossero veramente
segnali e decisero di provare a rispondere. Fu nel 1940 che si fece il primo
esperimento nelle immense pianure del Far-West. Duecentomila uomini furono
disseminati in modo da formare pure una "J" e duecentomila fuochi
furono accesi durante una notte scurissima. Ventiquattr'ore dopo lo stesso
segnale appariva pure su uno degli immensi canali del pianeta marziano. Si
pensò allora, per meglio accertare che si rispondeva a noi, di ripetere
l'esperimento cambiando però la forma del segnale e fu scelta la lettera
"Z". Venti notti dopo, i martiani rispondevano con una lingua di
fuoco della stessa forma. Il dubbio ormai non poteva più sussistere. I
martiani, chissà da quanto tempo, cercavano di mettersi in relazione con noi.
Per un mese furono continuate le prove, cambiando sempre lettera e con
crescente successo."
"Non
potevate però comprendervi" disse Toby.
"Sarebbe
stato necessario che avessero avuto un alfabeto eguale al nostro, e poi quel
mezzo sarebbe stato molto costoso. Nacque allora nella mente degli scienziati
l'idea di mandare lassù un'onda herziana, nella speranza che anche i martiani
avessero uno strumento ricevitore. A spese dei vari governi americani fu
innalzata questa torre d'acciaio, che fu spinta fino a quattrocento metri e
piantata sulla cima una stazione ultrapotente di telegrafia senza fili."
"Una
invenzione non moderna la telegrafia aerea" disse Brandok.
"È
vero che si conosceva fin dai primi anni dello scorso secolo, e che fu
perfezionata dalle scoperte di un bravo scienziato italiano, il signor Marconi;
ma allora non aveva la potenza d'oggi. I nostri strumenti, perfezionati da
molti scienziati, hanno raggiunto una tale forza che noi potremmo corrispondere
anche col sole, se lassù vi fossero degli abitanti e dei ricevitori elettrici.
Per molti mesi lanciammo onde elettriche senza alcun risultato; un giorno, con
nostra grande meraviglia, udimmo i segnalatori suonare, erano i martiani che
finalmente ci rispondevano."
"Quel
popolo ha fatto anche da parte sua delle meravigliose scoperte!" esclamò
Toby.
"Noi
abbiamo i nostri motivi per credere che siano molto più avanti di noi. Dapprima
i segnali furono confusi e ci riuscì impossibile intenderci. A poco a poco però
fu combinato un cifrario speciale che i martiani dopo un paio d'anni riuscirono
a comprendere ed ora corrispondiamo perfettamente bene e ci comunichiamo le
notizie che avvengono sia quaggiù che lassù."
"Stupefacente!"
esclamarono ad una voce Brandok e Toby.
"Ve
lo avevo detto" disse Holker.
"Ditemi,
signor Hibert: Marte assomiglia alla nostra terra?..."
"Un
po', avendo terra e acqua al pari del nostro globo. Le sue condizioni fisiche
sono invece molto differenti. I mari di quel pianeta non occupano nemmeno la
metà dell'estensione totale di quel globo; il calore che riceve dal sole è
mediocre, essendo la distanza da esso maggiore di quella della terra. L'anno è
due volte più lungo ossia conta 687 giorni."
"E
l'aria è uguale alla nostra?"
"È
più leggera, cosicché l'atmosfera lassù è più pura, non si formano nubi, non si
scatenano tempeste, i venti mancano quasi del tutto e le piogge sono
sconosciute."
"E
l'acqua?..."
"È
analoga a quella della terra e ciò si sapeva anche prima, somigliando le nevi
accumulate ai due poli di Marte alle nostre. Però l'acqua non dà luogo a
evaporazione sensibile, quindi niente piogge."
"Allora
mancherà la vegetazione su Marte?"
"Niente
affatto, mio caro signore: vi sono piantagioni e foreste splendide che nulla
hanno da invidiare al nostro globo."
"E
chi le innaffia se non piove?" chiese Brandok.
"La
natura ha provveduto egualmente" disse l'astronomo. "Non circolando
l'acqua con un sistema di nubi, di piogge e di sorgenti come da noi, vi hanno
riparato le nevi condensate nelle regioni polari. Ogni sei mesi, verso l'epoca
dell'equinozio, si fondono e producono delle inondazioni sopra immense
estensioni di centinaia di migliaia di chilometri. Le acque regolate da una
serie di canali, costruiti da quegli abitanti, scorrono e s'inoltrano
attraverso i continenti, fertilizzando le terre e bagnando le pianure. Cessata
la fusione, le acque si ritirano fuggendo per gli stessi canali e lasciando
nuovamente allo scoperto le terre."
"I
grandi canali dunque che gli scienziati dello scorso secolo avevano già
segnalato, sono opera dei martiani?" disse Toby.
"Sì"
rispose l'astronomo. "Sono lavori imponenti, colossali, avendo taluni una
larghezza di cento e più chilometri."
"E
noi andavamo orgogliosi delle opere degli antichi egiziani!"
"Signor
Hibert," disse Holker "conduceteci sulla torre. Devo mandare un
saluto al mio amico Onix."
"È
il tuo marziano?" chiese Toby.
"Che
cosa fa quell'uomo, o meglio quell'anfibio?" chiese Brandok.
"È
un mercante di pesce che si duole sempre di non potermi fare assaggiare le
gigantesche anguille che i suoi pescatori prendono nel canale d'Eg."
"Dunque
lassù vi sono padroni e lavoratori?"
"Come
sul nostro globo."
"Anche
dei re?"
"Dei
capi che governano le diverse tribù disperse sui continenti."
"Tutto
il mondo è paese."
"Pare
di sì" disse Holker, ridendo.
"Venite,
signori" disse l'astronomo. "La macchina è pronta a portarci lassù,
fino alla piattaforma."
Girarono
attorno alla colossale torre guardandola con profonda ammirazione. Che meschina
figura avrebbe fatto la torre Eiffel costruita venticinque lustri prima a
Parigi, e che pure, in quella lontana epoca, aveva meravigliato il mondo intero
per la sua altezza!
Questa
era un tubo mostruoso, di quattrocento metri d'altezza con un diametro di
centocinquanta alla base, costruito parte in acciaio e parte in vetro, munito
all'esterno d'una cornice che saliva a spirale, larga tanto da permettere il
passaggio ad un vagoncino contenente otto persone.
Era
di forma rotonda, come quella dei fari, e certo d'una resistenza tale da
sfidare i più poderosi cicloni dell'Atlantico.
Toby,
Brandok, l'astronomo e Holker presero posto nel vagoncino, il quale cominciò a
salire con velocità vertiginosa, girando intorno alla torre, mentre i vetri,
che pareva si agitassero meccanicamente, davano ai viaggiatori l'illusione di
salire intorno ad un colossale tubo di cristallo.
Due
minuti dopo il vagoncino si fermava automaticamente sulla piattaforma della
torre, dinanzi all'immensa antenna d'acciaio che doveva sostenere gli
apparecchi della telegrafia aerea.
"Rassomiglia
questa stazione, più in grande, a quella che il signor Marconi cent'anni fa
aveva piantata al Capo Bretone" mormorò Toby agli orecchi di Brandok.
"Ti ricordi che l'avevamo visitata insieme?"
"Sì,
ma quale potenza sono riusciti a dare ora alle onde elettriche" rispose il
giovine. "Ah! quante meraviglie! quante... Toby! mi riprende il fremito
dei muscoli."
"È
l'elettricità."
"Che
non soffrano di quest'agitazione gli uomini di oggi?"
"Essi
son nati e cresciuti in mezzo alla grande tensione elettrica, mentre noi siamo
persone di un'altra epoca. Ciò mi preoccupa, amico James, non te lo
nascondo."
"Perché?"
"Non
so se potremo farci l'abitudine."
"Che
cosa temi?"
"Nulla
per ora, tuttavia... provi lo spleen?"
"Finora
no" rispose Brandok. "Come sarebbe possibile annoiarsi con tante
meraviglie da vedere? Questa è una seconda esistenza per noi."
"Meglio
così."
Mentre
si scambiavano queste parole, il direttore aveva lanciato già parecchie onde
elettriche agli abitanti di Marte.
Ci
vollero ben quindici minuti prima che la suoneria elettrica annunciasse la
prima risposta, che era un saluto dell'amico di Holker.
"Si
vede che quel brav'uomo si trovava alla stazione telegrafica" disse il
nipote di Toby. "Certo aspettava mie notizie."
"Signor
Hibert, riuscirete un giorno a dare la scalata a Marte?"
"Io
credo che ormai non vi sia più nulla d'impossibile" rispose con grande
serietà l'astronomo. "Da due anni gli scienziati dei due mondi si occupano
di questa grande questione per dare uno sfogo alla crescente popolazione della
terra. Abbiamo oggi degli esplosivi mille volte più formidabili della polvere e
della dinamite che si usava anticamente."
"Anticamente!"
esclamò Brandok, quasi scandalizzato.
"Per
modo di dire" disse l'astronomo. "Può darsi che un giorno si riesca a
lanciare fra i martiani qualche bomba mostruosa piena di abitanti terrestri. Non
si sa cosa ci riserba l'avvenire. Scendiamo e venite a vedere il mio telescopio
che è il più grande che sia stato finora costruito."
Risalirono
sul vagoncino ed in mezzo minuto si trovarono alla base della torre. Lì vicino
si ergeva il mostruoso cannocchiale.
Consisteva
in un enorme tubo di lamiera d'acciaio, lungo centocinquanta metri con un
diametro di cinque, pesante ottantamila chilogrammi e fissato su due enormi
pilastri di pietra.
"Un
cannone colossale!" esclamò Brandok. "Come fate a muovere questo
mostro?"
"Non
ve n'è bisogno," rispose l'astronomo "anzi è fisso."
"Allora
non potete osservare che una sola porzione del cielo" osservò Toby.
"V'ingannate,
caro signore. Guardate attentamente lassù e vedrete dinanzi all'obbiettivo, nel
prolungamento dell'asse, uno specchio che è mobile ed è destinato a rinviare le
immagini degli astri nell'asse del telescopio. Quello specchio è mosso da un
movimento d'orologeria regolato in modo da procedere in senso contrario al moto
della Terra, così che l'astro che si vuole osservare resta costantemente nel
campo del cannocchiale come se il nostro pianeta fosse completamente
immobile."
"Che
meravigliose invenzioni!" mormorò il dottore. "Che cosa sono in
confronto quelle di cui si vantavano tanto gli scienziati francesi nel secolo
scorso?" disse Brandok.
"Volete
parlare del grande telescopio di Parigi? Sì, per molti anni fu ritenuto una
meraviglia," disse l'astronomo "quello però non avvicinava la luna
che a soli centoventotto chilometri, ed era già molto per quei tempi. Non
poteva avvicinarla di più, essendo la luna distante da noi 384.000 chilometri.
Ora noi l'avviciniamo ad un metro."
"Amici,"
disse Holker "partiamo o faremo colazione troppo tardi. Le cascate sono un
po' lontane."
"Andate
a visitare quelle del Niagara?" chiese l'astronomo.
"Sì"
rispose Holker.
Strinsero
la mano allo scienziato, salirono sul Condor e pochi istanti dopo sfilavano
sopra Brooklyn, dirigendosi verso il nord-est.
I
palazzoni enormi come a Nuova York, contenenti centinaia di famiglie si
succedevano senza interruzione e anche nelle vie dell'antico sobborgo della
capitale dello stato regnava un'animazione straordinaria, febbrile.
I
brooklynesi parevano pure impazziti e correvano, piuttosto che camminare, come
se avessero addosso il diavolo e l'argento vivo nelle vene.
La
tensione elettrica produceva i medesimi effetti anche sugli abitanti del
sobborgo.
Quello
che colpiva sempre i risuscitati era la mancanza assoluta dei cavalli e delle
carrozze; perfino le automobili erano quasi scomparse, non vedendosene che
qualcuna.
Il
Condor stava attraversando una vasta piazza, quando l'attenzione di Brandok fu
attirata dal passaggio di quattro mostruosi animali montati ognuno da un uomo.
"Oh
bella!" esclamò. "Degli elefanti!"
"Dove?"
chiese Holker.
"Laggiù,
guardateli."
"Saranno
poi proprio degli elefanti in carne ed ossa?" chiese il pronipote del
dottore, guardandoli un po' ironicamente. "Sospetto che voi v'inganniate,
signor Brandok."
"Non
sono cieco, signor Holker."
"E
nemmeno io" disse Toby. "Sono dei veri elefanti."
"Sono
degli spazzini di acciaio, signori miei," disse Holker, ridendo.
"Qualche
nuova invenzione!" esclamarono Toby e Brandok.
"E
non meno utile delle altre," disse Holker "e anche molto economica,
perché così il comune può fare a meno d'un esercito di spazzini. D'altronde
quel mestiere era indegno degli uomini."
"Quegli
animali sono spazzini?" esclamò Brandok, che stentava a credere alle
parole di Holker.
"E
come funzionano bene! Essi eseguono la pulizia delle vie e delle piazze per
mezzo della proboscide, che è composta di un centinaio di tubi d'acciaio,
rientranti l'uno nell'altro in modo da dare ad essa un'agilità straordinaria.
Nella testa invece vi è un potente apparato aspirante, mentre il motore, che è
elettrico, si nasconde nei fianchi dell'animale. Quando il conduttore che, come
vedete, si trova a cavalcioni del collo, come i cornac indiani, scorge delle
immondizie sulla via, preme una leva collocata a portata della sua mano, la
quale dirige i movimenti della tromba e dell'apparato aspirante. La proboscide
allora s'allunga verso l'oggetto da raccogliere e l'apparato si mette in
azione. Ne segue quindi un'aspirazione violenta a cui nulla resiste, di modo
che pietre, cenci, pezzi di carta, torsoli, immondizie d'ogni sorta vanno ad
inabissarsi nel corpo dell'elefante spazzino. Non resta poi che andare a
scaricare la raccolta. Come vedete la cosa è semplicissima."
"Stupefacente
invece" disse Brandok. "Che progresso meccanico!"
"Harry,
accresci la velocità" disse Holker.
Brooklyn
spariva rapidamente fra le nebbie dell'orizzonte ed il Condor volava sopra
bellissime campagne coltivate con grande cura, in mezzo alle quali si vedevano
correre delle strane macchine agricole di proporzioni gigantesche. Gli alberi
erano rari; le piante basse, invece, infinite. A che cosa infatti sarebbe
dovuto servire il legname dal momento che gli abitanti del globo avevano il
radium per scaldarsi negli inverni e non costruivano che col ferro e
coll'acciaio? Si vedeva che tutto avevano sacrificato per non correre il
pericolo di trovarsi ben presto alle prese colla fame, dato l'immenso e rapido
aumento della popolazione.
Alle
nove del mattino il Condor, dopo essere passato in vista di Patterson,
diventata anche quella una città immensa, entrava nello stato della
Pennsylvania alla velocità di centododici chilometri all'ora.
"Signor Holker," disse Brandok. "C'è una cosa che non riesco a spiegarmi."
"Quale?"
"Ai
nostri tempi questi territori erano coperti da linee ferroviarie, mentre ora
non riesco a scorgerne una."
"Eppure
in questo momento passiamo sopra una delle più importanti linee. È quella che
unisce Patterson a Quebec."
"Io
non la vedo."
"Perché
al giorno d'oggi le ferrovie non scorrono più sopra il suolo, bensì sotto.
Diversamente l'aria sfuggirebbe. Guardate là; non scorgete una casa sormontata
da un albero che non è altro che un segnalatore e trasmettitore elettrico della
telegrafia aerea?..."
"La
scorgo."
"È
una stazione."
"E
la ferrovia?"
"Vi
passa sotto."
"Mi
avete parlato d'aria; cosa c'entra colle ferrovie?"
"Lo
saprete quando prenderemo il treno che ci porterà a Quebec. Ah! ecco l'omnibus
che va a Scranton."
Un'enorme
macchina aerea, fornita di sei paia d'ali immense e di eliche smisurate, con
una piattaforma di venti metri di lunghezza, carica di persone, s'avanzava con
velocità vertiginosa, tenendosi a cento metri dal suolo.
"Magnifico!"
esclamò il dottore. "Chi sono?"
"Contadini
che portano i loro prodotti a Scranton"
"Come
sono bruni! Si direbbero indiani" disse Bran-dok. "A proposito, che
cosa è avvenuto dei pellirosse che erano ancora assai numerosi cent'anni
fa?"
"Sono
stati completamente assorbiti dalla nostra razza e si sono del tutto fusi con
noi. Non esistono ormai che poche centinaia di famiglie, confinate nell'alto
Yucon e presso il circolo polare."
"Era
la sorte che loro spettava" disse il dottore. "E dei negri, che erano
numerosissimi anche qui?"
"Sono
diventati invece spaventosamente numerosi" rispose Holker. "Hanno
buon sangue, gli africani e non si lasciano assorbire, e così pure gli uomini
di razza gialla."
"C'è
ancora la Cina?"
"La
Cina, sì; ma non l'impero" rispose Holker, ridendo. "È stato
smembrato dalle grandi potenze europee ed a tempo per impedire una spaventevole
invasione. La razza cinese, in questi cento anni, è raddoppiata e, senza il
pronto intervento dei bianchi, spinta dalla fame non avrebbe tardato a
rovesciarsi sull'Europa e sull'India. Hanno tuttavia invaso buona parte del
globo, non come conquistatori, ma come emigranti e si trovano oggidì colonie
cinesi perfino nel centro dell'Africa e dell'Australia."
"Ed
i malesi?"
"È
un'altra razza che non esiste più. Ormai al mondo non ci sono più che bianchi,
gialli e negri, che tentano di sopraffarsi; e finora sono i secondi che hanno
maggiore probabilità di vittoria essendo spaventevolmente prolifici. Noi
corriamo il grave pericolo di venire a nostra volta assaliti dalle altre due
razze."
"Dunque
il mondo minaccia di divenire tutto giallo" disse Toby.
"Purtroppo,
zio" rispose Holker. "Ai vostri tempi a quanto ascendeva la
popolazione del globo?"
"A
circa millecinquecento milioni, e l'elemento mongolo vi figurava con circa
seicento milioni."
"La
popolazione attuale è invece di due miliardi e duecento milioni ed i gialli da
seicento milioni sono saliti ad un miliardo e cento milioni."
"Che
aumento!" esclamò il dottore. "Ed i bianchi quanti sono dunque?"
"Raggiungono
appena i seicento milioni."
"Un
aumento non troppo sensibile."
"E
lo dobbiamo alle razze nordiche."
"E
le razze latine?"
"La
sola Italia è cresciuta e rapidamente, perché ha i suoi cinquanta milioni,
mentre la Spagna, e soprattutto la Francia, sono rimaste quasi stazionarie. Se
non vi fosse L'Italia, la razza latina a quest'ora sarebbe stata assorbita
dagli anglosassoni e dagli slavi. Ecco là in fondo Ulmina; stiamo rientrando
nello stato di Nuova York, e fra due ore saremo alle cascate."
Il
Condor, che procedeva sempre colla velocità di centodieci chilometri, rientrava
infatti nello stato di Nuova York, passando in vista di Ulmina, città cento
anni prima di modeste proporzioni ed ora diventata vastissima.
Modificò
un po' la direzione e s'avviò verso Buffalo, passando sopra campagne sempre
coltivate con grande accuratezza.
Alle
undici il Condor si librava in vista del Niagara, quell'ampio fiume che mette
in comunicazione due dei più grandi laghi dell'America settentrionale,
l'Ontario e l'Erie.
L'immensa
cascata non si scorgeva ancora; si udiva invece il rombo dell'enorme massa
d'acqua.
Da
qualche minuto una viva eccitazione si era impadronita di Toby e Brandok.
I
loro muscoli sussultavano, le loro membra tremavano e, lisciandosi i capelli,
facevano sprigionare delle scintille elettriche.
"Quanta
elettricità regna qui" disse Toby. "L'aria ne è satura."
"Provi
un certo malessere, James?"
"Sì"
rispose il giovane. "Non saprei resistere a lungo a questa tensione che mi
fa scattare."
"E
tu, nipote?"
"Io
non provo assolutamente nulla" rispose Holker. "Noi ci siamo ormai
abituati."
"Non
so se noi ci riusciremo" disse Toby, che pareva assai preoccupato.
"Noi siamo persone d'un altro secolo."
"Io
spero di sì" rispose Holker. "Ah! Ecco le cascate!"
Il
Condor dopo aver superato una collina che impediva la visuale, con una rapida
volata era giunto sopra le famose cascate, librandosi fra una immensa nuvola
d'acqua polverizzata, in mezzo a cui spiccava un superbo arcobaleno.
L'immensa
massa d'acqua si rovesciava nel fiume sottostante, con un fragore assordante,
mettendo in moto un numero infinito di ruote gigantesche, costruite tutte in
acciaio, destinate a trasmettere la forza a tutte le macchine elettriche della
Federazione Americana.
Lo
spettacolo era spaventevole e nel medesimo tempo sublime.
In
quei cent'anni, delle notevoli modificazioni erano avvenute nella cascata. Le
rocce che dapprima la dividevano erano scomparse, e l'acqua si precipitava
ormai senza intoppi, facendo girare vertiginosamente le ruote. Un numero
infinito di grossi fili d'acciaio, destinati a portare a grandi distanze e
suddividere la forza della cascata, si diramavano in tutte le direzioni.
"Ecco
la grande officina elettrica degli Stati Uniti," disse Holker "che
mette in moto, senza un chilogrammo di carbon fossile, migliaia e migliaia di
macchine. Quest'acqua ha fatto abbandonare tutte le miniere di
combustibile."
"Quale
forza enorme deve produrre!" esclamò il dottore.
"Se
l'Europa ne volesse, potremmo cedergliene una buona parte" rispose Holker.
"E
quale modificazione ha subita la cascata!" disse Brandok.
"E
si modificherà ancora" rispose Holker. "I nostri scienziati hanno già
accertato che per giungere al punto attuale ha dovuto cambiare quattro volte.
Nel primo periodo, che sarebbe durato 17.000 anni, la quantità d'acqua era di
un terzo minore del volume attuale e con una caduta di soli sessanta metri ed
una larghezza di 3 chilometri. Nel secondo, il fiume fu diviso in tre cascate
di centoventotto metri e durò 10.000 anni. Ora siamo nel quarto. Andiamo a far
colazione, e poi prenderemo il treno che ci condurrà a Quebec. Non faremo che
una volata sola."
Il
Condor descrisse due o tre giri al di sopra della muggente cascata, entrando e
uscendo dalla nube di pulviscolo, poi si diresse verso Buffalo per arrivare al
treno.
Dopo
mezz'ora si librava sopra la città, fra un gran numero di battelli volanti che
si dirigevano per la maggior parte verso le cascate, carichi di forestieri
giunti forse dall'Europa.
Il
macchinista, dopo aver ricevuto dal suo padrone un ordine, fece scendere la
macchina in una vasta piazza che era circondata da palazzoni di diciotto o
venti piani, costruiti per la maggior parte in lastre metalliche e che non
mancavano, all'esterno almeno, d'una certa eleganza.
"Andiamo
a fare colazione al bar del Niagara" disse Holker. "Vi farete così un
concetto degli alberghi moderni."
Sbarcarono
ed attraversarono la piazza che era quasi deserta, essendo mezzogiorno, ossia
l'ora del pasto, ed entrarono in una sala vastissima, arredata con un certo
lusso, il cui soffitto era sostenuto da una ventina di colonne di metallo.
Con
viva sorpresa di Brandok e di Toby, in quel preteso ristorante non vi erano né
tavole, né sedie e nemmeno un cameriere.
"Questo
è un bar?" chiese Brandok.
"Dove
si mangia benissimo, e a buoni prezzi anche" rispose Holker. "Qui
potrete trovare forse qualche bistecca di maiale sapientemente rosolata, con
contorno di rape."
"E
a chi devo ordinaria se non vedo nemmeno il padrone del bar o un
cameriere?"
"Chissà
dove sarà il padrone del ristorante. Ma la sua presenza non è necessaria."
"E
nemmeno un cameriere?"
"Per
farne che?"
Brandok
era rimasto a bocca aperta, guardando Toby che non sembrava meno sorpreso di
lui.
"Voi
dimenticate, signori, che siamo nel Duemila" disse Holker. "Vi
mostrerò ora come i ristoranti d'oggi siano migliori di quelli d'un tempo e
come il servizio sia inappuntabilmente pronto. Signor Brandok, prendete una
tazza di brodo innanzitutto. Vi farà bene."
"Vada
pel brodo!"
Holker
diede uno sguardo all'intorno, poi condusse i suoi compagni verso una di quelle
colonne attorno alle quali, ad un metro dal suolo, si vedevano quattro mensole
di metallo ed introdusse in alcuni buchi delle monete.
"Servizio
automatico: brodo" aveva letto, con sorpresa di Brandok, su una piccola
piastra situata sopra la mensola.
"Ah!
ora comprendo!" esclamò Toby.
Non
era trascorso mezzo minuto, che tre porticine s'aprirono e sopra la mensola
comparvero, come per incanto, tre tazze di brodo fumante, assieme ad una
salvietta e ad un cucchiaio di metallo bianco.
"Signor
Brandok," disse Holker "ai vostri tempi il servizio era così
pronto?"
"Oh
no, in fede mia!" esclamò il giovine. "A quale punto è giunta la
meccanica! E come arrivano qui queste tazze?"
"Con
una piccola ferrovia elettrica simile a quella che già avete veduta."
"Ecco
soppressi quei noiosi camerieri e anche il pessimo uso delle mance."
"E
dobbiamo mangiare in piedi?"
"È
più spiccio, e poi gli uomini oggi hanno troppa fretta. Volete altri piatti?
Qui vi sono venti colonne che rappresentano il menù della giornata. Basterà che
introduciate una moneta da venticinque centesimi e avrete tutto quello che
vorrete, compresi i dolci, vino, birra, liquori, caffè e tè."
"Quante
straordinarie invenzioni! Quante meraviglie!" esclamò Toby.
"E
quanta praticità e quante comodità soprattutto" aggiunse il buon Brandok.
"Amici
miei," disse ad un tratto Holker "se cambiassimo un po' l'itinerario
del nostro viaggio? Avete fretta di visitare l'Europa?"
"Nessuna"
risposero ad una voce Brandok e Toby.
"Volete
che andiamo al polo nord? Ridiscenderemo in Europa per lo Spitzbergen."
Se
Brandok e Toby, a quella inaspettata proposta, non caddero per lo stupore, fu
un vero miracolo.
"Andare
al polo nord!" avevano esclamato.
"Da
Quebec in cinque ore potremo raggiungere la galleria americana. A mezzanotte ci
riposeremo fra i ghiacci dell'Oceano Artico, in un letto non meno comodo di
quello su cui avete dormito la notte scorsa in casa mia."
"Sei
divenuto pazzo, nipotino mio, o vuoi burlarti di noi?" gridò Toby.
"Non
ne ho alcuna voglia, zio mio. Comprendo che la proposta vi possa stupire,
tuttavia vi prometto che la manterrò."
"Che
cosa hanno fatto dunque gli uomini del Duemila?"
"Delle
cose meravigliose, ve lo dissi già. Terminiamo la nostra colazione, rimandiamo
il Condor a Nuova York e poi prenderemo la ferrovia canadese."
Dopo
aver fatto un'abbondante colazione, innaffiata da parecchi bicchieri di
generoso vino spagnolo ed italiano, il signor Holker ed i suoi compagni congedarono
Harry e si diressero verso un enorme fabbricato, sormontato da una torre
d'acciaio dalla cui cima si diramavano parecchi grossi fili di metallo.
"Ecco
la stazione ferroviaria" disse Holker.
"Scusate,
signor Holker," disse Brandok, nel momento di entrare "voi ci
promettete di condurci al polo nord?"
"Sì."
"Avete
trovato il modo di avvicinare il Sole, per caso?"
"Perché
mi fate questa domanda?"
"Fa
ancora freddo?"
"Come
ai vostri tempi e forse più, ve lo dissi già. L'anno passato la stazione polare
ha segnato 55° sotto zero."
"E
ci condurrete con queste vesti?"
"Non
ve ne date pensiero" rispose Holker. "Alla stazione di Quebec
troveremo i bagagli contenenti l'occorrente per sfidare i freddi più intensi.
Aspettate un momento che vada a far lanciare un telegramma aereo ad uno di quei
negozianti che conosco."
Mentre
si recava all'ufficio telegrafico, Toby e Brandok erano entrati in un'ampia
sala, alla cui estremità si scorgeva uno scalone.
"Dove
sono questi treni? Io non li vedo e non odo quei mille fragori che ai nostri
tempi si ripercuotevano sotto le immense tettoie" disse Brandok.
"Da
qualche parte vedremo sbucare quello che ci deve portare a Quebec."
"Sai,
Toby, che io a forza di cadere di stupore in stupore finirò per diventare
pazzo?"
"Non
ti senti bene?..."
"Mi
trovavo meglio cent'anni fa col mio spleen. Provo sempre una eccitazione
strana."
"È
la tensione elettrica."
"Amici
miei," disse in quel momento Holker "il treno sta per giungere;
abbiamo appena il tempo di discendere la scala."
"I
biglietti?" chiese Toby.
"Sono
già nel mio portafoglio; ho preso uno scompartimento per noi, così potremo
discorre tranquillamente senza che vi siano testimoni."
All'estremità
della scala si udì una voce poderosa gridare:
"Pronti!
Il treno è giunto!".
Una
ventina di persone, che pareva avessero il diavolo addosso, si erano
precipitate giù dalla gradinata. Holker ed i suoi amici le avevano seguite.
Una
galleria fornita di una decina di porte che in quel momento erano aperte e
attraverso le quali si vedevano uscire sprazzi di luce intensa, si allungava
per una quarantina di metri.
Holker
spinse i suoi compagni verso una di quelle porte, dicendo:
"Presto,
salite!".
I
due risuscitati si trovarono in un piccolo scompartimento, con quattro comode poltroncine
che si potevano trasformare in letti, tutte di raso rosso, e illuminato da una
lampadina contenente un pezzetto di radium.
"La
ferrovia?" chiese BrandOk.
Le
porte di ferro si erano chiuse con fracasso.
Per
qualche istante si udirono delle voci gridare e poi più nulla. Anche le porte
dello scompartimento si chiusero da sé, sorgendo da terra.
