home

De Bibliotheca

email

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

PRINCIPJ DI SCIENZA NUOVA

D'INTORNO ALLA COMUNE NATURA DELLE NAZIONI,

IN QUESTA TERZA IMPRESSIONE DAL MEDESIMO AUTORE

IN UN GRAN NUMERO DI LUOGHI CORRETTA,

SCHIARITA. E NOTABILMENTE ACCRESCIUTA

1744

Giambattista Vico

LIBRO TERZO

DELLA DISCOVERTA DEL VERO OMERO.

I

II

I

DELLA DISCOVERTA DEL VERO OMERO

Quantunque la sapienza poetica, nel libro precedente già dimostrata essere stata la sapienza volgare de' popoli della Grecia, prima poeti teologi e poscia eroici, debba ella portare di séguito necessario che la sapienza d'Omero non sia stata di spezie punto diversa; però, perché Platone ne lasciò troppo altamente impressa l'oppenione che fusse egli fornito di sublime sapienza riposta (onde l'hanno seguìto a tutta voga tutti gli altri filosofi, e sopra gli altri Plutarco ne ha lavorato un intiero libro), noi qui particolarmente ci daremo ad esaminare se Omero mai fusse stato filosofo; sul qual dubbio scrisse un altro intiero libro Dionigi Longino, il quale da Diogene Laerzio nella Vita di Pirrone sta mentovato.

1.

DELLA SAPIENZA RIPOSTA C'HANNO OPPINATO D'OMERO.

Perché gli si conceda pure ciò che certamente deelesi dare, ch'Omero dovette andar a seconda de' sensi tutti volgari, e perciò de' volgari costumi della Grecia, a' suoi tempi barbara, perché tali sensi volgari e tai volgari costumi danno le propie materie a' poeti. E perciò gli si conceda quello che narra: - estimarsi gli dèi dalla forza, - come dalla somma sua forza Giove vuol dimostrare, nella favola della gran catena, ch'esso sia il re degli uomini e degli dèi, come si è sopra osservato; sulla qual volgar oppenione fa credibile che Diomede ferisce Venere e Marte con l'aiuto portatogli da Minerva, la quale, nella contesa degli dèi, e spoglia Venere e percuote Marte con un colpo di sasso (tanto Minerva nella volgar credenza era dea della filosofia! e sì ben usa armadura degna della sapienza di Giove!). Gli si conceda narrare il costume immanissimo (il cui contrario gli autori del diritto natural delle genti vogliono essere stato eterno tralle nazioni), che pur allora correva tralle barbarissime genti greche (le quali si è creduto avere sparso l'umanità per lo mondo), di avvelenar le saette (onde Ulisse per ciò va in Efira, per ritruovarvi le velenose erbe) e di non seppellire i nimici uccisi in battaglia, ma lasciargli inseppolti per pasto de' corvi e cani (onde tanto costò all'infelice Priamo il riscatto del cadavero di Ettore da Achille, che, pure nudo, legato al suo carro, l'aveva tre giorni strascinato d'intorno alle mura di Troia).

Però, essendo il fine della poesia d'addimesticare la ferocia del volgo, del quale sono maestri i poeti, non era d'uom saggio di tai sensi e costumi cotanto fieri destar nel volgo la maraviglia per dilettarsene, e col diletto confermargli vieppiù. Non era d'uom saggio al volgo villano destar piacere delle villanie degli dèi nonché degli eroi, come, nella contesa, si legge che Marte ingiuria "mosca canina" a Minerva, Minerva dà un pugno a Diana, Achille ed Agamennone, uno il massimo de' greci eroi, l'altro il principe della greca lega, entrambi re, s'ingiuriano l'un l'altro "cani", ch'appena ora direbbesi da' servidori nelle commedie.

Ma, per Dio! qual nome più propio che di "stoltezza" merita la sapienza del suo capitano Agamennone, il quale dev'essere costretto da Achille a far suo dovere di restituire Criseide a Crise, di lei padre, sacerdote d'Apollo, il qual dio per tal rapina faceva scempio dell'esercito greco con una crudelissima pestilenza? e, stimando d'esservi in ciò andato del punto suo, credette rimettersi in onore con usar una giustizia ch'andasse di séguito a sì fatta sapienza, e toglier a torto Briseide ad Achille, il qual portava seco i fati di Troia, acciocché, disgustato dipartendosi con le sue genti e con le sue navi, Ettore facesse il resto de' greci ch'erano dalla peste campati? Ecco l'Omero finor creduto ordinatore della greca polizia o sia civiltà, che da tal fatto incomincia il filo con cui tesse tutta l'Iliade, i cui principali personaggi sono un tal capitano ed un tal eroe, quale noi facemmo vedere Achille ove ragionammo dell'Eroismo de' primi popoli! Ecco l'Omero innarrivabile nel fingere i caratteri poetici, come qui dentro il farem vedere, de' quali gli più grandi sono tanto sconvenevoli in questa nostra umana civil natura! Ma eglino sono decorosissimi in rapporto alla natura eroica, come si è sopra detto, de' puntigliosi.

Che dobbiam poi dire di quello che narra: i suoi eroi cotanto dilettarsi del vino, e, ove sono afflittissimi d'animo, porre tutto il lor conforto, e sopra tutti il saggio Ulisse, in ubbriacarsi? Precetti invero di consolazione, degnissimi di filosofo!

Fanno risentire lo Scaligero quasi tutte le comparazioni prese dalle fiere e da altre selvagge cose. Ma concedasi ciò essere stato necessario ad Omero per farsi meglio intendere dal volgo fiero e selvaggio: però cotanto riuscirvi, che tali comparazioni sono incomparabili, non è certamente d'ingegno addimesticato ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sì varie e sanguinose battaglie, tante, sì diverse e tutte in istravaganti guise crudelissime spezie d'ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimità dell'Iliade.

