Dopo quei due spari, che annunciavano qualche cosa di grave,
essendosi uditi verso la sinistra, ossia nella direzione in cui si
trovava la pagoda sotterranea, era tenuto dietro un lungo silenzio.
Quei due colpi dovevano essere stati sparati dalle sentinelle,
che vegliavano fra le macchie che circondavano l'immensa roccia.
Sandokan conosceva troppo bene le carabine dei suoi uomini per non
ingannarsi.
- Che abbiano fatto fuoco contro qualche spia? - chiese
Tremal-Naik a Sandokan, il quale, curvo sulla prora della bangle,
ascoltava attentamente.
- Non lo so - rispose il pirata. - Tuttavia le mie inquietudini
sono cresciute. Si direbbe che io prevedo qualche tradimento.
- Può essere anche un falso allarme, amico, - disse Tremal-Naik.
- Taci! -
Altri due spari rintronarono in quell'istante, seguìti quasi
subito da una scarica nutrita.
- Queste non sono le carabine dei miei uomini! - esclamò
Sandokan. - Si attacca il nostro rifugio! Presto amici, date dentro
ai remi! I minuti sono preziosi! -
I malesi non avevano certo bisogno di essere incoraggiati.
Arrancavano furiosamente facendo fare alla pesante barcaccia dei
veri salti.
Ormai nessuno più dubitava che la pagoda sotterranea fosse stata
assalita. Le scariche si succedevano alle scariche ed echeggiavano
dietro la roccia.
Sandokan si era messo a passeggiare pel ponte come una tigre in
gabbia. Di quando in quando si fermava per tendere gli orecchi, poi
gridava:
- Presto! Presto, amici! Assalgono i nostri compagni. -
Anche Tremal-Naik era diventato nervosissimo e tormentava il
grilletto della sua carabina, ripetendo a sua volta:
- Sì presto, presto! -
Un combattimento furioso doveva essere stato impegnato dinanzi
l'entrata della pagoda.
Sandokan distingueva nettamente gli spari delle carabine malesi,
le quali avevano un suono più forte di quelle indiane.
La bangle finalmente, sotto un ultimo e più poderoso sforzo dei
rematori, toccò la riva quasi di fronte alla roccia.
- Gettate l'ancora e seguitemi! - gridò Sandokan:'
- Ed il fakiro? - chiese Tremal-Naik.
- Che un uomo, ma uno solo, rimanga a guardia di lui, - rispose
Sandokan. - Già non potrà scappare.
Su, lesti e non fate rumore. Prenderemo gli indiani alle spalle!
-
Balzarono a terra e si cacciarono fra le macchie, mentre la
fucileria continuava a rumoreggiare con crescente intensità
ripercuotendosi sotto le immense volte di verzura dei tara e dei
fichi baniani.
I pirati correvano veloci senza però far troppo rumore,
quantunque le detonazioni delle carabine coprissero il rompersi dei
rami.
Giunti a trecento passi dall'entrata della pagoda, Sandokan
arrestò il drappello dicendo:
- Fermatevi qui, e che nessun si muova finché non sarò
ritornato. Vieni Tremal-Naik: prima d'impegnarci a fondo andiamo a
contare i nostri avversari.
- Approvo pienamente la tua prudenza - rispose il bengalese. - Se
noi venissimo distrutti, Yanez e Surama sarebbero perduti.
Non precipitiamo quindi le cose. -
Si gettarono a terra e si allontanarono, strisciando attraverso
ad una folta macchia di banani selvatici.
Raggiunto il margine di essa si fermarono.
- Eccoli, - aveva sussurrato Sandokan. - Sono i seikki! Me l'ero
immaginato.
- Molti?
- Una quarantina per lo meno. -
Tremal-Naik si spinse un po' più innanzi, sporgendo il capo
attraverso le immense foglie d'un banano.
Una quarantina d'uomini sparava senza interruzione verso
l'entrata della pagoda sotterranea.
Erano tutti seikki e li comandava un capitano che portava
sull'elmetto un grosso ciuffo di penne rosse.
Per offrire meno bersaglio, erano tutti stesi bocconi, tuttavia
sette od otto soldati giacevano senza vita dinanzi alla pagoda.
Probabilmente quei valorosi guerrieri avevano cercato di prendere
d'assalto il rifugio ed erano stati respinti.