"Non
ci muoviamo?" chiese dopo qualche istante Brandok.
"Siamo
già in viaggio" rispose Holker, ridendo.
"Io
non provo nessuna scossa, né odo alcun rumore di macchine."
"Eppure
il treno corre con una velocità fantastica. Quanto percorrevano all'ora i
vostri treni?"
"Centoventi
chilometri al massimo."
"E
questo procede colla velocità di trecento!"
"Quale
macchina lo spinge?"
"Nessuna
macchina; viene aspirato e spinto contemporaneamente."
"Spiegati
meglio, nipote mio" disse Toby. "Noi siamo troppo vecchi per capire a
volo le invenzioni moderne."
"Noi
viaggiamo in un tubo d'acciaio della circonferenza di cinque metri, i cui
carrozzoni, che sono ordinariamente in numero di venti, combaciano
perfettamente colle pareti di metallo. Questi vagoncini, hanno una forma
cilindrica la cui circonferenza è esattamente precisa a quella interna del tubo
e possono contenere 24 passeggeri. Fra le due stazioni principali vi sono delle
pompe mosse da macchine poderose, che iniettano nel tubo correnti d'aria; in
quella di partenza le pompe sono prementi; in quella d'arrivo invece, delle
pompe aspiranti. I cilindri che costituiscono i carrozzoni, e che sono pure di
acciaio, vengono in tal guisa spinti ed aspirati. In poche parole sono treni ad
aria compressa."
"Stupefacente!"
esclamò Toby. "Che cosa non avete inventato voi, uomini del Duemila?"
"Osservo
una cosa" disse Brandok. "Datemi una spiegazione."
"Dite
pure."
"I
cilindri, collo sfregamento, non s'infiammano? Mi pare che noi dovremmo cuocere
qui dentro, mentre la temperatura si conserva relativamente fresca."
"Niente
affatto: prima perché viene adoperato un metallo che è lentissimo a
riscaldarsi, il tantalio, che se non erro ai vostri tempi valeva 50.000 lire al
chilogrammo e la chimica d'oggi può dare ad un prezzo eguale a quello
dell'argento. Poi perché il cilindro di testa e quello di coda sono formati da
due immensi serbatoi, i quali proiettano incessantemente getti d'acqua, impedendo
il riscaldamento."
"E
l'aria pei viaggiatori?"
"Viene
fornita da cilindri d'acciaio che sono serbatoi d'aria compressa. Provate
difficoltà a respirare?"
"No"
rispose Brandok.
"Vi
è un tubo solo per ogni linea?" chiese Toby.
"No,
zio, ve ne sono quattro. Uno pei treni diretti che non si fermano che nelle
grandi stazioni, come questo, uno per le stazioni intermedie e due pei treni
merci.
"Appena
uno giunge, l'altro di ritorno parte. Ogni due ore abbiamo treni che vanno ed
altri che giungono."
"Così
gli scontri sono impossibili" disse Brandok.
"Non
possono accadere non essendovi che uno o al più due treni nel tubo, che seguono
la medesima via."
"Quando
si pensa come si viaggiava una volta c'è da impazzire! Che cosa direbbero
Francesco I re di Francia e Carlo V, se potessero tornare al mondo! E
pretendevano di avere i più rapidi corrieri del mondo!"
"Quei
re?" disse Holker. "Avevano delle lumache, forse."
"E
che cosa direbbero il capitano Paulin, Burocchio, Chameran e soprattutto
Marivaux?"
"Chi
erano costoro?" chiese Brandok.
"I
più rapidi corrieri dell'Europa medievale, che fecero in quell'epoca stupire
tutti per la loro velocità! Paulin aveva impiegato venti giorni per recarsi da
Costantinopoli a Fontainebleau per portare un messaggio a Francesco I;
Burocchio ne aveva impiegati quattro per portare al re di Polonia la notizia
della morte di Carlo IX e Marivaux quattro giorni per percorrere la distanza
che corre fra Parigi e Marsiglia. E quei nostri bravi antenati affermavano che
con simili corrieri le distanze ormai erano scomparse!"
"Si
contentavano di poco i nostri vecchi" disse Holker.
Un
sibilo acuto, che proveniva dall'alto, fece alzare la testa a Brandok ed a
Toby. Era uscito da un piccolo tubo che si ripiegava in basso vicino alla
lampada a radium.
"Ci
avverte che siamo giunti?" chiese Brandok.
"No,
è una comunicazione dell'"Jum" a cui è abbonata questa linea
ferroviaria per tenere i viaggiatori al corrente delle notizie più importanti,
anche viaggiando."
"In
qual modo?"
"Mediante
un filo che si svolge su un rocchetto, a misura che il treno procede.
Ascoltiamo."
Una
voce metallica si fece subito udire:
"Grave
disastro sul Missouri prodotto da una piena improvvisa.
"Omaha
è quasi interamente distrutta e sessantamila persone si sono annegate. Il
governo del Nebraska ha mandato ingegneri con ventimila uomini, viveri e
scialuppe.
"Europa.
Gli anarchici della città sottomarina che hanno saccheggiato Cadice sono stati
completamente distrutti dai pompieri di Malaga. Il governo spagnolo
indennizzerà gli abitanti.
"Asia.
Il governo dell'India si trova in gravi imbarazzi causa la carestia. Gl'indiani
muoiono di fame a milioni".
"Brandok,
tutto ciò non è prodigioso?" chiese Toby.
"Continuiamo
a sognare" rispose il giovine. "Ormai io sono convinto di essermi
risvegliato non più sulla terra, bensì in un altro mondo."
"E
quasi lo penso anch'io" rispose Toby.
"Eppure
esistono altre meraviglie ben più grandiose" disse Holker.
Una
lieve scossa ed un fragore di porte che pareva s'aprissero, lo interruppero.
Quasi nel medesimo istante si udì una voce gridare:
"Montreal!...".
"Di
già nel Canada!" esclamò Brandok.
"Sono
le due" disse Holker, osservando il suo cronometro.
"Quando
giungeremo a Quebec?"
"Alle
tre e qualche minuto."
"Ed
al polo nord?"
"Fra
due giorni."
"E
noi supereremo in così breve tempo una così enorme distanza?"
"Scivoleremo
con una velocità di duecento miglia all'ora. Altro che la foga degli
uragani!..."
"Scivoleremo?"
"È
la parola."
"E
come?"
"Lo
saprete quando avremo raggiunto i confini del continente americano e ci
inoltreremo sull'Oceano Polare."
"Brandok!"
"Toby!"
"Sogni
ancora?"
"Sempre."
"E
sogno anch'io."
Cinque
minuti dopo, il treno riprendeva la sua corsa infernale e alle tre pomeridiane
si fermava alla stazione di Quebec, la capitale del Canada.
Appena
usciti dallo scompartimento, un uomo che gridava "signor Jacob
Holker!" entrò nella galleria, portando due enormi valigie.
"Sono
io" rispose il nipote di Toby, muovendogli incontro. "Siete ai
servigi del signor Wass?"
"Sì,
signore."
"Le
valigie devono contenere gli indumenti per una gita al polo."
"Allora
siete proprio quello che cercavo. Abbiamo ricevuto il vostro telegramma due ore
or sono da Buffalo."
Holker
pagò, senza mercanteggiare, l'importo, poi condusse i suoi amici al ristorante
della stazione, anche quello automatico, e offrì da bere.
"Abbiamo
dieci minuti di tempo per prendere il treno per il polo nord" disse.
"Approfittiamone per scaldarci lo stomaco con un po' di
caper-brandy."
Infatti
dieci minuti dopo i tre amici prendevano posto in uno scompartimento del treno
del Labrador, diretti al Capo Wolstenholme sullo Stretto di Hudson e partivano
con una velocità di duecentosettanta chilometri all'ora.
"Quando
giungeremo sulle coste dell'Oceano Artico?" chiese Brandok.
"Alle
cinque di domani mattina" rispose Holker.
"Troveremo
qualche albergo lassù?"
"Ed
anche un buon letto."
"Fra
i ghiacci?"
"Il
Capo Wolstenholme è una stazione estiva, molto frequentata durante i mesi di
giugno, luglio ed anche d'agosto, al pari di quella dello Spitzbergen."
"Dello
Spitzbergen!" esclamò Toby.
"Perché
vi stupite zio?"
"Perché
ai nostri tempi quella grande isola dell'Oceano Artico non era frequentata che
da orsi bianchi e da cacciatori di foche e di balene."
"Oggi
è diventata un po' come la Svizzera" rispose Holker. "Fra quelle
montagne nevose si trovano alberghi che nulla hanno da invidiare a quelli di
Nuova York. Vedrete che meraviglie!"
"Passeremo
di là?"
"Sì,
nel ritorno, perché la galleria polare sbocca appunto in quell'isola."
"Che
cosa mai ci narri!"
"Vedrete!...
Vedrete!... Siamo nel Duemila, miei cari amici e non già nei lontani tempi del
1900."
"Ed
esquimesi ve ne sono ancora nelle regioni polari?" chiese Brandok.
"Alcune
famiglie soltanto; le altre tribù sono invece quasi tutte scomparse."
"E
per quale motivo?"
"In
seguito alla totale distruzione delle balene e delle foche che costituivano la
loro alimentazione."
"Sono
stati uccisi dalla fame?"
"Sì,
signor Brandok."
"Eppure
mi avete detto che vi è una numerosa colonia polare."
"È
vero, ed è costituita da anarchici, colà confinati perché non turbino la pace
del mondo."
"E
come vivono quelli?"
"I
pesci abbondano ancora al di là del circolo polare; e poi i governi americani
ed europei li provvedono di viveri, a patto che non lascino i ghiacci."
"Sicché
è loro proibito di tornare in Europa ed in America?"
"E
anche in Asia!"
"Ed
il mondo è tornato tranquillo dopo la loro espulsione?"
"Abbastanza"
rispose Holker.
"E
nella colonia polare regna la calma?"
"Costretti
a pescare ed a cacciare incessantemente, non hanno più tempo di occuparsi delle
loro pericolose teorie: così regna la calma ed un certo accordo."
"Erano
diventati numerosi in questi cento anni?" chiese Toby.
"Sì,
e anche molto pericolosi. Ora non son più da temersi, essendo relegati colle
loro famiglie al polo nord e nelle città sottomarine. Oh! non inquieteranno più
l'umanità."
"Eppure
il dispaccio di quel tal giornale smentisce ciò che voi avete affermato"
osservò Brandok.
"Quello
è stato un puro caso. E poi avete saputo come sono stati trattati dai pompieri
spagnoli. Pochi getti d'acqua elettrizzata a correnti altissime e tutto è
finito. Diamine!... Il mondo ha il diritto di vivere e di lavorare
tranquillamente senza essere disturbato. Chi secca gli altri, si manda nel
regno delle tenebre e vi assicuro che nessuno piange."
"Una
specie di giustizia turca" disse Brandok, ridendo.
"Chiamatela
come volete, tutti l'approvano e l'approveranno anche in avvenire."
Mentre
così passavano il tempo, il treno correva entro il tubo d'acciaio con velocità
spaventevole, attraversando i gelidi territori del Labrador.
Essendo
come abbiamo detto autunno assai inoltrato, la neve doveva aver coperto già da
qualche mese, quelle terre d'uno strato considerevole, ed al di fuori il freddo
doveva essere intensissimo; eppure i viaggiatori non se ne accorgevano affatto.
D'altronde bastava la lampada a radium per spandere negli scompartimenti un
dolce calore che si poteva aumentare a volontà. Alle otto della sera il treno
si fermava alla stazione di Mississinny innalzata sulle rive del lago omonimo.
Appena
aperte le porte d'acciaio e le portiere dei carrozzoni, degli uomini si
presentarono ai viaggiatori portando delle tazze fumanti di brodo, dei pesci bolliti
e fritti, dei puddings, liquori e tè.
"Avrei
preferito cenare al ristorante della stazione" disse Brandok.
"Stiamo
meglio qui" disse Holker. "Fuori fa un freddo cane. Quanti
gradi?" chiese al cameriere che aveva portato la cena.
"Quindici
sotto zero, signore" rispose l'interrogato. "L'inverno si annunzia
rigidissimo, quest'anno, ed il lago è già gelato da tre settimane."
"E
l'oceano?"
"Tutto
lo stretto è percorso da massi enormi di ghiaccio."
"Funziona
ancora il battello-tramvai?"
"Fino
alla spiaggia di Baffin."
"Quali
notizie della galleria?"
"È
più salda che mai. Non si è prodotta nessuna screpolatura nemmeno quest'anno.
Buon viaggio, signori, il treno riparte."
Depose
le vivande sulle mensole che si trovavano vicino alle poltroncine, poi scese
rapidamente. Un momento dopo le portiere si chiusero, le porte d'acciaio anche,
ed il treno, aspirato da una parte e spinto dall'altra, riprese la corsa.
"Ceniamo,
facciamo la nostra toeletta polare e poi cerchiamo di fare una dormita. Fino
alle cinque di domani mattina non verremo più disturbati."
"E
poi cambiamo treno?" chiese Toby.
"Sì,
per prendere il battello-tramvai" rispose Holker.
"Che
cos'è?"
"Lo
vedrete domani mattina, zio. Una bella e comoda invenzione anche quella.
Ceniamo."
Alle
cinque del mattino i tre amici, che dopo aver indossati i pesanti vestiti dei
viaggiatori polari, si erano addormentati, venivano svegliati dalle grida degli
impiegati ferroviari della stazione di Wolstenholme.
Holker
per il primo aveva aperto gli occhi, dicendo ai suoi amici:
"Siamo
sulle rive dell'Oceano Artico ed il battello-tramvai ci aspetta per
attraversare lo Stretto d'Hudson. Non abbiamo tempo da perdere".
Presero
i loro bagagli, lasciarono il caldo scompartimento e uscirono dalla galleria
d'acciaio per entrare nella stazione.
"Una
buona tazza di tè con un bicchierino di whisky prima di tutto" disse
Holker, entrando in una sala che serviva da ristorante e che era splendidamente
illuminata da una grossa lampada a radium. "Deve fare molto freddo,
fuori."
Riscaldatisi
lo stomaco, lasciarono la stazione, seguiti da altri otto o dieci viaggiatori,
per la maggior parte inglesi e tedeschi che si recavano al polo.
Era
ancora notte, però numerose lampade a radium illuminavano le vie del piccolo
villaggio costruito sulle rive dell'Oceano Polare, ed il freddo era
intensissimo.
La
neve copriva ogni cosa e doveva avere uno spessore considerevole.
"Chi
abita questo paese da lupi?" chiese Brandok, mentre si infagottava in un
ampio mantello di pelle d'orso nero.
"Vi
sono qui tre o quattro dozzine di pescatori canadesi" rispose Holker.
"Tutti i tentativi fatti per colonizzare queste vaste terre sono riusciti
vani. È un vero peccato, perché qui lo spazio non mancherebbe per far sorgere
delle città gigantesche."
"E
piantare cavoli e seminar grano" disse Brandok, ridendo.
"Eppure
qualche cosa nasce e matura qui, nonostante il freddo."
"Ed
in qual modo avete potuto ottenere questi miracoli?"
"Proiettando
sulle piante e sul terreno un continuo getto di luce a radium," rispose
Holker. "Le patate vi crescono assai bene, e anche i funghi, nelle cantine
delle case."
"Raccogliere
dei funghi presso il circolo polare artico! Questa è grossa! Che cosa direbbero
Franklin e Ross, se tornassero in vita?"
In
quel momento un fischio acuto risuonò a breve distanza ed un potente fascio di
luce fu proiettato sulla piccola schiera che era guidata da un impiegato
ferroviario.
"Che
cosa c'è?" chiese Toby.
"È
il battello-tramvai che ci chiama" rispose Holker.
"È
un piroscafo od un carrozzone che viaggia sulla terra?"
"L'uno
e l'altro, zio" disse Holker.
"Un'altra
invenzione diabolica?"
"Ma
praticissima."
Affrettarono
il passo e, dopo qualche minuto, si trovarono sulla spiaggia dell'Oceano
Artico. All'estremità di un ponte di legno, illuminato da parecchie lampade, vi
era un grosso battello sormontato da un solo albero, sulla cui cima brillava
una grossa palla di radium che lanciava in tutte le direzioni dei fasci di luce
brillantissima, leggermente azzurrina.
Parecchi
uomini, coperti da vestiti villosi che li facevano rassomigliare ad orsi
polari, stavano allineati lungo le murate, tenendo in mano delle lunghe aste
colla punta d'acciaio.
"Dei
soldati polari?" chiese Brandok.
"Dei
marinai" rispose Holker.
"Perché
hanno quelle lance?"
"Per
allontanare i ghiacci che s'accostano al battello. Ve ne saranno molti al
largo."
"E
dove ci porterà questo battello?"
"Fin
sulla Terra di Baffin, oltre il lago di Nettelling."
"Mio
caro nipote," disse Toby "ai nostri tempi quel lago si trovava nel
cuore dell'isola."
"È
così, zio."
"Questo
battello non potrà quindi spingersi fin là, a meno che non abbia delle ruote
che lo conducano."
"E
se così fosse? Se questo meraviglioso battello potesse ad un tempo navigare e
correre anche sulla terra, come una semplice automobile?"
"Amico
James, che cosa dici di questa nuova invenzione?" chiese Toby.
"Che
finirò per non stupirmi più di nulla, anche se dovessi trovare dei mari tramutati
in campi fertili" rispose Brandok.
Giunti
all'estremità del ponte, salirono sul piroscafo, cortesemente salutati dal
capitano e dai suoi due ufficiali.
Era
una bella nave, dai fianchi piuttosto rotondi per meglio sfuggire alle strette
dei ghiacci, lunga una trentina di metri, con in mezzo una galleria formata da
vetri di grande spessore, per difendere i viaggiatori dai morsi del vento
polare, senza impedire loro di vedere ciò che succedeva all'esterno, e bene
illuminata.
Brandok,
Holker e Toby presero posto a prora, sotto la galleria, seguiti subito dagli
altri passeggeri.
La
porta fu chiusa, la macchina lanciò un fischio acuto ed il battello si mise in
moto a velocità moderata, mentre i suoi uomini, che si trovavano fuori della
galleria, salivano sulle murate immergendo nell'acqua le loro aste dalla punta
ferrata.
Lo
Stretto di Hudson, che separa il territorio del Labrador dalla grande isola di
Baffin, era tutto ingombro di ghiacci.
Si
vedevano delle montagne galleggianti andare alla deriva, spinte dal vento
polare e anche molti banchi popolati da una grande quantità di uccelli marini.
Sotto
i fasci di luce della potente lampada a radium che brillava sulla cima
dell'albero, quei ghiacci scintillavano come enormi diamanti e producevano un
effetto sorprendente e meraviglioso.
Il
battello, abilmente guidato, si teneva a distanza da quei pericolosi ostacoli.
Ora
rallentava, poi, quando trovava uno spazio libero o un canale, aumentava
considerevolmente la velocità. Talora investiva poderosamente i banchi di
ghiaccio col suo tagliamare e li stritolava adoperando certi bracci d'acciaio
forniti di denti come quelli delle seghe, che agivano ai due lati della prora,
e che in pochi istanti sgretolavano i massi.
"Una
vera nave da ghiaccio" disse Brandok, che guardava con viva curiosità.
"Quante belle invenzioni!"
"E
quando la vedrete salire sulla riva e correre sui campi di ghiaccio della Terra
di Baffin come una immensa vettura?" disse Holker.
"È
incredibile e nessuno ai nostri tempi avrebbe mai osato sperare di trasformare
una nave in un tramvai" disse Toby.
"E
che esce dall'acqua e che prosegue la sua corsa, senza cambiare apparentemente
nulla, senza interrompersi nemmeno un istante; che diventa vettura dopo essere
stata battello e che torna di nuovo battello dopo essere vettura con un'agilità
e rapidità unica" aggiunse Holker. "Sì, è una vera nave
meravigliosa."
"Io
vorrei sapere come avviene questa trasformazione" disse Toby.
"In
una maniera semplicissima" rispose Holker. "Il battello non ha che
una sola macchina messa in moto dall'elettricità, capace però di servire a
diversi fini e producente una forza applicabile in parecchi modi, per un'azione
sempre diversa. Avviene così che la nave, avvicinandosi alla riva, riceve dalla
motrice tutta la forza che s'accumula su due ruote collocate a prora e nascoste
entro due nicchie aperte nella carena. Appena l'acqua comincia a mancare,
quelle ruote, mediante un meccanismo speciale, si abbassano e si mettono in
funzione, mentre le eliche vengono fermate. A poppa vi sono pure altre due
ruote le quali agiscono perché trascinate dall'impulso di quelle anteriori.
Ecco la nave trasformata, senza bisogno di manovre faticose, in un enorme
tramvai. Sale la riva e si mette in marcia per terra e prosegue fino a che
trova o qualche canale o qualche lago o qualche braccio di mare. Allora le
ruote entrano nelle loro nicchie, le eliche si rimettono in funzione ed ecco il
tramvai tornato battello. Non è ingegnoso tutto ciò?"
"Ve
ne sono molte di queste navi?"
"Sì,
specialmente in Europa dove esistono spiagge basse, come in Germania, in
Danimarca, in Irlanda, in Italia e così via."
"E
questi battelli conservano la loro velocità anche in terra?" chiese
Brandok.
"La
medesima," rispose Holker "e la loro forza locomotrice è di
centosessanta metri al minuto."
"E
sempre nuove invenzioni le une più meravigliose e più sorprendenti delle altre.
Ah! Toby!"
"Cos'hai,
James?"
"Sai
che fra questi ghiacci non provo più quella strana agitazione che mi faceva
sussultare i muscoli?"
"Nemmeno
io" rispose il dottore. "E ciò dipende dall'essere lontani dalle
grandi città. Qui l'elettricità non può farsi sentire come laggiù o come sopra
le cascate del Niagara."
"Se
noi non potremo resistere alle tensioni elettriche che si faranno sentire
fortemente anche nelle grandi città europee, ci rifugeremo al polo."
"E
diventeremo anche noi anarchici" disse il dottore, ridendo.
Il
battello-tramvai continuava intanto a lottare vigorosamente contro i ghiacci
per raggiungere le sponde meridionali della Terra di Baffin, che si discernevano
già vagamente fra le brume dell'orizzonte.
Delle
montagne enormi, dei così detti ice-bergs, apparivano di quando in quando,
cappeggiando pericolosamente e dondolandosi fra le onde, e minacciando di
rovesciarsi addosso alla piccola nave. Questa con una rapida manovra le
evitava, gettandosi in mezzo ai banchi che sormontava con slanci impetuosi e
che spezzava col proprio peso.
Nessuna
nave si scorgeva su quel mare. Da quando le balene erano scomparse e le foche pure,
quelle acque erano diventate deserte.
Abbondavano
invece sempre gli uccelli marini, anzi si mostravano così familiari che
calavano in buon numero sulla galleria del battello senza inquietarsi per la
presenza dei marinai.
Verso
le dieci del mattino, dopo un'abbondante colazione offerta dal capitano ai
passeggeri, e che era già compresa nel prezzo del biglietto, il Narval, tale
era il nome del battello, giungeva dinanzi alle spiagge meridionali della Terra
di Baffin e precisamente all'imboccatura di un canale che era formato da due
immense rupi, alla cui estremità si vedeva la terra scendere dolcemente.
La
nave con pochi colpi di sperone si aprì il passo fra i ghiacci che avevano già
otturata l'entrata del passaggio, poi s'avanzò lentamente finché l'acqua venne
a mancare.
Le
quattro ruote avevano lasciate le loro nicchie, abbassandosi in attesa di
mettersi in funzione.
"Ecco
che diventa tramvai," disse Holker. "La nave lascia il mare per la
terra."
Il
Narval si era bruscamente inclinato e le ruote anteriori si erano messe in
movimento.
Mentre
la poppa era ancora in acqua, la prora saliva la riva senza scosse e senza
fatica.
Ben
presto l'intera nave si trovò in terra e partì con una velocità di trentacinque
o quaranta chilometri all'ora, come fosse un vero tramvai elettrico,
percorrendo una via segnalata da altissimi pali.
Una
pianura immensa, quasi liscia, coperta da un alto strato di ghiaccio e di neve
gelata, si estendeva a perdita d'occhio dinanzi ai viaggiatori polari.
Quella
terra, quantunque spazzata dai venti e dagli uragani polari, non era del tutto
disabitata.
Di
quando in quando, a lunghi intervalli, il Narval passava dinanzi a piccoli
raggruppamenti di case di ghiaccio, di forma semiovale, abitate dalle ultime
famiglie di esquimesi sfuggite miracolosamente alla morte per fame, dopo la
distruzione delle ultime balene e delle ultime foche da parte degli avidi
pescatori americani.
Vedendo
il battello avanzarsi si affrettavano a uscire dalle loro casupole per chiedere
qualche biscotto o qualche scatola di carne o di brodo concentrato.
Erano
i medesimi tipi di cent'anni prima. Un tronco tozzo su due gambe pure tozze,
una testa grossa cogli zigomi sporgenti, faccia larga, capelli neri, naso
schiacciato; una certa somiglianza insomma con le loro buone amiche ormai
scomparse: le foche.
Disgraziatamente
per loro, non si nutrivano più colle carni delle loro foche come un secolo
prima, non si vestivano più colle loro calde pellicce, non illuminavano più le
loro casupole col loro grasso.
Avevano
anche essi un pezzo di radium, ed invece di avere delle fiocine colla punta di
osso, portavano a tracolla dei buoni fucili elettrici coi quali si procuravano
il cibo giornaliero massacrando gli uccelli marini, sempre numerosi in grazia
della cattiva qualità delle loro carni, eccessivamente oleose per i palati
americani ed europei.
Erano
molto sparuti però, quei poveri diavoli, quantunque si sapesse, anche cent'anni
prima, di che specie di appetito erano dotati quegli abitanti dei ghiacci
eterni.
Essi
infatti non facevano smorfie dinanzi ad un pesce avariato, o a dei volatili in
piena decomposizione, e a degli intestini d'orso bianco, e perfino dinanzi a
degli escrementi o agli avanzi non ancora digeriti che ritiravano dal ventre
delle renne uccise.
Avevano
anche perduta la loro proverbiale gaiezza in seguito alla mancanza di
scorpacciate di lardo di balena!
Si
capiva che proprio la distruzione di quei giganteschi mammiferi aveva
modificato profondamente il loro temperamento, un tempo così gaio.
"Ecco
una razza destinata a scomparire al pari dei pellirosse" disse Brandok,
che era già uscito parecchie volte dalla galleria, per gettare a quei
disgraziati parecchie ceste di biscotti, acquistate dal dispensiere del Narval.
"Quanti
anni durerà ancora?"
"Pochi
lustri di certo" rispose Holker. "Non sono uomini da poter prendere
parte alla grande lotta per l'esistenza. Scomparse le foche e le balene di che
cosa potrebbero vivere? Se i viaggiatori che vanno al polo non li aiutassero, a
quest'ora sarebbero completamente spariti."
"Eppure
vi è una colonia polare lassù, mi avete detto."
"Quelli
sono uomini che appartengono alla nostra razza" rispose Holker.
"Ecco
l'egoismo della razza bianca!..."
"In
coscienza non posso darvi torto."
"Noi,
sempre noi soli a dominare il mondo."
"È
la lotta per la vita, signor Brandok."
"O
meglio la lotta di razza."
"Come
volete" rispose Holker. "Comincia a far buio. Come son brevi le
giornate in questa stagione, sulle terre polari! Ecco che il sole tramonta e
non sono che le tre pomeridiane!"
"Quando
prenderemo il treno polare?" chiese Toby, con evidente impazienza.
"Domani
sera."
"Allora
possiamo cenare e coricarci. Vi saranno delle cabine in questo battello."
"E
bene riscaldate, e con un comodo letto. La società polare ferroviaria non
lesina mica in fatto di comodità. Venite, amici, per intanto andiamo in sala da
pranzo."
Lasciarono
la galleria e scesero in uno splendido salone illuminato da quattro grosse
lampade a radium, che mantenevano un calore piacevolissimo.
Si
assisero ad una tavola dove si vedevano oltre a dei piatti d'argento, delle
coppe di cristallo piene di fiori ottimamente conservati, raccolti
probabilmente nelle serre di Quebec.
La
composizione della cena era veramente polare. Salmone, filetti di narvalo,
fegato di caribou, coscia di renna con crescione, pasticcio di fegato di morsa,
gelato, e liquori a discrezione, con tè e caffè a scelta.
"Almeno
qui abbiamo della selvaggina" disse Brandok. "Un piatto di gran lusso
al giorno d'oggi, è vero, signor Holker?"
"Dite
rarissimo, anche nelle grandi città! Vive qui ancora qualche gruppo di renne e
si trovano anche dei caribou e qualche morsa. Fra pochi anni vedrete che quegli
animali e quegli anfibi saranno completamente scomparsi."
Cenarono
con molto appetito e verso le cinque, mentre un folto nebbione al di fuori
scendeva sulle pianure di ghiaccio, si fecero condurre nelle loro cabine dove
trovarono dei soffici letti che non erano inferiori a quelli della casa del
signor Holker.
Dormivano
da parecchie ore, quando furono bruscamente svegliati da un urto piuttosto
violento, che si ripercosse in tutto lo scafo del battello-tramvai, e dalle
grida dell'equipaggio.
Essendo
le lampade a radium rimaste accese, Brandok, Holker e Toby si trovarono riuniti
quasi nello stesso tempo nella sala dove avevano cenato e dove già si erano
raccolti gli altri viaggiatori.
"Signor
Holker," disse Brandok, vedendolo scambiare alcune frasi con uno degli
ufficiali che era sceso nella sala "che cos'è avvenuto?"
"Nulla
di grave, rassicuratevi" rispose il nuovayorkese con voce tranquilla.
"Il battello ha urtato contro un enorme masso di ghiaccio che la nebbia
impediva di vedere e che sbarrava la via."
"Sicché
non potrà più avanzare?"
"Fino
a che non si sarà tolto l'ingombro. Non sarà che un ritardo di un paio d'ore.
Saliamo sulla galleria ed andiamo a vedere."