La costanza poi, che si stabilisce e si ferma con lo studio della sapienza de' filosofi, non poteva fingere gli dèi e gli eroi cotanti leggieri, ch'altri ad ogni picciolo motivo di contraria ragione, quantunque commossi e turbati, s'acquetano e si tranquillano; - altri nel bollore di violentissime collere, in rimembrando cosa lagrimevole, si dileguano in amarissimi pianti (appunto come nella ritornata barbarie d'Italia - nel fin della quale provenne Dante, il toscano Omero, che pure non cantò altro che istorie - si legge che Cola di Rienzo - la cui Vita dicemmo sopra esprimer al vivo i costumi degli eroi di Grecia, che narra Omero, - mentre mentova l'infelice stato romano oppresso da' potenti in quel tempo, esso e coloro, appo i quali ragiona, prorompono in dirottissime lagrime); - al contrario altri, da sommo dolor afflitti, in presentandosi loro cose liete, come al saggio Ulisse la cena da Alcinoo, si dimenticano affatto de' guai e tutti si sciolgono in allegria; - altri, tutti riposati e quieti, ad un innocente detto d'altrui che lor non vada all'umore, si risentono cotanto e montano in sì cieca collera, che minacciano presente atroce morte a chi 'l disse. Come quel fatto d'Achille, che riceve alla sua tenda Priamo (il quale di notte, con la scorta di Mercurio, per mezzo al campo de' greci, era venuto tutto solo da essolui per riscattar il cadavero, com'altra volta abbiam detto, di Ettorre), l'ammette a cenar seco; e, per un sol detto il quale non gli va a seconda, ch'all'infelicissimo padre cadde innavvedutamente di bocca per la pietà d'un sì valoroso figliuolo, - dimenticato delle santissime leggi dell'ospitalità; non rattenuto dalla fede onde Priamo era venuto tutto solo da essolui, perché confidava tutto in lui solo; nulla commosso dalle molte e gravi miserie di un tal re, nulla dalla pietà di tal padre, nulla dalla venerazione di un tanto vecchio; nulla riflettendo alla fortuna comune, della quale non vi ha cosa che più vaglia a muover compatimento; - montato in una collera bestiale, l'intuona sopra volergli mozzar la testa. Nello stesso tempo ch'empiamente ostinato di non rimettere una privata offesa fattagli da Agamennone (la quale, benché stata fuss'ella grave, non era giusto di vendicare con la rovina della patria e di tutta la sua nazione), si compiace, chi porta seco i fati di Troia, che vadano in rovina tutti i greci, battuti miseramente da Ettorre; né pietà di patria, né gloria di nazione il muovono a portar loro soccorso, il quale non porta finalmente che per soddisfare un suo privato dolore, d'aver Ettorre ucciso il suo Patroclo. E della Briseide toltagli nemmeno morto si placa, senonsé l'infelice bellissima real donzella Polissena, della rovinata casa del poc'anzi ricco e potente Priamo, divenuta misera schiava, fusse sagrificata innanzi al di lui sepolcro, e le di lui ceneri, assetate di vendetta, non insuppasse dell'ultima sua goccia di sangue. Per tacer affatto di quello che non può intendersi: ch'avesse gravità ed acconcezza di pensar da filosofo chi si trattenesse in ritruovare tante favole di vecchiarelle da trattener i fanciulli, di quante Omero affollò l'altro poema dell'Odissea.

Tali costumi rozzi, villani, feroci, fieri, mobili, irragionevoli o irragionevolmente ostinati, leggieri e sciocchi, quali nel libro II dimostrammo ne' Corollari della natura eroica, non posson esser che d'uomini per debolezza di menti quasi fanciulli, per robustezza di fantasie come di femmine, per bollore di passioni come di violentissimi giovani; onde hassene a niegar ad Omero ogni sapienza riposta. Le quali cose qui ragionate sono materie per le quali incomincian ad uscir i dubbi che ci pongono nella necessità per la ricerca del vero Omero.

2.

DELLA PATRIA D'OMERO.

Tal fu la sapienza riposta finor creduta d'Omero: ora vediamo della patria. Per la qual contesero quasi tutte le città della Grecia, anzi non mancarono di coloro che 'l vollero greco d'Italia, e per determinarla Leone Allacci (De patria Homeri) invano vi s'affatica. Ma, perché non ci è giunto scrittore che sia più antico d'Omero, come risolutamente il sostiene Giuseffo contro Appione gramatico, e gli scrittori vennero per lunga età dopo lui, siamo necessitati con la nostra critica metafisica, come sopra un autore di nazione, qual egli è stato tenuto di quella di Grecia, di ritruovarne il vero, e della età e della patria, da esso Omero medesimo.

Certamente, di Omero autore dell'Odissea siamo assicurati essere stato dell'occidente di Grecia verso mezzodì da quel luogo d'oro dove Alcinoo, re de' feaci (ora Corfù) ad Ulisse, che vuol partire, offerisce una ben corredata nave de' suoi vassalli, i quali dice essere spertissimi marinai, che 'l porterebbero, se bisognasse, fin in Eubea (or Negroponto), la quale, coloro ch'avevano per fortuna veduto, dicevano essere lontanissima, come se fusse l'ultima Tule del mondo greco. Dal qual luogo si dimostra con evidenza Omero dell'Odissea essere stato altro da quello che fu autor dell'Iliade; perocché Eubea non era molto lontana da Troia, ch'era posta nell'Asia lungo la riviera dell'Ellesponto, nel cui angustissimo stretto son ora due fortezze che chiamano Dardanelli, e fin al dì d'oggi conservano l'origine della voce "Dardania", che fu l'antico territorio di Troia. E certamente appo Seneca si ha essere stata celebre quistione tra' greci gramatici: se l'Iliade e l'Odissea fussero d'un medesimo autore.

La contesa delle greche città per l'onore d'aver ciascuna Omero suo cittadino, ella provenne perché quasi ogniuna osservava ne' di lui poemi e voci e frasi e dialetti ch'eran volgari di ciascheduna.

Lo che qui detto serve per la discoverta del vero Omero.

3.

DELL'ETÀ D'OMERO.

Ci assicurano dell'età d'Omero le seguenti autorità de' di lui poemi:

I

Achille ne' funerali di Patroclo dà a vedere quasi tutte le spezie de' giuochi, che poi negli olimpici celebrò la coltissima Grecia.

II

Eransi già ritruovate l'arti di fondere in bassirilievi, d'intagliar in metalli, come, fralle altre cose, si dimostra con lo scudo d'Achille ch'abbiamo sopra osservato: la pittura non erasi ancor truovata. Perché la fonderia astrae le superficie con qualche rilevatezza, l'intagliatura fa lo stesso con qualche profondità; ma la pittura astrae le superficie assolute, ch'è difficilissimo lavoro d'ingegno. Onde né Omero né Mosè mentovano cose dipinte giammai: argomento della lor antichità.

