Per la seconda volta la città sottomarina si trovava in
balía dell'oceano. Le forze brutali della natura avevano
nuovamente vinto, ma questa volta non in peggio, perché
avevano liberati i naufraghi, si potevano chiamare così
ormai, da una prigionia che avrebbe potuto diventare fatale
a tutti.
L'enorme massa aveva ripresa la sua danza disordinata.
Dove andava? Nessuno lo sapeva. Certo però il vento e le
onde li spingevano verso nord-est, in direzione delle
Canarie.
I sette uomini, essendo rimasto con loro il giovine
forzato, non si trovavano però in liete condizioni.
Erano ben più fortunati i galeotti, i quali almeno
stavano al sicuro entro le pareti d'acciaio, al sicuro dai
colpi di mare e dai terribili colpi di vento, sia pure alle
prese col freddo intenso che si sprigionava incessantemente
dai serbatoi d'aria liquida.
L'uragano infuriava con rabbia estrema. Pareva che ormai
avesse decretata la perdita di quella disgraziata città
galleggiante.
"Toby," disse Brandok, mentre le onde
continuavano a passare e ripassare sulla cupola, con impeto
spaventevole "da buon americano le avventure non mi
sono mai dispiaciute; però comincio ad averne abbastanza di
questa interminabile storia. Sai a che cosa penso io?"
"Pensi che le onde sono troppo violente e che
l'Atlantico non è troppo clemente verso gli uomini di cento
anni fa."
"No, che noi finiremo male."
"E ti lamenti, dopo aver vissuto quasi un secolo e
mezzo e aver veduto tante meraviglie? Senza il mio liquore
che cosa saresti, tu, a quest'ora? Un pizzico di cenere
senza nemmeno un pezzetto d'osso."
"Hai ragione, Toby" rispose Brandok,
sforzandosi di sorridere. "Su centinaia e centinaia di
milioni di persone scomparse nel gran baratro della morte,
noi soli siamo sopravvissuti ed ho il coraggio di
lamentarmi!"
"Contentati dunque di vivere un'ora, o un mese, e
non pensare ad altro. Checché debba succedere, nessun altro
mortale avrà avuto tanta fortuna. Guardati invece dalle
onde. Insidiano la nostra vita."
E la insidiavano davvero. Mai l'Atlantico aveva avuto un
simile scatto di collera in cinquant'anni, o forse cento.
Brandok, che nella sua gioventù l'aveva attraversato già
tante volte, mai l'aveva visto così.
Ma era soprattutto l'estrema tensione elettrica che
colpiva i due americani. I lampi avevano una durata
straordinaria, di cinque e perfino dieci minuti, e le
folgori cadevano a dozzine alla volta. Brandok, forse più
nervoso di Toby, sussultava come se ricevesse delle vere
scariche elettriche, e quando si passava una mano sulla
testa, i suoi capelli, quantunque bagnati, crepitavano e
sprigionavano delle vere scintille.
La città galleggiante intanto continuava ad andare
attraverso alle onde come un semplice guscio di noce. Non
era già una nave: si poteva considerare un immenso rottame
in balìa dei furori dell'oceano.
Tutta la notte, e anche il giorno seguente, l'enorme
massa incessantemente travolta dai cavalloni errò
sull'Atlantico, senza che i naufraghi nulla potessero
tentare per darle una direzione.
Durante tutto quel tempo i forzati, probabilmente molto
impressionati dai fragori delle onde, dal rombare incessante
dei tuoni e dai soprassalti disordinati della loro città,
si erano mantenuti tranquilli.
Inoltre il freddo intenso che regnava laggiù doveva aver
calmati i loro furori. Mai ghiacciaia era stata così fredda
di certo, poiché i cristalli di ghiaccio avevano avvolto
perfino i cadaveri, arrestandone la putrefazione.
Al mattino del secondo giorno, il capitano, che stava
sempre di guardia col pilota, resistendo tenacemente al
sonno, mandò un grido.
"Tenerife!"
I tre americani, Jao ed il giovine galeotto che
sonnecchiavano legati solidamente alle traverse d'acciaio
per non venire portati via dai cavalloni che l'Atlantico
scagliava senza tregua contro la cupola, udendo quel grido,
si erano alzati a sedere.
Cominciava ad albeggiare allora; era però un'alba
grigiastra, di triste aspetto, non permettendo le tempestose
nubi che la luce si diffondesse liberamente.
Verso levante, ad una grande altezza, una colonna di
fuoco s'alzava, oscillando in tutte le direzioni e forando
il cielo.
"Erutta ancora la gigantesca montagna?" chiese
Brandok.
"Sembra che si sia risvegliata" rispose il
capitano.