Un
masso enorme che doveva essersi staccato da qualche ghiacciaio, avendo il
Narval raggiunto un gruppo di collinette piuttosto ripide, era rotolato fino sulla
via segnalata dai pali ed aveva fermata bruscamente la corsa.
L'intero
equipaggio, munito di lampade e di picconi si era già messo al lavoro per
sgretolarlo, aiutato da una ventina di esquimesi, accorsi subito da un
villaggio vicino.
"Se
quel blocco piombava nel momento in cui passava il battello, eravamo
fritti" disse Brandok. "Lo schiacciava come una nocciola."
"Sono
casi piuttosto rari, non essendovi che poche collinette in quest'isola"
rispose Holker. "Non ho mai udito raccontare che uno di questi battelli
sia stato schiacciato."
"Dove
siamo ora?"
"A
duecento miglia dalla stazione del lago."
"Signori"
disse in quel momento il capitano che era risalito a bordo. "Ne avremo per
tre ore; se volete approfittarne per visitare il villaggio esquimese dei Naz-tho
che si trova qui presso, non vi mancherà il tempo. Una visita agli abitanti del
polo è sempre interessante per un turista. Metto a vostra disposizione un
marinaio con due lampade."
"Approfittiamone
pure" disse Brandok. "Io non sono mai stato nelle regioni
polari."
La
proposta fu subito approvata anche dagli altri viaggiatori, e qualche minuto
dopo il drappello lasciava la nave, preceduto da un marinaio che illuminava la
via con due lampade a radium.
Il
freddo era intensissimo al di fuori, un nebbione pesante, fittissimo che la
luce delle lampade appena appena riusciva a diradare, calava sulle pianure di
ghiaccio, e un forte vento soffiava dal polo.
"Signor
Holker, siete stato altre volte qui?" chiese Bran-dok.
"Mi
sono recato al polo già due volte."
"Conoscete
dunque gli esquimesi?"
"Benissimo."
"Quali
progressi hanno fatto in questi cento anni?"
"Nessuno:
sono rimasti tali e quali come li avevano trovati gli esploratori del secolo
scorso. Sono esseri incapaci di civilizzarsi, e perciò finiranno anche essi con
lo scomparire. Vi ho già detto che il loro numero è immensamente scemato dopo
la distruzione delle balene, delle foche e delle morse."
"Vivono
ancora nelle capanne di ghiaccio?" chiese Toby.
"Sì,
zio, e l'unico miglioramento che abbiano introdotto è quello di aver soppressa
l'antica e fumosa lampada ad olio con quella a radium che li illumina e li
riscalda meglio. Eccoci giunti; volete che visitiamo una capanna? Turatevi il
naso e fatevi coraggio."
Erano
giunti dinanzi al villaggio, il quale si componeva d'una mezza dozzina di
abitazioni di forme semisferiche, composte di massi di ghiaccio sovrapposti con
un certo ordine, aventi sul davanti una piccola galleria che immetteva alla
porta d'entrata.
Internamente
erano tutte illuminate, sicché scintillavano fra la nebbia come se fossero
colossali diamanti, essendo il ghiaccio mantenuto sempre sgombro dalla neve che
vi si accumulava sopra.
Holker
stava per introdursi in una di quelle gallerie così basse e strette che non si
poteva avanzare che strisciando, quando un esquimese che li aveva seguiti, lo
fermò, dicendo:
"Aga-aga-mantuk".
"Che
cosa vuol dire?" chiese Brandok.
"Ho
capito" disse Holker. "È una tomba, questa, dove sta morendo
tranquillamente qualcuno della tribù. Non disturbiamo la sua agonia."
"Come!
là dentro vi è uno che muore?" esclamò Brandok.
"Sì,
e solo. La galleria deve essere già stata otturata."
"Quindi
è sepolto vivo?"
"Non
durerà molto" rispose Holker. "Se la malattia non lo uccide presto,
s'incaricherà la fame di mandarlo nel paradiso degli esquimesi."
"Spiegati
meglio, nipote mio" disse Toby. "Perché lo hanno sepolto vivo?"
"Perché
è stato giudicato inguaribile. Qui, quando un uomo od una donna vengono colpiti
da qualche malattia, si cerca di curarli dapprima con degli incantesimi, urlando
e correndo intorno alla capanna e mettendo accanto all'infermo una pietra di
due o tre chilogrammi, secondo la gravità della malattia, e che ogni mattina
viene pesata dalla donna più vecchia della tribù o dall'angekoc, che è una
specie di stregone. Se la pietra non diminuisce di peso, significa che il
malato è spacciato. Gli costruiscono a poca distanza una nuova capanna di
ghiaccio, vi stendono delle pelli, vi portano una brocca d'acqua ed una
lampada. Il malato vien portato nella sua tomba e si corica sul suo letto.
Fratelli, sorelle, moglie, figli e parenti vanno a portargli il loro ultimo
saluto, non fermandosi più del necessario, perché se la morte sorprendesse il
malato, i visitatori sarebbero costretti a spogliarsi dei loro abiti e gettarli
via, perdita non disprezzabile in questi climi. Poi, chiudono la galleria con
massi di ghiaccio e lasciano che il malato si spenga da sé."
"E
si lasciano rinchiudere senza protestare?"
"Anzi,
sono loro che pregano i parenti di portarli nella capanna da cui non usciranno
mai più. Più volte dei viaggiatori che si recavano alle colonie polari presi
dall'orrore di quel che accadeva in quelle capanne funebri, avevano forzata
l'entrata per portar via il morente e avevano ricevuto questo rimprovero:
"Chi viene a turbare la mia agonia? Non si può dunque morire in
pace?"."
"E
così fanno ancora?" disse Toby.
"Lo
vedete."
"Che
sia morto l'uomo che si trova in quella capanna?"
"Potrebbe
essere ancor vivo; lasciamolo in pace, per non attirarci addosso l'ira dei suoi
parenti, e rispettiamo la sua volontà."
Passarono
in un'altra capanna più vasta e meglio illuminata, e dopo essersi introdotti
nell'angusto corridoio, si trovarono nell'interno.
Vi
erano due donne coperte di vecchie pellicce sbrindellate ed una mezza dozzina
di fanciulli seminudi, poiché vi regnava un caldo soffocante. Una delle donne
stava masticando un paio di grossi stivali di pelle di morsa che il gelo aveva
indurito e che essa cercava di rammollire coi suoi possenti molari; l'altra era
occupata a preparare il pasto.
Un
odore nauseante regnava in quella piccola abitazione, dove alcune volpi e dei
pesci imputridivano affinché le loro carni risultassero più squisite ai palati
esquimesi.
"Ne
ho a sufficienza" disse Brandok, che si sentiva soffocare. "Questi
bravi abitanti del polo non hanno fatto un passo avanti da un secolo a
oggi."
Gettarono
ai ragazzi alcune manciate di biscotti e tornarono frettolosamente all'aperto,
dove il marinaio del Narval li aspettava assieme agli altri viaggiatori, che
dimostravano d'averne perfin troppo di quella visita. Un quarto d'ora dopo
rientravano nella galleria della nave, ben lieti di trovarsi al riparo dal
freddo e dal nebbione.
L'enorme
blocco di ghiaccio non era stato ancora completamente sgretolato, però poco ci
mancava.
Una
cartuccia carica di esplosivo potentissimo fece saltare quello che rimaneva,
sicché verso le otto del mattino il Narval si rimetteva in marcia, con una
velocità notevole essendo la pianura quasi liscia.
Durante
la giornata, la corsa continuò senza notevoli incidenti, e verso le cinque
Brandok segnalava un gran fascio di luce che forava la nebbia.
"È
la stazione di Nettelling" disse Holker. "Fra pochi minuti noi
saliremo sul tramvai elettrico che ci condurrà al polo nord."
Non
era trascorso un quarto d'ora che il Narval entrava sotto una immensa tettoia
illuminata da un gran numero di lampade e dove si muovevano parecchie persone
che si potevano facilmente scambiare per bestie polari.
Lì
presso si innalzava un alto fabbricato di legno da cui uscivano dei cupi
fragori, come se delle macchine poderose fossero in funzione.
In
lontananza invece si scorgeva una lunga fila di lampade, che proiettavano una
luce un po' diversa da quelle a radium; era uno strano sfolgorio come se i
ghiacci scintillassero.
"Che
cosa c'è laggiù?" chiesero Brandok e Toby.
"La
grande galleria che conduce al polo" rispose Holker. "Una delle più
grandi meraviglie del nostro secolo."
"Voi
avete costruita una galleria che conduce al polo!" esclamò il dottore.
"Come
volevate arrivarci? Con delle navi forse? Voi sapete che anche ai vostri tempi
hanno fatto cattiva prova. La grandiosa idea di giungere al polo per mezzo di
una galleria la dobbiamo ad un ingegnere nostro compatriotta. Essa si diparte
dalla riva settentrionale di questo lago, si spinge attraverso la Terra di
Baffin, passa lo stretto di Lancaster, che, come sapete, non sgela mai, nemmeno
in estate, quindi sull'isola di Devon, poi su quella di Lincoln, d'Ellesmere
fino a Grant e giunge al polo sotto l'88° di longitudine."
"Di
che cosa è fatta quella galleria?" chiese Brandok, il cui stupore non
aveva più limite.
"Con
materiale trovato sul luogo e che non è costato nemmeno un dollaro"
rispose Holker.
"Di
ghiaccio?" disse Toby.
"Precisamente,
un materiale a buon mercato, cementato con un miscuglio di sale per dare ai
blocchi maggior coesione. La galleria è larga undici piedi, alta otto, colle
pareti che hanno uno spessore di due metri, costruite con blocchi di ghiaccio
di due piedi di lunghezza e mezzo di larghezza. Nella forma somiglia ad un arco
perfetto ed è illuminata a luce elettrica perché le pareti non si fondano come
sarebbe potuto accadere con quella a radium."
"Quanto
hanno impiegato a costruirla?" chiese Toby. "Non più di sette mesi,
lavorando appena 400 operai. Non credo che il suo costo abbia superato i
duecentomila dollari."
"E
non si scioglie?"
"È
impossibile, attraversando una regione dove il termometro, anche in giugno e in
luglio, non segna mai più di tre o quattro gradi sotto zero. Infatti in quattordici
anni che funziona, nessuna arcata è mai crollata."
"E
chi ci condurrà al polo?"
"Un
carrozzone elettrico di dimensioni straordinarie, che scivola su rotaie. Qui
alla stazione vi sono macchine e dinamo poderose, e anche al polo ve ne sono
d'ugual potenza."
"E
finisce al polo la galleria?" chiese Brandok.
"No,
signore. I russi e gli inglesi poi ne hanno costruita un'altra che parte dalla
colonia polare e sbocca a nord dello Spitzbergen. Quella di quando in quando
frana al suo sbocco, non essendovi in quelle isole un freddo sempre intenso. Le
riparazioni però sono facili."
"Brandok,"
disse Toby "cosa ne dici?"
"Che
sogno sempre" rispose il giovine.
"Scendiamo
ed andiamo a prendere il nostro posto sul tramvai elettrico" disse Holker.
"Faremo colazione là dentro."
All'estremità
della tettoia era avanzato un carrozzone enorme, lungo più di venti metri, su
due e mezzo di larghezza, tutto chiuso da vetri che pareva avessero uno
spessore notevolissimo, e difeso al di sopra da una specie di gabbia d'acciaio
destinata certamente a ripararlo dalla caduta di qualche masso che poteva
staccarsi dalla volta della galleria.
Tre
lampade a radium di grande potenza lo illuminavano, o meglio lo inondavano di
luce.
L'interno
era diviso in cinque scompartimenti: salotto per pranzare, gabinetto di
toeletta, stanza da letto, sala da gioco e da lettura ed una piccola cucina.
Grossi
tappeti di feltro erano stesi sul suolo e pesanti pellicce coprivano le brande
che servivano da letto.
"Come
si sta bene qui!" esclamò Brandok, sbarazzandosi della pelliccia ed
entrando nel salotto da pranzo dove già si trovavano i viaggiatori tedeschi ed
inglesi che li avevano accompagnati sul Narval. "Che dolce tepore! Non si
direbbe che fuori il termometro segna 22° sotto zero."
"E
come sono eleganti questi scompartimenti!" disse Toby, che li aveva già
percorsi.
"Quando
giungeremo al polo, signor Holker?" chiese Brandok.
"Non
prima delle nove di domani mattina."
"Col
sole?"
"Voi
parlate del sole in questa stagione. È tramontato da dodici giorni, e al polo
ora regna una notte perfetta, anche in pieno mezzodì."
"È
vero; mi dimenticavo che siamo in autunno inoltrato."
"A
tavola, signori miei, ed imitiamo i nostri compagni di viaggio."
Si
misero ad uno dei sei tavolini che occupavano il salotto e si fecero servire un
pranzo abbondante e anche succulento, fornito dal cuoco del tramvai polare,
pranzo composto per la maggior parte da pesci eccellenti, cucinati in diverse
maniere, che innaffiarono con dello squisito vino bianco secco di California.
Il
carrozzone intanto era già partito con una velocità di centocinquanta
chilometri all'ora, inoltrandosi sotto la galleria polare.
Quel
tunnel formato tutto di blocchi di ghiaccio cementato con mistura di sale, era
veramente meraviglioso.
Ogni
cinquecento passi una lampada elettrica da tre o quattrocento candele, lo
illuminava, facendo scintillare meravigliosamente le pareti, e ad ogni venti
chilometri vi era uno sbocco laterale, attraverso cui si scorgevano delle
casette di legno abitate dai sorveglianti della linea.
"Splendida!
Splendida!" ripeteva Brandok, che si era seduto presso il manovratore
fumando un buon sigaro avana. "Questa è certamente l'idea più grandiosa
concepita dagli uomini del Duemila."
"Lo
credo anch'io, signor Brandok" rispose Holker che lo aveva raggiunto,
mentre Toby giocava una partita a whist con due inglesi.
"E
non vi sarà pericolo che una volta o l'altra succeda una catastrofe? Supponiamo
che in qualche luogo il ghiaccio ceda o si sgretoli per effetto delle
pressioni, o che un pezzo di galleria si rompa. Come potrebbe questo
carrozzone, lanciato a tale velocità, evitare un disastro?"
"In
un modo semplicissimo: fermandosi" disse Holker ridendo.
"Di
colpo non è possibile; mancherebbe il tempo."
"Ma
il manovratore lo potrebbe fermare molto prima se sulla linea vi fosse una
interruzione che potesse causare un disastro."
"In
qual modo?"
"Abbiamo
dinanzi a noi una macchina pilota che ci precede di cinque chilometri e che
corre con egual velocità del nostro carrozzone"
Brandok
lo guardò come se non avesse compreso.
"Mio
caro signore," proseguì Holker "i costruttori di questa linea avevano
previsto che dei gravi pericoli avrebbero potuto minacciare i viaggiatori
appunto a causa delle pressioni e dei ghiacci, i quali galleggiano in molti
luoghi sull'oceano, perciò hanno subito cercato di evitarli."
"Una
cosa che mi sembrerebbe difficile."
"Per
gli uomini del millenovecento forse sì, non per quelli del Duemila" disse
Holker.
"Che
cosa hanno pensato di fare?"
"Far
precedere i carrozzoni da un vagoncino che ha la funzione di pilota."
"Vuoto?"
"Sì,
signor Brandok, ed unito al carrozzone da un filo elettrico. Supponete ora che
quel vagoncino paragonabile, pei suoi armamenti di fili elettrici, ai tentacoli
che servono ai pesci ciechi per avanzarsi nelle grandi profondità o nelle
caverne sottomarine, vada a urtare contro un ostacolo qualunque o precipiti in
qualche spaccatura apertasi nei banchi di ghiaccio sostenenti la galleria;
immediatamente l'urto viene trasmesso al manovratore del nostro carrozzone, il
quale, messo in allarme dalla suoneria, s'affretta a fermarsi. Ecco dunque
evitato qualsiasi pericolo. Si avvertono tosto gli uomini incaricati di
riparare la galleria, questi si trasportano sul luogo ove il crollo o la frana
sono avvenuti e riparano il guasto. Potete quindi viaggiare tranquillamente,
signor Brandok senza temere alcun disastro."
"È
ingegnoso il mezzo" disse il giovine.
"E
sicuro, soprattutto" rispose Holker. "Signor Brandok, andiamo a
coricarci. Il tempo passerà più in fretta e quando riapriremo gli occhi, noi
saremo fra gli anarchici della colonia polare."
Una
scossa piuttosto brusca, seguita da un tintinnio di campanelli elettrici e da
un vociare piuttosto acuto, svegliò l'indomani mattina i viaggiatori, facendoli
scendere precipitosamente dalle loro comode brande.
Il
carrozzone, dopo una corsa velocissima durata tutta la notte, era giunto alla
stazione ferroviaria del polo nord, e s'era fermato sotto una lunghissima
tettoia di legno, chiusa alle estremità da gigantesche portiere a vetro e
illuminata da un gran numero di lampade elettriche.
Parecchie
persone, assai barbute, avvolte in pelli d'orso bianco, si erano raccolte
intorno al tramvai parlando diverse lingue: spagnolo, russo, inglese, tedesco e
perfino italiano.
Quasi
tutti fumavano enormi pipe di porcellana, gettando in aria delle vere nuvole di
fumo.
"Siamo
al polo, amici miei" disse Holker, prendendo i bagagli.
"E
chi sono questi uomini che ci guardano di traverso?" chiese Toby.
"Anarchici
pericolosi, provenienti da tutti i paesi del mondo e condannati a finir qui la
loro vita."
"Che
triste esistenza devono condurre fra queste nevi!"
"Meno
di quello che credete, zio" rispose Holker. "Ogni capo di famiglia ha
una capanna di legno fornitagli dal suo governo e ben riscaldata con lampade a
radium. Trascorrono la loro vita cacciando e pescando e non fanno cattivi
affari trafficando in pellicce. E poi di quando in quando ricevono viveri e
tabacco. Non sono proibiti che i liquori."
"E
non si ribellano mai?"
"I
governi mantengono qui due dozzine di pompieri per tenerli a freno, e l'acqua è
sempre mantenuta pronta dentro le pompe. Vi ho detto già come fulmina
quell'acqua, e quale spavento incute a tutti."
"E
sono molti qui gli anarchici?"
"Un
migliaio e quasi tutti hanno con loro una compagna."
"Ed
i figli che nascono?"
"Sono
mandati in Europa ed in America a studiare ed a educarsi per farne dei
cittadini operosi. Andiamo all'albergo del "Genio Polare". È l'unico
che ci sia e non ci troveremo male."
Uscirono
dalla tettoia e si trovarono dinanzi a parecchie slitte tirate da cani
esquimesi, guidate da uomini che parevano orsi marini.
Salirono
su una slitta e partirono di corsa attraverso le vie del villaggio polare che
erano coperte da uno strato immenso di neve.
Quelle
strade erano ampie, illuminate da lampade elettriche, essendo già da giorni
incominciata la lunga notte polare, e fiancheggiate da casette di legno ad un
solo piano, semisepolte dalla neve. Enormi montagne di ghiaccio si elevavano
intorno alla borgata e rifrangevano la luce delle lampade con effetto
meraviglioso. Pareva che quelle case si trovassero incastrate fra diamanti
giganteschi. Quantunque il freddo fosse così intenso da rendere perfino la
respirazione dolorosa, parecchi abitanti passeggiavano per le vie,
chiacchierando animatamente, come se si trovassero su un boulevard di Parigi o
un Rintgstrasse di Berlino o di Vienna.
La
slitta che era tirata da una dozzina di cani dal pelo lunghissimo che
assomigliavano ad un tempo alla volpe e al lupo, attraversò sempre correndo
parecchie vie sollevando attorno ai viaggiatori un fitto nevischio, che quasi
subito si condensava ricadendo al suolo sotto forma di sottili aghi di
ghiaccio, e si fermò finalmente davanti a una casa più vasta delle altre, però
ad un solo piano, anch'essa, riparata sul dinanzi da una galleria a vetri con
parecchie porte onde impedire la dispersione del calore.
"L'albergo
del "Genio Polare"" disse Holker.
"È
tenuto anche questo da un anarchico?" chiese Toby.
"Da
un terribile nichilista russo, che trent'anni addietro lanciò tre bombe contro
Alessio III, imperatore di Russia."
"Che
non ci faccia saltare in aria per provare qualche nuovo esplosivo?" chiese
Brandok.
"Rogodoff
è diventato un vero agnellino e credo che non nutra più odio nemmeno contro
l'imperatore, da quando quel potente ha rinunciato all'autocrazia."
"È
cambiata la Russia?"
"Oggi
ha una Camera e un Senato, come gli altri stati."
"Dunque
non più deportati in Siberia?" disse Toby.
"La
Siberia è diventata un paese civile quanto gli Stati Uniti, la Francia,
l'Inghilterra, e non ha più un deportato."
Entrarono
nell'albergo che era bene riscaldato dalle lampade a radium e arredato con una
certa eleganza, con sedie imbottite, tavolini coperti di tovaglie di carta di
seta e stoviglie di lusso. Vi erano dentro alcuni abitanti della colonia e
anche qualche esquimese, occupati a tracannare dei boccali di birra, prima
sgelata non senza fatica.
Erano
tipi veramente poco rassicuranti, con delle barbe incolte che davano loro un
aspetto brigantesco. Nondimeno salutarono cortesemente i nuovi arrivati, in
diverse lingue. I tre amici sedettero ad un tavolino e fecero portare della
zuppa di pemmican, del fegato di tricheco, del narvalo arrostito e frutti
gelati e così duri che quasi non riuscivano a mangiarli.
"Anche
al polo non si sta male" disse Brandok, sorseggiando una tazza di caffè
ben caldo. "Chi ce l'avrebbe detto che cent'anni più tardi si sarebbe
potuto divorare una colazione al 90° parallelo? Ditemi un po', signor Holker,
voi che siete stato qui altre volte, che cosa hanno trovato di sorprendente al
polo?"
"Null'altro
che ghiaccio ed una montagna altissima che sembra un vulcano spento."
"E
su quella s'incrociano tutti i meridiani del nostro globo?"
"E
vi si nasconde uno dei due cardini della terra" rispose Holker,
scherzando.
"Ed
al polo sud hanno pure aperta una galleria?" chiese Toby con curiosità.
"Non
ancora; però i nostri scienziati stanno studiando assiduamente su ciò che
meglio converrà fare anche in quell'estremo lembo del mondo. C'è una grave
questione che è più importante d'una galleria polare e che preoccupa
molto."
"E
quale?" chiesero Toby e Brandok che si mostravano sempre più curiosi.
"Cercano
il modo di equilibrare il nostro pianeta per liberare i nostri discendenti da
uno spaventoso cataclisma, da un altro diluvio universale insomma" disse
Holker. "Non si scioglierà certo in questo secolo quell'arduo problema,
tuttavia nel secolo venturo qualche cosa si farà. Comprenderete che si tratta
di salvare cinque continenti e centinaia di milioni di vite umane."
"Spiegati
meglio" disse Toby. "Non ti capisco; che cosa vogliono tentare gli
scienziati del Duemila?"
"Salvare
il mondo, ve l'ho detto."
"Chi
lo minaccia?"
"I
ghiacci del polo sud."
"In
qual modo?"
"Squilibrando
il nostro globo. Al polo sud si è constatato che i ghiacci da un secolo a
quest'oggi, hanno fatto dei progressi spaventevoli, raggiungendo l'incredibile
altezza di trentasette chilometri. Non essendovi laggiù mai piogge né avvenendo
squagliamenti considerevoli, la neve che cade si muta in ghiaccio compatto, il
quale esercita una pressione enorme, nonostante le perdite cui va soggetta la calotta
gelata per la dislocazione di quegli immensi massi che staccandosi dai suoi
margini estremi vanno a perdersi nell'Oceano Atlantico e nel Pacifico. Inoltre
le acque dei mari circostanti, restando sotto il punto di congelamento come
hanno constatato i nostri ultimi navigatori, contribuiscono ad aumentare il
volume della sterminata massa glaciale risultata dalle incessanti
nevicate."
"Capisco"
disse Toby.
"Da
migliaia e migliaia d'anni dunque, la calotta glaciale del polo sud, che non è
altro che una immane montagna di ghiaccio, non ha fatto altro che aumentare,
occupando oggidì una superficie di otto milioni di miglia quadrate, pari cioè a
quella di tutta l'America settentrionale. Quel peso immenso che cosa produrrà?
Uno spostamento del nostro pianeta simile a quello già avvenuto venticinquemila
anni fa, prodotto dalla massa della calotta di ghiaccio del polo artico che
rovesciò sul nostro globo quel tremendo diluvio di cui parlano gli antichi e di
cui ormai abbiamo prove lampanti. Collo sconquasso antartico le terre
settentrionali verranno indubbiamente sommerse per lasciar sorgere invece
quelle meridionali che ora si trovano sott'acqua."
"E
i vostri scienziati ritengono che quella catastrofe avverrà?" chiese Toby.
"Nessuno
più ne dubita," rispose Holker. "Il movimento delle acque del polo
sud è strettamente connesso coll'aumento graduale della calotta di ghiaccio
australe, e la conseguenza di ciò sarà che tre quinti delle acque del globo si
troveranno spostate dal primitivo loro centro di gravità e pronte a rovesciarsi
verso il nord. Quindi è facile comprendere quanto sia precaria la situazione
degli abitanti dell'emisfero settentrionale, anzi quanto sia pericolosa. Tutta
la nostra salvezza risiede nella coesione degli ottanta milioni di chilometri
cubi di ghiaccio che gravitano sul polo australe. Il franamento di quell'enorme
massa di ghiaccio avrebbe per effetto lo spostamento della forza di gravità, il
ghiaccio sarebbe istantaneamente trasferito sulla parte settentrionale del
nostro globo e i frammenti della calotta antartica con tutte le acque
trattenute ora intorno ad essa si rovescerebbero con impeto irresistibile verso
il polo nord attraverso l'Oceano Atlantico e Pacifico."
"Che
momento sarà quello!" disse Brandok. "Fortunatamente noi non saremo
più vivi allora, a meno che l'amico Toby non trovi il mezzo di riaddormentarci
per secoli."
"Una
seconda prova ci sarebbe fatale" rispose il dottore.
"Signor
Holker," chiese Brandok "gli scienziati moderni approssimativamente
hanno calcolato quando potrebbe accadere quella tremenda catastrofe?"
"Positivamente
no; è certo però che la massa della calotta glaciale non potrà essere
ragionevolmente prolungata al di là di un certo punto. Potrà accadere fra
mill'anni come potrebbe accadere fra dieci."
"Se
dovesse avvenire, sarebbe certo un disastro spaventevole" disse Toby.
"Immaginatevi,
zio, la immensa voragine lasciata aperta dallo spostamento d'una massa di oltre
cento milioni di metri cubi! Scendendo dal polo australe la valanga dei massi
giganteschi scaverà un immenso solco negli oceani le cui acque si troveranno
lanciate con impeto irresistibile sulle sponde dell'America meridionale,
dell'Africa e dell'Australia. Dopo aver sepolto sotto massi enormi di ghiaccio
quei continenti, il diluvio attraverserà l'equatore, si lancerà sull'America
del Nord, sull'Europa e sull'Asia distruggendo dappertutto la vita e l'opera
dell'uomo.
"Dove
un tempo s'innalzavano superbi edifici e città e si estendevano campi, sarà la
desolazione più lugubre, il più spaventoso deserto."
"E
i vostri scienziati pensano di evitare una simile catastrofe?" chiese
Brandok.
"Studiano
il progetto da moltissimi anni" rispose Holker. "Sarà il più grande
successo della scienza del Duemila."
"Si
tratterebbe di alleggerire del troppo peso il polo australe" disse Toby.
"E
per di più trasportarlo al polo boreale" rispose Holker.
"Diavolo!"
disse Brandok. "Ecco un'impresa che mi pare difficile."
"Altri,
e mi sembra che la cosa possa essere più facile, propongono di rimorchiare
parte della immensa calotta gelata fino sotto l'equatore e lasciarla
sciogliere."
"Che
razza di macchine ci vorrebbero!"
"Eppure
vedrete, se camperemo molto, che i nostri scienziati riusciranno a mantenere in
equilibrio il nostro pianeta e a salvare l'umanità."
"Dopo
tutto quello che ho veduto finora, non ne dubito nemmeno io" disse Toby.
"Che progressi ha fatto la scienza in questi cent'anni! C'è da perdere la
testa."
Per
tre giorni Holker ed i suoi due amici si trattennero nella colonia polare
facendo delle escursioni nei dintorni, sulla slitta dell'albergo, visitando
parecchie case degli anarchici e qualche capanna esquimese, nonostante il
freddo eccessivo che regnava all'aperto e la profonda oscurità addensata sugli
sterminati banchi di ghiaccio della regione polare.
Dovettero
constatare, e ne furono molto lieti, che quegli uomini, un giorno così
pericolosi, erano diventati assolutamente pacifici e mansueti come agnellini.
Era
l'influenza del freddo o l'isolamento che aveva operato quel prodigio su quei
cervelli esaltati? Probabilmente l'una e l'altra cosa insieme.
Certo
non ci trovavano più gusto a parlare di bombe, d'incendi e di stragi, con un
freddo di 45° sotto zero! Preferivano fumare la pipa accanto ad una lampada a radium,
godendosi il calore che essa mandava.
Come
si vede, i governi d'Europa e d'America avevano avuto una eccellente idea a
mandarli in quel clima, perché... si raffreddassero.
La
mattina del quarto giorno, mentre Holker, Brandok e Toby stavano prendendo una
bollente tazza di tè, furono finalmente avvertiti che durante la notte era
giunto il tramvai elettrico dallo Spitzbergen e che si preparava a far ritorno
in Europa.
"Partiamo,
amici" disse Holker. "D'inverno il polo è poco piacevole, e ritengo
che ne abbiate abbastanza del nostro soggiorno fra i ghiacci eterni."
"Amerei
di più trovarmi in un clima meno rigido" rispose Brandok. "Io non ho
nelle mie vene il sangue ardente degli anarchici."
"E
nemmeno io" disse Toby.
"Quando
giungeremo allo Spitzbergen?" chiese Brandok.
"Fra
sessanta ore, essendo la galleria europea più lunga di quella americana."
"E
poi dove andremo?"
"C'imbarcheremo
sul battello volante che fa il servizio fra le isole e l'Inghilterra. Desidero
mostrarvi un'altra meraviglia."