III

Le delizie de' giardini d'Alcinoo, la magnificenza della sua reggia e la lautezza delle sue cene ci appruovano che già i greci ammiravano lusso e fasto.

IV

I fenici già portavano nelle greche marine avolio, porpora, incenso arabico, di che odora la grotta di Venere; oltracciò, bisso più sottile della secca membrana d'una cipolla, vesti ricamate, e, tra' doni de' proci, una da rigalarsi a Penelope, che reggeva sopra una macchina così di dilicate molle contesta, che ne' luoghi spaziosi la dilargassero, e l'assettassero negli angusti. Ritruovato degno della mollezza de' nostri tempi!

V

Il cocchio di Priamo, con cui si porta ad Achille, fatto di cedro, e l'antro di Calipso ne odora ancor di profumi, il qual è un buon gusto de' sensi, che non intese il piacer romano quando più infuriava a disperdere le sostanze nel lusso sotto i Neroni e gli Eliogabali.

VI

Si descrivono dilicatissimi bagni appo Circe.

VII

I servetti de' proci, belli, leggiadri e di chiome bionde, quali appunto si vogliono nell'amenità de' nostri costumi presenti.

VIII

Gli uomini come femmine curano la zazzera; lo che Ettorre e Diomede rinfacciano a Paride effemminato.

IX

E, quantunque egli narri i suoi eroi sempre cibarsi di carni arroste, il qual cibo è 'l più semplice e schietto di tutti gli altri, perché non ha d'altro bisogno che delle brace: il qual costume restò dopo ne' sagrifizi, e ne restarono a' romani dette "prosiicia" le carni delle vittime arroste sopra gli altari, che poi si tagliavano per dividersi a' convitati, quantunque poscia si arrostirono, come le profane, con gli schidoni. Ond'è che Achille, ove dà la cena a Priamo, esso fende l'agnello e Patroclo poi l'arroste, apparecchia la mensa e vi pone sopra il pane dentro i canestri: perché gli eroi non celebravano banchetti che non fussero sagrifizi, dov'essi dovevano esser i sacerdoti. E ne restarono a' latini "epulæ", ch'erano lauti banchetti e, per lo più, che celebravano i grandi; ed "epulum", che dal pubblico si dava al popolo, e la "cena sagra", in cui banchettavano i sacerdoti detti "epulones". Perciò Agamennone esso uccide i due agnelli, col qual sagrifizio consagra i patti della guerra con Priamo. Tanto allora era magnifica cotal idea, ch'ora ci sembra essere di beccaio! Appresso dovettero venire le carni allesse, ch'oltre al fuoco hanno di bisogno dell'acqua, del caldaio e, con ciò, del treppiedi; delle quali Virgilio fa anco cibar i suoi eroi, e gli fa con gli schidoni arrostir le carni. Vennero finalmente i cibi conditi, i quali, oltre a tutte le cose che si son dette, han bisogno de' condimenti, - Ora, per ritornar alle cene eroiche d'Omero, benché lo più dilicato cibo de' greci eroi egli descriva esser farina con cascio e mèle, però per due comparazioni si serve della pescagione; ed Ulisse, fintosi poverello, domandando la limosina ad un de' proci, gli dice che gli dèi agli re ospitali, o sien caritatevoli co' poveri viandanti, danno i mari pescosi, o sia abbondanti di pesci, che fanno la delizia maggior delle cene.

X

Finalmente (quel che più importa al nostro proposito) Omero sembra esser venuto in tempi ch'era già caduto in Grecia il diritto eroico e 'ncominciata a celebrarsi la libertà popolare, perché gli eroi contraggono matrimoni con istraniere e i bastardi vengono nelle successioni de' regni. E così dovett'andar la bisogna, perché, lungo tempo innanzi, Ercole, tinto dal sangue del brutto centauro Nesso, e quindi uscito in furore, era morto; cioè, come si è nel libro II spiegato, era finito il diritto eroico.

Adunque, volendo noi d'intorno all'età d'Omero non disprezzare punto l'autorità, per tutte queste cose osservate e raccolte da' di lui poemi medesimi, e, più che dall'Iliade, da quello dell'Odissea, che Dionigi Longino stima aver Omero essendo vecchio composto, avvaloriamo l'oppenion di coloro che 'l pongono lontanissimo dalla guerra troiana: il qual tempo corre per lo spazio di quattrocensessant'anni, che vien ad essere circa i tempi di Numa. E pure crediamo di far loro piacere in ciò, che nol poniamo a' tempi più a noi vicini, perché dopo i tempi di Numa dicono che Psammetico aprì a' greci l'Egitto, i quali, per infiniti luoghi dell'Odissea particolarmente, avevano da lungo tempo aperto il commerzio nella loro Grecia a' fenici; delle relazioni de' quali, niente meno che delle mercatanzie, com'ora gli europei di quelle dell'Indie, eran i popoli greci già usi di dilettarsi. Laonde convengono queste due cose: e che Omero egli non vide l'Egitto, e che narra tante cose e di Egitto e di Libia, e di Fenicia e dell'Asia, e sopra tutto d'Italia e di Sicilia, per le relazioni ch'i greci avute n'avevano da' fenici.

Ma non veggiamo se questi tanti e sì dilicati costumi ben si convengono con quanti e quali selvaggi e fieri egli nello stesso tempo narra de' suoi eroi, e particolarmente nell'Iliade. Talché,

ne placidis coëant immitia,

sembrano tai poemi essere stati per più età e da più mani lavorati e condotti.

Così, con queste cose qui dette della patria e dell'età del finora creduto, si avanzano i dubbi per la ricerca del vero Omero.

4.

DELL'INNARRIVABILE FACULTÀ POETICA EROICA D'OMERO.