"Ci spinge verso quelle isole il vento?"
"Purtroppo" rispose il capitano.
"Che dopo i forzati dobbiamo aver a che fare colle
belve feroci?"
"Non tutte le isole sono popolate di leoni, di
tigri, di pantere, di giaguari, di leopardi eccetera,
signore. Ve ne sono molte che servono d'asilo sicuro ad
animali inoffensivi o quasi, come i bisonti, gli ultimi
campioni del vostro paese, struzzi, giraffe, gazzelle,
cervi, daini e tanti altri che non saprei nominarvi. Se le
onde ci spingeranno verso una di queste ultime, non avremo
nulla da temere, anzi avremo da guadagnare degli arrosti
squisiti. Disgraziatamente mi pare che le onde ci caccino
verso Tenerife."
"Mi fate venire la pelle d'oca, capitano."
"Ci rifugeremo in fondo alla città."
"E allora i forzati ci faranno a pezzi."
"Ah! diavolo! Non avevo pensato che abbiamo un
vulcano anche sotto i nostri piedi" disse il capitano
del Centauro. "Non siamo però ancora a terra e non
sappiamo ancora dove queste onde capricciose manderanno a
sfracellarsi questa immensa cassa di metallo."
"Temete che si sfasci?" chiese Toby.
"Le spiagge di quelle isole sono quasi dovunque
tagliate a picco e non vi saprei dire, signore, in quale
stato noi potremo approdare. Troppo buono no, di certo.
Troveremo là dei flutti di fondo che scaraventeranno la
città galleggiante chi sa mai dove! Qualunque cosa succeda,
vi consiglio di non abbandonare un solo istante le traverse
della cupola: chi si lascerà strappare dai cavalloni verrà
indubbiamente sfracellato. Occhio a tutto, e tenetevi bene
stretti!"
La città galleggiante, infatti, veniva spinta verso
l'antico possedimento spagnolo che i furori dell'immensa
montagna avevano ormai resi inabitabili.
L'enorme cono, quasi volesse fare un degno
accompagnamento alla rabbia dell'Atlantico, eruttava con
gran lena, coprendosi tutto di fuoco.
Lungo i suoi fianchi scoscesi, veri fiumi di lava
scendevano, facendo avvampare le foreste.
Bombe colossali uscivano dal suo cratere fiammeggiante e,
dopo aver attraversate le nubi, ricadevano descrivendo delle
arcate superbe, lasciandosi dietro getti di fuoco e si
spaccavano, scoppiando.
Boati spaventevoli, che soffocavano talvolta il rombare
dei tuoni, uscivano dalla gola fiammeggiante del vulcano.
"Chi avrebbe detto che quel colosso si sarebbe un
giorno ridestato, e per due volte di seguito?" mormorò
Toby. "Ciò indica che la terra non ha ancora
incominciato il suo raffreddamento."
La città galleggiante continuava intanto ad avanzare,
passando fra il vastissimo canale della Grande Canaria e
l'isola di Puerto Ventura, col grave pericolo di urtare
contro le innumerevoli scogliere che erano sorte dopo
l'ultima eruzione del Tenerifa.
Poiché le onde eran diventate meno tumultuose, opponendo
le due isole, due barriere insormontabili ai furori
dell'Atlantico, il capitano ed i suoi compagni si erano
alzati.
Una luce intensa, rossa come quella dell'aurora boreale,
scendeva dall'immenso cono, tingendo le acque di riflessi
sanguigni.
Lo spettacolo era sublime ed insieme spaventevole.
Vortici di fumo, pure rossastro, ma che di quando in
quando avevano dei bagliori sinistri, lividi, come se masse
di zolfo ardessero entro il cratere, si stendevano al di
sotto delle tempestose nubi, turbinando sulle ali del vento.
Le bombe continuavano a grandinare, con un fragore di tuono,
schiantando ed incendiando le antichissime selve, mentre i
torrenti di lava dilagavano come un mare di fuoco.
"Ho veduto una volta il Vesuvio" disse Brandok.
"Quello però era un giocattolo in confronto a questo
titano."
La città galleggiante, sempre sospinta dalle onde, era
entrata nella zona illuminata. Pareva che navigasse su un
mare incandescente.
I vetri della cupola, riflettendo i bagliori del vulcano,
proiettavano fino in fondo alla città una luce così
intensa da far impallidire quella delle lampade a radium.
I forzati, che non potevano indovinare di che cosa si
trattasse, urlavano spaventosamente, senza che nessuno si
occupasse di spiegare loro da dove provenivano quei bagliori
intensi.
Era troppa l'ansia, o meglio l'angoscia, che si era
impadronita del capitano e dei suoi compagni, per pensare a
quelli che gelavano entro la gigantesca massa d'acciaio.