- Che cosa dici di fare, Sandokan? - chiese Tremal-Naik.
- Di assalirli alle spalle, senza ritardo, - rispose il pirata; -
affido però a te un pericoloso incarico.
- Quale?
- Quello d'impadronirti del capitano dei seikki. Quell'uomo mi è
assolutamente necessario.
- Vivo o morto te lo porterò.
- È vivo che mi occorre. Andiamo a chiamare i nostri uomini. -
Riattraversarono la macchia e raggiunsero i malesi che parevano
frementi di menare le mani, incominciando ad ubriacarsi coll'odore
della polvere.
- Siete pronti? - chiese Sandokan.
- Tutti, Tigre della Malesia, - risposero ad una voce.
- Tu Kammamuri seguirai il tuo padrone e non lo lascerai un
istante. -
Poi volgendosi verso i malesi aggiunse:
- Vi avverto di fare una scarica; una sola, mandando nel medesimo
tempo il vostro grido di guerra onde avvertire i compagni che si
trovano nella pagoda, poi caricate colle scimitarre. Mi avete bene
compreso?
- Sì, Tigre della Malesia.
- Avanti allora, e non dimenticate che le vecchie tigri di
Mompracem hanno sempre vinto. -
Partirono quasi a passo di corsa, tanto erano impazienti di
prendere parte al combattimento, tenendo il dito sul grilletto delle
carabine.
Sandokan li precedeva con Tremal-Naik e Kammamuri.
Quando giunsero sull'orlo della macchia, i seikki erano a soli
venti passi dall'entrata del rifugio ed il fuoco degli assediati
cominciava a rallentare.
- Giungiamo in buon punto, - disse Sandokan.
Snudò la scimitarra, impugnò una delle due pistole che portava
alla cintura, due splendide armi a doppio colpo, e si slanciò
gridando con voce tuonante:
- Su, tigri di Mompracem! -
Un urlo selvaggio, acutissimo, il grido di guerra di quei
formidabili scorridori dei mari della Sonda, echeggiò coprendo il
fragore della fucileria, seguito subito da una scarica.
I seikki che non s'aspettavano certo quell'attacco, balzarono
prontamente in piedi, mentre dall'interno della pagoda gli assediati
rispondevano al grido di guerra dei loro compagni.
Sandokan ed i suoi valorosi si erano slanciati furiosamente
all'attacco, caricando colle scimitarre e urlando come ossessi onde
farsi credere in maggior numero.
Sette od otto indiani erano caduti sotto la scarica, quindi il
loro numero erasi considerevolmente diminuito; tuttavia quantunque
fossero presi fra due fuochi, poiché gli assediati si erano pure
slanciati all'assalto, non smentirono nemmeno in quel momento la
fama di essere i più valorosi guerrieri della grande penisola
indostana.
Colla rapidità del lampo si disposero su due fronti, mettendo
anche loro mano alle scimitarre e per qualche istante sostennero il
doppio urto dei selvaggi figli della Malesia, difendendosi
disperatamente.
Disgraziatamente avevano dinanzi a loro il più famoso guerriero
della Malesia. Con un impeto irresistibile Sandokan s'era gettato in
mezzo alle file sciabolandole terribilmente e scompaginandole.
Nessuno poteva resistere a quell'uomo, che atterrava un nemico
ogni volta che la sua scimitarra calava.
Le linee sfondate da quel fulmineo attacco, si ruppero nonostante
gli sforzi che faceva il capitano per tenerle salde, poi si
sbandarono.
Nel momento però in cui scappavano da tutte le parti inseguiti
vigorosamente da una dozzina e mezzo di malesi, che facevano fuoco
onde impedire loro di riordinarsi, Tremal-Naik e Kammamuri si erano
gettati addosso al capitano, atterrandolo di colpo e legandolo
solidamente.
Sandokan frattanto si era avvicinato al vecchio Sambigliong che
teneva ben stretto il ministro Kaksa Pharaum che pareva più morto
che vivo.
- Quanti uomini hai perduto? - gli chiese con una certa ansietà
il pirata.
- Due soli, Tigre della Malesia, - rispose il vecchio tigrotto. -
Ci eravamo subito trincerati dietro le rocce, dove le palle dei
seikki non potevano raggiungerci.
- Prepariamoci a sgombrare subito.