Ma la niuna filosofia, che noi abbiamo sopra dimostrato d'Omero e le discoverte fatte della di lui patria ed età, che ci pongono in un forte dubbio che non forse egli sia stato un uomo affatto volgare, troppo ci son avvalorate dalla disperata difficultà, che propone Orazio nell'Arte poetica, di potersi dopo Omero fingere caratteri, ovvero personaggi di tragedie, di getto nuovi, ond'esso a' poeti dà quel consiglio di prenderglisi da' poemi d'Omero. Ora cotal disperata difficultà si combini con quello: ch'i personaggi della commedia nuova son pur tutti di getto finti, anzi per una legge ateniese dovette la commedia nuova comparire ne' teatri con personaggi tutti finti di getto; e sì felicemente i greci vi riuscirono, ch'i latini, nel loro fasto, a giudizio di Fabio Quintiliano, ne disperarono anco la competenza, dicendo: "Cum græcis de comoedia non contendimus".

A tal difficultà d'Orazio aggiugniamo in più ampia distesa quest'altre due. Delle quali una è: come Omero, ch'era venuto innanzi, fu egli tanto innimitabil poeta eroico, e la tragedia, che nacque dopo, cominciò così rozza, com'ogniun sa e noi più a minuto qui appresso l'osserveremo? L'altra è: come Omero, venuto innanzi alle filosofie ed alle arti poetiche e critiche, fu egli il più sublime di tutti gli più sublimi poeti, quali sono gli eroici, e, dopo ritruovate le filosofie e le poetiche e critiche arti, non vi fu poeta, il quale [non] potesse che per lunghissimi spazi tenergli dietro? Ma, lasciando queste due nostre, la difficultà d'Orazio, combinata con quello ch'abbiamo detto della commedia nuova doveva pure porre in ricerca i Patrizi, gli Scaligeri, i Castelvetri ed altri valenti maestri d'arte poetica d'investigarne la ragion della differenza.

Cotal ragione non può rifondersi altrove che nell'origine della poesia, sopra qui scoverta nella Sapienza poetica, e 'n conseguenza nella discoverta de' caratteri poetici, ne' quali unicamente consiste l'essenza della medesima poesia. Perché la commedia nuova propone ritratti de' nostri presenti costumi umani, sopra i quali aveva meditato la socratica filosofia, donde dalle di lei massime generali d'intorno all'umana morale poterono i greci poeti, in quella addottrinati profondamente (quale Menandro, a petto di cui Terenzio da essi latini fu detto "Menandro dimezzato"); poterono, dico, fingersi cert'esempli luminosi di uomini d'idea, al lume e splendor de' quali si potesse destar il volgo, il quale tanto è docile ad apprendere da' forti esempli quanto è incapace d'apparare per massime ragionate. La commedia antica prendeva argomenti ovvero subbietti veri e gli metteva in favola quali essi erano, come per una il cattivo Aristofane mise in favola il buonissimo Socrate e 'l rovinò. Ma la tragedia caccia fuori in iscena odî, sdegni, collere, vendette eroiche (ch'escano da nature sublimi, dalle quali naturalmente provengano sentimenti, parlari, azioni in genere, di ferocia, di crudezza, di atrocità) vestiti di maraviglia; e tutte queste cose sommamente conformi tra loro ed uniformi ne' lor subbietti, i quali lavori si seppero unicamente fare da' greci ne' loro tempi dell'eroismo, nel fine de' quali dovette venir Omero. Lo che con questa critica metafisica si dimostra: che le favole, le quali sul loro nascere eran uscite diritte e convenevoli, elleno ad Omero giunsero e torte e sconce; come si può osservare per tutta la Sapienza poetica sopra qui ragionata, che tutte dapprima furono vere storie, che tratto tratto s'alterarono e si corruppero, e così corrotte finalmente ad Omero pervennero. Ond'egli è da porsi nella terza età de' poeti eroici: dopo la prima, che ritruovò tali favole in uso di vere narrazioni, nella prima propia significazione della voce mûthos, che da essi greci è diffinita "vera narrazione"; la seconda di quelli che l'alterarono e le corruppero; la terza, finalmente, d'Omero, che così corrotte le ricevé.

Ma, per richiamarci al nostro proponimento, per la ragione da noi di tal effetto assegnata, Aristotile nella Poetica dice che le bugie poetiche si seppero unicamente ritruovare da Omero, perché i di lui caratteri poetici, che in una sublime acconcezza sono incomparabili, quanto Orazio gli ammira, furono generi fantastici, quali sopra si sono nella Metafisica poetica diffiniti, a' quali i popoli greci attaccarono tutti i particolari diversi appartenenti a ciascun d'essi generi. Come ad Achille, ch'è 'l subbietto dell'Iliade, attaccarono tutte le propietà della virtù eroica e tutt'i sensi e costumi uscenti da tali propietà di natura, quali sono risentiti, puntigliosi, collerici, implacabili, violenti, ch'arrogano tutta la ragione alla forza, come appunto gli raccoglie Orazio ove ne descrive il carattere. Ad Ulisse, ch'è 'l subbietto dell'Odissea, appiccarono tutti quelli dell'eroica sapienza, cioè tutti i costumi accorti, tolleranti, dissimulati, doppi, ingannevoli, salva sempre la propietà delle parole e l'indifferenza dell'azioni, ond'altri da se stessi entrasser in errore e s'ingannassero da se stessi. E ad entrambi tali caratteri attaccarono l'azioni de' particolari, secondo ciascun de' due generi, più strepitose, le qual'i greci, ancora storditi e stupidi, avessero potuto destar e muover ad avvertirle e rapportarle a' loro generi. I quali due caratteri, avendogli formati tutta una nazione, non potevano non fingersi che naturalmente uniformi (nella quale uniformità, convenevole al senso comune di tutta una nazione, consiste unicamente il decoro, o sia la bellezza e leggiadria d'una favola); e, perché si fingevano da fortissime immaginative, non si potevano fingere che sublimi. Di che rimasero due eterne propietà in poesia: delle quali una è che 'l sublime poetico debba sempre andar unito al popolaresco; l'altra, ch'i popoli, i quali prima si lavoraron essi i caratteri eroici, ora non avvertono a' costumi umani altrimente che per caratteri strepitosi di luminosissimi esempli.

5.

PRUOVE FILOSOFICHE PER LA DISCOVERTA DEL VERO OMERO.

Le quali cose stando così, vi si combinino queste pruove filosofiche:

I

Quella che si è sopra tralle Degnità noverata: che gli uomini sono naturalmente portati a conservare le memorie degli ordini e delle leggi che gli tengono dentro le loro società.