L'urto stava per accadere.
Tenerife non era che a poche gomene, ed i cavalloni
continuavano a sospingere la città galleggiante con grande
impeto. Avrebbe resistito o si sarebbe sfasciata? Era quella
la domanda che tormentava tutti, senza trovare una risposta.
Erano allora le due del mattino.
Il vulcano avvampava e tuonava sempre con crescente
furore. Pareva che tutta l'isola ardesse.
I tre americani, il capitano, il pilota ed i due forzati
si erano sdraiati sulla cupola, tenendosi stretti alle
traverse.
Le onde, che si rovesciavano attraverso il canale, non
cessavano di muovere all'assalto di quel colossale ostacolo
che impediva loro di stendersi liberamente.
Giungevano una dietro l'altra, a brevissimi intervalli,
sollevando dei formidabili flutti di fondo.
D'improvviso la città galleggiante si sollevò per
parecchi metri, con un rombo assordante, poi si rovesciò su
un fianco, adagiandosi verso la spiaggia che era
improvvisamente comparsa dopo l'ultimo colpo di mare.
Una parte della cupola si spezzò con immenso fragore,
rovinando nell'interno della città con Jao ed il giovine
forzato che si trovavano disgraziatamente da quella parte.
I tre americani, il capitano ed il pilota, più
fortunati, erano riusciti a balzare a terra in tempo,
arrampicandosi velocemente su per la spiaggia dirupata,
prima che l'ondata di fondo ritornasse all'assalto.
Il mare in quel luogo offriva uno spettacolo orribile.
I cavalloni, arrestati bruscamente nella loro corsa
impetuosissima, montavano all'assalto dell'isola con un
frastuono spaventevole.
Immani colonne di spuma si rovesciavano, col fragore del
tuono, contro le rocce, sgretolandole, polverizzandole.
La città galleggiante, urtata da tutte le parti, cozzava
e tornava a cozzare contro la costa.
L'enorme cassa di metallo, che per lunghi anni, sullo
scoglio a cui era stata avvinta, aveva sfidato impunemente
le rabbie dell'Atlantico, a poco a poco si sfasciava.
Dall'interno s'alzavano urla orribili.
I forzati, vedendo l'acqua rovesciarsi attraverso la
cupola seminfranta, scappavano da tutte le parti, per non
morire annegati dal formidabile assalto delle onde.
"Sono perduti!" disse il capitano, che si
teneva aggrappato ad una roccia, a fianco di Brandok.
"Lo credete?" chiese questi con voce commossa.
"Nessuna costruzione umana può resistere a simili
cozzi. Fra mezz'ora, e forse meno, le pareti metalliche si
apriranno e nessuno di quei disgraziati si salverà."
"Non possiamo tentare nulla per strapparli alla
morte?" chiese Toby, che si trovava dall'altro lato del
capitano.
"Che cosa vorreste fare? Se scendiamo, le onde ci
porteranno via senza che possiamo recare nessun aiuto agli
abitanti della povera città!"
"Mi si spezza il cuore nel vederli morire tutti, in
quel modo."
"Supponete di assistere al naufragio d'un
bastimento. L'oceano vuole di quando in quando le sue
vittime."
"Ed a noi quale sorte sarà riserbata?" chiese
Brandok.
"Non lieta di certo, se non giunge in nostro
soccorso qualche nave" rispose il capitano.
"Domani ci troveremo fra i leoni, le tigri, i leopardi,
i giaguari, e non so come ce la caveremo, signori miei,
perché è appunto su quest'isola che hanno radunate tutte
le belve feroci capaci di difendersi da sole e quindi in
grado di conservare la loro razza."
"E non avete che la vostra rivoltella!"
"Nient'altro, signore."
"Corriamo dunque il pericolo di terminare il nostro
viaggio nel ventre di questi ferocissimi e sanguinari
abitanti."
"Purtroppo."
"Non avremo da rimpiangere la sorte toccata agli
abitanti della città sottomarina."
"Potremmo forse invidiarla" rispose il
capitano.
Intanto l'enorme cassa d'acciaio, spinta e risospinta
dalle onde che non cessavano d'investirla, continuava a
urtare, con un fragore infernale, contro le rocce della
costa ed a piegarsi.
Le grosse vetrate si spezzavano e l'acqua precipitava
come una fiumana nell'interno.
Le grida dei disgraziati che annegavano nel fondo, senza
potersi sottrarre in modo alcuno alla morte, a poco a poco
diventavano più rade e più fioche, mentre invece il
vulcano rombava e tuonava formidabilmente gareggiando coi
fragori della tempesta.