"Quale?"
"I
grandiosi mulini del Gulf-Stream."
"Che
cosa saranno?"
"Dei
mulini, vi ho detto."
"Per
macinare granaglie?"
"Oh
no!... Poi andremo a visitare una delle città sottomarine inglesi dove si trovano
relegati i più pericolosi banditi del Regno Unito. Ecco la slitta: andiamo,
amici."
Saldarono
il conto, presero i loro bagagli e salirono sulla slitta dell'albergo che era
tirata da sei vigorosi cani di Terranova, più robusti e più obbedienti di quelli
di razza esquimese.
Un
quarto d'ora dopo si fermavano sotto la tettoia della stazione europea che si
trovava nell'altro lato della città.
Un
carrozzone simile a quello della linea americana aspettava i viaggiatori.
Anche
quello era diviso in scompartimenti e addobbato con lusso ed eleganza.
Vi
salirono e qualche minuto dopo il tramvai, preceduto dalla macchina pilota,
partita già cinque minuti prima, si cacciava sotto la galleria europea fatta
costruire a spese delle nazioni settentrionali del continente: Russia, Svezia,
Norvegia ed Inghilterra.
Nelle
dimensioni, e nella forma non era diversa da quella americana. Era solamente un
po' meno illuminata, non disponendo le nazioni europee settentrionali d'una
forza elettrica pari a quella nordamericana, perché non hanno le cascate del
Niagara.
Cinquanta
ore dopo i tre viaggiatori, che avevano veduto a poco a poco diradarsi le
tenebre di miglio in miglio che s'allontanavano dal polo, giungevano
felicemente sulle coste settentrionali della maggior isola del gruppo dello
Spitzbergen.
Avevano
costeggiato per un lungo tratto la Groenlandia settentrionale, poi avevano
attraversato una parte dell'oceano coperto da immensi banchi di ghiaccio,
giungendo alla stazione russa.
La
galleria terminava là; però la linea continuava fino al Porto della Ricerca.
Con
molta sorpresa di Toby e Brandok videro ergersi sulle rive nevose di quella
baia, cent'anni prima appena frequentata da rari balenieri e da cacciatori di
foche, dei palazzi imponenti, che erano alberghi destinati ad accogliere nella
stagione estiva i ricchi europei.
Il
freddo ora aveva messo in fuga albergatori ed ospiti. Vi si trovavano invece
due o tre dozzine di pescatori di merluzzi ed alcuni guardiani incaricati della
sorveglianza degli alberghi.
Holker
s'informò se il vascello volante inglese era giunto ed ebbe una risposta
negativa.
Ventiquattro
ore prima un violento ciclone si era scatenato sull'Atlantico settentrionale e
probabilmente aveva costretto il vascello aereo a rifugiarsi in qualche porto
della Norvegia.
Era
anzi probabile che non potesse arrivare nemmeno il giorno dopo, essendo il
cielo assai nebbioso ed il vento violentissimo.
"Noi,
già, non abbiamo fretta" disse Brandok. "Qui fa meno freddo che al
polo."
"Gli
è che non vi è alcun albergo aperto in questa stagione" rispose Holker.
"Saremo costretti a rimanere nelle sale della stazione o a chiedere asilo
a qualche famiglia di pescatori."
"Per
noi poco importa" disse Toby.
Non
fu difficile accordarsi con una famiglia mediante un modesto compenso. La casetta
era pulitissima, essendo i suoi proprietari norvegesi, ben riscaldata e anche
ben provvista di viveri.
"Ci
troveremo bene anche qui" disse Brandok.
"E
avremo carne a tutti i pasti," disse Holker "ciò che al giorno d'oggi
non si può trovare dappertutto sui continenti."
"Carne
d'orso?" chiese Toby.
"Sono
più di cinquant'anni che gli orsi sono scomparsi" rispose Holker.
"Anche nelle regioni polari, ormai, la selvaggina è diventata rarissima.
Qui invece si allevano ancora molte renne che vengono poi esportate in Russia e
anche in Norvegia. Nonostante i lunghi inverni e le forti nevicate, quegli
animali riescono a trovare ancora di che nutrirsi, cercando i licheni sepolti
sotto il ghiaccio."
"E
in estate è popolata questa grande isola?" chiese Toby.
"È
una stazione di prim'ordine, mio caro signore. Non vi giungono mai meno di
cinque o seimila persone."
"Ai
nostri tempi le montagne bastavano."
"Quelle
servono ai modesti borghesi."
"Farà
buoni affari in quella stagione la linea polare?"
"I
viaggiatori accorrono al polo a migliaia."
"E
questi pescatori che cosa fanno qui?"
"Aspettano
il passaggio dei grandi branchi di merluzzi. Sapete che quegli eccellenti pesci
non frequentano più le coste di Terranova?"
"Hanno
sentito anche loro il bisogno di qualche novità?"
"Sembra"
rispose Holker. "Da sessanta e più anni non si mostrano più sulle coste
canadesi. Ora frequentano questi paraggi, dove si lasciano prendere in numero
sterminato."
"Si
pescano ancora con le lenze?"
"Anticaglie
quelle. Oggi delle gigantesche navi munite di motori d'una potenza
straordinaria vengono qui e gettano delle reti di cinque o sei miglia di
lunghezza, che vengono poi rapidamente rimorchiate a terra. Bastano pochi
giorni per terminare la stagione della pesca, mentre ai vostri tempi durava
quattro mesi."
"Tutto
ad elettricità!" esclamò Brandok. "Quanti cambiamenti in questi
cent'anni! Si fa tutto in grande!"
"Se
così non si facesse, come potrebbe nutrirsi l'umanità? La pesca oggi è
quadruplicata e ringraziamo la Provvidenza che abbia popolato tanto gli
oceani!"
Si
erano seduti dinanzi ad una tavola ben apparecchiata dalla moglie e dalle
figlie del pescatore. Vi fumava un enorme pezzo di renna arrostito che fu
dichiarata squisita.
Divorarono
poscia un'abbondante zuppa di pesce, vuotarono alcune tazze di latte di renna,
poi, essendosi il vento un po' calmato, fecero una escursione nei dintorni
della baia colla speranza di veder giungere il vascello aereo che doveva
condurli in Europa.
Non
fu che alle prime ore dell'indomani che furono avvertiti dal loro ospite che il
vascello aereo era comparso all'orizzonte.
Sorseggiarono
una tazza di tè e, indossati i grossi mantelli di pelle d'orso, si
precipitarono verso la baia, per godersi lo spettacolo dell'arrivo.
Il
vascello volante era ormai visibile e solcava lo spazio maestosamente,
tenendosi a centocinquanta metri dai banchi di ghiaccio che si stendevano
sull'oceano.
Somigliava
agli omnibus volanti che già Brandok e Toby avevano veduto a Nuova York, però
più in grande, avendo la piattaforma più larga, dieci ali, quattro eliche
mostruose e doppi timoni. Sopra si estendeva una galleria a vetri, riservata ai
viaggiatori, e sormontata da un albero con una antenna, probabilmente qualche
apparecchio elettrico per la trasmissione dei telegrammi aerei.
Il
vascello che si avanzava con grande velocità fu ben presto sopra la baia.
Descrisse, nonostante il forte vento, una curva assai allungata, ed andò a
posarsi dolcemente entro un recinto costruito su una collinetta che sorgeva a
qualche centinaio di metri dalla stazione estiva.
"Andiamo
a raggiungerlo subito" disse Brandok, che li aveva seguiti assieme al
pescatore che portava le valigie. "Il Centauro non si ferma più d'un
quarto d'ora, appena il tempo sufficiente per consegnare la posta e sbarcare
dei viveri e del tabacco per i pescatori e per i guardiani."
Salirono
la collina, entrarono nel recinto e s'imbarcarono, dopo aver fatto acquisto del
biglietto.
A
bordo del vascello aereo non vi erano che sette uomini: il comandante, due
macchinisti, due timonieri, uno stewart ed un medico.
L'interno
della galleria era diviso in quattro scompartimenti. Uno riservato alle
macchine e all'equipaggio; uno a camera da letto, suddivisa in piccole cabine
di leggera lamiera d'alluminio o d'un metallo consimile; il terzo a sala da
pranzo; il quarto a biblioteca e sala da conversazione, con un organo elettrico
per divertire i viaggiatori.
"Bellissimo!"
aveva esclamato Brandok, osservando i ricchi mobili che arredavano le sale.
"Meraviglioso!"
"E
quello che conta, tanto più sicuro delle navi che solcano gli oceani"
disse Holker.
"Quando
giungeremo a Londra?" chiese Toby.
"Fra
quarantasei ore" disse il comandante della nave. "Dobbiamo spingerci
prima fin sulle coste dell'Irlanda per deporre nella città sottomarina un pericoloso
galeotto che ci è stato consegnato dalle autorità norvegesi di Bergen e che è
suddito inglese."
"Ecco
una buona occasione per visitare quella città," disse Holker, "e
anche i grandi mulini del Gulf-Stream. Non supponevo di essere tanto fortunato."
"Avete
più nulla da imbarcare?" chiese il capitano. "Null'altro,
signore" rispose Brandok.
"Allora
partiamo senza indugio: sta per scoppiare un nuovo ciclone e non amo fermarmi
qui o dovermi rifugiare ancora nei fiords della Norvegia. A causa degli uragani
sono già in ritardo di due giorni."
Il
Centauro, ad un comando del capitano, aveva rimesso in movimento le due
poderose macchine e si era innalzato di duecento metri salutando la popolazione
della stazione con dei sibili acutissimi.
Girò
due volte sulla baia, poi prese lo slancio dirigendosi verso sud-ovest, con
rapidità fantastica.
Dinanzi
alla baia si estendevano degli immensi banchi di ghiaccio, solcati da canali
più o meno larghi e che mandavano in alto un bagliore intenso, quasi accecante,
dovuto alla rifrazione di tutta quella massa trasparente. In lontananza invece
appariva la tinta azzurro-cupa del mare che indicava le acque libere
dell'Oceano Atlantico.
Brandok,
Toby e Holker, ben coperti dai loro mantelli di pelo, si erano seduti fuori della
galleria, sulle panchine di prora, per godersi meglio quello spettacolo.
Il
vascello volante, nonostante la sua mole, si comportava meravigliosamente bene,
gareggiando coi lesti gabbiani e coi grossi albatros che lo seguivano o lo
precedevano. Manteneva una linea rigorosamente diritta, orientata sulla
bussola, senza abbassarsi nemmeno d'un metro.
Non
era un pallone, era un vero vascello che obbediva alle mosse dei due timoni,
che funzionavano come le code dei volatili.
"Una
scoperta stupefacente" ripeteva Brandok, che respirava a pieni polmoni
l'aria gelata eppur vivificante dell'oceano. "Chi avrebbe detto che l'uomo
sarebbe riuscito a dividere cogli uccelli l'impero dello spazio? Che cosa sono
i famosi condor in confronto a questi vascelli volanti?
"Questi
vascelli superano in velocità gli uccelli?" chiese Toby.
"Li
lasciano indietro senza fatica" rispose Holker.
"Anche
le fregate?"
"Sono
gli unici volatili che li superano, potendo quelli percorrere centosessanta
chilometri all'ora."
"E
gli albatros?" chiese Brandok.
"Quantunque
abbiano un'ampiezza d'ali che in media va dai quattro metri ai quattro e mezzo,
non possono lottare colle fregate."
"Che
velocità sviluppano queste navi volanti?"
"Centocinquanta
chilometri all'ora" rispose Holker.
"E
dire che noi, ai nostri tempi, andavamo superbi delle nostre torpediniere, che
riuscivano a percorrere ventiquattro o venticinque miglia all'ora!" disse
Toby. "Che progressi! Che progressi!"
"Ditemi,
signor Holker" disse Brandok. "Le navi moderne che velocità raggiungono?"
"Le
cinquanta e anche le sessanta miglia all'ora" rispose l'interrogato.
"Che
macchine hanno?"
"Mosse
dall'elettricità."
"E
la forma è quella d'un tempo?"
"Giudicatene
voi. Ecco laggiù appunto una nave che forse viene dall'Isola degli Orsi. Vi
sembra che rassomigli ad una di quelle che percorrevano gli oceani ai vostri
tempi?"
Brandok
e Toby si erano vivamente alzati guardando nella direzione indicata dal loro
amico e videro delinearsi sull'orizzonte una specie di fuso lunghissimo che
correva sulle onde con estrema rapidità, senza alcuna traccia di fumo.
"Quella
nave è il Tangaroff" disse il capitano del vascello aereo. "Viene dal
Mar Bianco e si reca in Islanda. Una bella nave, ve lo dico io, che cammina
come uno squalo. Non ha paura dei ghiacci la sua prora!"
"Non
rassomiglia affatto alle navi che solcavano i mari ai nostri tempi" disse
Brandok quando il capitano si fu allontanato. "Le hanno modificate i
costruttori del Duemila?"
"In
gran parte, per ottenere una maggiore velocità e meno rollio e beccheggio"
disse Holker. "Hanno dato allo scafo una forma di sigaro molto affilato a
prora e la coperta è quasi scomparsa non essendovi che il posto per una torre
destinata ai timonieri. Come vedete, le navi moderne sono quasi tutte sommerse
e chiuse sopraccoperta in modo che durante le tempeste le onde possono
spazzarle senza produrre il minimo inconveniente."
"Sapete
che cosa mi ricordano, nella forma, queste nuove navi? I battelli sottomarini
che si incominciavano ad usare ai nostri tempi."
"È
vero" confermò Toby. "E come procedono? Ancora ad elica?"
"Sì,
e a ruote. Sotto la carena entro appositi incavi ne hanno otto, dieci e perfino
dodici, che talvolta aiutano potentemente le eliche poppiere" disse
Holker.
"Con
questo doppio sistema che ricorda un po' i nostri antichi piroscafi rotanti, i
nostri ingegneri navali hanno potuto imprimere alle nostre navi cinquanta e
perfino sessanta miglia all'ora."
"E
voi mi avete detto che non, rollano e non beccheggiano?"
"Il
mal di mare è ora quasi sconosciuto, sui piroscafi moderni, e anche le più
formidabili ondate non riescono nemmeno a scuoterli."
"E
perché?" chiese Toby.
"Perché
i loro fianchi sono spalmati d'una vernice grassa che, distendendosi lentamente
sull'acqua, produce il medesimo effetto dell'olio usato dai balenieri nelle
tempeste."
"Che
cosa non hanno inventato questi uomini del Duemila!" esclamò Brandok.
"Molte
cose, infatti, e utilissime" rispose Holker, sorridendo.
"E
di navi a vela ce ne sono ancora?" chiese Toby.
"Da
settant'anni non se ne vede più una. Guardate che bella nave e ditemi se non
vale meglio di quelle che navigavano cent'anni fa."
Il
Tangaroff in quel momento incrociava il battello volante, passandovi a babordo.
Era
un fuso enorme tutto in acciaio, lungo più di centocinquanta metri, colla prora
acutissima e largo al centro una quindicina di metri.
Era
tutto coperto, con un gran numero di finestre al posto della coperta difese da
vetri che dovevano avere un grande spessore.
Nel
mezzo si ergeva una torre pure in metallo, alta quattro metri, sulla cui
piattaforma stavano seduti, presso la ruota, due timonieri. Dietro si innalzava
un albero per la telegrafia aerea.
Filava
velocemente, quasi senza produrre alcun rumore, lasciandosi dietro una scia
candidissima che pareva oleosa.
Più
che una nave, sembrava un balenottero lanciato a tutta velocità.
Nel
momento in cui passavano sotto il Centauro, l'apparato elettrico di questo fece
udire un lungo tintinnio e registrò un dispaccio lanciato dai timonieri del
"Tangaroff".
Era
un cordiale "buon viaggio" che inviavano ai naviganti dell'aria,
unitamente alla notizia che i ghiacci avevano ormai interrotta la navigazione
nel Mar Bianco.
"Bella!
Splendida!" esclamò Brandok che seguiva collo sguardo il velocissimo
piroscafo.
"Quando
potrà giungere in Islanda?"
"Domani
sera" rispose Holker.
"Malgrado
i ghiacci?"
"Se
ne ridono dei ghiacci le nostre navi. Li assalgono a colpi di sperone e li disgregano
per quanto spessore abbiano. Sono veri arieti, d'una potenza inaudita."
"Nipote
mio," disse Toby "che cosa è avvenuto dei battelli sottomarini che ai
nostri tempi facevano tanto parlare?"
"Dopo
che le guerre sono state rese impossibili, sono scomparsi o quasi. Ve ne sono
ancora alcuni che servono per le esplorazioni sottomarine e per il ricupero
delle ricchezze perdute in fondo ai mari."
"E
del Canale di Panama?" chiese Brandok.
"È
compiuto, mio caro signore, e già da 85 anni."
"Quella
grande impresa è stata condotta a termine?"
"Sì,
dai nostri connazionali; ed altre ancora ne sono state ultimate per accorciare
i viaggi alle navi. L'istmo di Corinto che univa la Morea alla Grecia è stato
pure tagliato; quello della penisola di Malacca pure, ed ora si sta compiendo
un'altra grande opera."
"Quale?"
"Il
grande deserto del Sahara sta per divenire un mare accessibile anche alle più
grandi navi. Ci lavorano da cinque anni e fra cinque o sei mesi anche
quell'opera sarà compiuta."
"Che
cosa vi rimane ora da fare?" chiese Brandok.
"Mantenere
il mondo in equilibrio, ve lo dissi già," rispose Holker "e speriamo
che vi riescano i nostri scienziati. La campana ci chiama a colazione;
quest'aria marina mi ha messo addosso un appetito da lupo. Imitatemi amici; vi
troverete meglio dopo."
Mentre
passavano nel salotto da pranzo, il vascello volante continuava la sua corsa
verso sud-ovest, divorando lo spazio con una rapidità di centoventi chilometri
all'ora. L'oceano era sempre coperto da vasti banchi di ghiaccio e anche
ice-bergs i quali proiettavano dei riflessi accecanti.
Qua
e là si scorgevano dei canali, entro i quali mostravasi ancora qualche
rarissima foca, una delle poche sfuggite alle feroci distruzioni dei pescatori
norvegesi e russi.
I
tre amici stavano per terminare il pasto, semplice sì ma assai abbondante,
quando udirono la suoneria dell'apparato elettrico tintinnare e poco dopo
videro comparire il capitano colla fronte abbuiata.
"Avete
ricevuto qualche cattivo dispaccio, comandante?" chiese Holker.
"Mi
telegrafano dalla stazione scozzese di Capo York che una bufera terribile
imperversa da due giorni intorno alle isole britanniche" rispose il
capitano. "S'annuncia ben cattivo l'inverno, quest'anno."
"Sarete
costretto a rifugiarvi nuovamente sulle coste norvegesi?"
"Non
voglio perdere altro tempo; sfiderò il ciclone."
"Resisterà
la vostra nave?" chiese Brandok.
"Non
vi inquietate signori; il mio Centauro è costruito con acciaio di prima
qualità."
Non
erano trascorse tre ore, che già la bufera, annunciata dalla stazione scozzese,
si faceva sentire anche nei paraggi percorsi dal vascello volante.
Il
cielo si era oscurato e dei soffi impetuosi, delle vere raffiche marine
giungevano dal mezzodì, investendo poderosamente le ali e le eliche del
Centauro.
L'oceano
si rompeva in ondate che diventavano rapidamente altissime, le quali
disgregavano con mille fragori i banchi di ghiaccio scendenti dall'isola Jean
Mayen. Il comandante aveva dato ordine ai suoi macchinisti di aumentare la
velocità sperando di sottrarsi agli assalti imminenti del ciclone e dando la
possibilità ai timonieri di dirigersi verso ovest per evitare il centro della
bufera. Tuttavia il Centauro subiva dei sussulti improvvisi e si trovava
talvolta impotente a resistere alle raffiche. Già più d'una volta era stato
trascinato per qualche tratto verso il settentrione, nonostante gli sforzi
delle ali e delle immense eliche.
"Cadremo
in mare?" chiese Brandok, che si era collocato dietro i vetri dello
scompartimento prodiero.
"Anche
se ciò avvenisse, poco danno ne avremmo" rispose Holker.
"Non
andremo sott'acqua?"
"Niente
affatto, mio caro signore. I nostri ingegneri avevano pensato anche a simili
disgrazie e vi hanno posto rimedio."
"In
qual modo?"
"Non
avete osservato che la parte inferiore della piattaforma è quasi sferica come
quella delle scialuppe e delle navi e che ha anche una chiglia? Nell'interno vi
sono delle casse d'aria le quali impediranno al Centauro di sommergersi."
"Sicché
queste navi volanti si possono, all'occorrenza, trasformare in scialuppe!"
esclamò Toby con stupore.
"E
perfettamente navigabili, zio," rispose Holker "perché la poppa
nasconde entro un incavo un'elica di metallo, che funziona colla stessa
macchina che mette in moto le ali. Come vedete nessun pericolo ci minaccia e
anche calando, noi potremo giungere egualmente in Inghilterra."
"C'è
da impazzire" disse Brandok. "Questi uomini moderni hanno pensato a
tutto."
La
bufera intanto, aumentava di miglio in miglio che il Centauro guadagnava.
Il
vento si era scatenato con un fragoroso accompagnamento di urli, di fischi e di
muggiti, balzando ora dal sud al nord ed ora dall'est all'ovest, come se Eolo
fosse completamente impazzito.
Lo
spettacolo che offriva l'oceano da quell'altezza era spaventevole e nello
stesso tempo meraviglioso.
Montagne
d'acqua, nere come fossero d'inchiostro e colle creste invece candidissime e
quasi fosforescenti, si rovesciavano in tutte le direzioni, accavallandosi e
rimbalzando a grande altezza.
Si
formavano abissi profondi che subito si riempivano per riaprirsi più oltre, e
dai quali uscivano dei muggiti formidabili, prodotti dall'irrompere tumultuoso
delle acque.
Tutto
il giorno il Centauro lottò vigorosamente, ora innalzandosi ed ora
abbassandosi, respinto sovente fuori dalla sua rotta; e quando cadde la sera si
trovò avvolto in una nebbia così fitta, che le lampade a radium non riuscivano
a romperla.
"Ecco
un altro pericolo e forse maggiore" disse Brandok.
"Perché?"
chiese Holker.
"Se
il Centauro s'incontrasse con qualche altro vascello aereo procedente in senso
inverso, chi riuscirebbe a salvarsi da una collisione fra due macchine spinte
colla velocità di centocinquanta chilometri all'ora?"
"Non
temete" disse Holker. "Ciò può avvenire in una città dove le macchine
volanti sono numerosissime, in mare no."
"E
perché no?"
"Ogni
macchina volante è fornita d'un eofono."
"Che
bestia è questo eofono?"
"Un
semplice eppure preziosissimo, apparecchio, formato da due imbuti ricevitori
del suono, separati fra di loro da un diaframma centrale. Questi due imbuti
vengono applicati agli orecchi del timoniere e quando questi apparecchi si
trovano nella direzione delle onde sonore emesse da un corpo qualunque,
producono un rumore nella medesima intensità e sono così sensibili da
registrare le vibrazioni più impercettibili. Supponete ora che un vascello
volante s'accosti a noi. Il rumore che produce, spostando la massa d'aria, e
anche le vibrazioni delle ali si trasmettono subito agli imbuti del nostro
timoniere. Che cosa si fa allora? Si lancia un telegramma che viene raccolto e
trasmesso sul vascello dall'apparecchio elettrico. Entrambi i vascelli volanti
si fermano e deviano, ed ecco tolto ogni pericolo d'investimento. Che cosa ne
dite ora, signor Brandok?"
Il
giovine scosse il capo senza rispondere.
Anche
durante l'intera notte l'uragano non cessò un momento di infuriare. Il vento
che soffiava ad oriente aveva respinto il Centauro assai lontano dalla sua
rotta, trascinandolo in mezzo all'Oceano Atlantico.
A
mezzodì, quando il capitano, approfittando d'un raggio di sole fece il punto,
s'accorse d'aver oltrepassata la Scozia di qualche centinaio di miglia.
"Pel
momento dobbiamo rinunciare alla speranza di approdare in Inghilterra"
disse ad Holker, che lo interrogava. "Il vento ci trascina come se il mio
Centauro fosse diventato un veliero e non sarebbe prudente cercare di
resistergli."
"E
dove andremo a finire noi?"
"Vi
spaventa una corsa in mezzo all'Atlantico?"
"No,
purché il vento non ci faccia tornare in America. Noi desideriamo visitare le
grandi capitali degli stati europei."
"Quando
il ciclone si calmerà, riprenderemo la corsa verso l'Inghilterra. A Liverpool
prenderete o il treno o il vascello che va a Londra. Non è questione che di
qualche giorno di ritardo. Questo ventaccio finirà per cambiare."
Il
capitano s'ingannava.
L'uragano
imperversò con furia estrema per due giorni ancora, mettendo più volte in serio
pericolo il Centauro le cui ali a poco a poco si sfasciavano.
La
mattina del terzo giorno, quando già il vento cominciava finalmente a scemare
di violenza, il capitano avvertì i viaggiatori di rifugiarsi nella galleria per
non venire trascinati via dalle onde.
"Scendiamo
in mare?" chiese Holker.
"Sì,
signore," rispose il comandante. "Il Centauro non si sostiene in aria
che con grandi sforzi e piuttosto di cadere improvvisamente, preferisco
scendere."
"L'oceano
è sconvolto" osservò Brandok.
"L'armatura
della galleria è di una solidità a tutta prova ed i vetri hanno uno spessore di
cinque centimetri. Le onde non riusciranno mai a sfondarla. Diventiamo marinai
dopo essere stati volatili. Noi già, non soffriamo il mal di mare."
Entrarono
nella galleria assieme all'equipaggio e al comandante, potendosi maneggiare i
due timoni anche dall'interno, ed il Centauro calò lentamente in mezzo ai
flutti.
Brandok,
Toby e anche Holker, per un momento temettero di finire in fondo all'Atlantico.
Appena
il vascello volante si posò sulle acque subì una serie di sussulti e di
beccheggi così spaventevoli da temere che si rovesciasse per non raddrizzarsi
mai più.
Appena
però le due eliche d'acciaio uscirono dalle loro nicchie e si misero in moto,
il Centauro riprese la sua stabilità e si mise in marcia come un piroscafo
qualunque, salendo e scendendo i cavalloni.
I
cassoni d'aria che riempivano la sua carena lo tenevano meravigliosamente a
galla, meglio d'una botte vuota. Ma che soprassalti di quando in quando. E che
ondate doveva sopportare la galleria! I marosi vi si precipitavano sopra con
furia incredibile, facendo tremare le armature. Guai se i vetri avessero
ceduto! Nessuna delle persone rinchiuse sarebbe uscita più viva.
"Perbacco!"
mormorava Brandok, che si teneva aggrappato ad uno dei sostegni della galleria,
per poter meglio resistere a quelle scosse. "Ecco una emozione che fa
venire la pelle d'oca. Signor Holker, non finiremo per caso il nostro viaggio
con un capitombolo negli abissi dell'Atlantico?"
"Non
abbiate paura; questi vascelli sono meravigliosamente costruiti e possono
resistere anche in mare alle più violente ondate. Non vedete come sono
tranquilli i macchinisti e i timonieri? Da questo potete capire se si ritengono
perfettamente sicuri."
"E
dove ci troviamo noi?" chiese Toby.
"A
non meno di quattro o cinquecento miglia dalle coste della Spagna" rispose
il capitano che lo aveva udito.
"Della
Spagna avete detto? Dell'Inghilterra volevate dire."
"No,
signore. Il vento, dopo averci allontanato dalle coste inglesi, ci ha
trascinati verso il sud in direzione delle isole Canarie."
"E
torneremo in Europa così?" chiese Brandok.
"Il
mio povero Centauro non può ormai più riprendere il volo. Guardate come i
cavalloni frantumano le ali e le eliche. Ma non ve ne date pensiero; noi
camminiamo con una velocità di quaranta miglia all'ora, perché le macchine non
si sono guastate. Fra due giorni al più giungeremo a Lisbona od a Cadice, ed in
quei porti, navi e vascelli volanti diretti in Inghilterra ne troverete quanti
vorrete."
"Sicché,"
disse Brandok "noi saremo costretti a tagliare la corrente del Gulf-Stream
per tornare in Europa?"
"Certo"
rispose il capitano.
"Avremo
occasione di vedere quei famosi mulini?"
"Cerco
anzi di dirigermi verso l'isola N. 7, per vedere se là posso sbarazzarmi del
galeotto che si trova chiuso nell'ultima cabina, e che voi non avete ancor
veduto. Quell'isola si trova a venticinque miglia dalla città sottomarina
portoghese d'Escario; potrei risparmiare una gita inutile fin là."
"No,
signor capitano" disse Holker. "I miei amici non hanno ancora veduto
uno di quei rifugi dei peggiori bricconi del mondo. Siamo pronti a pagare
doppio biglietto se ci condurrete ad Escario."
"Sia"
rispose il comandante dopo una breve esitazione. "Chissà che non trovi là
alcuni meccanici per rimettere a posto il mio Centauro."
Diciotto
ore dopo, il Centauro, che non aveva cessato d'avanzare, entrava nella corrente
del Gulf-Stream centoventi miglia a settentrione dell'isola di Madera; e,
quello che più importava, vi arrivava con un tempo splendidissimo, essendosi il
ciclone dileguato fino dal giorno innanzi.
Come
si sa il Gulf-Stream è un fiume gigantesco che scorre attraverso l'Oceano
Atlantico senza confondere le sue acque con quelle del mare che lo stringono da
tutte le parti.
In
nessun'altra parte del nostro globo esiste una corrente così meravigliosa. Essa
ha un corso più rapido dell'Amazzoni, e più impetuoso del Mississippi e la
portata di questi due fiumi, giudicati i più grandi del mondo, non
rappresentano nemmeno la millesima parte del volume delle acque che quella
corrente giornalmente conduce.
Questo
"fiume del mare", come giustamente lo chiamano i naviganti, trae la
sua origine dall'immenso raggruppamento di scogli e di scogliere che
costituisce l'arcipelago delle isole Bahama nel Mar delle Antille, percorre
tutto il Golfo del Messico, si slancia attraverso l'Oceano Atlantico, sale al
nord prima, si piega quindi verso oriente, tocca le coste dell'Europa,
conservando intatte le acque calde che trascina con sé per un tragitto di
migliaia e migliaia di leghe.