II

Quella verità ch'intese Lodovico Castelvetro: che prima dovette nascere l'istoria, dopo la poesia; perché la storia è una semplice enonziazione del vero, ma la poesia è una imitazione di più. E l'uomo, per altro acutissimo, non ne seppe far uso per rinvenire i veri princìpi della poesia, col combinarvi questa pruova filosofica, che qui si pone per

III

ch'essendo stati i poeti certamente innanzi agli storici volgari, la prima storia debba essere la poetica.

IV

Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e severe (onde mûthos, la favola, fu diffinita "vera narratio", come abbiamo sopra più volte detto); le quali nacquero dapprima per lo più sconce, e perciò poi si resero impropie, quindi alterate, seguentemente inverisimili, appresso oscure, di là scandalose, ed alla fine incredibili; che sono sette fonti della difficultà delle favole, i quali di leggieri si possono rincontrare in tutto il secondo libro.

V

E, come nel medesimo libro si è dimostrato, così guaste e corrotte da Omero furono ricevute.

VI

Che i caratteri poetici, ne' quali consiste l'essenza delle favole, nacquero da necessità di natura, incapace d'astrarne le forme e le propietà da' subbietti; e, 'n conseguenza, dovett'essere maniera di pensare d'intieri popoli, che fussero stati messi dentro tal necessità di natura, ch'è ne' tempi della loro maggior barbarie. Delle quali è eterna propietà d'ingrandir sempre l'idee de' particolari: di che vi ha un bel luogo d'Aristotile ne' Libri morali, ove riflette che gli uomini di corte idee d'ogni particolare fan massime. Del qual detto dev'essere la ragione: perché la mente umana, la qual è indiffinita, essendo angustiata dalla robustezza de' sensi, non può altrimente celebrare la sua presso che divina natura che con la fantasia ingrandir essi particolari. Onde forse, appresso i poeti greci egualmente e latini, le immagini come degli dèi così degli eroi compariscono sempre maggiori di quelle degli uomini; e ne' tempi barbari ritornati le dipinture, particolarmente del Padre eterno, di Gesù Cristo, della Vergine Maria, si veggono d'una eccedente grandezza.

VII

Perché i barbari mancano di riflessione, la qual, mal usata, è madre della menzogna, i primi poeti latini eroici cantaron istorie vere, cioè le guerre romane. E ne' tempi barbari ritornati, per sì fatta natura della barbarie, gli stessi poeti latini non cantaron altro che istorie, come furon i Gunteri, i Guglielmi pugliesi ed altri; e i romanzieri de' medesimi tempi credettero di scriver istorie vere: onde il Boiardo, l'Ariosto, venuti in tempi illuminati dalle filosofie, presero i subbietti de' lor poemi dalla storia di Turpino, vescovo di Parigi. E per questa stessa natura della barbarie, la quale per difetto di riflessione non sa fingere (ond'ella è naturalmente veritiera, aperta, fida, generosa e magnanima), quantunque egli fusse dotto di altissima scienza riposta, con tutto ciò Dante nella sua Commedia spose in comparsa persone vere e rappresentò veri fatti de' trappassati, e perciò diede al poema il titolo di "commedia", qual fu l'antica de' greci, che, come sopra abbiam detto, poneva persone vere in favola. E Dante somigliò in questo l'Omero dell'Iliade, la quale Dionigi Longino dice essere tutta "dramatica" o sia rappresentativa, come tutta "narrativa" essere l'Odissea. E Francesco Petrarca, quantunque dottissimo, pure in latino si diede a cantare la seconda guerra cartaginese; ed in toscano, ne' Trionfi, i quali sono di nota eroica, non fa altro che raccolta di storie. E qui nasce una luminosa pruova di ciò: che le prime favole furon istorie. Perché la satira diceva male di persone non solo vere, ma, di più, conosciute; la tragedia prendeva per argomenti personaggi della storia poetica; la commedia antica poneva in favola chiari personaggi viventi; la commedia nuova, nata a' tempi della più scorta riflessione, finalmente finse personaggi tutti di getto (siccome nella lingua italiana non ritornò la commedia nuova che incominciando il secolo a maraviglia addottrinato del Cinquecento): né appo i greci né appo i latini giammai si finse di getto un personaggio che fusse il principale subbietto d'una tragedia. E 'l gusto del volgo gravemente lo ci conferma, che non vuole drami per musica, de' quali gli argomenti son tutti tragici, se non sono presi da istorie; ed intanto sopporta gli argomenti finti nelle commedie, perché, essendo privati e perciò sconosciuti, gli crede veri.

VIII

Essendo tali stati i caratteri poetici, di necessità le loro poetiche allegorie, come si è sopra dimostro per tutta la Sapienza poetica, devon unicamente contenere significati istorici de' primi tempi di Grecia.

IX

Che tali storie si dovettero naturalmente conservare a memoria da' comuni de' popoli, per la prima pruova filosofica testé mentovata: che, come fanciulli delle nazioni, dovettero maravigliosamente valere nella memoria. E ciò, non senza divino provvedimento: poiché infin a' tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui, non si era ritruovata ancora la scrittura volgare (come più volte sopra si è udito da Giuseffo contro Appione), in tal umana bisogna i popoli, i quali erano quasi tutti corpo e quasi niuna riflessione, fussero tutti vivido senso in sentir i particolari, forte fantasia in apprendergli ed ingrandirgli, acuto ingegno nel rapportargli a' loro generi fantastici, e robusta memoria nel ritenergli. Le quali facultà appartengono, egli è vero, alla mente, ma mettono le loro radici nel corpo e prendon vigore dal corpo. Onde la memoria è la stessa che la fantasia, la quale perciò "memoria" dicesi da' latini (come appo Terenzio truovasi "memorabile" in significato di "cosa da potersi immaginare", e volgarmente "comminisci" per "fingere", ch'è propio della fantasia, ond'è "commentum", ch'è un ritruovato finto); e "fantasia" altresì prendesi per l'ingegno (come ne' tempi barbari ritornati si disse "uomo fantastico" per significar "uomo d'ingegno", come si dice essere stato Cola di Rienzo dall'autore contemporaneo che scrisse la di lui vita). E prende tali tre differenze: ch'è memoria, mentre rimembra le cose; fantasia, mentre l'altera e contrafà; ingegno, mentre le contorna e pone in acconcezza ed assettamento. Per le quali cagioni i poeti teologi chiamarono la Memoria "madre delle muse".