Ad un tratto la città fu bruscamente sollevata da un
cavallone mostruoso e completamente rovesciata.
Il suo fondo, coperto di alghe e d'incrostazioni marine,
apparve per un momento in aria, poi la massa intera fu
inghiottita e scomparve sotto le onde coi suoi morti ed i
suoi vivi, se ve n'erano ancora.
"È finita" disse il capitano, che per la prima
volta apparve un po' commosso. "D'altronde, anche se
fossero sfuggiti per ora alla morte, non si sarebbero
salvati più tardi dalle vendette della società. Una buona
bomba di silurite lasciata cadere da qualche vascello aereo,
li avrebbe egualmente affondati per punirli della loro
ribellione."
"Che cos'è questa silurite?" disse Toby.
"Un esplosivo potentissimo, inventato di recente,
che vi polverizza una casa di venti piani, come se fosse un
semplice castello di carta" rispose il capitano.
"Signori, vedo ergersi sopra di noi una roccia che mi
pare sia tagliata quasi a picco. Volete un buon consiglio?
Affrettiamoci a raggiungerla prima che sorga l'alba."
"Anche qui non corriamo alcun pericolo"
osservò Brandok. "Le onde non giungono fino a
noi."
"Potrebbero però giungere le belve, caro
signore" rispose il capitano. "La scalata a questo
scoglio non sarà troppo difficile per una pantera o per un
leopardo. Seguitemi, o più tardi ve ne pentirete."
Nessuno, fuorché il capitano cui nulla sfuggiva, aveva
prima di allora notato che un po' più indietro s'innalzava
un piccolo scoglio, di forma piramidale, che aveva i fianchi
quasi tagliati a picco e che poteva diventare un ottimo
rifugio contro gli assalti delle innumerevoli belve che
popolavano la vasta isola.
I tre americani, comprendendo che la loro salvezza stava
lassù, quantunque si reggessero appena in piedi, dopo tante
veglie alle quali non erano abituati, seguirono il capitano
ed il pilota.
La luce intensa, proiettata dal fiammeggiante vulcano,
permetteva di scegliere la parte meno difficile per dare la
scalata al piccolo cono.
Le pareti però erano così lisce che il capitano
cominciava a dubitare molto di poter raggiungere la cima,
quando scoperse una specie di canale piuttosto ristretto,
coi margini coperti di sterpi, che saliva rapidissimo, ma
che tuttavia poteva servire.
"Coraggio, signori" disse, vedendo che i tre
americani non ne potevano proprio più. "Un ultimo
sforzo ancora: quando sarete lassù potrete riposarvi
tranquillamente."
Aggrappandosi agli sterpi ed aiutandosi l'un l'altro,
dopo venti minuti riuscirono a raggiungere la cima del cono,
il quale era tronco.
La piattaforma superiore era piccolissima, però poteva
bastare per cinque uomini.
"Se avete sonno, dormite" disse il capitano.
"C'incaricheremo noi di vegliare. Fino allo spuntare
del sole non correremo nessun pericolo. Le belve sono troppo
spaventate dall'eruzione per pensare ora a noi. Questa notte
non lasceranno i loro covi."
"Ne ho bisogno" disse Brandok, che era
diventato pallidissimo come se quel supremo sforzo lo avesse
completamente accasciato. "Io non so che cosa mi
prenda: le mie membra tremano tutte ed i miei muscoli
sussultano come se ricevessero delle continue scosse
elettriche. È la seconda volta che mi succede questo."
"Ed io provo i medesimi effetti" disse Toby,
lasciandosi cadere al suolo come corpo morto.
"Una buona dormita vi calmerà" disse il
capitano. "Voi avete provate troppe emozioni in così
pochi giorni."
Il dottore scosse la testa, e guardò Brandok che
sussultava come se avesse qualche pila dentro il corpo.
"Questa intensa elettricità, che ormai ha saturato
tutta l'aria del globo e alla quale noi non siamo abituati,
temo che ci sia fatale," mormorò poi. "Noi siamo
uomini d'altri tempi."
Nonostante i fragori del mare, i ruggiti del vento ed i
boati formidabili del vulcano, i tre americani avevano
chiusi gli occhi, addormentandosi quasi di colpo. Erano già
tre notti che non dormivano più e solo il capitano ed il
suo pilota, abituati alle lunghe veglie, potevano ancora
resistere a quella lunga prova.
Quel sonno benefico durò fino alle otto del mattino e
forse chissà quanto sarebbe durato, se il capitano non li
avesse svegliati con delle vigorose e replicate scosse.
L'uragano era cessato ed il sole, già alto, lanciava i
suoi ardenti raggi sulla verdeggiante isola che un tempo era
stata una delle più splendide perle dell'Atlantico.