- Lasceremo questo comodo rifugio?
- È necessario: domani i seikki torneranno in maggior numero ed
io non ho alcun desiderio di farmi chiudere in una trappola senza
uscite.
- Dove andremo dunque?
- A questo penserà Bindar. -
I malesi in quel momento ritornavano. Avevano inseguite le
guardie del rajah per cinque o seicento metri, sbandandole
completamente, poi temendo di cadere in qualche agguato, si erano
ripiegati in buon ordine verso la pagoda sparando qualche colpo di
fucile per far meglio comprendere ai fuggiaschi che si trovavano
sempre nei dintorni.
- Preparatevi alla partenza, - disse loro Sandokan. - Prendete
tutto ciò che ci può essere necessario per accamparci in mezzo
alle foreste e raggiungeteci alla bangle. Vi raccomando il ministro
ed il comandante dei seikki.
A me Bindar! E anche tu Tremal-Naik, con quattro uomini di scorta.
-
Sicuro ormai di non essere più molestato dalle guardie del rajah
si diresse verso il fiume accompagnato dai due indiani e dai quattro
malesi.
- Ora a noi, Bindar, - disse Sandokan all'indiano. - Tu conosci i
dintorni?
- Sì, sahib.
- Dove potremo trovare un nuovo rifugio sicuro? -
L'assamese pensò un momento, poi disse:
- Non potresti essere sicuro che nella jungla di Benar.
- Dove si trova?
- Sull'opposta riva del fiume, a quattro o cinque miglia di
distanza, però...
- Continua.
- È evitata perché le tigri la frequentano.
- Non preoccuparti di ciò, - rispose Sandokan alzando le spalle.
- Siamo tigri noi, quindi ben poco avremo da temere di quelle a
quattro zampe. Nessuno la percorre?
- Oh no! Hanno troppa paura.
- È folta?
- Foltissima.
- Non vi è alcun rifugio?
- Sì, un'antica pagoda semi-diroccata.
- Non domando di più.
- Si crede però, sahib, che serva di ricovero a delle bâgh.
- Ah! Benissimo, le manderemo a passeggiare altrove se non
vorranno regalarci la loro pelle. Con un po' di piombo pagheremo
loro l'affitto, è vero Tremal-Naik?
- Il nostro è di buona qualità, - rispose il bengalese. - Vale
più dell'oro, quando esce dalle nostre carabine.
- Raggiungiamo il fiume ed imbarchiamoci, - concluse Sandokan. -
Quando saremo al sicuro faremo parlare Tantia e poi vedremo
d'intenderci col comandante dei seikki.
- Io non comprendo perché tu l'abbia sempre con quei guerrieri.
- Seguo un'idea, - rispose Sandokan. - Se vi riesco, la corona
sarà assicurata a Surama. Ecco il fiume: appena giungeranno i
malesi ed i dayachi partiremo. -
Salirono a bordo della bangle che si trovava sempre ancorata
presso la riva. I due malesi di guardia chiacchieravano
tranquillamente col fakiro, che avevano però strettamente legato,
quantunque quel disgraziato, col suo braccio anchilosato, si
trovasse nell'assoluta impossibilità di tentare la fuga.
- Nessuna barca sul fiume? - rispose Sandokan.
- No, Tigre della Malesia, - rispose il malese. - Tutto è
tranquillo.
- Salpate l'ancora per ora e aspettiamo gli altri.
- Credevo che ti avessero ucciso - disse il gussain dardeggiando
sul pirata uno sguardo feroce. - Se speri di sfuggire alla vendetta
del rajah t'inganni e di molto, ladro! Non ti do una settimana di
vita.
- Ed a te nemmeno due giorni se non confesserai, amico - disse
Tremal-Naik. - Sono indiano come te e so quali mezzi adoperano i
nostri compatriotti per sciogliere le lingue.
- Tantia non ha nulla da dire: è sempre stato un povero gussain.
- Vedremo quale parte tu hai avuta nel rapimento di quella
giovane indiana, canaglia - disse Sandokan.
Il fakiro ebbe un brivido, però rispose subito, affettando un
grande stupore:
- Di quale indiana intendi parlare?
- Di quella alla quale tu hai levata l'occhiata.
- Sii maledetto da Brahma, da Siva e da Visnù e che la dea Kalì
ti divori il cuore! - urlò il gussain.