X

Perciò i poeti dovetter esser i primi storici delle nazioni: ch'è quello ond'il Castelvetro non seppe far uso del suo detto per rinvenire le vere origini della poesia; ché ed esso e tutti gli altri che ne han ragionato (infino da Aristotile e da Platone) potevano facilmente avvertire che tutte le storie gentilesche hanno favolosi i princìpi, come l'abbiamo nelle Degnità proposto e nella Sapienza poetica dimostrato.

XI

Che la ragion poetica determina esser impossibil cosa ch'alcuno sia e poeta e metafisico egualmente sublime, perché la metafisica astrae la mente da' sensi, la facultà poetica dev'immergere tutta la mente ne' sensi; la metafisica s'innalza sopra agli universali, la facultà poetica deve profondarsi dentro i particolari.

XII

Che, 'n forza di quella Degnità sopra posta: - che 'n ogni facultà può riuscire con l'industria chi non vi ha la natura, ma in poesia è affatto niegato a chi non vi ha la natura di potervi riuscir con l'industria, - l'arti poetiche e l'arti critiche servono a fare colti gl'ingegni, non grandi. Perché la dilicatezza è una minuta virtù, e la grandezza naturalmente disprezza tutte le cose picciole; anzi, come grande rovinoso torrente non può far di meno di non portar seco torbide l'acque e rotolare e sassi e tronchi con la violenza del corso, così sono le cose vili dette, che si truovano sì spesse in Omero.

XIII

Ma queste non fanno ch'Omero egli non sia il padre e 'l principe di tutti i sublimi poeti.

XIV

Perché udimmo Aristotile stimar innarrivabili le bugie omeriche; ch'è lo stesso che Orazio stima inimitabili i di lui caratteri.

XV

Egli è infin al cielo sublime nelle sentenze poetiche, ch'abbiam dimostrato, ne' Corollari della natura eroica nel libro secondo, dover esser concetti di passioni vere o che in forza d'un'accesa fantasia ci si facciano veramente sentire, e perciò debbon esser individuate in coloro che le sentono. Onde diffinimmo che le massime di vita, perché sono generali, sono sentenze di filosofi; e le riflessioni sopra le passioni medesime sono di falsi e freddi poeti.

XVI

Le comparazioni poetiche prese da cose fiere e selvagge, quali sopra osservammo, sono incomparabili certamente in Omero.

XVII

L'atrocità delle battaglie omeriche e delle morti, come pur sopra vedemmo, fanno all'Iliade tutta la maraviglia.

XVIII

Ma tali sentenze, tali comparazioni, tali descrizioni pur sopra pruovammo non aver potuto essere naturali di riposato, ingentilito e mansueto filosofo.

XIX

Che i costumi degli eroi omerici sono di fanciulli per la leggerezza delle menti, di femmine per la robustezza della fantasia, di violentissimi giovani per lo fervente bollor della collera, come pur sopra si è dimostrato, e, 'n conseguenza, impossibili da un filosofo fingersi con tanta naturalezza e felicità.

XX

Che l'inezie e sconcezze sono, come pur si è qui sopra pruovato, effetti dell'infelicità, di che avevano travagliato nella somma povertà della loro lingua, mentre la si formavano, i popoli greci, a spiegarsi.

XXI

E contengansi pure gli più sublimi misteri della sapienza riposta, i quali abbiamo dimostrato nella Sapienza poetica non contenere certamente: come suonano, non posson essere stati concetti di mente diritta, ordinata e grave, qual a filosofo si conviene.

XXII

Che la favella eroica, come si è sopra veduto nel libro II, nell'Origini delle lingue, fu una favella per simiglianze, immagini, comparazioni, nata da inopia di generi e di spezie, ch'abbisognano per diffinire le cose con propietà, e, 'n conseguenza, nata per necessità di natura comune ad intieri popoli.

XXIII

Che per necessità di natura, come anco nel libro II si è detto, le prime nazioni parlarono in verso eroico. Nello che è anco da ammirare la provvedenza, che, nel tempo nel quale non si fussero ancor truovati i caratteri della scrittura volgare, le nazioni parlassero frattanto in versi, i quali coi metri e ritmi agevolassero lor la memoria a conservare più facilmente le loro storie famigliari e civili.

XXIV

Che tali favole, tali sentenze, tali costumi, tal favella, tal verso si dissero tutti "eroici", e si celebrarono ne tempi ne' quali la storia ci ha collocato gli eroi, com'appieno si è dimostrato sopra nella Sapienza poetica.

XXV

Adunque tutte l'anzidette furono propietà d'intieri popoli e, 'n conseguenza, comuni a tutti i particolari uomini di tali popoli.

XXVI

Ma noi, per essa natura, dalla quale son uscite tutte l'anzidette propietà, per le quali egli fu il massimo de' poeti, niegammo che Omero fusse mai stato filosofo.

XXVII

Altronde dimostrammo sopra nella Sapienza poetica che i sensi di sapienza riposta da' filosofi, i quali vennero appresso, s'intrusero dentro le favole omeriche.

XXVIII

Ma, siccome la sapienza riposta non è che di pochi uomini particolari, così il solo decoro de' caratteri poetici eroici, ne' quali consiste tutta l'essenza delle favole eroiche, abbiamo testé veduto che non posson oggi conseguirsi da uomini dottissimi in filosofie, arti poetiche ed arti critiche. Per lo qual decoro dà Aristotile il privilegio ad Omero d'esser innarrivabili le di lui bugie; ch'è lo stesso che quello, che gli dà Orazio, d'esser innimitabili i di lui caratteri.

6.

PRUOVE FILOLOGICHE PER LA DISCOVERTA DEL VERO OMERO.

Con questo gran numero di pruove filosofiche, fatte buona parte in forza della critica metafisica sopra gli autori delle nazioni gentili, nel qual numero è da porsi Omero, perocché non abbiamo certamente scrittor profano che sia più antico di lui, come risolutamente il sostiene Giuseffo ebreo, si congiugnan ora queste pruove filologiche:

I

Che tutte l'antiche storie profane hanno favolosi i princìpi.

II

Che i popoli barbari, chiusi a tutte l'altre nazioni del mondo, come furono i germani antichi e gli americani, furono ritruovati conservar in versi i princìpi delle loro storie, conforme si è sopra veduto.