In mezzo a quella terra ubertosa, ricca delle più
splendide piante dei tropici, campeggiava, immenso gigante,
il vulcano, dal cui cratere uscivano ancora immense lingue
di fuoco e nuvoloni fittissimi di fumo che oscuravano il
cielo.
Tutte le foreste della montagna ardevano, contorcendosi
sotto le strette delle lave che scendevano giù senza posa.
Tutte le pianure che si estendevano fino sulle rive del
mare, con leggere ondulazioni, erano coperte da superbe
foreste di palme, di cocchi e di banani.
Nessuna casa però, nessun pezzo di terra coltivato:
cittadelle e villaggi erano scomparsi sotto quella vigorosa
vegetazione.
"È questo l'impero delle belve feroci?" chiese
Brandok, che si era un po' rimesso dai suoi sussulti
nervosi.
"Sì, signore" rispose il capitano.
"Io non le vedo però quelle terribili bestie."
"Non desiderate di vederle, signore. Oh, non
tarderanno a giungere."
"Avete ragione, capitano," disse il pilota
"non tarderanno. Eccone laggiù alcune che fanno
capolino fra i cespugli che circondano la roccia. Ci hanno
già fiutati e si preparano a riempirsi il ventre colle
nostre carni. Là, guardate!"
Il capitano ed i tre americani seguirono cogli sguardi la
direzione che il pilota indicava col braccio e non poterono
trattenere un brivido di terrore.
Trenta o quaranta animali dal pelame fulvo e dalle folte
criniere nerastre, s'aprivano il passo attraverso i
cespugli, avvicinandosi alla roccia, che serviva da
contrafforte al cono.
"È un branco di leoni!" esclamò il capitano.
"Ecco dei brutti vicini che ci faranno passare un
terribile quarto d'ora."
"Potranno giungere fino a noi?" chiesero Toby e
Holker, che erano ben più spaventati di Brandok.
"Potrebbero tentare l'assalto dalla parte della
fenditura" rispose il capitano. "Fortunatamente il
passaggio è stretto e non potranno presentarsi più d'uno
per volta."
"Avete abbastanza palle per arrestarli?" chiese
Brandok.
"Per sei rispondo io; in quanto agli altri... Ah!
Fate raccolta di sassi, di macigni, di tutto ciò che può
servire come proiettile. Ve ne sono nel canalone. Presto,
signori! Non vi è tempo da perdere!"
I cinque uomini si erano lasciati scivolare attraverso la
spaccatura, dove vi erano non pochi macigni, staccati dalle
rocce dagli acquazzoni.
Con uno sforzo supremo ne trassero parecchi sulla piccola
piattaforma, allineandoli di fronte all'imboccatura del
crepaccio.
Avevano appena terminata la raccolta, quando i leoni,
già abbastanza stanchi di guardare i cinque uomini da
lontano, si mossero salendo la roccia.
Ruggivano spaventosamente e mostravano i loro denti
aguzzi, mentre le loro criniere s'alzavano.
Un grosso maschio, di statura imponente, dopo aver
lanciato un ruggito formidabile che parve un colpo di tuono,
superato il contrafforte, si cacciò nel canalone, piantando
le unghie nelle fenditure della roccia.
"Risparmiamo, finché si può, le munizioni"
disse il capitano. "Aiutatemi a lanciare questa bomba,
signori!"
Incanalarono un masso del peso d'una quarantina di
chilogrammi che poco prima avevano issato non senza fatica,
fino alla piattaforma e attesero il momento opportuno per
scaraventarlo.
Il leone insospettito da quella manovra, si era fermato;
ma poi, spinto dalla fame ed incoraggiato dai ruggiti dei
suoi compagni, ricominciò ad arrampicarsi. Il capitano, che
teneva pronta anche la rivoltella elettrica, attese che si
fosse spinto bene innanzi, poi gridò:
"Gettate!...".
La pietra, violentemente spinta innanzi, rotolò giù per
la spaccatura con rapidità fulminea e piombò addosso alla
belva, la quale in quel momento si trovava in una strettoia.
Colpita alla testa da quel proiettile di nuovo genere
stramazzò fulminata, ostruendo col suo corpo il passaggio.
Non era però un ostacolo sufficiente per quei saltatori
che non s'arrestano nemmeno dinanzi ad una palizzata alta
tre o quattro metri.
Un altro leone, che si era subito dopo cacciato nella
spaccatura senza essere veduto dagli assediati, troppo
occupati a sorvegliare le mosse del primo, annunciò la sua
presenza con un formidabile ruggito. Balzare sopra il corpo
del compagno e precipitarsi all'assalto fu cosa d'un sol
momento.