"Ora
voi vedrete un'altra delle più meravigliose invenzioni dei nostri
scienziati" disse Holker, appena il Centauro si trovò fra le acque del
Gulf-Stream. "Vedrete quale profitto gli uomini del Duemila hanno saputo
trarre da questa grande corrente che ai vostri tempi era stata così trascurata.
Pare impossibile come i vostri signori scienziati non si siano mai occupati
della forza immensa che racchiudono queste acque."
"Che
cosa ne avete fatto voi di questo "fiume del mare"?" chiese
Toby. "Tu mi hai parlato di mulini."
"È
vero, zio" rispose Holker.
"A
che cosa possono servire?"
"Zio,"
disse Holker "come voi sapete tutte le nostre macchine funzionano ad
elettricità, quindi noi avevamo bisogno d'una forza enorme per le nostre
gigantesche dinamo. L'America del Nord aveva le sue famose cascate; quella del
Sud i suoi fiumi numerosi. L'Europa pochi corsi d'acqua con misere cascate,
assolutamente insufficienti. Che cosa hanno dunque pensato i suoi scienziati?
Sono ricorsi all'Oceano Atlantico e hanno fissati i loro sguardi sul
Gulf-Stream. Ed infatti quali forze immense si potevano trarre da quel
"fiume del mare"! Hanno fatto costruire delle enormi isole
galleggianti, in lamiera d'acciaio, fornite di ruote colossali simili a quelle
dei vostri antichi mulini e le hanno rimorchiate fino al Gulf-Stream,
ancorandole solidamente. Oggidì ve ne sono più di 200, scaglionate presso le
coste europee e quasi altrettante nel Golfo del Messico, incaricate di
somministrare, senza quasi nessuna spesa, la forza necessaria agli stabilimenti
dell'America centrale e anche delle coste settentrionali della Guayana, del
Venezuela, della Columbia e del Brasile."
"E
come vien trasmessa quella forza? Mediante fili aerei?"
"No,
zio, con gomene sottomarine simili a quelle che voi usavate anticamente per la
telegrafia transatlantica."
"Quale
rapidità sviluppa la corrente del Gulf-Stream?" chiese Brandok.
"Dai
cinque agli otto chilometri all'ora" rispose Holker.
"E
possono resistere quelle isole agli uragani?"
"Sono
solidamente ancorate e poi, anche se gli ormeggi si rompessero, gli uomini
incaricati della sorveglianza dei mulini non correrebbero alcun pericolo,
essendo quelle isole o meglio quei vasti galleggianti, insommergibili."
"Ed
ognuna di esse quanta forza può fornire?"
"Un
milione di cavalli."
"Che
cosa non hanno utilizzato questi uomini!" esclamò Toby. "Perfino la
corrente del Gulf-Stream a cui non davamo altra importanza che quella di
diffondere un benefico calore sulle spiagge dell'Irlanda e della Scozia. Che
uomini! Che uomini!"
"Signor
Holker," disse Brandok "in questi cento anni la corrente del
Gulf-Stream ha subìto qualche deviazione?"
"Perché
mi fate questa domanda?"
"Perché
ai nostri tempi si temeva che l'apertura del Canale di Panama potesse produrre
uno spostamento nella corrente, a causa della spinta delle acque del
Pacifico."
"Nessuna,
signor mio" rispose Holker. "Chi potrebbe far deviare una corrente
così grande?"
"E
le coste inglesi continuano a risentire i benefici effetti dovuti al calore
della corrente?"
"Se
così non fosse, l'Irlanda, la Scozia e anche l'Inghilterra sarebbero state
tramutate in terre quasi polari, giacendo sotto la medesima latitudine della
Siberia."
"L'isola
N. 7!" si udì in quell'istante gridare al di fuori.
"Ecco
il mulino più mostruoso che appartiene all'Inghilterra," disse Holker.
Erano
usciti frettolosamente dalla galleria, ciò che potevano fare senza correre
alcun pericolo, essendo ormai le onde calmissime. A tre o quattro miglia verso
il settentrione si scorgeva un'alta antenna, che si rizzava sopra una torre di
forme tozze, colorata in rosso.
"L'antenna
per la telegrafia aerea" disse Holker.
"Ne
sono forniti tutti i mulini?" chiese Brandok.
"Sì,
e ciò per precauzione. Se una tempesta sposta l'isola galleggiante e questa
viene trascinata via, si avverte la stazione più vicina con un dispaccio ed i
più potenti rimorchiatori disponibili accorrono per ricondurla a posto."
Il
Centauro che procedeva velocissimo, aiutato anche dalla corrente del
Gulf-Stream che aveva in favore e che in quel luogo percorreva tre miglia e
mezzo all'ora, in breve si trovò nelle acque del mulino N. 7.
Come
Holker aveva già detto, era un enorme galleggiante in lamiera d'acciaio, di
forma circolare, con una circonferenza di 400 metri; fornito nel centro di
quattro immense ruote che la corrente faceva girare con notevole velocità.
Fra
le ruote s'innalzavano quattro abitazioni, pure in ferro, ad un solo piano,
munite di parafulmini; destinate una come magazzino dei viveri, le altre ai
guardiani.
Quattro
gradinate mettevano sul mare, fornite ognuna d'una gru sostenente una
scialuppa.
I
guardiani, una dozzina di persone, vedendo avvicinarsi il mutilato vascello
volante, si erano affrettati a chiedere premurosamente se avevano bisogno di
soccorsi.
Quando
ebbero ricevuta una risposta negativa, invitarono i viaggiatori a salire
sull'isola a visitare le loro abitazioni, ed il macchinario destinato a
trasmettere in Inghilterra la forza prodotta dalle gigantesche ruote.
La
minuscola isola era tenuta con pulizia scrupolosa. Vi erano piccoli viali
fiancheggiati da casse di ferro piene di terra, entro cui maturavano cavoli,
zucche, carote ed altri vegetali mangiabili, o dove finivano di seccare, appesi
a delle funi, grossi pesci pescati nella corrente.
"Come
vi trovate?" chiese Brandok, ad uno dei guardiani che serviva loro di
guida.
"Benissimo,
signore."
"Non
vi annoiate in questo isolamento?"
"Per
niente, signore. Vi è sempre da fare qualche cosa qui, e poi ci dedichiamo alla
pesca e anche alla caccia, venendo qui numerosi uccelli marini che ci offrono
degli arrosti eccellenti. Ogni mese poi il governo inglese manda qui una nave
per provvederci di viveri e di quanto possa occorrerci. Per di più ogni anno
abbiamo un mese di permesso che trascorriamo in patria. Che cosa possiamo desiderare
di meglio?"
"E
delle tempeste?"
"Oh!
Ce ne ridiamo, signore, e non turbano affatto i nostri sonni."
I
tre amici rimasero qualche ora sull'isolotto galleggiante, e vuotarono alcune
bottiglie coi guardiani; poi verso le quattro del pomeriggio il Centauro
riprendeva la corsa verso le coste dell'Europa, per sbarcare il galeotto nella
città sottomarina di Escario.
Continuando
l'oceano a mantenersi calmo, dopo l'ultima sfuriata del ciclone, il Centauro avanzava
senza alcuna difficoltà come un vero piroscafo, galleggiando magnificamente.
Non
poteva competere certo coi veri transatlantici, dotati ormai d'una velocità
straordinaria; nondimeno nulla aveva da perdere in confronto a quelli d'un
secolo prima, che anzi avrebbe potuto vincere facilmente nella corsa.
Brandok
e Toby si divertivano immensamente a quel viaggio marittimo. Passeggiavano per
delle ore intere sulla cima della galleria, dove si trovava un piccolo ponte di
metallo che andava da prora a poppa, respirando a pieni polmoni la salubre
brezza marittima, fumavano dei sigari eccellenti che regalava loro il capitano
e facevano soprattutto onore ai pasti, essendo ambedue dotati d'un appetito
invidiabile.
E
si trovavano tanto meglio perché non provavano più quegli strani turbamenti e
quei sussulti nervosi, che li avevano non poco inquietati quando passavano
sopra le grandi città americane e sopra le turbine gigantesche delle cascate
del Niagara.
Holker
non li lasciava un minuto, discutendo animatamente sui futuri e straordinari
progetti che stavano studiando gli scienziati del Duemila, e dando loro
spiegazioni su mille cose che ancora non avevano potuto vedere, causa la
rapidità del loro viaggio.
"Signor
Holker" disse un pomeriggio Brandok, mentre stavano prendendo il caffè sul
ponte della galleria. "Come troveremo noi l'Europa? Come quella d'un
secolo fa o sono avvenuti dei mutamenti politici nei diversi stati?"
"Sì,
molti mutamenti, e ciò per mantenere la pace fra i diversi popoli, eliminando
così per sempre le guerre" rispose il nipote di Toby.
"Che
cosa è avvenuto della grande Inghilterra?"
"È
ora una piccola Inghilterra, sempre ricca ed industriosissima."
"Perché
dite piccola?"
"Perché
ormai ha perduto tutte le sue colonie, staccatesi a poco a poco dalla madre
patria. Il Canada è uno stato indipendente; l'Australia pure, l'Africa
meridionale non ha più nulla di comune coll'Inghilterra. Perfino l'India forma
uno stato a parte."
"Sicché
quel grande impero coloniale?" chiese Toby.
"Si
è interamente sfasciato" rispose Holker.
"Senza
guerre?"
"Tutte
quelle colonie si erano unite in una lega per dichiararsi indipendenti il
medesimo giorno, e all'Inghilterra non è rimasto altro da fare che rassegnarsi
per non averle tutte addosso."
"Già
fin dai nostri tempi l'impero cominciava a sgretolarsi" disse Brandok.
"E la Russia?"
"Ha
perso la Siberia, diventata anch'essa indipendente, con un re appartenente alla
famiglia russa. L'Austria ha perduto i suoi arciducati tedeschi e l'Ungheria,
riconquistata la sua indipendenza, occupa ora la Turchia europea."
"E
gli arciducati?"
"Sono
stati assorbiti dalla Germania, mentre l'Istria ed il Trentino sono stati
restituiti all'Italia assieme alle antiche colonie veneziane della
Dalmazia."
"Sicché
l'Italia?..."
"È
oggidì la più potente delle nazioni latine, avendo riavuto anche Malta, Nizza e
la Corsica."
"E
la Turchia?"
"È
stata respinta definitivamente nell'Asia Minore e nell'Arabia, e non ha
conservato in Europa che Costantinopoli, città che era ambita da troppe
nazioni, e che poteva diventare una causa pericolosa di discordia permanente.
Ah! dimenticavo di dirvi che è sorto un nuovo stato."
"Quale?"
"Quello
di Polonia, formato dalle province polacche della Russia, dell'Austria e della
Germania. L'Europa cinquant'anni fa si agitava pericolosamente, minacciando una
guerra spaventosa. I monarchi ed i capi delle repubbliche pensarono quindi a
regolare meglio la carta europea mediante un grande congresso che fu tenuto
all'Aia, sede dell'arbitrato mondiale. Fu convenuto di restituire a tutti gli
stati le province che loro appartenevano per diritti geografici e storici, e di
crearne anche uno nuovo, la Polonia, che minacciava di produrre la guerra fra
la Russia, l'Austria e la Germania. Così la pace fu assicurata mercé
l'intervento poderoso delle confederazioni americane e delle antiche colonie
inglesi, che ridussero a dovere le nazioni recalcitranti. Ora una pace assoluta
regna da dieci lustri nel vecchio continente europeo."
"E
chi regola le questioni che potrebbero insorgere?"
"La
corte arbitrale dell'Aia che è stata ormai riconosciuta da tutte le nazioni del
mondo. D'altronde, come vi dissi, al giorno d'oggi una guerra sarebbe
impossibile e condurrebbe al più completo sterminio le nazioni
belligeranti."
"Oh!"
esclamò in quel momento Toby che si era levato. "S'alza la luna laggiù!
Come sembra mostruosa! Io non l'ho mai veduta apparire così grossa. Che anche
quel satellite si sia modificato?"
Holker
si era alzato anche lui.
Le
tenebre erano incominciate a calare, e verso oriente si vedeva scintillare a
fior d'acqua un mezzo disco di forme gigantesche, che proiettava intorno a sé
una luce intensa, leggermente azzurrognola.
"La
scambiate per la luna!" esclamò Holker. "V'ingannate zio."
"Che
cosa può essere?"
"La
cupola della città sottomarina d'Escario."
"Io
vorrei sapere perché voi avete fondate delle città sottomarine che devono
essere costate somme enormi."
"Semplicemente
per sbarazzare la società dagli esseri pericolosi che ne turbano la pace. Ogni
stato ne possiede una, il più lontano possibile dalle coste, e vi manda la
feccia della società, i ladri impenitenti, gli anarchici più pericolosi, gli
omicidi più sanguinari."
"Con
un gran numero di guardiani?"
"Nemmeno
uno, mio caro zio."
"Allora
si massacreranno."
"Tutt'altro.
Al minimo disordine che nasce, sanno che la città viene affondata senza
misericordia. Questa minaccia ha prodotto degli effetti insperati. La paura
doma quelle belve, le quali finiscono per ammansirsi."
"E
chi li governa?"
"Questo
è un affare che riguarda loro. Si eleggono dei capi e pare che finora regni un
accordo mirabile in quei penitenziari; E poi vi è un'altra cosa che concorre a
renderli docili."
"Quale?"
"L'incessante
lotta colla fame."
"I
governi non passano viveri a quei condannati?"
"Passano
delle reti, delle macchine per eseguire varie produzioni, come stoffe, stivali,
vasellami e così via che poi vendono alle navi che approdano, comperando in
cambio le materie prime necessarie a quelle industrie, tabacco, viveri
eccetera."
"Qualche
volta soffriranno la fame?" disse Brandok.
"L'oceano
fornisce loro cibo più che sufficiente. I pesci, attratti dalla luce che
mandano le lampade che illuminano quelle città, accorrono in masse enormi. Gli
abitanti ne salano anzi in grande quantità e li mandano in Europa e anche in
America."
"E
l'acqua?"
"Hanno
macchine che ne forniscono loro quanta ne desiderano, facendo evaporare quella
del mare."
"Sicché
oggi i galeotti non costano più nulla alla società" disse Toby.
"Costano
la sola forza necessaria per far agire le loro macchine, energia che viene
fornita per lo più dai mulini del Gulf-Stream."
"Devono
esser costate somme enormi quelle città!" disse Brandok.
"Non
dico di no, ma quale vantaggio non ne ritraggono ora gli stati e la società? I
milioni che prima si spendevano nel mantenimento di tanti birbanti, rimangono
ora nelle casse dei governi. Devo aggiungere poi che lo spauracchio di essere
mandati nelle città sottomarine ha fatto diminuire immensamente il numero dei
delitti."
"Non
correremo alcun pericolo entrando, o meglio, scendendo ad Escario?" chiese
Toby.
"Nessuno,
non dubitate. Quelli sanno che qualunque cattiva azione usata ad uno straniero
segnerebbe la sommersione della loro città."
"Una
misura un po' inumana, se vogliamo."
"Che
li tiene a freno però, e come! Eccoci giunti. Il capitano deve aver avvertito
gli abitanti del nostro arrivo; sento il nostro apparecchio elettrico
funzionare."
Il
Centauro si era fermato dinanzi ad una immensa cupola che doveva avere almeno
400 metri di circonferenza, formata d'armature d'acciaio d'uno spessore
straordinario e di lastre di vetro di forma rotonda incastrate solidamente e
molto grosse.
Un
graticolato di ferro copriva tutta la cupola per meglio preservarla dall'urto
delle onde, e una galleria vi correva all'intorno, piena di reti messe ad
asciugare.
Sulla
cima, dove pareva si aprisse un foro, erano comparsi due uomini piuttosto
attempati, che indossavano delle vesti di panno grossolano e che calzavano alti
stivali da mare.
Il
capitano del Centauro accostò con precauzione la nave ad una delle quattro
scale di ferro che conducevano sulla cima della scintillante cupola, invitando
i viaggiatori a seguirlo.
"Qui
sono conosciuto" disse. "Non avete da temere."
Precedette
i tre amici e salutò uno dei due uomini con un cortese e familiare:
"Buona
sera, papà Jao. Come va la vita qui?".
"Benissimo,
capitano" rispose l'interrogato, levandosi cortesemente il cappello
dinanzi ai tre viaggiatori.
"Sono
sempre tranquilli i vostri amministrati?"
"Non
ho da lagnarmi di loro. E poi, perché dovrebbero diventar cattivi? Viviamo
nell'abbondanza, e nulla ci manca."
"Vi
sono questi signori che desiderano visitare la vostra città. Rispondete della
loro sicurezza?"
"Perfettamente:
siano i benvenuti."
"Il
governatore della colonia" disse il capitano, volgendosi verso Brandok,
Toby ed Holker.
"Seguitemi,
signori" disse il galeotto, con un amabile sorriso.
"Ah!
devo lasciarvi qui un espulso dall'Europa, un suddito inglese che consegnerete
più tardi a qualche nave della sua nazione" disse il capitano. "A me
è d'imbarazzo, perché un ciclone mi ha guastato le ali e le eliche."
"Datemelo
pure; ci penserò io. Andiamo, signori, perché fra mezz'ora farò suonare il
silenzio e allora si spegneranno tutte le lampade."
Condusse
i tre viaggiatori ed il capitano dinanzi ad una specie di pozzo che s'apriva
nel mezzo della cupola dove si trovava pronto un ascensore.
Li
fece sedere sulle panchine e l'apparecchio scese rapidamente passando fra un
cerchio di lampade a radium che versavano torrenti di luce in tutte le
direzioni.
Con
visibile stupore di Brandok e di Toby, i quali stentavano a credere ai loro
occhi, si trovarono su una vasta piazza rettangolare, di cento metri di
lunghezza su sessanta di larghezza, tutta cinta da bellissime tettoie coi tetti
di zinco, divise in piccoli scompartimenti che formavano le cabine destinate ai
galeotti. Dietro quelle se ne vedevano delle altre fornite di tubi di metallo.
Sulla
piazza un numero immenso di barili, di pertiche e di reti si trovavano
ammucchiate alla rinfusa.
"La
mia città" disse il governatore "è tutta qui."
"Quanti
abitanti conta?" chiese Toby.
"Milleduecento,
sessanta tettoie e venti opifici, dove lavorano coloro che non si dedicano alla
pesca."
"Dove
posa la città?" chiese Toby.
"Sulla
cima d'un isolotto sommerso, a quindici metri di profondità."
"Non
prova scosse la città quando al di fuori infuria la tempesta?"
"Nessuna,
signore; le pareti che sono formate da lastre d'acciaio collegate con armature
solidissime e trattenute da enormi colonne di ferro, piantate profondamente
nella roccia, possono sopportare qualsiasi urto. E poi dovreste sapere che a
otto o dieci metri sotto il livello dell'acqua, le onde non si fanno sentire. È
la cupola che sopporta tutto l'impeto dei cavalloni e può sfidarli
impunemente."
"Non
è meraviglioso tutto ciò, signor Brandok?" chiese Holker.
"Questo
è un nuovo mondo" rispose l'americano. "Mai mi sarei aspettato di
vedere, dopo soli cento anni, tante straordinarie novità!"
Il
capitano del Centauro guardò Brandok con stupore.
"Cent'anni,
avete detto!" esclamò.
"Scherzavo"
rispose l'americano. "Ditemi, vi obbediscono sempre i vostri
sudditi?"
"Io
non comando mai loro di fare questa o quella cosa" rispose il capo della
città sottomarina. "Chi non lavora non mangia, perciò sono costretti a
fare tutti qualche cosa senza che io glielo imponga."
"Non
sono mai successe rivoluzioni?" chiese Toby.
"A
quale scopo farne? Io non sono un re, io non rappresento nessun potere. Se non
sono contenti di me mi dicono di lasciare il posto ad un altro, e tutto finisce
lì."
In
quel momento un cupo rimbombo si ripercosse entro la immensa cupola facendo
vibrare le vetrate.
"È
un tuono questo" disse il capitano del Centauro, la cui fronte si era
oscurata. "Che questa volta ci piombino addosso tutte le disgrazie?"
"Siamo
nella stagione del cambiamento degli alisei ed il tempo diventa brutto da un
momento all'altro."
"Risaliamo,
signori."
La
piccola comitiva prese posto nell'ascensore ed in pochi momenti si trovò
sull'immensa cupola.
L'Atlantico
aveva assunto un brutto aspetto, ed il cielo era più brutto ancora.
Da
ponente giungevano delle grosse ondate e delle fosche nuvole si avanzavano con
velocità vertiginosa. In lontananza il tuono rullava fragorosamente.
"È
un vero uragano che sta per scoppiare, signori miei" disse il capitano del
Centauro. "Con una nave così avariata io non oserò riprendere la corsa
verso l'Europa."
"Saremo
dunque costretti a passare la notte qui?" chiese Brandok preoccupato.
"Abbiamo
dei letti comodi e posso offrirvi anche una buona cena; a base di pesce,
s'intende" disse Jao. "I miei compagni non vi daranno alcun fastidio,
ve l'assicuro."
"Ho
delle preoccupazioni però per la mia nave" disse il capitano del Centauro.
"Le onde, con la loro forza, possono scaraventarla addosso alla
cupola."
"Il
fondo è buono intorno a questo scoglio e le vostre ancore la terranno
ferma."
"Vi
è un'altra cosa però che m'inquieta. I vostri compagni dormono sempre, la
notte?"
"Perché
mi fate questa domanda?" chiese Jao stupito.
"Rispondetemi
prima."
"Quando
infuria la tempesta, e la luna manca, preferiscono riposarsi, perché
getterebbero inutilmente le reti. Con questa brutta notte non lasceranno i loro
letti."
"Me
lo assicurate?"
"Rispondo
di loro."
"L'ho
chiesto perché porto un carico di alcool destinato non so a quali combinazioni
chimiche."
"Nessuno
lo sa, quindi potrete dormire tranquilli" rispose Jao. "E poi i miei
sudditi, come li chiamate voi, a quest'ora devono aver perduta l'abitudine di
bere, poiché è severamente proibito vendere loro bevande spiritose. La nave che
ce ne fornisse verrebbe subito confiscata dai "vigilanti"."
"Chi
sono?" chiese Brandok che era sempre il più curioso di tutti.
"Navi
speciali appartenenti a tutte le nazioni, incaricate di vigilare su tutti gli
oceani e di prestare aiuto ai naviganti. Signori, volete accettare una cena
nella mia modesta casetta, ed un letto? Può essere pericoloso dormire sul
Centauro con quest'uragano che si avanza."
"Ed
i miei uomini?" chiese il capitano.
"Quando
avranno ben ancorata la nave scenderanno anche loro nella città
sottomarina" rispose Jao. "Li farò ospitare presso alcuni forzati che
godono buona stima."
"Una
grande stima" brontolò Brandok.
"Andiamo
signori" disse Jao.
L'uragano
scoppiava in quel momento con furia inaudita. Raffiche furiose spazzavano
l'oceano, sollevando gigantesche ondate le quali si frangevano, con scrosci e
con muggiti spaventevoli, contro le pareti e la cupola della città sottomarina.
Il
Centauro, vivamente sballottato, s'alzava come una palla di gomma quantunque
avesse gettate le sue ancore.
"Cattiva
notte" disse il capitano, scrollando la testa. "Non so se la mia
povera nave potrà resistere."
Dopo
aver avvertito l'equipaggio di abbandonarla al più presto e di raggiungerli,
presero posto nell'ascensore e discesero nella piccola piazza che era ancora
splendidamente illuminata e dove si trovavano parecchi forzati, ancora intenti
a rammendare le loro reti perché fossero pronte appena calmatosi l'oceano.
Jao
condusse i suoi ospiti verso una bella casetta, tutta costruita in lamine di
ferro, divisa in quattro minuscole stanze, che sembravano più che altro delle
cabine, essendo lo spazio troppo prezioso in quella strana città, per
permettersi il lusso di averne di più ampie.
Jao
li introdusse nel suo gabinetto particolare che serviva nel medesimo tempo da
sala da pranzo, li fece sedere, e servì loro, egli stesso (non avendo servi a
sua disposizione, poiché anche il governatore non poteva godere prerogative
speciali) degli eccellenti pesci cucinati al mattino e delle pagnotte.
La
cena, quantunque composta esclusivamente di prodotti di mare con contorni di
piccole alghe sapientemente marinate e d'una sola bottiglia di vino che Jao aveva
forse serbato per qualche grande occasione, fu assai gustato dai naviganti del
Centauro ai quali l'appetito non faceva difetto.
Essendo
tutti stanchi, il governatore li condusse nella stanza loro destinata, un'altra
cabina, appena capace di contenere Brandok, Toby e Holker.
Il
capitano del Centauro li aveva poi lasciati per vedere come si svolgeva
l'uragano e mettere in salvo almeno il suo equipaggio.
"Ebbene,
Toby" disse Brandok quando furono soli. "Pare che il mondo sia
cambiato, ma che la natura non abbia perduto nulla della sua violenza brutale.
Questi uomini moderni, veramente meravigliosi, non sono riusciti ad
imbavagliarla."
"Chissà
che un giorno non riescano a compiere anche quel miracolo" rispose Toby.
"Come ai nostri tempi hanno saputo imprigionare il fulmine, un giorno o
l'altro questi esseri straordinariamente possenti, finiranno per mettere a
dovere anche i furori degli oceani e gli impeti dei venti. Io sono fermamente
convinto che più nulla sarà impossibile agli scienziati del Duemila."
"In
attesa che vi riescano, io dormo," disse Brandok. "Non so da che cosa
possa derivare, ma da qualche tempo mi trovo spesso tutto spossato e provo
anche degli strani perturbamenti al cervello. Quando la mattina mi sveglio, i
miei nervi vibrano tutti come se ricevessero delle scariche elettriche.
Sapresti spiegarmi tu, che sei stato cent'anni fa un dottore, questi fenomeni
che, te lo confesso francamente, talvolta mi spaventano?"
"Io
ormai non valgo assolutamente nulla di fronte ai medici moderni" disse
Toby, con un sospiro. "Tuttavia li attribuisco alla grande tensione
elettrica che regna ormai su questo povero pianeta. Spero però che finirai
coll'abituarti."
Si
gettarono sui lettucci, spensero la lampadina a radium e chiusero gli occhi,
mentre in lontananza il tuono rumoreggiava così fortemente da far tremare i
vetri della cupola. Dormivano da parecchie ore, quando furono improvvisamente
svegliati da un urlio spaventevole e da un fracasso indiavolato.
Toby
pel primo era balzato giù dal lettuccio, riaccendendo la lampadina.
"Che
cosa c'è?" chiese Brandok vestendosi rapidamente.
"Che
la cupola abbia ceduto?" gridò Holker, spaventato.
"Non
lo so" rispose Toby, che non era meno impressionato. "Qualche cosa di
grave di certo però."
In
quel momento la porta s'aprì ed il capitano del Centauro si precipitò nella
cabina, tenendo in mano una grossa rivoltella elettrica.
"I
forzati sono diventati pazzi!" gridò. "Seguitemi subito."
"Pazzi!"
esclamarono Brandok, Toby e Holker. "Spiegatevi."
"Tacete,
più tardi! Fuggite, prima che succeda un massacro."
I
tre amici si slanciarono fuori della casetta senza fare altre domande. Jao li
aspettava. Il pover'uomo si strappava i capelli e bestemmiava in tutte le
lingue.
Le
lampade erano state riaccese sulla piccola piazza e sotto quegli sprazzi di
luce intensa si vedevano agitarsi forsennatamente gli abitanti della città
sottomarina.
Il
capitano aveva avuto ragione a dire che erano divenuti tutti pazzi.
Urlavano,
saltavano, si picchiavano, si gettavano a terra rotolandosi fra un frastuono
orrendo, prodotto da sbarre di ferro che picchiavano furiosamente le pareti
metalliche che li difendevano dall'invasione delle acque dell'oceano. "Ma
che cos'è dunque avvenuto?" chiese Toby.
"Quello
che temevo" rispose il capitano del Centauro. "Non sentite questo
odore?"
"Sì,
la città è appestata dall'alcool."
"Il
mio, quello che dovevo trasportare ad Amburgo e che questi miserabili hanno
saccheggiato."
"Ed
il Centauro?" chiese Brandok.
"Che
ne so io? Ignoro se galleggi ancora o se sia affondato."
"Ed
i vostri marinai?"
"Non
li ho più riveduti."
"Amici,"
disse Toby "non ci rimane che prendere il largo, prima che tutti questi
furfanti diventino pazzi furiosi. Finché avranno dell'alcool continueranno a
bere e potrebbero diventare pericolosi. Salviamoci più in fretta che
possiamo."
Girarono
dietro le case guidati dal vecchio Jao che piangeva di rabbia, e si diressero
verso l'ascensore, mentre i forzati, che non cessavano di vuotare barilotti di
alcool, s'abbandonavano ad una danza scatenata.
Fortunatamente
l'ascensore si trovava piuttosto lontano dalla piazza e non era stato guastato.
Salendo
automaticamente, senza bisogno di nessuno, i cinque uomini vi balzarono dentro
ed in pochi secondi si trovarono sulla cupola.
Un
uragano spaventevole imperversava sull'Oceano Atlantico.
Ondate
alte come montagne si rovesciavano, con spaventevoli muggiti, contro le
balaustrate di ferro, torcendole come se fossero di stagno, e raffiche tremende
passavano sopra la città sottomarina con fischi assordanti.
Una
nuvolaglia nera come la pece correva sbrigliatamente pel cielo, scatenando
lampi e tuoni.
I
cinque uomini si erano avanzati verso la parte meridionale della cupola,
tenendosi bene stretti alle balaustrate per non farsi trascinar via dal vento
che aveva acquistato una velocità incalcolabile, quando un uomo sorse quasi
sotto i loro piedi, gridando:
"Indietro,
birbanti o vi uccido".
"Katterson!"
esclamò il comandante del Centauro.
"Voi,
capitano!" esclamò quell'uomo che non era altro che il pilota della nave
aerea. "Credevo che vi avessero già ucciso."