- Non sono un indiano io, quindi me ne rido delle tue maledizioni,
birbante - rispose Sandokan.
- Brahma è il dio più possente dell'universo.
- Io non credo che in Maometto, e anche quando mi pare e piace.
- Ma il tuo compagno è indù!
- E se ne ride anche lui delle tue divinità. Chiudi la bocca e
non seccarmi per ora; avrai più tardi tempo di sfogarti.
- Ecco i tuoi uomini, - disse in quell'istante Tremal-Naik.
I malesi ed i dayachi, ventisei in tutto, giungevano correndo,
carichi di pacchi, di coperte e di grosse borse di pelle contenenti
viveri e munizioni. In mezzo a loro si trovava il demjadar, ossia il
comandante dei seikki.
- V'inseguono? - chiese la Tigre accostandosi alla murata.
- Ci danno la caccia, - rispose Kammamuri.
- A bordo! -
Malesi e dayachi salirono lestamente sulla bangle, si
sbarazzarono dei loro carichi e delle armi e si precipitarono ai
remi.
- Otto uomini si tengano pronti a far fuoco, - disse Sandokan. -
Ed ora lavorate di muscoli! -
La pesante barca si staccò dalla riva e filò rapidamente verso
l'opposta onde non rimanere esposta al tiro delle carabine dei
seikki, nel caso che fossero riusciti a scoprirli.
La traversata si compì felicemente, e prima che il nemico fosse
giunto sulla riva, la bangle navigava sotto le immense arcate delle
piante curvantisi sul fiume.
Essendo colà l'ombra assai fitta, in causa delle immense fronde
dei tamarindi che crescevano in gran numero, bagnando le loro
colossali radici nell'acqua, era ormai quasi impossibile che i
seikki potessero scorgere i fuggiaschi.
D'altronde la larghezza del Brahmaputra era tale in quel punto,
da non permettere che una palla di carabina lo attraversasse.
Sandokan, dopo essersi ben assicurato che nessun pericolo lo
minacciava, almeno pel momento, potendo avvenire che più tardi le
guardie del rajah lo inseguissero con delle pinasse, od altro genere
di barche, s'avvicinò a Bindar che stava osservando attentamente la
riva insieme a Tremal-Naik.
- Vi sono dei villaggi da queste parti?
- No, sahib - rispose l'indiano. - Qui comincia la jungla
selvaggia e nessuno oserebbe abitarla per paura delle bestie feroci;
solo al di là delle paludi, dove il terreno comincia a salire, si
trovano dei bramini drauers.
- Chi sono?
- La risposta te la darò io, - disse Tremal-Naik. - Sono
sacerdoti di Brahma che hanno conservata tutta la purezza della loro
antica religione, che parlano una lingua affatto sconosciuta agli
altri, che si dipingono la fronte ed il corpo come tutti i bramini,
aggiungendo solo alla toeletta alcuni grani di riso, che portano
incollati sopra le sopracciglia.
Sono d'altronde persone tranquille che si occupano di pratiche
religiose e che quindi non ci daranno alcun fastidio.
- E vasta la jungla di Benar?
- Immensa, sahib, - rispose Bindar.
- Faremo di quella il nostro quartiere generale, - disse Sandokan.
- Se è lontana solo quindici o venti chilometri, in tre o quattro
ore potremo trovarci nella capitale dell'Assam.
- M'inquieta però la sorte di Surama, - disse Tremal-Naik. - Per
Yanez non sono preoccupato; quel diavolo d'uomo saprà sempre
cavarsela bene e sfuggire a tutte le insidie.
E poi ha sei malesi, i migliori della banda.
- Che cosa temi per Surama?
- Che il rajah la faccia uccidere. Non ha distrutto forse tutti i
suoi parenti?
- Non l'oserà, - rispose Sandokan. - Egli crede che Yanez sia
veramente un inglese e ci penserà cento volte prima di commettere
un delitto, sapendo che Surama è sotto la sua protezione.
Questi principotti hanno troppa paura del viceré del Bengala.
- Questo è vero, tuttavia questo tempo perduto in questi momenti
mi dispiace. Se perdessimo le tracce dei rapitori?
- Il gussain ci metterà sulla buona via.
- E se si ostinasse a non parlare?
- Lo costringeremo, non temere amico, - rispose Sandokan
freddamente.