Mancava il tempo ai difensori della collinetta di
scagliare un nuovo masso. Fortunatamente il capitano aveva
la rivoltella.
Si udì un leggero sibilo e anche la seconda fiera cadde
con una palla nel cervello.
"Bravo, capitano!" gridò Brandok.
Gli altri leoni, resi più prudenti, si erano fermati;
poi si erano messi a girare e rigirare intorno al cono,
empiendo l'aria di ruggiti.
Intanto sul margine della foresta altri animali erano
comparsi. Vi erano delle tigri, dei leopardi e dei giaguari
e, cosa strana, pareva che fossero in buone relazioni,
poiché non si assalivano reciprocamente, come forse
avrebbero fatto se si fossero trovati nelle loro selve
natie.
Probabilmente il continuo contatto li aveva persuasi a
rispettarsi reciprocamente, conoscendosi quasi d'eguale
forza. È certo però che non dovevano rispettare quelli
più deboli, per non morire di fame.
"La nostra situazione minaccia di diventare
disperata" disse il capitano. "Quand'anche
riuscissimo a distruggere i leoni, ecco là altri animali,
non meno pericolosi, pronti a surrogarli. Vi avevo detto,
signori, che avremmo rimpianto la fine dei forzati. Era
meglio morire annegati, piuttosto che provare gli artigli ed
i denti di queste belve. L'oceano ci ha risparmiati per
condannarci ad una fine più miseranda. Poteva inghiottirci.
Che cosa ne dici tu, pilota?"
Il marinaio non rispose. Con una mano tesa dinanzi agli
occhi guardava in alto, con una fissità intensa.
"Ebbene, pilota, sei diventato muto?" chiese il
capitano.
Un grido sfuggì in quello stesso momento dalle labbra
del marinaio.
"Un punto nero nello spazio!"
"Un vascello aereo?" chiese il capitano,
facendo un salto.
"Non so, comandante, se sia un grosso volatile o
qualche soccorso che ci giunge in buon punto."
"Guardate bene, mentre io tengo d'occhio i
leoni."
Brandok ed i suoi compagni si erano pure voltati,
guardando in aria.
Un punto nero, un po' allungato, che non si poteva
confondere con un uccello, aquila o condor, e che
s'ingrossava con fantastica rapidità, fendeva lo spazio ad
un'altezza straordinaria, come se volesse passare sopra
l'immensa colonna di fuoco e di fumo che irrompeva dal
cratere del Pico de Teyde.
"Sì! Un vascello! Un vascello!" urlarono
tutti.
"Ecco la salvezza che giunge in buon punto"
rispose il capitano, sparando su un terzo leone che si era
deciso a muovere all'attacco.
Il vascello volante scomparve per qualche istante fra i
turbini di fumo, poi ricomparve abbassandosi rapidamente.
Aveva puntata la prora verso il piccolo cono e si avanzava
coll'impeto di un condor.
"Ci hanno scorti e si dirigono verso di noi!"
gridò il pilota. "Tenete duro alcuni istanti ancora,
comandante!"
I leoni, come se si fossero accorti che le prede umane
stavano per sfuggire loro, tornavano all'assalto, mentre
parecchie tigri e parecchi giaguari sbucavano attraverso i
cespugli per prendere parte anche essi al banchetto umano.
Il capitano, vedendo un'altra belva incanalarsi nella
spaccatura, non esitò a consumare un'altra palla ed essendo
un valente tiratore, anche questa volta non mancò il
bersaglio.
"E tre" disse. "Ve ne sono però ancora
quindici o sedici senza contare tutte le altre bestie, che
pare siano ansiose di assaggiare un po' di carne umana.
D'altronde non hanno torto. Sono molti anni di certo che non
gustano di questi piatti."
Un quarto leone, dopo aver mandato un ruggito
spaventevole, si scagliò pure attraverso la spaccatura,
balzando sopra i cadaveri dei compagni, ma non ebbe miglior
fortuna.
I naufraghi della città sottomarina, sicuri ormai di
venire raccolti dal vascello volante, il quale ingigantiva
di momento in momento, avevano cominciato a far rotolare i
massi raccolti, scagliandoli in tutte le direzioni, per
arrestare non solo lo slancio dei leoni, bensì anche quello
degli altri animali.
Quella grandine di massi ebbe maggior successo che i
colpi di rivoltella del capitano.
Le belve, spaventate, avevano cominciato a
indietreggiare, spiccando salti giganteschi, per non farsi
fracassare le costole.
"Coraggio, signori!" gridava il capitano, il
quale di quando in quando sparava qualche colpo di
rivoltella. "Ricacciamo queste canaglie affamate nella
boscaglia."
