VI. La condanna di morte.
Uscita dalla pagoda, Ada, ancora commossa, col volto ancor
bagnato di lagrime, ma gli occhi sfavillanti di fierezza, era
entrata in un piccolo salotto coperto da stuoie dipinte e
decorato da mostruose divinità, poco dissimili da quelle di
già descritte. Il serpente dalla testa di donna, la statua di
bronzo dal volto orribile e la vasca di marmo bianco col
pesciolino rosso, non mancavano.
Un uomo era di già entrato e passeggiava innanzi e
indietro con visibile impazienza. Era un indiano di alta
statura, magro come un bastone, col volto energico, lo sguardo
lampeggiante e feroce, e il mento coperto da una piccola barba
nera ed arruffata. Portava, avvolto attorno al corpo, un ricco
dootèe, specie di mantello di seta gialla, trapunto in oro
con in mezzo il misterioso emblema. Le braccia che aveva nude,
erano coperte di cicatrici bianche e da bizzarri segni, che un
indiano stesso si sarebbe rotto il capo senza pur decifrarli.
Nello scorgere Ada, quest'uomo si era fermato di botto
fissando su di lei uno sguardo che aveva dei bagliori strani,
e le sue labbra s'atteggiarono ad un riso, anzi ad un
sogghigno che incuteva spavento.
- Salve alla vergine della pagoda - diss'egli,
inginocchiandosi dinanzi alla giovanetta.
- Salve al gran capo prediletto della divinità, rispose
Ada con voce tremante.
Entrambi tacquero, guardandosi fissamente. Pareva che
cercassero reciprocamente di leggersi il pensiero che
attraversava la loro mente.
- Vergine della pagoda sacra, - disse dopo qualche tempo
l'indiano, - tu corri un gran pericolo.
Ada fremette. L'accento dell'indiano era cupo e minaccioso.
- Dove sei stata questa notte? Mi dissero che tu sei
entrata nella pagoda.
- È vero. Tu mi inviasti dei profumi e li versai ai piedi
della tua divinità.
- Dici la nostra.
- Sì, la nostra, - disse la giovanetta coi denti stretti.
- Cos'hai veduto nella pagoda?
- Nulla.
- Vergine della pagoda, tu corri un gran pericolo, -
ripeté l'indiano con voce ancor più cupa. - Io ho scoperto
tutto!...
Ada aveva fatto un balzo indietro, gettando un urlo
d'orrore.
- Sì, - proseguì l'indiano con rabbia concentrata, - ho
scoperto tutto! Il tuo cuore, condannato a non battere mai su
questa terra, ha palpitato d'amore per un uomo che tu vedesti
nella jungla nera. Quest'uomo è sbarcato la notte scorsa sui
nostri domini e dopo d'aver alzato la mano su di noi, d'aver
commesso un orrendo delitto, scomparve, ma io lo ritrovai.
Quest'uomo è entrato nella pagoda.
- Tu menti! tu menti! - esclamò la sventurata giovanetta.
- Vergine della pagoda, amando quell'uomo hai mancato ai
tuoi doveri. Buon per te che quell'uomo non ardì alzare le
sue mani su di te.
- Tu menti! tu menti! - ripeté la giovanetta, smarrita.
- Ma quell'uomo non uscirà vivo di qui, - ripigliò
l'indiano con gioia feroce. - Folle, ei voleva sfidare noi
potenti, noi che facciamo tremare l'Inghilterra. Il serpente
entrò nella tana del leone e il leone lo sbranerà.
- Non farlo!
L'indiano si mise a sogghignare.
- Chi è che s'oppone ai voleri della nostra divinità?
- Io!
- Tu?
- Sì, io, miserabile. Guarda!
Ada con un movimento rapido, aveva gettato a terra il sari,
s'era armata di un pugnale dalla lama serpeggiante tinta d'un
sottile veleno e se l'aveva appuntato alla gola. L'indiano da
abbronzato che era, divenne nerastro.
- Cosa vuoi fare? - chiese egli, sgomentato.
- Suyodhana, - disse la giovanetta con un tono di voce da
non lasciare dubbio. - Se tu tocchi un sol capello a
quell'uomo, ti giuro che la tua dea perderà la sua vergine.