III

Che la storia romana si cominciò a scrivere da' poeti.

IV

Che ne' tempi barbari ritornati i poeti latini ne scrissero l'istorie.

V

Che Maneto, pontefice massimo egizio, portò l'antichissima storia egiziaca scritta per geroglifici ad una sublime teologia naturale.

VI

E nella Sapienza poetica tale dimostrammo aver fatto i greci filosofi dell'antichissima storia greca narrata per favole

VII

Onde noi sopra, nella Sapienza poetica, abbiam dovuto tenere un cammino affatto retrogrado da quello ch'aveva tenuto Maneto, e dai sensi mistici restituir alle favole i loro natii sensi storici; e la naturalezza e facilità, senza sforzi, raggiri e contorcimenti, con che l'abbiam fatto, appruova la propietà dell'allegorie storiche che contenevano.

VIII

Lo che gravemente appruova ciò che Strabone in un luogo d'oro afferma: prima d'Erodoto, anzi prima d'Ecateo milesio, tutta la storia de' popoli della Grecia essere stata scritta da' lor poeti.

IX

E noi nel libro secondo dimostrammo i primi scrittori delle nazioni così antiche come moderne essere stati poeti.

X

Vi sono due aurei luoghi nell'Odissea, dove, volendosi acclamar ad alcuno d'aver lui narrato ben un'istoria, si dice averla raccónta da musico e da cantore. Che dovetter esser appunto quelli che furon i suoi rapsòdi, i quali furon uomini volgari, che partitamente conservavano a memoria i libri de' poemi omerici.

XI

Che Omero non lasciò scritto niuno de' suoi poemi, come più volte l'hacci detto risolutamente Flavio Giuseffo ebreo contro Appione, greco gramatico.

XII

Ch'i rapsòdi partitamente, chi uno, chi altro, andavano cantando i libri d'Omero nelle fiere e feste per le città della Grecia.

XIII

Che dall'origini delle due voci, onde tal nome "rapsòdi" è composto, erano "consarcinatori di canti", che dovettero aver raccolto non da altri certamente che da' loro medesimi popoli: siccome hómeros vogliono pur essersi detto da homú, "simul", ed éirein, "connectere", ove significa il "mallevadore", perocché leghi insieme il creditore col debitore. La qual origine è cotanto lontana e sforzata quanto è agiata e propia per significare l'Omero nostro, che fu legatore ovvero componitore di favole.

XIV

Che i Pisistratidi, tiranni d'Atene, eglino divisero e disposero, o fecero dividere e disponere, i poemi d'Omero nell'Iliade e nell'Odissea: onde s'intenda quanto innanzi dovevan essere stati una confusa congerie di cose, quando è infinita la differenza che si può osservar degli stili dell'uno e dell'altro poema omerico.

XV

Che gli stessi Pisistratidi ordinarono ch'indi in poi da' rapsòdi fussero cantati nelle feste panatenaiche, come scrive Cicerone, De natura deorum, ed Eliano, in ciò seguìto dallo Scheffero.

XVI

Ma i Pisistratidi furono cacciati da Atene pochi anni innanzi che lo furon i Tarquini da Roma: talché, ponendosi Omero a' tempi di Numa, come abbiamo sopra pruovato, pur dovette correre lunga età appresso chi rapsòdi avessero seguitato a conservar a memoria i di lui poemi. La qual tradizione toglie affatto il credito all'altra di Aristarco ch'a' tempi de' Pisistratidi avesse fatto cotal ripurga, divisione ed ordinamento de' poemi d'Omero, perché ciò non si poté fare senza la scrittura volgare, e sì da indi in poi non vi era bisogno più de' rapsòdi che gli cantassero per parti ed a mente.

XVII

Talché Esiodo, che lasciò opere di sé scritte, poiché non abbiamo autorità che da' rapsòdi fusse stato, com'Omero, conservato a memoria, e da' cronologi, con una vanissima diligenza, è posto trent'anni innanzi d'Omero, si dee porre dopo de' Pisistratidi. Se non pure, qual'i rapsòdi omerici, tali furono i poeti ciclici, che conservarono tutta la storia favolosa de' greci dal principio de' loro dèi fin al ritorno d'Ulisse in Itaca. I quali poeti, dalla voce kúklos, non poteron esser altri ch'uomini idioti che cantassero le favole a gente volgare raccolta in cerchio il dì di festa; qual cerchio è quell'appunto che Orazio nell'Arte dice "vilem patulumque orbem", che 'l Dacier punto non riman soddisfatto de' commentatori ch'Orazio ivi voglia dir "i lunghi episodi". E forse la ragione di punto non soddisfarsene ella è questa: perché non è necessario che l'episodio d'una favola, perocché sia lungo, debba ancor esser vile: come, per cagion d'esemplo, quelli delle delizie di Rinaldo con Armida nel giardino incantato e del ragionamento che fa il vecchio pastore ad Erminia sono lunghi bensì, ma pertanto non sono vili, perché l'uno è ornato, l'altro è tenue o dilicato, entrambi nobili. Ma ivi Orazio, avendo dato l'avviso a' poeti tragici di prendersi gli argomenti da' poemi di Omero, va incontro alla difficultà, ch'in tal guisa essi non sarebbon poeti, perché le favole sarebbero le ritruovate da Omero. Però Orazio risponde loro che le favole epiche d'Omero diverranno favole tragiche propie, se essi staranno sopra questi tre avvisi. De' quali il primo è: se essi non ne faranno oziose parafrasi, come osserviamo tuttavia uomini leggere l'Orlando furioso o innamorato o altro romanzo in rima a' vili e larghi cerchi di sfaccendata gente gli dì delle feste, e, recitata ciascuna stanza, spiegarla loro in prosa con più parole; - il secondo, se non ne saranno fedeli traduttori; - il terzo ed ultimo avviso è: se finalmente non ne saranno servili imitatori, ma, seguitando i costumi ch'Omero attribuisce a' suoi eroi, eglino da tali stessi costumi faranno uscire altri sentimenti, altri parlari, altre azioni conformi, e sì circa i medesimi subbietti saranno altri poeti da Omero. Così nella stess'Arte lo stesso Orazio chiama "poeta ciclico" un poeta triviale e da fiera. Sì fatti autori ordinariamente si leggono detti kúklioi ed enkúklioi e la loro raccolta ne fu detta kúklos epikós, kúklia épe, póiema enkúklikon e, senz'aggiunta alcuna, talora kúklos, come osserva Gerardo Langbenio nella sua prefazione a Dionigi Longino. Talché di questa maniera può essere ch'Esiodo, il quale contiene tutte favole di dèi, egli fusse stato innanzi d'Omero.