E la tempesta di massi e di ciottoli continuava furiosa,
specialmente entro il canalone dove cercavano d'insinuarsi
le fiere, essendo quello l'unico punto vulnerabile del
piccolo cono.
Quella lotta disperata continuava da parecchi minuti
quando una voce sonora ed insieme imperiosa, cadde
dall'alto.
"Tutti a terra!"
Il capitano aveva alzati gli occhi. Il vascello aereo,
una bella nave tutta dipinta di grigio, fornita d'immense
eliche, stava quasi sopra di loro.
"Obbedite!" gridò.
Tutti si erano affrettati a sdraiarsi senza chiedere
nessuna spiegazione.
Un momento dopo una palla rossastra, non più grossa di
un arancio, cadeva all'estremità del canalone, dove leoni,
tigri e giaguari, in pieno accordo, si erano radunati per
tentare un ultimo e più formidabile assalto del cono.
Si udì uno scoppio terribile che fece tremare le rupi e
che sollevò una immensa nuvola di polvere.
Era una piccola bomba di quella terribile materia
esplosiva che il capitano del Centauro aveva chiamata
silurite, che era esplosa in mezzo alle belve.
"Alzatevi, signori!" gridò la voce di prima.
"Ormai non vi sono più belve intorno a voi."
Brandok fu il primo a balzare in piedi.
Gli effetti prodotti da quella minuscola bomba erano
spaventevoli.
Metà della roccia che serviva di contrafforte al cono
era saltata e degli animali non si scorgeva più alcuna
traccia. Il potente esplosivo aveva polverizzato tigri,
leoni e giaguari.
"Come sarebbe possibile una guerra con simili
bombe?" mormorò l'americano. "Dieci vascelli
volanti basterebbero per distruggere, in dieci minuti, la
più gigantesca città del mondo."
Il vascello si abbassava dolcemente, mentre il suo
equipaggio lanciava una scala di corda.
Il capitano del Centauro fu il primo ad afferrarla ed a
spingersi in alto, dove un uomo barbuto e molto tarchiato lo
aspettava sorridendo, colle braccia aperte.
"Tompson!" esclamò il capitano del Centauro,
quand'ebbe scavalcata la murata.
"Firsen!" esclamò l'altro, dandogli una buona
stretta di mano, all'inglese. "Ti cercavo da una
settimana."
"Tu!"
"La notizia che dei furfanti si erano impadroniti
della tua nave è giunta in Inghilterra ed in Francia. Sai
che avevano osato assalire delle navi marittime?"
"Chi?"
"Quelli che t'avevano preso il Centauro."
"E che cosa è successo di loro?"
"Sono stati affondati da me, con una mezza dozzina
di bombette alla silurite, a duecento miglia dallo Stretto
di Gibilterra."
"E la mia nave è saltata insieme a loro?"
"Non volevano arrendersi."
"Bah! Il governo inglese mi ricompenserà"
disse il capitano del Centauro, alzando le spalle.
"Preferisco che riposi in fondo all'Atlantico,
piuttosto che abbia a diventare una nave pirata. Chiedo
ospitalità per me e per questi signori che mi accompagnano.
Dove vai?"
"In Francia."
"Benissimo: è sempre un bel paese quello."
Brandok, Toby, Holker ed il pilota erano pure saliti
sulla nave. Il primo però, appena messi i piedi sul ponte,
fu preso da un tremito così intenso, che per poco non cadde
addosso a Holker.
"Che cosa avete, signore?" chiese il capitano
del Centauro.
Brandok non rispose subito. Era trasfigurato e
pallidissimo.
I suoi occhi, assai dilatati, pareva che gli schizzassero
dalle orbite, ed i muscoli del suo viso sussultavano in modo
strano.
"Che cosa avete dunque, signore?" ripeté il
capitano.
"Questo vascello va elettricamente, è vero?"
chiese finalmente l'americano, con una voce così alterata
da far stupire tutti.
"Sì, signore."
"Ora comprendo... Toby!"
Il dottore non diede alcuna risposta. Egli era fermo in
mezzo al ponte della nave, e fissava una grossa lampada a
radium con uno sguardo vitreo, simile a quello che si scorge
negli ipnotizzati.
Anch'egli era estremamente pallido e tremava come se
subisse di quando in quando delle scosse elettriche.
"Che cosa hanno questi signori?" chiese Tompson.
"Non lo so" rispose il capitano del Centauro
che pareva vivamente impressionato. "È già la seconda
o la terza volta che li vedo tremare così."
"Chi sono?"
"Dei signori americani che fanno il giro del
mondo." In quel momento Holker si avvicinò a loro.