- Getta quel pugnale!
- Suyodhana, giura sulla tua dea che Tremal-Naik uscirà
vivo di qui.
- È impossibile. Quell'uomo è condannato: il suo sangue
è già destinato alla dea.
- Giuralo! - disse Ada con accento minaccioso.
Suyodhana si raccolse su se stesso come per slanciarsi
verso di lei, ma la paura di giungere troppo tardi l'arrestò.
- Senti, vergine della pagoda, - disse egli, ostentando
calma. - Quell'uomo sarà salvo, ma tu devi solennemente
giurare che non l'amerai mai!
Ada mandò uno straziante gemito e si torse disperatamente
le mani.
- Tu mi uccidi! - esclamò ella, singhiozzando.
- Sei l'eletta della nostra dea.
- Perché, mostruose creature, troncare sì presto una
felicità appena nata? Perché spegnere sì presto il raggio
di sole che inondava questo povero cuore chiuso ad ogni gioia?
No, non è possibile ch'io infranga questa passione che è
ormai gigante.
- Giuralo e quell'uomo è salvo.
- Sei tu dunque inesorabile? Non v'è più adunque alcuna
speranza? Ma io rinnego la spaventevole tua dea che mi fa
orrore, che maledii sin dal primo giorno che la fatalità mi
gettò fra le vostre braccia.
- Siamo inesorabili, - incalzò l'indiano
- Ma non hai tu adunque mai amato? - chiese ella, piangendo
di rabbia. - Non sai adunque cosa sia una passione infranta?
- Non so cosa sia l'amore, - disse l'inflessibile indiano.
- Giura, vergine della pagoda, o io spengo quell'uomo.
- Ah! maledetti!...
- Giura!
- Ebbene!... - esclamò l'infelice con voce spenta.- Io...
io giuro... che non amerò... più quell'uomo.
Emise un urlo disperato, straziante, si portò le mani al
cuore e cadde priva di sensi sulle stuoie. L'indiano ruppe in
uno scroscio di risa.
- Tu hai giurato che non l'amerai, - diss'egli con satanica
gioia, raccogliendo il pugnale che la giovanetta aveva
lasciato cadere. - Ma io non ho giurato che quell'uomo uscirà
vivo di qui. Sorridi, eccelsa divinità e gioisci: questa
notte ti offriremo una nuova vittima!
Accostò alle labbra uno zuffolo d'oro e cavò un acuto
fischio.
Un indiano, col laccio stretto attorno ai fianchi ed il
pugnale in mano entrò, inginocchiandosi dinanzi a Suyodhana.
- Figlio delle sacre acque del Gange, eccomi, diss'egli.
- Karna, - disse Suyodhana, - porta via la vergine della
pagoda e veglia su di lei.
- Conta su di me, figlio delle sacre acque del Gange.
- Quella vergine tenterà forse di suicidarsi, ma tu glielo
impedirai, giacché la nostra divinità non ha per ora che
costei. Se muore, morrai tu pure.
- Lo impedirò.
- Radunerai poscia una cinquantina dei più fanatici e li
disporrai intorno alla pagoda. L'uomo non deve sfuggirci.
- V'è un uomo nella pagoda?
- Sì, Tremal-Naik, il cacciatore di serpenti della jungla
nera. Va ed a mezzanotte sii qui.
L'indiano afferrò la povera Ada fra le braccia ed uscì.
Suyodhana, o meglio il figlio delle sacre acque del Gange,
aspettò che ogni rumore di passi fosse cessato, poi
s'inginocchiò dinanzi alla vaschetta di marmo, nella quale
guizzava il pesciolino dorato.
- Padre mio, - diss'egli.
Il pesciolino che nuotava in fondo al bacino, a quella voce
venne a galla.
- Padre mio, - proseguì l'indiano. - Un uomo, un
miserabile, ha alzato gli occhi sulla vergine della pagoda.
Quest'uomo è in mano nostra; vuoi che viva o che muoia?
Il pesciolino si sprofondò nuotando con vivacità.