"Non
ancora. Dov'è il Centauro? Resiste ancora?"
"È
scomparso, capitano," rispose Katterson "insieme al galeotto che
avevamo sbarcato e ad una dozzina di forzati."
"Ed
i miei marinai?"
"Sono
stati sorpresi nel sonno, fatti prigionieri e mi pare che abbiano fatto, non so
se volontariamente o per salvare la vita, causa comune cogli abitanti di questa
maledetta città, poiché prima di fuggire quassù li ho veduti bere insieme a
loro."
"E
la mia nave è scomparsa?"
"L'hanno
portata via, dopo avere scaricato tutti i barili d'alcool. A quanto ho potuto
capire, mentre noi dormivamo, i galeotti hanno tramata una congiura per
impadronirsi del carico e fare una spaventevole baldoria. Il nostro
prigioniero, più furbo degli altri, si è invece imbarcato con dei suoi amici
che ha trovato qui ed ha preso il largo."
"E
noi che cosa faremo ora?" chiese Brandok, il quale però non sembrava molto
impressionato.
"Saremo
costretti ad aspettare il passaggio di qualche nave" rispose il capitano.
"Io non vi consiglierei di ridiscendere finché quei pazzi posseggono
dell'alcool."
"Ne
avevate molto a bordo?" chiese Toby.
"Trenta
tonnellate."
"Tanto
da bere a crepapelle per una settimana" disse Brandok. "Bell'affare
se una nave non verrà a toglierci d'impiccio."
"Ed
a vendicarvi" disse il vecchio Jao. "I governi d'Europa e d'America,
come vi ho detto, non sono troppo teneri verso gli abitanti delle città
sottomarine."
"Come
li puniranno?" chiese Toby.
"Annegandoli
tutti. La giustizia, è spiccia, oggidì."
"Non
potreste voi, Jao, cercar di calmare quei forsennati?" domandò il
capitano.
"Una
volta scatenati non si domano più e, se mi presentassi a loro e cercassi di far
loro intendere la ragione, mi accopperebbero sull'istante. Già vi ho detto che
i governatori di questi penitenziari non hanno che un'autorità molto
problematica."
"Allora,
prima che salti loro il ticchio di prendersela anche con noi, impediremo che
possano giungere quassù" disse Brandok.
"Guastando
l'ascensore, non verranno più ad importunarci" rispose Jao.
"L'elevazione della cupola è troppo considerevole perché possano
raggiungerci, e le pareti metalliche sono perfettamente lisce. Ah! disgraziato
me! Non mi aspettavo una simile rivolta!"
"Date
la colpa alla tempesta che ci ha impedito di ripartire" disse Toby.
"Ed
al carico della mia nave" aggiunse il capitano. "Orsù non ci
occupiamo per ora che di resistere ai colpi dell'uragano. Quando il sole
spunterà vedremo quello che si potrà fare per lasciare questa poco piacevole
città sottomarina ed i suoi pericolosissimi abitanti."
Si
ritirarono verso la parte più elevata della cupola, bloccarono l'ascensore per
essere più sicuri che i forzati non lo facessero ridiscendere, e si misero a
guardare giù, attraverso la larga apertura, l'orgia era al colmo, e dalla città
sottomarina saliva un tanfo così acuto da non poter quasi resistere.
I
forzati, che continuavano a bere, ridevano come pazzi e pareva che non
sapessero ormai più che cosa facessero.
Mentre
dei gruppi ballavano furiosamente sulla piazza, saltando come capre, urtandosi,
buttandosi a terra a dozzine per volta, altri, presi da una improvvisa furia di
distruzione, abbattevano le case, gettando in aria letti e tavolini, laceravano
le reti, spezzavano ordigni da pesca, urlando e ridendo.
Frequenti
risse scoppiavano di tratto in tratto fra danzatori e demolitori, ed erano
allora vere grandinate di pugni e di legnate che piovevano da tutte le parti.
Le teste rotte non si contavano più.
"Se
quei furibondi potessero salire, sfonderebbero anche i vetri della cupola"
disse Toby.
"Che
riescano a fracassare le pareti di ferro della città?" chiese Brandok con
ansietà.
"Non
temete" rispose Jao. "Sono di uno spessore notevole e poi non
posseggono né mazze, né altri strumenti adatti."
"Io
non ho mai veduto una simile orgia" disse il capitano del Centauro.
"Quegli uomini, se continuano a bere a quel modo, finiranno per tramutare
questa città in un vero manicomio. Come finirà tutto ciò? Confesso che non sono
affatto tranquillo. Non possiamo sperare che nella provvidenziale comparsa di
qualche nave. Disgraziatamente ci troviamo fuori dalla rotta ordinaria che
tengono le navi che dall'Europa vanno in America. Bah! Non disperiamo!"
Si
coricarono in mezzo alla piattaforma, l'uno accanto all'altro aspettando
pazientemente che l'aurora spuntasse.
L'uragano
assumeva proporzioni spaventevoli. Era una furia d'acqua e di vento che si
rovesciava sulla cupola con rabbia inaudita.
Cavalloni
giganteschi si infrangevano contro le pareti della città, imprimendo a tutta la
massa delle oscillazioni che inquietavano non poco il capitano del Centauro ed
il pilota, che ne sapevano qualche cosa delle collere dell'Atlantico.
Di
quando in quando la città, per quanto saldamente fissata allo scoglio
sottomarino e trattenuta da immani colonne d'acciaio, subiva dei soprassalti
come se fosse lì lì per essere strappata e portata via.
Anche
i tre americani non erano punto tranquilli, malgrado le assicurazioni di Jao.
"Se
si staccasse dallo scoglio?" chiese Brandok ad un certo momento. "Che
cosa succederebbe allora di tutti noi?"
"Sarebbe
finita per tutti!" disse il capitano.
"Niente
affatto" rispose Jao che non dimostrava invece alcuna apprensione.
"Questa città è come un immenso cassone di ferro e galleggerebbe
benissimo."
"Ora
respiro un po' più liberamente" disse Brandok.
"L'idea
di terminare il mio viaggio in fondo al mare non mi sorrideva affatto, anche
se..."
Una
bestemmia del pilota gl'interruppe la frase.
"Cos'hai
Tom?" chiese il capitano.
"Io
dico che se ci giunge addosso un'altra ondata come quella che è passata or ora,
la città non potrà resistere. Ho udito dei tonfi. Che le colonne d'acciaio
abbiano ceduto?"
Tutti
si erano messi in ascolto, ma il fracasso che producevano i tuoni rombanti in
mezzo alle densissime nuvole misto a quello che saliva dal pozzo dell'ascensore
erano tali da non poter distinguere nessun altro rumore.
"Puoi
esserti ingannato, Tom" disse il capitano.
"Può
darsi" rispose il pilota. "Preferirei però accertarmene."
"Si
può tentare di raggiungere la balaustrata, se esisterà ancora."
"Le
onde vi porteranno via, signore" disse Brandok.
"Io
e Tom le conosciamo da lungo tempo e non ci lasceremo sorprendere. Vieni,
pilota."
Si
gettarono bocconi, e, sordi ai consigli dei tre americani e di Jao, si
allontanarono strisciando, tenendosi ben stretti alle traverse d'acciaio, che
servivano di appoggio alle lastre di vetro.
Il
frastuono prodotto dall'incessante infrangersi dei cavalloni era diventato
orrendo. Vi erano certi momenti in cui pareva che l'intera cupola dovesse
sfasciarsi sotto quegli urti possenti.
L'assenza
del capitano e del pilota fu brevissima. Furono visti ritornare velocemente,
fra i nembi di spuma che coprivano tutta la cupola.
"Dunque?"
chiesero ansiosamente tutti insieme, i tre americani e Jao.
"I
pilastri d'acciaio crollano uno ad uno" rispose il capitano.
"Allora
verremo portati via" disse Brandok.
"Sì,
se l'uragano non si calma."
"Avete
speranza che le onde rallentino la loro furia indiavolata?"
"Temo
invece che si vada formando uno spaventevole ciclone."
"E
quei furfanti là abbasso continuano a divertirsi!" disse Toby.
"Lasciateli
crepare" disse Brandok.
"Purché
non veniamo inabissati anche noi!"
"Vi
ho detto che, se anche la città dovesse venire strappata dallo scoglio non
correremmo alcun pericolo, almeno fino a quando non incontreremo un altro
scoglio che le sfondi i fianchi. In questa parte dell'oceano sono però rari, è
vero capitano?"
"Non
se ne trovano affatto fino alle Azzorre" rispose il comandante del
Centauro. "Possiamo quindi percorrere più di trecento miglia con la piena
sicurezza di non urtare."
Uno
scroscio formidabile si fece udire in quel momento.
Un
cavallone colossale si era rovesciato sulla città sottomarina, scuotendola così
violentemente da far stramazzare l'uno sull'altro i tre americani, che si erano
alzati per vedere se l'orgia dei forzati era terminata o se continuava sempre.
"Mi
pare che questo cassone d'acciaio si sia spostato" disse il capitano.
Quel
rombo spaventevole pareva che fosse stato avvertito anche dagli ubriaconi,
poiché le loro grida erano improvvisamente cessate.
Jao
aveva lanciato intorno una rapida occhiata.
"Sì"
disse poi. "La città si è spostata. Il palo d'acciaio che serviva
d'appoggio principale non si vede più. Il cavallone l'ha portato via."
"Consolante
notizia!" disse Holker. "Che cosa succederà ora?"
Nessuno
rispose. Tutti guardavano con angoscia i cavalloni i quali, riflettendo la luce
intensa proiettata dalle lampade a radium, sembravano masse di bronzo fuso.
Quantunque
rassicurati dalle parole di Jao, il quale doveva conoscere a fondo la
resistenza che poteva offrire quello strano penitenziario, una profonda
inquietudine si era impadronita di tutti.
Si
sarebbe detto che non respiravano più e che i loro cuori non battevano più,
tanta era la loro ansietà.
Quell'enorme
cassa metallica avrebbe realmente galleggiato o sarebbe invece andata a fondo
come una massa inerte?
Il
tuono rumoreggiava sempre nelle profondità del cielo, gareggiando collo
spaventevole fragore delle onde e colle urla diaboliche del vento.
Giù,
nella città, il fracasso era cessato.
Di
quando in quando la cupola subiva come dei soprassalti. I vetri malgrado il
loro enorme spessore e la robustezza delle traverse d'acciaio, stavano forse
per cedere?
Ad
un tratto un nuovo e più formidabile cavallone piombò, con furia irresistibile,
sul penitenziario, sradicandolo completamente dallo scoglio e travolgendolo fra
fitte cortine di spuma.
Quasi
nel medesimo istante si udì la voce del capitano tuonare, fra le spaventevoli
urla del ciclone:
"Galleggiamo!...
Tenetevi stretti!...".
Il
vecchio Jao non si era ingannato. Se la nuova società del Duemila aveva pensato
di relegare in quelle strane città sottomarine gl'individui pericolosi,
sopprimendo sui loro bilanci le spese di mantenimento per esseri ormai inutili,
aveva però procurato loro degli asili sicuri, d'una solidità a tutta prova per
non esporli ad una morte certa.
Così
la città sottomarina, strappata dallo scoglio dall'impeto dei cavalloni, non
era diventata altro che una città galleggiante, abbandonata è vero ai capricci
delle correnti e dei venti, ma che poteva aspettare benissimo l'incontro di
qualche nave marina o volante, purché qualche bufera non la scaraventasse
contro qualche ostacolo. Tutto il pericolo stava lì.
L'acqua
dolce non poteva mancare, essendovi dei potenti distillatori elettrici che
potevano fornirne in grande quantità; i viveri nemmeno, perché reti ve n'erano
in abbondanza e si sa che gli oceani sono ben più ricchi dei mari.
Disgraziatamente
l'uragano aveva ben poca intenzione di finire. Né le onde, né il vento
accennavano a calmarsi, minacciando di trascinare la città galleggiante in
mezzo all'Atlantico, poiché la bufera imperversava da levante.
La
gigantesca cassa d'acciaio, dopo essere sprofondata, era subito risalita a
galla, rollando spaventosamente e girando su se stessa.
Se
i piloni d'acciaio avevano ceduto sotto gli urti possenti delle onde, la cupola
aveva meravigliosamente resistito al tuffo e meglio ancora avevano resistito i
tre americani, il capitano ed il pilota del Centauro e Jao.
Aggrappati
tenacemente alle traverse, avevano aspettato che la città ritornasse a galla,
opponendo una resistenza disperata alle onde.
"Credevo
che la nostra ultima ora fosse giunta" disse Brandok dopo aver respirata
una gran boccata d'aria. "E tu, Toby?"
"Io
mi domando se sono ancora vivo o se navigo sotto l'Atlantico" rispose il
dottore.
"Spero
che sarai soddisfatto degli ingegneri che hanno fatto costruire questa
colossale cassa."
"Gente
meravigliosa, mio caro. Ai nostri tempi non sarebbero stati capaci di fare
altrettanto."
"Ne
sono pienamente convinto. Capitano, dove ci spinge la tempesta?"
"Verso
sud-ovest" rispose il comandante del Centauro.
"Vi
sono isole in questa direzione?"
"Le
Azzorre."
"Andremo
a sfracellarci contro di esse?"
"Ciò
dipende dalla durata della bufera, signore."
"Non
vi pare che si calmi?"
"Niente
affatto. Infuria sempre tremendamente e temo che ci faccia ballare per molto
tempo. Soffrite il mal di mare?"
"Niente
affatto."
"Allora
tutto va bene."
"E
se fra un paio di giorni questo cassone si schiaccerà contro qualche scoglio,
andrà anche allora tutto bene?" chiese Holker, ridendo.
"Non
l'abbiamo ancora incontrato quello scoglio, quindi, finché non lo incontreremo,
non abbiamo alcun motivo per allarmarci" rispose il capitano del Centauro.
"Vi è però un'altra cosa che mi preoccupa assai."
"Quale?"
"La
risposta dovete darmela voi, Jao."
"Parlate,
capitano."
"I
vostri sudditi posseggono dei viveri?"
"Per
due o tre giorni, non di più."
"E
noi?"
"Prima
che l'uragano scoppiasse, vi erano molti pesci messi a seccare lungo le
balaustrate, ma credo che il mare abbia portato via tutto."
"Ne
potremo avere dai forzati?"
"Forse,
quando si saranno stancati di bere" rispose Jao. "Vi sono però delle
reti in un ripostiglio della cupola."
"Ma
nessun distillatore per procurarci l'acqua..."
"Quassù
no."
"Corriamo
dunque il pericolo di morire se non di fame, per lo meno di sete, se i vostri
sudditi si rifiuteranno di fornirci l'acqua. Ecco quello che temevo."
"Abbiamo
l'ascensore, capitano" disse Jao.
"Che
ci servirà ottimamente per farci accoppare da quei pazzi. Non sarò certamente
io che scenderò nella città per chiedere dell'acqua a quei furfanti. A
proposito, che cosa fanno? Che si siano accorti che la loro prigione cammina
attraverso l'Atlantico?"
"Io
scommetterei di no" disse Toby.
"Che
dormano?" chiese Brandok. "Non odo più le loro grida."
"Andiamo
a vedere" disse il capitano. "Sono curioso di sapere se continuano a
bere ed a ballare."
Si
spinsero verso il pozzo dell'ascensore.
Le
lampade a radium ardevano sempre, ed un profondo silenzio regnava nell'interno
della città galleggiante. Sulla piazza, in mezzo ad un gran numero di barili e
d'ogni sorta di rottami, dormivano dei gruppi di forzati, fulminati di certo da
quelle terribili bevute.
Altri
giacevano stesi al suolo entro le case semidistrutte, prive dei tetti. Un
orribile tanfo saliva sempre.
"Dormono
come ghiri" disse Brandok.
"Sfido
io, dopo una simile orgia!" rispose Toby "Un barile di ammoniaca non
basterebbe a rimetterli in piedi."
"E
noi approfitteremo del loro sonno" disse Jao.
"Per
fare che cosa?" chiese il capitano del Centauro.
"Per
fare la nostra provvista d'acqua, signore."
"Voi
siete un uomo meraviglioso. Chi scenderà?"
"Io."
"E
se vi accoppano?"
"Non
vi è alcun pericolo" disse Toby. "Quei furfanti non si sveglieranno
prima di ventiquattro ore."
"Ed
i miei marinai?" chiese il capitano "Che siano stati uccisi?"
"Ne
vedo qualcuno steso sulla piazza" disse il pilota. "Essi non hanno
potuto resistere alla tentazione di fare una colossale bevuta, ed hanno fatto
causa comune coi forzati. Non contate più su di loro."
"Miserabili!"
"Sono
tutti irlandesi; voi sapete quanto me se quella gente beva, quando si presenta
l'occasione."
"Non
perdiamo tempo" disse Jao. "Aiutatemi, signori."
L'ascensore
fu sbloccato e l'ex governatore scese nella città accompagnato dal pilota.
La
sua prima preoccupazione fu di sfondare tutti i barili pieni d'alcool che non
erano stati ancora vuotati, e così por fine a quell'orgia pericolosa; poi
s'impadronì d'una cassa di pesce secco e di un caratello d'acqua dolce.
Nessun
forzato si era svegliato. Quei trecento e più furfanti non si erano mossi e
russavano con un fragore tale da far tremare perfino i vetri della cupola.
L'ascensore
risalì e fu subito bloccato perché non potessero servirsene quelli che stavano
sotto.
"Ora"
disse Jao "possiamo aspettare l'incontro di una nave. Per quindici giorni
almeno non correremo il pericolo di morire di fame e di sete."
"Ed
i vostri sudditi ne avranno abbastanza per resistere tanto?" chiese
Brandok.
"Che
crepino tutti! Sono dei miserabili che non destano alcuna compassione"
rispose Jao con rabbia. "Io non mi occuperò più di loro."
"Eppure
io temo invece che noi saremo costretti ad occuparcene e molto" disse
Brandok. "Quando si risveglieranno e sentiranno la loro città ballare
vorranno salire anche loro e ci daranno non pochi fastidi."
"Ed
io condivido il vostro pensiero, signore" disse il capitano. "Avremo
la tempesta sopra le nostre teste e quei pazzi sotto di noi. La nostra passeggiata
attraverso l'Atlantico, prevedo che non sarà troppo divertente. Chissà!
Aspettiamo che il sole si mostri per poter meglio giudicare la violenza e la
durata di questo ciclone."
Emergendo
assai la città galleggiante dopo il suo distacco dalla roccia, e non essendovi
alcun pericolo che le onde giungessero fino al culmine della cupola, i sei
uomini si sdraiarono presso l'orifizio del pozzo, per concedersi, se era
possibile, qualche ora di sonno.
L'enorme
massa metallica subiva però dei soprassalti così terribili e così bruschi da
rendere impossibile una buona dormita.
Le
onde che si succedevano alle onde con furia sempre maggiore, la scrollavano
terribilmente e la facevano talvolta girare su se stessa, essendo sprovvista di
timoni.
Di
quando in quando sprofondava pesantemente negli avvallamenti, come se dovesse
scomparire per sempre nei baratri dell'Atlantico; poi si risollevava
bruscamente con mille strani fragori che impressionavano specialmente Brandok,
i cui nervi, già da qualche tempo, sembravano fortemente scossi.
Talvolta
s'alzava sulle creste dei cavalloni con un dondolio spaventoso, quindi
scendeva, scendeva, con rapidità vertiginosa, roteando come una trottola.
E
l'uragano intanto, invece di calmarsi, aumentava sempre.
Lampi
accecanti si succedevano senza tregua con un crescendo terrorizzante, seguiti
da tuoni formidabili che si ripercuotevano sinistramente perfino dentro la
città, facendo vibrare le pareti di metallo, senza riuscire a svegliare gli
ubriachi.
Tutta
la notte, l'enorme massa oscillò e girò, percossa incessantemente dai
cavalloni, i quali la spingevano verso il Mar dei Sargassi piuttosto che verso
le Azzorre, come dapprima aveva creduto il capitano.
Finalmente,
verso le quattro del mattino, un barlume di luce apparve fra uno squarcio delle
tempestose nubi.
L'Atlantico
offriva uno spettacolo impressionante. Masse d'acqua, coperte di spuma, si
accavallavano rabbiosamente, urtandosi e spingendosi.
Nessuna
nave, né aerea, né marittima, appariva. Solamente dei grossi albatros
volteggiavano fra la spuma e la caligine, grugnendo come porci.
"Nessuna
speranza di venire salvati, è vero, capitano?" chiese Brandok.
"Per
ora, no" rispose il comandante del Centauro.
"Dove
ci spinge il vento?"
"Verso
sud-ovest."
"Lontano
dalle rotte tenute dalle navi?"
"Purtroppo,
signore."
"Dove
andremo a finire dunque?"
"Sarebbe
impossibile dirlo, poiché il vento potrebbe anche cambiare da un momento
all'altro."
In
quell'istante delle grida spaventevoli scoppiarono nell'interno della città
galleggiante.
I
tre americani, il capitano, il pilota e Jao si affrettarono a raggiungere la
bocca del pozzo.
I
forzati si erano svegliati e, presi chissà da quale furioso delirio, si
azzuffavano ferocemente fra di loro armati degli attrezzi da pesca e di
coltelli.
I
miserabili cadevano a dozzine, immersi in veri laghi di sangue, coi crani
spaccati da colpi di rampone o coi petti squarciati da colpi di coltello.
"Disgraziati,
che cosa fate?" gridò Jao inorridito.
La
sua voce si perdette fra i clamori spaventevoli dei combattenti.
Il
capitano sparò alcuni colpi della sua rivoltella elettrica, sperando che quelle
detonazioni, troppo deboli, però, attirassero l'attenzione di quei furfanti.
Nessuno
vi aveva fatto caso: forse nemmeno un colpo di cannone sarebbe stato
sufficiente ad impressionarli.
"Lasciate
che si scannino" disse Brandok. "Tanti pessimi soggetti di
meno."
"D'altronde,
noi nulla potremmo fare per calmarli" disse il capitano del Centauro.
"Se scendessimo, ci farebbero a pezzi."
"Io
vorrei sapere per quale ragione si scannano a quel modo" disse Holker.
"Sono
ancora ubriachi, non lo vedete?" disse il capitano. "Vomitano sangue
e alcool insieme."
"Finitela!"
gridava intanto, con quanta voce aveva in gola Jao! "Basta, miserabili!
Basta!"
Era
fiato sprecato.
La
strage orrenda continuava con maggior rabbia fra i due partiti, formatisi
chissà per quale motivo.
Combattevano
sulla piazza, nelle viuzze, perfino dentro le case, fra urla e bestemmie. Di
quando in quando dei gruppi si staccavano e correvano a rinforzarsi ai pochi
barili che il pilota e Jao non avevano veduto e sfondato; poi, vieppiù
eccitati, si scagliavano con furore nella mischia.
Quella
battaglia spaventosa durò più di una mezz'ora, con grande strage da una parte e
dall'altra; poi i superstiti un centinaio appena, esausti, si separarono,
rifugiandosi chi nelle baracche semisfondate, chi negli angoli più oscuri della
città, lasciandosi cadere al suolo come corpi morti.
"È
finita" disse Brandok. "Che ricomincino e tramutino la città
galleggiante in una città di morti?"
"Ecco
un nuovo pericolo per noi" disse il capitano del Centauro. "Chi
getterà in mare quei tre o quattrocento morti? Col calore che regna qui si
corromperanno presto e scoppierà fra i superstiti qualche malattia che finirà
per distruggerli."
"E
che forse non risparmierà nemmeno noi," disse Toby "se non troveremo
qualche mezzo per lasciare questa città di morti."
"Per
ora rassegnatevi, signori" disse il capitano. "Non vedo alcuna terra
sorgere all'orizzonte."
"Il
Centauro deve essere stato costruito quando brillava una cattiva stella, mio
caro capitano" disse Brandok.
"Così
pare. Non è stato che un continuo succedersi di disgrazie. Chissà, aspettiamo
la fine di questo poco allegro viaggio. La città per ora non minaccia di
affondare, quindi abbiamo diritto di sperare."
Sembrava
però che le speranze dovessero diventare ben magre, poiché l'uragano continuava
sempre ad infuriare, sconvolgendo l'Atlantico per un tratto certamente immenso.
Nondimeno
la città galleggiava sempre benissimo, ora sollevandosi ed ora sprofondandosi
fino a metà della cupola.
Talvolta
i cavalloni giungevano quasi fino presso i sei uomini, i quali si tenevano bene
aggrappati all'orlo del pozzo, per paura di venire portati via.
La
spuma talvolta li avvolgeva così fittamente che non potevano distinguersi l'uno
dall'altro, quantunque si trovassero molto vicini.
Il
sole era sorto da qualche ora, però i suoi raggi non riuscivano ad attraversare
l'enorme massa di vapori, sicché sull'oceano regnava una semioscurità
spaventosa.
A
mezzodì i naufraghi mangiarono alla meglio qualche boccone; poi, dopo essersi
assicurati con delle reti alle traverse dei vetri, cercarono di dormire qualche
ora sotto la guardia del pilota del Centauro.
Tutta
la notte non avevano chiuso un solo istante gli occhi, e specialmente Brandok e
Toby si sentivano estremamente stanchi ed in preda a dei tremiti convulsi, che
li impressionavano non poco.
Verso
sera uno splendido raggio di sole ruppe finalmente le nubi, illuminando di
traverso le onde, essendo l'astro prossimo al tramonto.
Il
capitano, avvertito dal pilota, si era affrettato ad alzarsi per cercare di
conoscere, almeno approssimativamente, dove l'uragano aveva spinto la città
galleggiante. Rimase subito colpito dalla presenza di enormi masse di alghe che
fluttuavano in mezzo alle onde.
"Lo
temevo" disse aggrottando la fronte.
"Che
cosa avete?" chiese Brandok con apprensione.
"Miei
cari signori, noi corriamo il pericolo di venir fermati per sempre nella nostra
corsa ed imprigionati."
"Da
chi?" chiesero ad una voce i tre americani.
"Dai
sargassi. Se questo enorme cassone si caccia fra quegli ammassi di alghe, non
ne uscirà più, ve lo assicuro io, a meno che un'altra tempesta non scoppi
soffiando in senso inverso."
"Ma
voi capitano, avete la iettatura" disse Brandok.
"Si
direbbe davvero, purché invece non l'abbia Jao o la sua città."
"Ci
spinge proprio sui sargassi il vento?" disse Toby.
"E
le onde anzi lo aiutano" rispose il capitano, che diventava sempre più
inquieto.
"Tempesta,
alghe, morti e persone pericolose sotto i piedi" mormorò Brandok.
"Non valeva proprio la pena di ritornare in vita dopo cent'anni per
provare simili avventure."
"Ed
i vostri amministrati che cosa fanno Jao?" chiese il capitano.
"Russano
in mezzo ai morti."
"Ancora!
Meglio per noi. Se non si svegliassero più sarei ben contento, poiché sono
certo che ci daranno non pochi fastidi quando finalmente apriranno gli occhi e
non troveranno più alcool per continuare la loro indecente orgia. Attenzione!
L'urto sarà abbastanza forte per scaraventarvi in acqua se non vi terrete ben
saldi."
L'Atlantico,
che si trovava fermato nella sua corsa furibonda, sferzato poderosamente dal
vento che lo incalzava senza tregua, raddoppiava la sua rabbia, cercando di
sfondare, ma invano, quelle interminabili masse di alghe, saldamente
intrecciate le une colle altre per mezzo d'un numero infinito di radici.
Le
ondate, non trovando sfogo, si ritorcevano su loro stesse, provocando dei
contrassalti d'una violenza indescrivibile.
Immense
cortine di spuma vagavano al di sopra dei sargassi abbattendosi di quando in
quando e lacerandosi sotto i vigorosi soffi delle raffiche.
La
città galleggiante rollava in modo inquietante, tuffando i suoi fianchi nelle
onde.
Tutte
le sue balaustrate erano state strappate, però le traverse d'acciaio delle
invetriate resistevano sempre. Guai se avessero ceduto sotto il peso immane dei
cavalloni. Nessuno dei forzati sarebbe di certo sfuggito all'invasione delle
acque.
Gli
ultimi bagliori del crepuscolo stavano per scomparire, quando la città
galleggiante che continuava la sua corsa verso il sud-ovest si trovò in mezzo
alle prime alghe.
"Ci
siamo!" gridò il capitano, dominando per un istante, colla sua voce
tonante, i mille fragori della tempesta. "Tenetevi saldi!"
Una
montagna liquida sollevò la città, la tenne un momento come sospesa in aria,
poi la scaraventò innanzi con forza inaudita.
Si
udì un rombo sonoro, prodotto dalle pareti d'acciaio, poi l'enorme massa rimase
immobile, mentre le onde attraversavano velocemente la cupola lasciando cadere
entro il pozzo dei torrenti d'acqua, i quali precipitarono sulle teste degli
ubriachi come una gran doccia salutare.
Il
Mar dei Sargassi, come ognuno sa, non è altro che un ammasso immenso di alghe,
radunate colà dal gioco diretto ed indiretto delle correnti marine e
soprattutto dalla grande corrente del Gulf-Stream. Ha una superficie di 260.000
miglia quadrate, con una lunghezza di 1.200 e una larghezza cha varia dalle 50
alle 160 miglia.
Quelle
alghe della specie sargassum bacciferum, si presentano a ciuffi staccati che
hanno una lunghezza da trenta a ottanta centimetri, e si vedono ora sparsi ed
ora agglomerati, formando ora delle strisce ed ora dei veri campi, talvolta
così fitti da arrestare i velieri che hanno la disgrazia di venire spinti là
dentro.
Si
crede che là sotto esista quella famosa Atlantide, così misteriosamente
scomparsa coi suoi milioni e milioni di abitanti, e può darsi benissimo che quell'isola
serva di fondo a quello sterminato ammasso di vegetali.
La
città galleggiante, spinta in mezzo alle alghe dal possente urto delle onde, vi
si era così ben incastrata da rimanere quasi di colpo immobile, come se si
fosse arenata sopra un banco di sabbia.
L'enorme
massa d'acciaio, investendo i sargassi con uno dei suoi lati, vi si era
incastrata come un immane cuneo dentro un tronco d'albero ancora più immane.