"I miei amici non sono abituati all'intenso sviluppo
di elettricità che regna su queste navi" disse ai due
capitani. "Fateli trasportare nelle loro cabine e
cerchiamo di raggiungere la terra ferma al più presto. Vi
offro mille dollari se domani giungeremo a Lisbona."
"Forzeremo le macchine" rispose Tompson.
"E più che potrete" disse Holker, che appariva
assai preoccupato.
S'avvicinò a Brandok che si era appoggiato alla murata
di babordo, come se fosse incapace di starsene ritto senza
un sostegno.
"Che cosa vi sentite, signor Brandok?" gli
chiese con accento premuroso.
"Non so..." balbettò il giovine. "Provo
un tremito strano ed un turbamento inesplicabile. Mi hanno
colto appena ho messo i piedi su questo vascello. Si direbbe
che il mio cervello riceva delle continue scosse. Quand'ero
sul cono, invece, provavo un benessere straordinario."
"È la grande tensione elettrica che regna qui che
vi produce quegli effetti, signor Brandok. Quando saremo a
terra il vostro tremito passerà."
Il giovine scosse il capo con un atto di scoramento, poi
disse con un soffio di voce:
"Io e Toby siamo uomini d'altri tempi".
Quattro robusti marinai presero il giovane americano e
Toby sotto le ascelle e li portarono nelle cabine di poppa,
adagiandoli su dei comodi lettucci.
"Temo che questi uomini siano perduti" mormorò
Holker. "Ai loro tempi l'elettricità non aveva ancora
preso un così immenso sviluppo. Che cosa accadrà di loro?
Io comincio ad aver paura."
Il giorno dopo, prima del mezzodì, il vascello volante
imboccava il Tago ed entrava a tutta velocità nella
capitale del Portogallo.
Brandok e Toby si erano a poco a poco tranquillizzati,
però non parevano più i due allegri amici di prima.
Sembrava che una profonda preoccupazione turbasse i loro
cervelli, ed alla più piccola emozione il tremito ed i
sussulti dei muscoli li riprendevano.
Il signor Holker che cominciava a spaventarsi, li fece
condurre alla stazione dove aveva già noleggiato uno
scompartimento speciale.
Venticinque minuti dopo i carrozzoni partivano entro il
tubo della linea sotterranea, con una velocità di 200 km.
all'ora.
La traversata della Spagna si compì in sei ore senza
scendere in alcuna stazione. Holker che vedeva i suoi
compagni aggravarsi sempre più, aveva fretta di giungere
nella capitale francese per consultare uno di quegli
scienziati, sulla malattia che li aveva colpiti e che poteva
forse avere altra origine.
Al mattino del giorno appresso scendevano, alla stazione
della capitale francese, raddoppiata ormai per superficie e
per popolazione in quei cento anni, e diventata una delle
città più industriali del mondo.
L'aria della grande capitale, satura di elettricità a
causa del numero infinito delle sue macchine elettriche non
fece che aggravare le condizioni di Toby e Brandok.
Furono condotti in un albergo in preda al delirio.
Il signor Holker, sempre più spaventato, fece chiamare
subito uno dei più noti medici a cui raccontò ciò che era
toccato ai suoi disgraziati amici, non dimenticando
d'informarlo della loro miracolosa risurrezione.
La risposta che ne ebbe fu terribile.
"Quantunque io stenti a credere che questi uomini
abbiano trovato il segreto di poter dormire un secolo
intero," disse il medico "né io, né altri
potranno salvarli. Sia l'elettricità intensa a cui non
erano abituati o l'emozione prodotta dalle nostre
meravigliose opere, il loro cervello ha subito una scossa
tale da non guarire mai più. Conduceteli fra le montagne
dell'Alvernia, nel sanatorio del mio amico Bandin. Chissà!
Forse l'aria vivificante di quelle vette potrebbe operare un
miracolo."
Lo stesso giorno, il signor Holker con due infermieri e i
due pazzi saliva su un vascello volante noleggiato
appositamente e partiva per l'Alvernia.
Un mese più tardi egli riprendeva solo e triste la
ferrovia di Parigi per far ritorno in America. Ormai aveva
perduta ogni speranza.
Brandok e Toby erano stati dichiarati pazzi, e per di
più pazzi inguaribili.
"Tanto valeva che non si fossero risvegliati dal
loro sonno secolare" mormorò il signor Holker con un
lungo sospiro, prendendo posto nello scompartimento del
carrozzone. "Io ora mi domando se aumentando la
tensione elettrica, l'umanità intera, in un tempo più o
meno lontano, non finirà per impazzire. Ecco un grande
problema che dovrebbe preoccupare le menti dei nostri
scienziati."
FINE
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