Suyodhana si alzò di scatto: un sinistro lampo balenò nei
suoi sguardi.
- La dea l'ha condannato, - diss'egli con voce cupa... -
Quell'uomo morrà!
Tremal-Naik, rimasto solo, s'era lasciato cadere ai piedi
della statua comprimendosi fortemente il cuore che battevagli
furiosamente, come se volesse uscirgli dal petto. Giammai
un'emozione simile aveva scosso le sue fibre; giammai aveva
provato tanta gioia, nella solitaria e selvaggia sua vita fra
le canne e le tigri.
- Bella! bella! - esclamava egli, senza por mente che
trovavasi nella pagoda maledetta e che forse cento orecchi
l'ascoltavano. - Oh! sarai mia sposa, sì, vago fiore della
jungla, dovessi mettere a ferro e a fuoco questa isola,
dovessi da solo cozzare coi mostri che ti hanno condannato.
Uscirò di qui, ritroverò i miei prodi compagni ed allora ti
rapirò, ti salverò. Essi son forti, tu hai detto, essi sono
terribili, ma io sarò più forte e più terribile e farò
loro scontare a caro prezzo quelle lagrime che tu, infelice,
hai sparso dinanzi a me. L'amore mi darà la forza di compiere
tale impresa. - Si era alzato e si era messo a passeggiare,
agitatissimo, colle pugna convulsivamente chiuse ed i
lineamenti sconvolti da una rabbia concentrata.
- Povera Ada! - ripigliò egli, con profonda tenerezza. -
Qual destino mai pesa su di te? Perché tu non puoi amarmi? La
morte troncherà la tua vita, hai detto, il giorno che tu
dovessi diventar mia sposa; ma io l'arresterò questa morte,
io la infrangerò colle mie proprie mani.
Oh! svelerò sì, questo tremendo mistero e quel giorno
tremino gli sciagurati che ti condannarono.
Egli s'arrestò udendo le acute note del ramsinga.
- Maledetto istrumento! - esclamò. - Suona sempre!
Rabbrividì al pensiero che gli attraversò il cervello.
- Questa tromba annuncia una sventura, - mormorò. - Che
m'abbiano scoperto o che abbiano ucciso Kammamuri?
Rattenne il respiro tendendo gli orecchi. Il suo fine udito
raccolse un brusìo di voci, che sembravano venire dal di
fuori.
- Cosa vuol dir ciò? Al di fuori v'è della gente. Che
sieno gli indiani, gli abitanti di questi funebri luoghi?
Si guardò intorno con superstizioso terrore, ma era
affatto solo, guardò l'apertura della pagoda, ma era affatto
libera.
- Qualche cosa sta per succedere, lo sento, disse a voce
bassa, - ma mostrerò chi sia Tremal-Naik, quando si batte.
Esaminò le cariche delle pistole e della carabina, temendo
forse che una mano misteriosa le avesse levate; esaminò
persino la lama del suo fedele pugnale, tinto più di cento
volte nel sangue dei serpenti e delle tigri, e s'accoccolò
dietro alla mostruosa statua, rimpicciolendosi più che gli
era possibile.
La giornata passò con una lentezza spaventevole per
l'indiano, condannato ad una immobilità quasi assoluta e ad
un digiuno forzato.
Le ombre della notte a poco a poco invero i più oscuri
recessi della pagoda, poi s'alzarono gradatamente verso la
cupola: alle nove l'oscurità era così profonda, da non
vederci ad un passo di distanza, quantunque la luna brillasse
in cielo, riflettendosi sulla grande palla di bronzo dorato e
sul serpente dalla testa di donna.
Il ramsinga non aveva più fatto udire le sue funebri note
ed il brusìo era da lunga pezza cessato. Un silenzio
misterioso regnava dappertutto.
Tremal-Naik tuttavia non ardiva muoversi; il solo movimento
che facesse, era quello di appoggiare l'orecchio sulle fredde
pietre della pagoda e di ascoltare con profonda attenzione.
Una voce segreta gli diceva di vegliare e di diffidare e
ben presto si accorse che quella voce non mentiva, poiché
verso le undici, quando più fitte erano le tenebre, un rumore
strano, non ancor definibile, giunse fino a lui.