Le
onde, che si rovesciavano al di sopra degli sterminati campi di alghe, tentando
invano di scompaginarli, l'assalivano ancora, investendo specialmente la
cupola, con poco divertimento dei sei uomini, i quali correvano il pericolo di
venire portati via; però le ondate non riuscivano più a scuoterla.
"È
finito il nostro viaggio, capitano?" disse Brandok, che si teneva
aggrappato disperatamente al margine del pozzo.
"Purtroppo"
rispose il comandante del Centauro. "Siamo peggio che arenati, e non
saprei chi potrebbe trarre dal mezzo di queste alghe questo gigantesco cassone
di metallo. Nemmeno una flotta intera vi riuscirebbe."
"Saremo
dunque costretti a vivere eternamente qui, o a morire di fame?"
"Di
fame no, poiché il Mar dei Sargassi è ricco di pesci minuscoli, sì, però non
meno eccellenti né meno nutritivi degli altri, e che si possono prendere senza
l'aiuto delle reti. Troveremo, anzi, anche dei voracissimi e grossi granchi,
che ci forniranno dei piatti squisiti."
"Preferirei
però trovarmi lontano da qui."
"Ed
io non meno di voi."
"Verrà
qualche nave a levarci da questa imbarazzante situazione?"
"È
possibile che qualche legno volante, per accorciare il cammino, passi sopra
questo mare d'erbe, ma quando?"
Un
tumulto spaventevole scoppiò in quel momento nelle profondità della città
galleggiante.
"Si
sono risvegliati" disse Toby. "Signor Jao, cercate di calmare quelle
furie, se potete, e di spiegare loro quanto è avvenuto durante la loro sbornia
fenomenale."
"Sarà
un affare un po' serio. Sarebbe meglio per noi che finissero di scannarsi
tutti."
Si
curvarono tutti sull'orlo del pozzo e videro sotto di loro, radunati sulla
piazza, che era ingombra di cadaveri, cinquanta o sessanta uomini che
guardavano per aria, urlando come belve feroci.
"L'ascensore!
Calate l'ascensore! Vogliamo fuggire!"
"Furfanti!"
gridò Jao. "Che cosa avete fatto?"
"Signor
Jao!" gridò un uomo di statura quasi gigantesca "perdonateci, eravamo
diventati come pazzi e non sapevamo più quello che facevamo. Tutta la colpa è
dell'alcool al quale non eravamo più abituati."
"E
vi siete scannati, banditi."
"Se
eravamo come pazzi!..."
"E
avete distrutte perfino le case e rovinati tutti gli attrezzi da pesca."
"È
colpa dell'alcool!" gridò un altro. "Se quel maledetto capitano non
l'avesse portato, oggi non piangeremmo tanti camerati."
"Sì,
è lui il birbante!" urlarono trenta o quaranta voci.
"E
voi siete dei ladri!" gridò il capitano del Centauro, mostrandosi.
Un
immenso clamore scoppiò, un clamore che parve il ruggito di cento leoni
riuniti.
"Miserabile!"
"Canaglia!"
"Ci
hai avvelenati apposta!"
"Qualche
infame governo ti aveva mandato qui per farci diventare pazzi e poi ammazzarci
l'un l'altro."
"A
morte! A morte!"
"Toby!"
esclamò Brandok. "Hanno ancora ragione loro."
"Va
bene" gridò Jao. "Ne riparleremo, quando sarete diventati più
ragionevoli ed i fumi dell'alcool non vi guasteranno più il cervello."
"Ah!
Cane d'un governatore!" vociò il gigante. "Non morrò contento se
prima non avrò la tua pelle."
"Vieni
a prenderla" rispose Jao. "Ti sfido."
"Non
mi scapperai, te lo giuro."
"Sì,
accoppiamoli tutti!" urlarono in coro gli altri.
"Lasciamoli
gridare e occupiamoci dei nostri affari" disse il capitano. "Già non
potranno mai salire fino a noi, se non caliamo l'ascensore; e per togliere loro
ogni speranza lo getto in mare."
Così
dicendo il comandante, prima che gli altri avessero il tempo di opporsi, con
una spinta formidabile lo rovesciò giù dalla cupola.
Le
alghe, che in quel luogo non erano troppo fitte, s'aprirono e lo inghiottirono.
"Avete
condannato a una morte certa quegli sciagurati" disse Toby.
"Se
domani una nave approdasse qui, sapete che cosa farebbe?" chiese il
capitano.
"No."
"Farebbe
senz'altro saltare questa città con una buona bomba ad aria liquida, insieme a
tutti quelli che contiene, morti e vivi. È vero Jao?"
"Così
hanno decretato i governi dell'Europa e dell'America, per tenere a freno i
rifiuti della società" rispose il vecchio.
"Non
sono ancora tre mesi che una nave aerea, mandata dal governo americano, ha
colato a fondo la città sottomarina di Fortawa, perché i cinquecento forzati
che l'abitavano si erano ribellati, uccidendo il capitano di una nave e tutti i
passeggeri per saccheggiare poi il carico."
"Queste
sono leggi inumane" disse Brandok.
"La
società vuole vivere e lavorare tranquillamente," rispose il capitano.
"Tanto peggio per i furfanti. Bah! Lasciamo questi poco interessanti
discorsi e facciamo colazione, giacché l'oceano ci lascia un po' di
tregua."
"Io
non potrò mangiare tranquillamente pensando che sotto di me vi sono forse cento
persone che cominciano a soffrire la fame."
"I
viveri non mancheranno loro per parecchi giorni" disse Jao. "Se poi
verranno a più miti consigli li sbarazzeremo dei cadaveri perché non scoppi
qualche terribile epidemia che sarebbe indubbiamente fatale anche a noi, col
calore spaventevole che regna in questa regione, e permetteremo loro di venire
a respirare una boccata d'aria. Che cosa ne dite, capitano?"
"Io
li lascerei crepare" rispose il comandante del Centauro.
"No,
ciò sarebbe inumano" dissero Toby e Holker.
"Io
sono convinto che finiranno per calmarsi" disse Brandok. "Quando i
cadaveri cominceranno a corrompersi, saranno costretti ad arrendersi."
"Cerchiamo
la nostra colazione" ripeté il capitano. "Non ci conviene consumare
il nostro pesce secco, che potremmo più tardi rimpiangere. Scendiamo sui sargassi,
signori; i pesci, i granchi grossi ed i granchiolini, come vi ho detto,
abbondano fra queste alghe."
Si
lasciarono scivolare lungo le invetriate della cupola, tenendosi con una mano
alle traverse di metallo e si calarono sul campo di sargassi che era in quel
luogo così folto da poter reggere benissimo un uomo.
Il
capitano aveva detto il vero assicurando che la colazione non sarebbe mancata.
In
mezzo alle alghe, formate da fronde brune, molto ramificate, con corti
peduncoli forniti di foglie lanceolate, guizzavano miriadi di piccoli pesci,
piatti, deformi, con una bocca molto larga, lunghi appena un centimetro, del
genere degli antennarius, di octopus purpurei, e saltellavano dei piccoli
cefalopodi e dei grossi granchi, occupati a fare delle vere stragi dei loro
sfortunati vicini.
"Che
disgrazia non possedere una buona padella ed una bottiglia d'olio"
mormorava Brandok che non perdeva però il suo tempo. "Che ottima frittura
si potrebbe mangiare!"
La
caccia, poiché si trattava d'una vera caccia, anziché d'una pesca, durò una
buona mezz'ora e fu abbondantissima.
Non
potendo cucinare tutti quei piccoli pesci, poiché i fornelli a radium si
trovavano in fondo alla città galleggiante, i tre americani ed i loro compagni
furono costretti a mangiare quella squisita frittura... viva!
L'uragano
intanto a poco a poco si calmava. Le nuvole si erano finalmente spezzate, il
vento aveva terminato di lanciare i suoi poderosi soffi e l'Atlantico, come se
si fosse stancato di quella gigantesca battaglia che durava da quarantotto ore,
si spianava rapidamente.
Non
accennava invece a calmarsi la rabbia dei forzati. Le troppo copiose libazioni
dovevano aver sconvolto completamente quei cervelli che forse non erano mai
stati equilibrati.
Resi
maggiormente furiosi dal rifiuto di Jao di calare l'ascensore, avevano
saccheggiato i magazzini gettando tutto sottosopra, poi avevano ripresa la
demolizione delle casupole che ancora rimanevano, tutto fracassando e tutto
disperdendo.
Salivano
di quando in quando dal pozzo urla feroci, che commuovevano non poco Toby e
Brandok, ma che lasciavano assolutamente indifferenti il capitano, Jao, il
pilota e perfino Holker, i quattro uomini moderni ormai abituati a considerare
i malviventi come belve pericolose per la società!
Alla
sera però tutto quel baccano cessò. I forzati, stanchi di distruggere e di
urlare, si erano finalmente decisi a riposarsi, malgrado il tanfo
insopportabile che cominciava ad espandersi al di sotto della immensa cupola; i
cadaveri cominciavano a decomporsi.
I
tre americani ed i loro compagni, seduti sull'orlo del pozzo, un po' tristi,
guardavano il cielo che era tornato ad oscurarsi, chiedendosi quale altro
malanno stava per coglierli.
Si
sarebbe detto che un nuovo uragano stava per scatenarsi sull'irrequieto oceano.
Un'afa pesante, soffocante, regnava negli alti e nei bassi strati, satura di
elettricità.
Il
sole, qualche ora prima, si era tuffato più rosso del solito, dentro una
nuvolaccia nera che era apparsa verso ponente.
"Ancora
cattivo tempo, è vero, capitano?" chiese Brandok.
"Sì"
rispose il comandante del Centauro, che appariva più preoccupato del solito.
"Avremo una seconda burrasca signori miei, che getterà completamente fuori
di rotta le navi volanti che potrebbero trovarsi in questi paraggi. Ho però una
speranza."
"Quale?"
chiese Toby.
"Che
questo uragano che verrà da ponente ci tragga dai sargassi e ci spinga
nuovamente al largo."
"Sarebbe
una vera fortuna, capitano."
"Adagio,
signore. Se il vento ci spingesse questa volta verso le Canarie? Ecco quello
che temo."
"Vi
rincrescerebbe approdare a quelle isole?" chiese Brandok con sorpresa.
Il
capitano del Centauro guardò a sua volta l'americano con profonda sorpresa.
"Ma
da dove venite voi?" gli chiese.
"Dall'America,
signore."
"Un
paese che non è poi molto lontano dalle Canarie."
"Non
so che cosa vogliate dire con ciò, capitano" disse Brandok sempre più
stupito.
"Disgraziata
la nave marina od aerea che cadesse su quelle isole" rispose il capitano.
"Nessun uomo dell'equipaggio uscirebbe certamente vivo."
"Che
cosa è successo dunque su quelle isole?" chiese Toby, che non era meno
sorpreso di Brandok.
"Diamine!
I governi dell'America, dell'Europa, dell'Asia e dell'Africa hanno popolato
quelle isole di tutti gli animali che un tempo esistevano su tutti i cinque
continenti."
"Perché?"
chiese Brandok.
"Per
conservare le razze. Là vi sono tigri, leoni, elefanti, pantere, giaguari,
coguari, bisonti, serpenti e tante altre bestie delle quali io non conosco
nemmeno il nome" rispose il capitano. "Come ben sapete, ormai, tutti
i continenti sono fittamente popolati, quindi quegli animali non avrebbero più
trovato né rifugio, né scampo. Gli zoologi di tutto il mondo, prima della
distruzione completa di tutte le belve, hanno pensato di conservare almeno le
ultime razze."
"Trasportandole
alle Canarie?"
"Sì,
signor Brandok" rispose il capitano.
"E
gli abitanti di quelle isole non vengono divorati?"
"Quali
abitanti?"
"Non
ve ne sono più? Scusate la mia ignoranza, capitano, ma noi veniamo dalle parti
più remote del continente americano, dove non giungono notizie di tutti gli
avvenimenti del mondo" disse Toby, che non desiderava affatto far
conoscere la storia della loro risurrezione.
"Credevo
che gli americani fossero più innanzi di noi europei" disse il capitano.
"Dunque voi avete sempre ignorato la terribile catastrofe che ha colpito
quelle disgraziate isole cinquant'anni or sono?"
"Non
ne abbiamo mai udito parlare" rispose Brandok.
"Già
si sapeva che tutte quelle isole erano d'origine vulcanica" rispose il
capitano. "Non erano altro che le punte estreme d'immense montagne o
meglio di vulcani, inghiottiti forse durante il gigantesco cataclisma che fece
sprofondare l'antica Atlantide. Un brutto giorno il Tenerifa, dopo chi sa
quante migliaia d'anni di sonno, cominciò a svegliarsi, vomitando lave in
quantità prodigiosa e tanta cenere da coprire tutte le isole del gruppo. Ancora
si fosse limitato a questo; vomitò invece, anche una tale massa di gas
asfissiante da distruggere completamente la popolazione."
"Non
ne scampò nemmeno uno?" chiese Brandok.
"Appena
quindici o venti, i quali recarono in Europa la terribile notizia" rispose
il capitano. "Quell'eruzione spaventevole durò vent'anni, facendo
scomparire parecchie isole, poi cessò bruscamente. I governi europei ed
americani, dopo aver invano cercato di ripopolare quelle terre, hanno allora
pensato di relegarvi tutti gli animali, feroci o no, che ancora sussistevano
sui cinque continenti, per impedirne la totale distruzione."
"Sicché
quelle isole sono diventate tanti serragli" disse Toby.
"Sì,
signore. Di quando in quando dei coraggiosi cacciatori si recano là a fare
delle battute, onde provvedere i musei ed impedire che quegli animali diventino
troppo numerosi."
"Quante
cose hanno fatto questi uomini in cent'anni!" mormorò Brandok, che era
diventato pensieroso. "Se potessimo ripetere l'esperimento, che cosa
vedremmo fra un altro secolo? Forse noi, uomini d'altri tempi, non potremmo più
vivere."
L'uragano
che il capitano aveva annunciato si avanzava, con un crescendo orribile di
tuoni e di lampi così intensi che Brandok e Toby si sentivano accecare.
Pareva
che la grande elettricità sviluppata dalle infinite macchine elettriche funzionanti
sulla crosta terrestre, avesse avuto una ripercussione anche negli alti strati
aerei, perché i due americani non avevano mai veduto, ai loro tempi, lampi così
abbaglianti e di così lunga durata.
L'uragano
questa volta veniva da ponente. Era quindi probabile che il Mare dei Sargassi,
scompaginato dai furiosi assalti dell'Atlantico, allargasse le sue mille e
mille braccia, lasciando libera la città galleggiante.
Alla
mezzanotte, l'oceano sollevato da un vento impetuosissimo, diede i primi cozzi
ai campi dei sargassi. I suoi cavalloni piombavano sulle masse erbose con furia
estrema, rodendo o sfondando qua e là i margini.
La
città galleggiante, investita per di sotto, si agitava in tutti i sensi. Pareva
che dei marosi, d'una potenza incalcolabile, la urtassero nella sua parte
inferiore, poiché di quando in quando subiva dei soprassalti violentissimi che
mettevano a dura prova i muscoli dei tre americani e dei loro compagni.
I
forzati, svegliati dal rombare incessante dei tuoni, dai bagliori intensissimi
dei lampi e dal rumoreggiare delle onde, avevano ricominciato a urlare,
mescolando le loro voci a quella possente della tempesta.
Spaventati
da tutto quel fracasso, non sapendo che cosa succedeva all'esterno, chiedevano
che si calasse l'ascensore, che ormai non c'era più, minacciando di sfondare le
pareti della città galleggiante e di annegare tutti.
"Non
ci mancherebbe altro!" esclamò il capitano, un po' inquieto. "Se
mettono in esecuzione la loro minaccia, buona sera a tutti. Non sarà il campo
dei sargassi che ci salverà, con questo indiavolato ondulamento. Caro Jao,
bisogna cercare di calmarli."
"Bisognerebbe
farli salire e allora ci accopperanno tutti" rispose il vecchio che
cominciava a tremare.
"Cercate
di rassicurarli."
"Non
mi ascolteranno. Vogliono uscire da quella bolgia infernale dove soffocano. Non
sentite che puzza orrenda comincia a sprigionarsi da tutti quei cadaveri?"
"Non
siamo stati noi a commettere la strage" disse il capitano. "Ne
sopportino le conseguenze ora. Noi non possiamo, in così piccolo numero e senza
ascensore, far salire fino a noi quattrocento e più cadaveri. Ci vorrebbe una
settimana di lavoro."
"E
forse non basterebbe" disse il pilota.
"Eppure
bisogna fare qualche cosa per quei disgraziati," disse Toby.
"Che
stupido sono!" esclamò in quel momento Jao. "E più stupidi di me sono
anche loro."
"Perché,
amico?" chiese il capitano.
"Noi
possiamo tramutare la città galleggiante in una immensa ghiacciaia. E nessuno
prima ci aveva pensato! Tre volte bestia con cento corna!"
"In
qual modo?" chiesero Brandok e Toby.
"Abbiamo
più di venti serbatoi pieni d'aria liquida per la conservazione del pesce.
Dieci si trovano sotto la cupola e gli altri nei quattro angoli della città. Fra
cinque minuti i cadaveri geleranno o poco meno, e la loro putrefazione sarà
immediatamente arrestata."
"E
gelerete anche i vivi" disse Brandok.
"Hanno
delle coperte; che si coprano" disse il capitano.
"Cercate
almeno prima di calmarli ed avvertirli" disse Toby. "Non udite come
picchiano contro le pareti della città? Non dubito che siano robustissime, però
potrebbero cedere in qualche punto."
"Avete
ragione" rispose Jao.
Per
essere meglio udito dai forzati, si calò fino sulle traverse d'acciaio che
avevano servito di sostegno all'ascensore, comparendo fra i potenti fasci di
luce proiettati dalle lampade a radium che non erano state più spente.
Fu
subito scorto dagli abitanti i quali non cessavano di guardare in alto, sempre
colla speranza di veder scendere l'ascensore, ed un coro d'invettive salì su
pel pozzo con un frastuono indiavolato.
"Eccolo,
il brigante!"
"Eccolo,
il traditore!"
"Linciamo
quell'avanzo di galera che ha giurato da sempre la nostra distruzione."
"Scendi
cane!... Scendi!..."
Jao
li lasciò sfogare, ricevendo filosoficamente, senza turbarsi, quell'uragano
d'ingiurie e di minacce, e quando vide che non avevano più fiato, fece loro un
gesto amichevole, gridando:
"Ma
finitela, pazzi! Volete ascoltarmi sì o no? Se continuate, risalgo e non mi rivedrete
più mai".
"Sì,
sì, lasciamolo parlare!" gridarono parecchie voci.
"Parla
dunque, vecchio" disse una voce.
"La
nostra città si è staccata dallo scoglio e la tempesta ci ha portati fra i
sargassi."
"Tu
menti!"
"Che
uno di voi, ma uno solo, salga per accertarsi se io ho detto la verità."
"Cala
l'ascensore!"
"Il
mare l'ha portato via."
"Manda
giù una fune allora."
"Sì"
rispose Jao. "Vi avverto però che se sale più d'uno la taglieremo. La
cupola è avariata e crollerebbe sotto il vostro peso."
"E
vuoi che crepiamo qui, fra tutti questi cadaveri che puzzano
orrendamente?" gridò un altro.
"Aprite
i serbatoi dell'aria liquida e geleranno presto." Aveva appena terminato
di parlare che tutti quegli uomini si precipitavano verso i quattro angoli
della città galleggiante, dove si vedevano degli enormi tubi d'acciaio.
Si
udirono tosto dei fischi acutissimi, poi una corrente d'aria gelida eruppe dal
pozzo, mentre le lastre di vetro si coprivano per di sotto d'uno strato di
ghiaccioli.
Intanto
Brandok, il capitano ed il pilota avevano attaccato le funi che una volta
servivano per sospendere le reti e che le onde in parte avevano risparmiate, e
le avevano annodate.
"Caliamole
nella ghiacciaia" disse Brandok, che respirava a pieni polmoni l'aria
fredda che usciva sempre a folate dal pozzo. "Siamo quasi sotto l'equatore
e battiamo già i denti. Che cosa non hanno dunque inventato questi meravigliosi
uomini del Duemila? Io finirò per impazzire davvero, te lo assicuro!"
I
forzati, aperte le valvole, erano corsi a chiudersi nelle case che ancora si
mantenevano, bene o male, in piedi, impadronendosi di tutte le coperte che
trovavano.
Se
sotto la cupola andava formandosi il ghiaccio, quale freddo doveva regnare
laggiù con quei quattro serbatoi che soffiavano fuori gradi e gradi di gelo?
La
fune finalmente, solidamente trattenuta dal capitano, dal pilota e da Jao toccò
il suolo; ma allora un altro e più spaventevole tumulto scoppiò fra quei
furibondi.
Venti
mani l'avevano afferrata e non volevano più lasciarla. Quelli che non avevano
potuto farsi innanzi a tempo, si erano messi a percuotere spietatamente i
compagni che pei primi l'avevano presa.
Il
capitano ed i suoi compagni, nauseati da quelle scene, invano si erano provati
a ritirare la fune. Sarebbe stato necessario un argano.
Già
il primo stava per proporre di tagliarla, quando un giovine galeotto più lesto
degli altri, con un salto degno d'un clown, balzò sopra le teste dei rissanti,
aggrappandovisi e troncandola, con un colpo di coltello, sotto i propri piedi.
"Su!
Su!" gridò il capitano.
Il
giovine montava rapidamente, poiché anche gli americani prestavano man forte al
capitano.
I
forzati, vedendo salire il compagno, lo coprivano d'ingiurie, minacciando di
sventrarlo appena fosse disceso.
"Noi
non potremo mai andare d'accordo con quelle canaglie" mormorò Brandok.
"Il galeotto di cent'anni fa mi pare che si sia mantenuto eguale. La
scienza tutto ha perfezionato fuorché la razza, e l'uomo malvagio è rimasto
malvagio. Passeranno secoli e secoli, ma, levato lo strato di vernice datogli
dalla civiltà, sotto si troverà sempre l'uomo primitivo dagli istinti
sanguinari."
La
fune, vigorosamente tirata dal capitano e dai suoi compagni, era giunta presso
i margini del pozzo.
Il
galeotto che vi si era aggrappato, un giovinotto quasi ancora imberbe, biondo,
allampanato, tutto braccia e gambe, appena si vide a buon punto, lasciò la fune
balzando agilmente sulla cupola.
"Guarda
dunque e va a riferire ai tuoi compagni quello che hai veduto" gli disse
Jao.
"Che
siamo sul mare o all'inferno poco m'importa" rispose il galeotto,
respirando a lungo. "Sono uscito da quel macello e mi basta. Accoppatemi,
se volete, ma io non ritornerò mai più laggiù. Mi farebbero a brani."
"Rimani
adunque, però t'avverto" disse il capitano "che se tenterai qualche
cosa contro di noi, avrai da aggiustare i conti colla mia rivoltella
elettrica."
"Non
vi darò alcun impiccio, ve lo giuro, signore." Sotto, i forzati urlavano a
squarciagola. La gran voce della tempesta però non tardò a soffocare tutti quei
clamori.
L'uragano
sconvolgeva per la seconda volta l'Atlantico.
"Dove
andremo?" si chiese il capitano, che guardava con inquietudine le onde che
si rovesciavano, con furia estrema sui campi dei sargassi.
Ad
un tratto la città galleggiante che si trovava un po' sbandata, si raddrizzò di
colpo, emergendo bruscamente di parecchi metri.
"Aggrappatevi
alle traverse!" aveva gridato Jao.
Un'onda
mostruosa, passando attraverso il campo dei sargassi contro cui s'appoggiava la
città galleggiante, avanzava con mille muggiti spingendo innanzi a sé delle
fitte cortine d'acqua polverizzata che velavano perfino la luce dei lampi.
"Andiamo
dunque?" chiese Brandok, che col robusto braccio destro teneva fermo Toby,
affinché non venisse portato via dal cavallone.
Una
tromba, una vera tromba d'acqua passò su di loro, coprendoli ed inzuppandoli
dalla testa ai piedi, poi la città galleggiante si spostò e fece un salto
immenso. Era nuovamente libera.
18 - L'ISOLA DELLE BELVE
FEROCI
Per
la seconda volta la città sottomarina si trovava in balía dell'oceano. Le forze
brutali della natura avevano nuovamente vinto, ma questa volta non in peggio, perché
avevano liberati i naufraghi, si potevano chiamare così ormai, da una prigionia
che avrebbe potuto diventare fatale a tutti.
L'enorme
massa aveva ripresa la sua danza disordinata. Dove andava? Nessuno lo sapeva.
Certo però il vento e le onde li spingevano verso nord-est, in direzione delle
Canarie.
I
sette uomini, essendo rimasto con loro il giovine forzato, non si trovavano
però in liete condizioni.
Erano
ben più fortunati i galeotti, i quali almeno stavano al sicuro entro le pareti
d'acciaio, al sicuro dai colpi di mare e dai terribili colpi di vento, sia pure
alle prese col freddo intenso che si sprigionava incessantemente dai serbatoi
d'aria liquida.
L'uragano
infuriava con rabbia estrema. Pareva che ormai avesse decretata la perdita di
quella disgraziata città galleggiante.
"Toby,"
disse Brandok, mentre le onde continuavano a passare e ripassare sulla cupola,
con impeto spaventevole "da buon americano le avventure non mi sono mai
dispiaciute; però comincio ad averne abbastanza di questa interminabile storia.
Sai a che cosa penso io?"
"Pensi
che le onde sono troppo violente e che l'Atlantico non è troppo clemente verso
gli uomini di cento anni fa."
"No,
che noi finiremo male."
"E
ti lamenti, dopo aver vissuto quasi un secolo e mezzo e aver veduto tante
meraviglie? Senza il mio liquore che cosa saresti, tu, a quest'ora? Un pizzico
di cenere senza nemmeno un pezzetto d'osso."
"Hai
ragione, Toby" rispose Brandok, sforzandosi di sorridere. "Su
centinaia e centinaia di milioni di persone scomparse nel gran baratro della
morte, noi soli siamo sopravvissuti ed ho il coraggio di lamentarmi!"
"Contentati
dunque di vivere un'ora, o un mese, e non pensare ad altro. Checché debba
succedere, nessun altro mortale avrà avuto tanta fortuna. Guardati invece dalle
onde. Insidiano la nostra vita."
E
la insidiavano davvero. Mai l'Atlantico aveva avuto un simile scatto di collera
in cinquant'anni, o forse cento. Brandok, che nella sua gioventù l'aveva
attraversato già tante volte, mai l'aveva visto così.
Ma
era soprattutto l'estrema tensione elettrica che colpiva i due americani. I
lampi avevano una durata straordinaria, di cinque e perfino dieci minuti, e le
folgori cadevano a dozzine alla volta. Brandok, forse più nervoso di Toby,
sussultava come se ricevesse delle vere scariche elettriche, e quando si
passava una mano sulla testa, i suoi capelli, quantunque bagnati, crepitavano e
sprigionavano delle vere scintille.
La
città galleggiante intanto continuava ad andare attraverso alle onde come un
semplice guscio di noce. Non era già una nave: si poteva considerare un immenso
rottame in balìa dei furori dell'oceano.
Tutta
la notte, e anche il giorno seguente, l'enorme massa incessantemente travolta
dai cavalloni errò sull'Atlantico, senza che i naufraghi nulla potessero tentare
per darle una direzione.
Durante
tutto quel tempo i forzati, probabilmente molto impressionati dai fragori delle
onde, dal rombare incessante dei tuoni e dai soprassalti disordinati della loro
città, si erano mantenuti tranquilli.
Inoltre
il freddo intenso che regnava laggiù doveva aver calmati i loro furori. Mai
ghiacciaia era stata così fredda di certo, poiché i cristalli di ghiaccio
avevano avvolto perfino i cadaveri, arrestandone la putrefazione.
Al
mattino del secondo giorno, il capitano, che stava sempre di guardia col
pilota, resistendo tenacemente al sonno, mandò un grido.
"Tenerife!"
I
tre americani, Jao ed il giovine galeotto che sonnecchiavano legati solidamente
alle traverse d'acciaio per non venire portati via dai cavalloni che
l'Atlantico scagliava senza tregua contro la cupola, udendo quel grido, si
erano alzati a sedere.
Cominciava
ad albeggiare allora; era però un'alba grigiastra, di triste aspetto, non
permettendo le tempestose nubi che la luce si diffondesse liberamente.
Verso
levante, ad una grande altezza, una colonna di fuoco s'alzava, oscillando in
tutte le direzioni e forando il cielo.
"Erutta
ancora la gigantesca montagna?" chiese Brandok.
"Sembra
che si sia risvegliata" rispose il capitano.
"Ci
spinge verso quelle isole il vento?"
"Purtroppo"
rispose il capitano.
"Che
dopo i forzati dobbiamo aver a che fare colle belve feroci?"
"Non
tutte le isole sono popolate di leoni, di tigri, di pantere, di giaguari, di
leopardi eccetera, signore. Ve ne sono molte che servono d'asilo sicuro ad animali
inoffensivi o quasi, come i bisonti, gli ultimi campioni del vostro paese,
struzzi, giraffe, gazzelle, cervi, daini e tanti altri che non saprei
nominarvi. Se le onde ci spingeranno verso una di queste ultime, non avremo
nulla da temere, anzi avremo da guadagnare degli arrosti squisiti.
Disgraziatamente mi pare che le onde ci caccino verso Tenerife."
"Mi
fate venire la pelle d'oca, capitano."
"Ci
rifugeremo in fondo alla città."
"E
allora i forzati ci faranno a pezzi."
"Ah!
diavolo! Non avevo pensato che abbiamo un vulcano anche sotto i nostri
piedi" disse il capitano del Centauro. "Non siamo però ancora a terra
e non sappiamo ancora dove queste onde capricciose manderanno a sfracellarsi
questa immensa cassa di metallo."
"Temete
che si sfasci?" chiese Toby.
"Le
spiagge di quelle isole sono quasi dovunque tagliate a picco e non vi saprei
dire, signore, in quale stato noi potremo approdare. Troppo buono no, di certo.
Troveremo là dei flutti di fondo che scaraventeranno la città galleggiante chi
sa mai dove! Qualunque cosa succeda, vi consiglio di non abbandonare un solo
istante le traverse della cupola: chi si lascerà strappare dai cavalloni verrà
indubbiamente sfracellato. Occhio a tutto, e tenetevi bene stretti!"