Levò dalla larga fascia il suo cibuc, lo caricò di tabacco e
accesolo, si sedette sulla prora della bangle, tenendo una carabina
fra le ginocchia.
Intanto i malesi ed i dayachi arrancavano con gran lena, mentre
Bindar teneva il timone.
Essendo la corrente debolissima, non avendo i grandi fiumi
dell'India molta pendenza, l'imbarcazione, quantunque fosse pesante
e avesse la prora assai rotonda procedeva abbastanza rapidamente,
filando sempre sotto le arcate degli alberi che si succedevano
continuamente, senza la minima interruzione.
Ora erano colossali tamarindi, ora mirti, o sangore drago o
nargassa, meglio conosciuti sotto il nome di alberi del ferro,
perché differiscono ben poco da quelli brasiliani, che sono così
resistenti da rompere il filo delle scuri meglio temprate.
Di quando in quando comparivano sulla riva delle bande di
sciacalli e di lupi indiani; ma dopo aver ululato o latrato su vari
toni contro i remiganti, s'affrettavano a rinselvarsi onde cercare
delle prede più facili.
Alle quattro del mattino, nel momento in cui i pappagalli
cominciavano a strillare in mezzo ai rami dei tamarindi, e le anitre
e le oche ad alzarsi al disopra dei canneti, Bindar, che da parecchi
minuti osservava attentamente la riva, con un poderoso colpo di
timone fece deviare la bangle.
- Che cosa fai? - chiese Sandokan balzando in piedi.
- Vi è una laguna, sahib, dinanzi a noi, - rispose l'indiano. -
Entro nella jungla di Benar e là saremo perfettamente sicuri.
- Vira allora. -
La bangle si trovava dinanzi ad una vasta apertura. La riva era
tagliata da un canale ingombro di piante acquatiche, le quali però
non impedivano il passaggio, essendo radunate in gruppi piuttosto
lontani gli uni dagli altri.
Un numero straordinario di uccelli volteggiava gridando, al
disopra di quella laguna.
Cicogne di dimensioni straordinarie, grossi avvoltoi che avevano
le penne bianche ed il petto quasi nudo; miopi, volatili meno forti
delle prime e dei secondi, ma che per destrezza li vincono entrambi;
piccoli uccelli del paradiso e moltissime anitre scappavano in tutte
le direzioni descrivendo dei giri immensi, per tornare poco dopo a
calarsi intorno alla grossa barca, senza dimostrare soverchia paura.
Se in quel luogo si trovavano tanti volatili, era segno che gli
abitanti mancavano assolutamente.
Oltrepassato il canale, dinanzi agli sguardi di Sandokan e di
Tremal-Naik apparve un bacino immenso, che rassomigliava ad un lago
e le cui rive erano coperte da alberi altissimi, per lo più
manghieri, già carichi di quelle grosse e belle frutta che si
fendono come le nostre pesche, delle quali se ne servono gli indù
per metterle nel carri, onde dare a quell'intruglio un gusto di
più, e da splendidi banani dalle foglie immense.
- Approdiamo, - disse Bindar.
- Dov'è la jungla? - chiese Sandokan.
- Dietro quegli alberi, sahib. Comincia subito.
- A terra. -
La bangle sfondò le erbe galleggianti lacerando vere masse di
piante di loto e si arenò sulla riva che in quel luogo era molto
bassa.
- Copriamola onde non la trovino e se la portino via, - disse
Sandokan.
- È inutile, sahib - disse Bindar. - Questa palude è più
pericolosa e perciò più temuta del terribile lago di Jeypore.
- Non ti comprendo.
- Guarda in mezzo a quelle piante acquatiche -.
Sandokan e Tremal-Naik seguirono cogli sguardi la direzione che
l'indiano indicava loro e videro comparire tre o quattro teste
mostruose e aguzze.
- Coccodrilli! - esclamò la Tigre della Malesia.
- E molti, sahib, - rispose Bindar. - Qui ve ne sono delle
centinaia, fors'anche delle migliaia.
- Che non ci faranno paura. L'amico Tremal-Naik conosce quei
brutti sauriani.
- Nella jungla nera pullulavano, - rispose il bengalese. - Ne ho
uccisi moltissimi e ti posso anche dire che sono meno pericolosi di
quello che si crede -.