Pareva che qualche cosa scendesse dall'alto, seguendo la
corda che sosteneva la lampada. Tremal-Naik per quanto
aguzzasse gli occhi non fu però capace di distinguere ciò
che fosse. Per ogni precauzione impugnò le pistole e
silenziosamente s'alzò, ponendosi in ginocchio.
- Che può esser mai? - si chiese egli. - Ada, no poiché
mezzanotte è ancor lontana. Che sieno quei terribili uomini?
Una vampa d'ira gli salì in volto.- Sfortuna a colui che
qui entra!
Un tintinnìo metallico risuonò fra le tenebre. Era la
lampada che si agitava, scossa senza dubbio da colui che
scendeva dall'alto. Tremal-Naik non si trattenne più.
- Chi è là? - gridò egli.
Nessuno rispose alla domanda, anzi il tintinnìo cessò.
- Che mi sia ingannato? - si domandò egli.
Si alzò e guardò in aria. Lassù, sulla cupola, la luna
continuava a riflettersi sulla palla dorata e scorgevasi una
parte della fune vegetale che sosteneva la lampada, ma nessuno
essere umano v'era appeso.
- È strano, - disse Tremal-Naik, diventato inquieto.
Tornò a rannicchiarsi continuando a guardarsi d'intorno.
Passarono altri venti minuti, poi la lampada tornò a
tintinnare.
- Chi è là? - ripete egli con voce stridula. - Se v'è
qualcuno si faccia innanzi, che Tremal-Naik lo attende.
Nuovo silenzio. Allora s'aggrappò ai piedi della
gigantesca statua, salì sulle braccia, si elevò fino a
posare i piedi sulla testa ed afferrò la lampada scuotendola
furiosamente. Uno scroscio di risa risuonò nella pagoda.
- Ah, - esclamo Tremal-Naik, che sentivasi invadere dalla
rabbia. - V'è qualcuno che ride lassù. Aspetta!
Radunò le sue erculee forze, poi con una strappata
irresistibile spezzò la fune. La lampada rovinò al suolo con
un fracasso indescrivibile, che gli echi del tempio più volte
ripeterono.
Un secondo scroscio di risa risuonò. Tremal-Naik si
precipitò giù dalla statua, nascondendovisi dietro.
Era tempo. Una porta s'aprì ed un indiano alto e magro,
riccamente vestito, con un pugnale in una mano e una torcia
resinosa nell'altra, apparve.
Quell'uomo era il truce Suyodhana: una gioia infernale
irradiava il bronzeo suo volto e ne' suoi occhi balenava un
sinistro lampo. Egli si arrestò un momento a contemplare la
mostruosa divinità, dietro la quale stava Tremal-Naik col
coltello fra i denti e le pistole in pugno poi fece alcuni
passi innanzi. Dietro a lui si avanzarono ventiquattro
indiani, ponendosi dodici a destra e dodici a sinistra.
Erano tutti armati di pugnale e del cordone di seta colla
palla di piombo.
- Figli miei, - disse Suyodhana con un accento da far
fremere, - è mezzanotte! - Gli indiani sciolsero le corde,
brandirono i pugnali e piantarono le torcie in alcuni buchi
fatti nelle pietre.
- Siamo pronti alla vendetta! - risposero in coro.
- Un empio, - proseguì Suyodhana, - ha profanato la pagoda
della nostra dea. Cosa merita quest'uomo?
- La morte, - risposero gl'indiani.
- Un empio ardì parlare d'amore alla vergine della pagoda.
Cosa merita quest'uomo?
- La morte, - ripeterono gl'indiani.
- Tremal-Naik! - gridò Suyodhana con terribile accento. -
Mostrati!
Uno scroscio di risa gli rispose, poi il cacciatore di
serpenti, che tutto aveva udito, apparve, slanciandosi con un
solo salto dinanzi alla mostruosa divinità.
Non era più lo stesso uomo; pareva una vera tigre sbucata
dalla jungla. Un feroce sorriso sfiorava le sue labbra, la sua
faccia era truce, alterata da una collera furiosa e gli occhi
mandavano sinistri baleni.