La
città galleggiante, infatti, veniva spinta verso l'antico possedimento spagnolo
che i furori dell'immensa montagna avevano ormai resi inabitabili.
L'enorme
cono, quasi volesse fare un degno accompagnamento alla rabbia dell'Atlantico,
eruttava con gran lena, coprendosi tutto di fuoco.
Lungo
i suoi fianchi scoscesi, veri fiumi di lava scendevano, facendo avvampare le
foreste.
Bombe
colossali uscivano dal suo cratere fiammeggiante e, dopo aver attraversate le
nubi, ricadevano descrivendo delle arcate superbe, lasciandosi dietro getti di
fuoco e si spaccavano, scoppiando.
Boati
spaventevoli, che soffocavano talvolta il rombare dei tuoni, uscivano dalla
gola fiammeggiante del vulcano.
"Chi
avrebbe detto che quel colosso si sarebbe un giorno ridestato, e per due volte
di seguito?" mormorò Toby. "Ciò indica che la terra non ha ancora
incominciato il suo raffreddamento."
La
città galleggiante continuava intanto ad avanzare, passando fra il vastissimo
canale della Grande Canaria e l'isola di Puerto Ventura, col grave pericolo di
urtare contro le innumerevoli scogliere che erano sorte dopo l'ultima eruzione
del Tenerifa.
Poiché
le onde eran diventate meno tumultuose, opponendo le due isole, due barriere
insormontabili ai furori dell'Atlantico, il capitano ed i suoi compagni si
erano alzati.
Una
luce intensa, rossa come quella dell'aurora boreale, scendeva dall'immenso
cono, tingendo le acque di riflessi sanguigni.
Lo
spettacolo era sublime ed insieme spaventevole.
Vortici
di fumo, pure rossastro, ma che di quando in quando avevano dei bagliori
sinistri, lividi, come se masse di zolfo ardessero entro il cratere, si
stendevano al di sotto delle tempestose nubi, turbinando sulle ali del vento.
Le bombe continuavano a grandinare, con un fragore di tuono, schiantando ed
incendiando le antichissime selve, mentre i torrenti di lava dilagavano come un
mare di fuoco.
"Ho
veduto una volta il Vesuvio" disse Brandok. "Quello però era un
giocattolo in confronto a questo titano."
La
città galleggiante, sempre sospinta dalle onde, era entrata nella zona
illuminata. Pareva che navigasse su un mare incandescente.
I
vetri della cupola, riflettendo i bagliori del vulcano, proiettavano fino in
fondo alla città una luce così intensa da far impallidire quella delle lampade
a radium.
I
forzati, che non potevano indovinare di che cosa si trattasse, urlavano
spaventosamente, senza che nessuno si occupasse di spiegare loro da dove
provenivano quei bagliori intensi.
Era
troppa l'ansia, o meglio l'angoscia, che si era impadronita del capitano e dei
suoi compagni, per pensare a quelli che gelavano entro la gigantesca massa
d'acciaio.
L'urto
stava per accadere.
Tenerife
non era che a poche gomene, ed i cavalloni continuavano a sospingere la città
galleggiante con grande impeto. Avrebbe resistito o si sarebbe sfasciata? Era
quella la domanda che tormentava tutti, senza trovare una risposta.
Erano
allora le due del mattino.
Il
vulcano avvampava e tuonava sempre con crescente furore. Pareva che tutta
l'isola ardesse.
I
tre americani, il capitano, il pilota ed i due forzati si erano sdraiati sulla
cupola, tenendosi stretti alle traverse.
Le
onde, che si rovesciavano attraverso il canale, non cessavano di muovere
all'assalto di quel colossale ostacolo che impediva loro di stendersi
liberamente.
Giungevano
una dietro l'altra, a brevissimi intervalli, sollevando dei formidabili flutti
di fondo.
D'improvviso
la città galleggiante si sollevò per parecchi metri, con un rombo assordante,
poi si rovesciò su un fianco, adagiandosi verso la spiaggia che era improvvisamente
comparsa dopo l'ultimo colpo di mare.
Una
parte della cupola si spezzò con immenso fragore, rovinando nell'interno della
città con Jao ed il giovine forzato che si trovavano disgraziatamente da quella
parte.
I
tre americani, il capitano ed il pilota, più fortunati, erano riusciti a
balzare a terra in tempo, arrampicandosi velocemente su per la spiaggia
dirupata, prima che l'ondata di fondo ritornasse all'assalto.
Il
mare in quel luogo offriva uno spettacolo orribile.
I
cavalloni, arrestati bruscamente nella loro corsa impetuosissima, montavano
all'assalto dell'isola con un frastuono spaventevole.
Immani
colonne di spuma si rovesciavano, col fragore del tuono, contro le rocce,
sgretolandole, polverizzandole.
La
città galleggiante, urtata da tutte le parti, cozzava e tornava a cozzare
contro la costa.
L'enorme
cassa di metallo, che per lunghi anni, sullo scoglio a cui era stata avvinta,
aveva sfidato impunemente le rabbie dell'Atlantico, a poco a poco si sfasciava.
Dall'interno s'alzavano urla orribili.
I
forzati, vedendo l'acqua rovesciarsi attraverso la cupola seminfranta,
scappavano da tutte le parti, per non morire annegati dal formidabile assalto
delle onde.
"Sono
perduti!" disse il capitano, che si teneva aggrappato ad una roccia, a
fianco di Brandok.
"Lo
credete?" chiese questi con voce commossa.
"Nessuna
costruzione umana può resistere a simili cozzi. Fra mezz'ora, e forse meno, le
pareti metalliche si apriranno e nessuno di quei disgraziati si salverà."
"Non
possiamo tentare nulla per strapparli alla morte?" chiese Toby, che si
trovava dall'altro lato del capitano.
"Che
cosa vorreste fare? Se scendiamo, le onde ci porteranno via senza che possiamo
recare nessun aiuto agli abitanti della povera città!"
"Mi
si spezza il cuore nel vederli morire tutti, in quel modo."
"Supponete
di assistere al naufragio d'un bastimento. L'oceano vuole di quando in quando
le sue vittime."
"Ed
a noi quale sorte sarà riserbata?" chiese Brandok.
"Non
lieta di certo, se non giunge in nostro soccorso qualche nave" rispose il
capitano. "Domani ci troveremo fra i leoni, le tigri, i leopardi, i
giaguari, e non so come ce la caveremo, signori miei, perché è appunto su
quest'isola che hanno radunate tutte le belve feroci capaci di difendersi da
sole e quindi in grado di conservare la loro razza."
"E
non avete che la vostra rivoltella!"
"Nient'altro,
signore."
"Corriamo
dunque il pericolo di terminare il nostro viaggio nel ventre di questi
ferocissimi e sanguinari abitanti."
"Purtroppo."
"Non
avremo da rimpiangere la sorte toccata agli abitanti della città
sottomarina."
"Potremmo
forse invidiarla" rispose il capitano.
Intanto
l'enorme cassa d'acciaio, spinta e risospinta dalle onde che non cessavano
d'investirla, continuava a urtare, con un fragore infernale, contro le rocce
della costa ed a piegarsi.
Le
grosse vetrate si spezzavano e l'acqua precipitava come una fiumana
nell'interno.
Le
grida dei disgraziati che annegavano nel fondo, senza potersi sottrarre in modo
alcuno alla morte, a poco a poco diventavano più rade e più fioche, mentre
invece il vulcano rombava e tuonava formidabilmente gareggiando coi fragori
della tempesta.
Ad
un tratto la città fu bruscamente sollevata da un cavallone mostruoso e
completamente rovesciata.
Il
suo fondo, coperto di alghe e d'incrostazioni marine, apparve per un momento in
aria, poi la massa intera fu inghiottita e scomparve sotto le onde coi suoi
morti ed i suoi vivi, se ve n'erano ancora.
"È
finita" disse il capitano, che per la prima volta apparve un po' commosso.
"D'altronde, anche se fossero sfuggiti per ora alla morte, non si
sarebbero salvati più tardi dalle vendette della società. Una buona bomba di
silurite lasciata cadere da qualche vascello aereo, li avrebbe egualmente
affondati per punirli della loro ribellione."
"Che
cos'è questa silurite?" disse Toby.
"Un
esplosivo potentissimo, inventato di recente, che vi polverizza una casa di
venti piani, come se fosse un semplice castello di carta" rispose il
capitano. "Signori, vedo ergersi sopra di noi una roccia che mi pare sia
tagliata quasi a picco. Volete un buon consiglio? Affrettiamoci a raggiungerla
prima che sorga l'alba."
"Anche
qui non corriamo alcun pericolo" osservò Brandok. "Le onde non
giungono fino a noi."
"Potrebbero
però giungere le belve, caro signore" rispose il capitano. "La scalata
a questo scoglio non sarà troppo difficile per una pantera o per un leopardo.
Seguitemi, o più tardi ve ne pentirete."
Nessuno,
fuorché il capitano cui nulla sfuggiva, aveva prima di allora notato che un po'
più indietro s'innalzava un piccolo scoglio, di forma piramidale, che aveva i
fianchi quasi tagliati a picco e che poteva diventare un ottimo rifugio contro
gli assalti delle innumerevoli belve che popolavano la vasta isola.
I
tre americani, comprendendo che la loro salvezza stava lassù, quantunque si
reggessero appena in piedi, dopo tante veglie alle quali non erano abituati,
seguirono il capitano ed il pilota.
La
luce intensa, proiettata dal fiammeggiante vulcano, permetteva di scegliere la
parte meno difficile per dare la scalata al piccolo cono.
Le
pareti però erano così lisce che il capitano cominciava a dubitare molto di
poter raggiungere la cima, quando scoperse una specie di canale piuttosto
ristretto, coi margini coperti di sterpi, che saliva rapidissimo, ma che
tuttavia poteva servire.
"Coraggio,
signori" disse, vedendo che i tre americani non ne potevano proprio più.
"Un ultimo sforzo ancora: quando sarete lassù potrete riposarvi
tranquillamente."
Aggrappandosi
agli sterpi ed aiutandosi l'un l'altro, dopo venti minuti riuscirono a raggiungere
la cima del cono, il quale era tronco.
La
piattaforma superiore era piccolissima, però poteva bastare per cinque uomini.
"Se
avete sonno, dormite" disse il capitano. "C'incaricheremo noi di
vegliare. Fino allo spuntare del sole non correremo nessun pericolo. Le belve
sono troppo spaventate dall'eruzione per pensare ora a noi. Questa notte non
lasceranno i loro covi."
"Ne
ho bisogno" disse Brandok, che era diventato pallidissimo come se quel
supremo sforzo lo avesse completamente accasciato. "Io non so che cosa mi
prenda: le mie membra tremano tutte ed i miei muscoli sussultano come se
ricevessero delle continue scosse elettriche. È la seconda volta che mi succede
questo."
"Ed
io provo i medesimi effetti" disse Toby, lasciandosi cadere al suolo come
corpo morto.
"Una
buona dormita vi calmerà" disse il capitano. "Voi avete provate
troppe emozioni in così pochi giorni."
Il
dottore scosse la testa, e guardò Brandok che sussultava come se avesse qualche
pila dentro il corpo.
"Questa
intensa elettricità, che ormai ha saturato tutta l'aria del globo e alla quale
noi non siamo abituati, temo che ci sia fatale," mormorò poi. "Noi
siamo uomini d'altri tempi."
Nonostante
i fragori del mare, i ruggiti del vento ed i boati formidabili del vulcano, i
tre americani avevano chiusi gli occhi, addormentandosi quasi di colpo. Erano
già tre notti che non dormivano più e solo il capitano ed il suo pilota,
abituati alle lunghe veglie, potevano ancora resistere a quella lunga prova.
Quel
sonno benefico durò fino alle otto del mattino e forse chissà quanto sarebbe
durato, se il capitano non li avesse svegliati con delle vigorose e replicate
scosse.
L'uragano
era cessato ed il sole, già alto, lanciava i suoi ardenti raggi sulla
verdeggiante isola che un tempo era stata una delle più splendide perle
dell'Atlantico.
In
mezzo a quella terra ubertosa, ricca delle più splendide piante dei tropici,
campeggiava, immenso gigante, il vulcano, dal cui cratere uscivano ancora
immense lingue di fuoco e nuvoloni fittissimi di fumo che oscuravano il cielo.
Tutte
le foreste della montagna ardevano, contorcendosi sotto le strette delle lave
che scendevano giù senza posa.
Tutte
le pianure che si estendevano fino sulle rive del mare, con leggere
ondulazioni, erano coperte da superbe foreste di palme, di cocchi e di banani.
Nessuna
casa però, nessun pezzo di terra coltivato: cittadelle e villaggi erano
scomparsi sotto quella vigorosa vegetazione.
"È
questo l'impero delle belve feroci?" chiese Brandok, che si era un po'
rimesso dai suoi sussulti nervosi.
"Sì,
signore" rispose il capitano.
"Io
non le vedo però quelle terribili bestie."
"Non
desiderate di vederle, signore. Oh, non tarderanno a giungere."
"Avete
ragione, capitano," disse il pilota "non tarderanno. Eccone laggiù alcune
che fanno capolino fra i cespugli che circondano la roccia. Ci hanno già
fiutati e si preparano a riempirsi il ventre colle nostre carni. Là,
guardate!"
Il
capitano ed i tre americani seguirono cogli sguardi la direzione che il pilota
indicava col braccio e non poterono trattenere un brivido di terrore.
Trenta
o quaranta animali dal pelame fulvo e dalle folte criniere nerastre, s'aprivano
il passo attraverso i cespugli, avvicinandosi alla roccia, che serviva da
contrafforte al cono.
"È
un branco di leoni!" esclamò il capitano. "Ecco dei brutti vicini che
ci faranno passare un terribile quarto d'ora."
"Potranno
giungere fino a noi?" chiesero Toby e Holker, che erano ben più spaventati
di Brandok.
"Potrebbero
tentare l'assalto dalla parte della fenditura" rispose il capitano.
"Fortunatamente il passaggio è stretto e non potranno presentarsi più
d'uno per volta."
"Avete
abbastanza palle per arrestarli?" chiese Brandok.
"Per
sei rispondo io; in quanto agli altri... Ah! Fate raccolta di sassi, di
macigni, di tutto ciò che può servire come proiettile. Ve ne sono nel canalone.
Presto, signori! Non vi è tempo da perdere!"
I
cinque uomini si erano lasciati scivolare attraverso la spaccatura, dove vi
erano non pochi macigni, staccati dalle rocce dagli acquazzoni.
Con
uno sforzo supremo ne trassero parecchi sulla piccola piattaforma, allineandoli
di fronte all'imboccatura del crepaccio.
Avevano
appena terminata la raccolta, quando i leoni, già abbastanza stanchi di
guardare i cinque uomini da lontano, si mossero salendo la roccia.
Ruggivano
spaventosamente e mostravano i loro denti aguzzi, mentre le loro criniere
s'alzavano.
Un
grosso maschio, di statura imponente, dopo aver lanciato un ruggito formidabile
che parve un colpo di tuono, superato il contrafforte, si cacciò nel canalone,
piantando le unghie nelle fenditure della roccia.
"Risparmiamo,
finché si può, le munizioni" disse il capitano. "Aiutatemi a lanciare
questa bomba, signori!"
Incanalarono
un masso del peso d'una quarantina di chilogrammi che poco prima avevano issato
non senza fatica, fino alla piattaforma e attesero il momento opportuno per
scaraventarlo.
Il
leone insospettito da quella manovra, si era fermato; ma poi, spinto dalla fame
ed incoraggiato dai ruggiti dei suoi compagni, ricominciò ad arrampicarsi. Il
capitano, che teneva pronta anche la rivoltella elettrica, attese che si fosse
spinto bene innanzi, poi gridò:
"Gettate!...".
La
pietra, violentemente spinta innanzi, rotolò giù per la spaccatura con rapidità
fulminea e piombò addosso alla belva, la quale in quel momento si trovava in
una strettoia.
Colpita
alla testa da quel proiettile di nuovo genere stramazzò fulminata, ostruendo
col suo corpo il passaggio.
Non
era però un ostacolo sufficiente per quei saltatori che non s'arrestano nemmeno
dinanzi ad una palizzata alta tre o quattro metri.
Un
altro leone, che si era subito dopo cacciato nella spaccatura senza essere
veduto dagli assediati, troppo occupati a sorvegliare le mosse del primo,
annunciò la sua presenza con un formidabile ruggito. Balzare sopra il corpo del
compagno e precipitarsi all'assalto fu cosa d'un sol momento.
Mancava
il tempo ai difensori della collinetta di scagliare un nuovo masso.
Fortunatamente il capitano aveva la rivoltella.
Si
udì un leggero sibilo e anche la seconda fiera cadde con una palla nel
cervello.
"Bravo,
capitano!" gridò Brandok.
Gli
altri leoni, resi più prudenti, si erano fermati; poi si erano messi a girare e
rigirare intorno al cono, empiendo l'aria di ruggiti.
Intanto
sul margine della foresta altri animali erano comparsi. Vi erano delle tigri,
dei leopardi e dei giaguari e, cosa strana, pareva che fossero in buone
relazioni, poiché non si assalivano reciprocamente, come forse avrebbero fatto
se si fossero trovati nelle loro selve natie.
Probabilmente
il continuo contatto li aveva persuasi a rispettarsi reciprocamente,
conoscendosi quasi d'eguale forza. È certo però che non dovevano rispettare
quelli più deboli, per non morire di fame.
"La
nostra situazione minaccia di diventare disperata" disse il capitano. "Quand'anche
riuscissimo a distruggere i leoni, ecco là altri animali, non meno pericolosi,
pronti a surrogarli. Vi avevo detto, signori, che avremmo rimpianto la fine dei
forzati. Era meglio morire annegati, piuttosto che provare gli artigli ed i denti
di queste belve. L'oceano ci ha risparmiati per condannarci ad una fine più
miseranda. Poteva inghiottirci. Che cosa ne dici tu, pilota?"
Il
marinaio non rispose. Con una mano tesa dinanzi agli occhi guardava in alto,
con una fissità intensa.
"Ebbene,
pilota, sei diventato muto?" chiese il capitano.
Un
grido sfuggì in quello stesso momento dalle labbra del marinaio.
"Un
punto nero nello spazio!"
"Un
vascello aereo?" chiese il capitano, facendo un salto.
"Non
so, comandante, se sia un grosso volatile o qualche soccorso che ci giunge in
buon punto."
"Guardate
bene, mentre io tengo d'occhio i leoni."
Brandok
ed i suoi compagni si erano pure voltati, guardando in aria.
Un
punto nero, un po' allungato, che non si poteva confondere con un uccello,
aquila o condor, e che s'ingrossava con fantastica rapidità, fendeva lo spazio
ad un'altezza straordinaria, come se volesse passare sopra l'immensa colonna di
fuoco e di fumo che irrompeva dal cratere del Pico de Teyde.
"Sì!
Un vascello! Un vascello!" urlarono tutti.
"Ecco
la salvezza che giunge in buon punto" rispose il capitano, sparando su un
terzo leone che si era deciso a muovere all'attacco.
Il
vascello volante scomparve per qualche istante fra i turbini di fumo, poi
ricomparve abbassandosi rapidamente. Aveva puntata la prora verso il piccolo
cono e si avanzava coll'impeto di un condor.
"Ci
hanno scorti e si dirigono verso di noi!" gridò il pilota. "Tenete
duro alcuni istanti ancora, comandante!"
I
leoni, come se si fossero accorti che le prede umane stavano per sfuggire loro,
tornavano all'assalto, mentre parecchie tigri e parecchi giaguari sbucavano
attraverso i cespugli per prendere parte anche essi al banchetto umano.
Il
capitano, vedendo un'altra belva incanalarsi nella spaccatura, non esitò a
consumare un'altra palla ed essendo un valente tiratore, anche questa volta non
mancò il bersaglio.
"E
tre" disse. "Ve ne sono però ancora quindici o sedici senza contare
tutte le altre bestie, che pare siano ansiose di assaggiare un po' di carne
umana. D'altronde non hanno torto. Sono molti anni di certo che non gustano di
questi piatti."
Un
quarto leone, dopo aver mandato un ruggito spaventevole, si scagliò pure
attraverso la spaccatura, balzando sopra i cadaveri dei compagni, ma non ebbe
miglior fortuna.
I
naufraghi della città sottomarina, sicuri ormai di venire raccolti dal vascello
volante, il quale ingigantiva di momento in momento, avevano cominciato a far
rotolare i massi raccolti, scagliandoli in tutte le direzioni, per arrestare
non solo lo slancio dei leoni, bensì anche quello degli altri animali.
Quella
grandine di massi ebbe maggior successo che i colpi di rivoltella del capitano.
Le
belve, spaventate, avevano cominciato a indietreggiare, spiccando salti
giganteschi, per non farsi fracassare le costole.
"Coraggio,
signori!" gridava il capitano, il quale di quando in quando sparava
qualche colpo di rivoltella. "Ricacciamo queste canaglie affamate nella
boscaglia."
E
la tempesta di massi e di ciottoli continuava furiosa, specialmente entro il
canalone dove cercavano d'insinuarsi le fiere, essendo quello l'unico punto
vulnerabile del piccolo cono.
Quella
lotta disperata continuava da parecchi minuti quando una voce sonora ed insieme
imperiosa, cadde dall'alto.
"Tutti
a terra!"
Il
capitano aveva alzati gli occhi. Il vascello aereo, una bella nave tutta
dipinta di grigio, fornita d'immense eliche, stava quasi sopra di loro.
"Obbedite!"
gridò.
Tutti
si erano affrettati a sdraiarsi senza chiedere nessuna spiegazione.
Un
momento dopo una palla rossastra, non più grossa di un arancio, cadeva
all'estremità del canalone, dove leoni, tigri e giaguari, in pieno accordo, si
erano radunati per tentare un ultimo e più formidabile assalto del cono.
Si
udì uno scoppio terribile che fece tremare le rupi e che sollevò una immensa nuvola
di polvere.
Era
una piccola bomba di quella terribile materia esplosiva che il capitano del
Centauro aveva chiamata silurite, che era esplosa in mezzo alle belve.
"Alzatevi,
signori!" gridò la voce di prima. "Ormai non vi sono più belve
intorno a voi."
Brandok
fu il primo a balzare in piedi.
Gli
effetti prodotti da quella minuscola bomba erano spaventevoli.
Metà
della roccia che serviva di contrafforte al cono era saltata e degli animali
non si scorgeva più alcuna traccia. Il potente esplosivo aveva polverizzato
tigri, leoni e giaguari.
"Come
sarebbe possibile una guerra con simili bombe?" mormorò l'americano.
"Dieci vascelli volanti basterebbero per distruggere, in dieci minuti, la
più gigantesca città del mondo."
Il
vascello si abbassava dolcemente, mentre il suo equipaggio lanciava una scala
di corda.
Il
capitano del Centauro fu il primo ad afferrarla ed a spingersi in alto, dove un
uomo barbuto e molto tarchiato lo aspettava sorridendo, colle braccia aperte.
"Tompson!"
esclamò il capitano del Centauro, quand'ebbe scavalcata la murata.
"Firsen!"
esclamò l'altro, dandogli una buona stretta di mano, all'inglese. "Ti
cercavo da una settimana."
"Tu!"
"La
notizia che dei furfanti si erano impadroniti della tua nave è giunta in
Inghilterra ed in Francia. Sai che avevano osato assalire delle navi
marittime?"
"Chi?"
"Quelli
che t'avevano preso il Centauro."
"E
che cosa è successo di loro?"
"Sono
stati affondati da me, con una mezza dozzina di bombette alla silurite, a
duecento miglia dallo Stretto di Gibilterra."
"E
la mia nave è saltata insieme a loro?"
"Non
volevano arrendersi."
"Bah!
Il governo inglese mi ricompenserà" disse il capitano del Centauro,
alzando le spalle. "Preferisco che riposi in fondo all'Atlantico,
piuttosto che abbia a diventare una nave pirata. Chiedo ospitalità per me e per
questi signori che mi accompagnano. Dove vai?"
"In
Francia."
"Benissimo:
è sempre un bel paese quello."
Brandok,
Toby, Holker ed il pilota erano pure saliti sulla nave. Il primo però, appena
messi i piedi sul ponte, fu preso da un tremito così intenso, che per poco non
cadde addosso a Holker.
"Che
cosa avete, signore?" chiese il capitano del Centauro.
Brandok
non rispose subito. Era trasfigurato e pallidissimo.
I
suoi occhi, assai dilatati, pareva che gli schizzassero dalle orbite, ed i
muscoli del suo viso sussultavano in modo strano.
"Che
cosa avete dunque, signore?" ripeté il capitano.
"Questo
vascello va elettricamente, è vero?" chiese finalmente l'americano, con
una voce così alterata da far stupire tutti.
"Sì,
signore."
"Ora
comprendo... Toby!"
Il
dottore non diede alcuna risposta. Egli era fermo in mezzo al ponte della nave,
e fissava una grossa lampada a radium con uno sguardo vitreo, simile a quello
che si scorge negli ipnotizzati.
Anch'egli
era estremamente pallido e tremava come se subisse di quando in quando delle
scosse elettriche.
"Che
cosa hanno questi signori?" chiese Tompson.
"Non
lo so" rispose il capitano del Centauro che pareva vivamente
impressionato. "È già la seconda o la terza volta che li vedo tremare
così."
"Chi
sono?"
"Dei
signori americani che fanno il giro del mondo." In quel momento Holker si
avvicinò a loro.
"I
miei amici non sono abituati all'intenso sviluppo di elettricità che regna su
queste navi" disse ai due capitani. "Fateli trasportare nelle loro
cabine e cerchiamo di raggiungere la terra ferma al più presto. Vi offro mille
dollari se domani giungeremo a Lisbona."
"Forzeremo
le macchine" rispose Tompson.
"E
più che potrete" disse Holker, che appariva assai preoccupato.
S'avvicinò
a Brandok che si era appoggiato alla murata di babordo, come se fosse incapace
di starsene ritto senza un sostegno.
"Che
cosa vi sentite, signor Brandok?" gli chiese con accento premuroso.
"Non
so..." balbettò il giovine. "Provo un tremito strano ed un turbamento
inesplicabile. Mi hanno colto appena ho messo i piedi su questo vascello. Si
direbbe che il mio cervello riceva delle continue scosse. Quand'ero sul cono,
invece, provavo un benessere straordinario."
"È
la grande tensione elettrica che regna qui che vi produce quegli effetti,
signor Brandok. Quando saremo a terra il vostro tremito passerà."
Il
giovine scosse il capo con un atto di scoramento, poi disse con un soffio di
voce:
"Io
e Toby siamo uomini d'altri tempi".
Quattro
robusti marinai presero il giovane americano e Toby sotto le ascelle e li
portarono nelle cabine di poppa, adagiandoli su dei comodi lettucci.
"Temo
che questi uomini siano perduti" mormorò Holker. "Ai loro tempi
l'elettricità non aveva ancora preso un così immenso sviluppo. Che cosa accadrà
di loro? Io comincio ad aver paura."
Il
giorno dopo, prima del mezzodì, il vascello volante imboccava il Tago ed
entrava a tutta velocità nella capitale del Portogallo.
Brandok
e Toby si erano a poco a poco tranquillizzati, però non parevano più i due
allegri amici di prima. Sembrava che una profonda preoccupazione turbasse i
loro cervelli, ed alla più piccola emozione il tremito ed i sussulti dei
muscoli li riprendevano.
Il
signor Holker che cominciava a spaventarsi, li fece condurre alla stazione dove
aveva già noleggiato uno scompartimento speciale.
Venticinque
minuti dopo i carrozzoni partivano entro il tubo della linea sotterranea, con
una velocità di 200 km. all'ora.
La
traversata della Spagna si compì in sei ore senza scendere in alcuna stazione.
Holker che vedeva i suoi compagni aggravarsi sempre più, aveva fretta di
giungere nella capitale francese per consultare uno di quegli scienziati, sulla
malattia che li aveva colpiti e che poteva forse avere altra origine.
Al
mattino del giorno appresso scendevano, alla stazione della capitale francese,
raddoppiata ormai per superficie e per popolazione in quei cento anni, e
diventata una delle città più industriali del mondo.
L'aria
della grande capitale, satura di elettricità a causa del numero infinito delle
sue macchine elettriche non fece che aggravare le condizioni di Toby e Brandok.
Furono
condotti in un albergo in preda al delirio.
Il
signor Holker, sempre più spaventato, fece chiamare subito uno dei più noti
medici a cui raccontò ciò che era toccato ai suoi disgraziati amici, non
dimenticando d'informarlo della loro miracolosa risurrezione.
La
risposta che ne ebbe fu terribile.
"Quantunque
io stenti a credere che questi uomini abbiano trovato il segreto di poter dormire
un secolo intero," disse il medico "né io, né altri potranno
salvarli. Sia l'elettricità intensa a cui non erano abituati o l'emozione
prodotta dalle nostre meravigliose opere, il loro cervello ha subito una scossa
tale da non guarire mai più. Conduceteli fra le montagne dell'Alvernia, nel
sanatorio del mio amico Bandin. Chissà! Forse l'aria vivificante di quelle
vette potrebbe operare un miracolo."
Lo
stesso giorno, il signor Holker con due infermieri e i due pazzi saliva su un
vascello volante noleggiato appositamente e partiva per l'Alvernia.
Un
mese più tardi egli riprendeva solo e triste la ferrovia di Parigi per far
ritorno in America. Ormai aveva perduta ogni speranza.
Brandok
e Toby erano stati dichiarati pazzi, e per di più pazzi inguaribili.
"Tanto
valeva che non si fossero risvegliati dal loro sonno secolare" mormorò il
signor Holker con un lungo sospiro, prendendo posto nello scompartimento del
carrozzone. "Io ora mi domando se aumentando la tensione elettrica,
l'umanità intera, in un tempo più o meno lontano, non finirà per impazzire.
Ecco un grande problema che dovrebbe preoccupare le menti dei nostri
scienziati."
Ricavato da: Le meraviglie del Duemila,
di
Emilio Salgari
Collana: Il solaio,
Milano : Il Formichiere,
stampa 1976
Diritti D'autore: no
Codice ISBN: ---
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