I malesi ed i dayachi si caricarono dei loro pacchi, presero le
armi e scesero a terra, dopo aver saldamente ancorata la bangle.
- È lontana la pagoda? - chiese Sandokan.
- Appena un miglio, sahib.
- In marcia. -
Formarono la colonna e s'inoltrarono sotto gli alberi, tenendo in
mezzo il fakiro, il demjadar dei seikki ed il ministro Kaksa
Pharaum.
Oltrepassata la zona alberata che era limitatissima, il drappello
si trovò dinanzi ad una immensa pianura coperta di bambù
altissimi, appartenenti quasi tutti alla specie spinosa. Rari alberi
sorgevano qua e là, a grandi distanze, per lo più erano borassi
dal fusto altissimo e dalle larghe e lunghe foglie disposte ad
ombrello.
- Cercate di non fare rumore, - disse Bindar. - Le belve non
hanno ancora raggiunti i loro covi e potrebbero assalirci
d'improvviso.
- Non aver paura per noi, - rispose Sandokan.
Tutti si tolsero le carabine che fino allora avevano tenute a
bandoliera e la piccola colonna si cacciò in mezzo a quel mare di
verzura, nel più profondo silenzio.
Fortunatamente Bindar aveva trovato un largo solco, aperto forse
dall'enorme massa di qualche elefante selvaggio, o da qualche
rinoceronte, sicché il drappello poteva avanzarsi rapidamente senza
aver bisogno di abbattere quelle canne gigantesche.
Di quando in quando l'indiano, che camminava alla testa della
colonna, si fermava per ascoltare, poi riprendeva la marcia più
velocemente, lanciando occhiate sospettose in tutte le direzioni.
Dopo mezz'ora si trovarono improvvisamente dinanzi ad una vasta
radura, ingombra solamente di sterpi e di kalam: quelle erbe
altissime che sono taglienti come spade.
In mezzo s'ergeva una costruzione barocca, che rassomigliava ad
un immenso cono allargantesi alla base, con molte fenditure in tutta
la sua lunghezza.
Tutto il rivestimento esterno era crollato, sicché si scorgevano
accumulati a terra pezzi di statue, di animali e soprattutto un
numero infinito di teste d'elefante.
Una gradinata, la sola forse che si trovasse ancora in ottimo
stato, conduceva ad un portone che non aveva più porte.
- È questa la pagoda? - chiese Sandokan fermando il drappello.
- Sì, sahib, - rispose Bindar.
- Non ci crollerà addosso?
- Se ha resistito tanto alle ingiurie del tempo, non saprei
perché dovesse sfasciarsi proprio ora, - disse Tremal-Naik. -
Andiamo a vedere in quale stato si trova l'interno. -
Stava per dirigersi verso la gradinata seguìto da Sandokan e dai
malesi che avevano accese due torce, quando Bindar gli si parò
davanti dicendo:
- Fermati, sahib.
- Che cosa vuoi ancora?
- Ti ho già detto che questa pagoda serve d'asilo a belve
feroci.
- Ah! è vero - disse Sandokan. - Me n'ero scordato. Sei sicuro
però che abbiano là dentro il loro covo?
- Così ho udito raccontare.
- Che cosa dici tu, Tremal-Naik?
- Talvolta le tigri si servono delle pagode disabitate, - rispose
il bengalese.
- Andremo a rassicurarci se la notizia è vera o falsa, - disse
Sandokan. - Kammamuri prendi una torcia e seguici.
Voialtri fermatevi qui, formate una catena e se le belve cercano
di fuggire... -
In quel momento un grido rauco, poco sonoro, echeggiò verso la
porta della pagoda e quasi subito due punti verdastri,
fosforescenti, scintillarono fra la profonda oscurità che regnava
dentro quell'enorme cono.
Bindar aveva fatto due passi indietro, mormorando con voce
tremante:
- Le kerkal! Non si sono ingannati quelli che me l'hanno detto.
- Sono tigri? - aveva chiesto Sandokan.
- No, sahib: pantere.
- Benissimo - rispose il pirata colla sua solita calma. - Vieni,
Tremal-Naik, andremo a far conoscenza con quelle signore. Finora non
ho ucciso che delle pantere nere che pullulano nel Borneo. Andiamo a
vedere se quelle indiane sono migliori o peggiori. - |