Il selvaggio figlio della jungla si risvegliava, pronto a
ruggire ed a mordere.
- Ah! Ah! - esclamò egli ridendo. - Siete voi che volete
uccidere Tremal-Naik?
Si vede che non conoscete ancora il cacciatore di serpenti.
Guardate, assassini, quanto vi disprezzo.
Alzò in aria le due pistole e le scaricò, gettando
lontano da sé le armi. Scaricò dipoi la carabina e
l'impugnò per la canna per servirsene come d'una mazza.
- Ora, - diss'egli, - chi si sente tanto ardito da assalire
Tremal-Naik, si faccia innanzi. Mi batto per la donna, che
voi, o maledetti, condannaste.
Fece un salto indietro e si mise sulla difensiva, emettendo
il suo urlo di guerra.
- Avanti! avanti! - tuonò. - Mi batto per la vergine della
pagoda!
- Un indiano, senza dubbio il più fanatico, gli si
avventò contro, facendo fischiare in aria il laccio. Sia che
avesse preso troppo slancio o che scivolasse, egli venne a
cadere quasi ai piedi di Tremal-Naik.
La terribile mazza s'alzò e discese con rapidità fulminea
percotendo il cranio dell'indiano. La morte fu istantanea.
- Avanti! avanti! - ripeté Tremal-Naik. - Mi batto per la
mia Ada!
I ventitré indiani si scagliarono come un sol uomo sul
cacciatore di serpenti, che roteava come un demente la
carabina.
Un altro indiano cadde, ma la carabina non resse a quel
secondo colpo e si spezzò nelle mani di colui che
l'adoperava.
- A morte! a morte! - vociarono gl'indiani, spumanti d'ira.
Un laccio piombò su Tremal-Naik stringendogli il collo, ma
egli lo strappò di mano allo strangolatore, poi impugnò il
coltello e si avventò contro la statua di bronzo salendole
sulla testa.
- Largo! largo! - gridò egli, girando intorno sguardi
feroci.
Si raccolse su se stesso come una tigre e saltando sopra le
teste degl'indiani cercò dirigersi verso la porta, ma gli
mancò il tempo.
Due corde gli strinsero le braccia, percuotendolo
dolorosamente colle palle di piombo e lo atterrarono.
Egli gettò un urlo terribile. Gl'indiani in un baleno gli
furono sopra come una torma di cani attorno al cinghiale, e
malgrado la sua forte resistenza venne solidamente legato e
ridotto all'impotenza.
- Aiuto! aiuto! - rantolò egli.
- A morte! a morte! - gridarono gli indiani.
Con uno sforzo erculeo spezzò due corde, ma fu tutto
quello che poté fare. Nuovi lacci lo strinsero, e così
fortemente, che le carni divennero nere.
Suyodhana, che aveva assistito impassibile a quella
disperata lotta di un uomo solo contro ventidue, gli si
avvicinò e lo contemplò per alcuni istanti con gioia
satanica. Tremal-Naik nulla potendo fare, gli sputò contro.
- Empio! - esclamò il figlio delle sacre acque del Gange.
Afferrò con mano solida il suo pugnale e l'alzò sul
prigioniero che lo guardava sdegnosamente.
- Figli miei, - disse l'indiano, - qual pena merita
quest'uomo?
- La morte! - risposero gl'indiani.
- E la morte sia.
Tremal-Naik emise un ultimo grido.
- Ada! Povera Ada!
La lama del vendicatore che penetravagli nel petto, gli
spense la voce. Sbarrò gli occhi, li chiuse, uno spasimo
violento agitò le sue membra e si irrigidì. Un rivo di
sangue caldo scorreva per le sue vesti, disperdendosi per le
pietre.
- Kâlì! - disse Suyodhana, volgendosi verso la statua di
bronzo.- Scrivi sul tuo nero libro, il nome di questa nuova
vittima.
Ad un cenno due indiani sollevarono l'infelice Tremal-Naik.
- Gettatelo nella jungla a pasto delle tigri, concluse il
terribile uomo. - Così periscono gli empi!...
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