XVIII

Per questa ragione lo stesso è da dirsi d'Ippocrate, il quale lasciò molte e grandi opere scritte non già in verso ma in prosa, che perciò naturalmente non si potevano conservar a memoria: ond'egli è da porsi circa i tempi d'Erodoto.

XIX

Per tutto ciò il Vossio troppo di buona fede ha creduto confutare Giuseffo con tre iscrizioni eroiche, una d'Anfitrione, la seconda d'Ippocoonte, la terza di Laomedonte (imposture somiglianti a quelle che fanno tuttavia i falsatori delle medaglie); e Martino Scoockio assiste a Giuseffo contro del Vossio.

XX

A cui aggiugniamo che Omero non mai fa menzione di lettere greche volgari, e la lettera da Preto scritta ad Euria, insidiosa a Bellerofonte, come abbiamo altra volta sopra osservato, dice essere stata scritta per sémata.

XXI

Che Aristarco emendò i poemi d'Omero, i quali pure ritengono tanta varietà di dialetti, tante sconcezze di favellari, che deon essere stati vari idiotismi de' popoli della Grecia e tante licenze eziandio di misure.

XXII

Di Omero non si sa la patria, come si è sopra notato.

XXIII

Quasi tutti i popoli della Grecia il vollero lor cittadino, come si è osservato pur sopra.

XXIV

Sopra si son arrecate forti congetture l'Omero dell'Odissea essere stato dell'occidente di Grecia verso mezzodì, e quello dell'Iliade essere stato dell'oriente verso settentrione.

XXV

Non se ne sa nemmeno l'età.

XXVI

E l'oppenioni ne sono sì molte e cotanto varie, che 'l divario è lo spazio di quattrocensessant'anni, ponendolo, dalle sommamente opposte tra loro, una a' tempi della guerra di Troia, l'altra verso i tempi di Numa.

XXVII

Dionigi Longino, non potendo dissimulare la gran diversità degli stili de' due poemi, dice che Omero essendo giovine compose l'Iliade e vecchio poi l'Odissea: particolarità invero da sapersi di chi non si seppero le due cose più rilevanti nella storia, che sono prima il tempo e poi il luogo, delle quali ci ha lasciato al buio, ove ci narra del maggior lume di Grecia.

XXVIII

Lo che dee togliere tutta la fede ad Erodoto, o chi altro ne sia l'autore, nella Vita d'Omero, ove ne racconta tante belle varie minute cose, che n'empie un giusto volume; ed alla Vita che ne scrisse Plutarco, il qual, essendo filosofo, ne parlò con maggiore sobrietà.

XXIX

Ma forse Longino formò cotal congettura, perché Omero spiega nell'Iliade la collera e l'orgoglio d'Achille, che sono propietà di giovani, e nell'Odissea narra le doppiezze e le cautele di Ulisse, che sono costumi di vecchi.

XXX

È pur tradizione che Omero fu cieco, e dalla cecità prese sì fatto nome, ch'in lingua ionica vuol dir "cieco".

XXXI

Ed Omero stesso narra ciechi i poeti che cantano nelle cene de' grandi, come cieco colui che canta in quella che dà Alcinoo ad Ulisse, e pur cieco l'altro che canta nella cena de' proci.

XXXII

Ed è propietà di natura umana ch'i ciechi vagliono maravigliosamente nella memoria.

XXXIII

E finalmente ch'egli fu povero e andò per gli mercati di Grecia cantando i suoi propi poemi.

II

DISCOVERTA DEL VERO OMERO.

Or tutte queste cose e ragionate da noi e narrate da altri d'intorno ad Omero e i di lui poemi, senza punto averloci noi eletto o proposto, tanto che nemmeno avevamo sopra ciò riflettuto, quando (né con tal metodo col quale ora questa Scienza si è ragionata) acutissimi ingegni d'uomini eccellenti in dottrina ed erudizione, con leggere la Scienza nuova la prima volta stampata, sospettarono che Omero finor creduto non fusse vero: tutte queste cose, dico, ora ci strascinano ad affermare che tale sia adivenuto di Omero appunto quale della guerra troiana, che, quantunque ella dia una famosa epoca de' tempi alla storia, pur i critici più avveduti giudicano che quella non mai siesi stata fatta nel mondo. E certamente, se, come della guerra troiana, così di Omero non fussero certi grandi vestigi rimasti, quanti sono i di lui poemi, a tante difficultà si direbbe che Omero fusse stato un poeta d'idea, il quale non fu particolar uomo in natura. Ma tali e tante difficultà, e insiememente i poemi di lui pervenutici, sembrano farci cotal forza d'affermarlo per la metà: che quest'Omero sia egli stato un'idea ovvero un carattere eroico d'uomini greci, in quanto essi narravano, cantando, le loro storie.

1.

LE SCONCEZZE E INVERISIMIGLIANZE DELL'OMERO FINOR CREDUTO DIVENGONO NELL'OMERO QUI SCOVERTO CONVENEVOLEZZE E NECESSITA`.

Per sì fatta discoverta tutte le cose e discorse e narrate, che sono sconcezze e inverisimiglianze nell'Omero finor creduto, divengono nell'Omero qui ritruovato tutte convenevolezze e necessità. E primieramente le stesse cose massime lasciateci incerte di Omero ci violentano

I

Che per ciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria e 'l vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono quest'Omero.

II

Che per ciò variino cotanto l'oppenioni d'intorno alla di lui età, perché un tal Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla guerra troiana fin a' tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocensessant'anni.

III

E la cecità

IV

e la povertà d'Omero furono de' rapsòdi, i quali, essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse "omèro", prevalevano nella memoria, ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d'Omero per le città della Grecia, de' quali essi eran autori, perch'erano parte di que' popoli che vi avevano composte le loro istorie.

V

Così Omero compose giovine l'Iliade, quando era giovinetta la Grecia e, 'n conseguenza, ardente di sublimi passioni, come d'orgoglio, di collera, di vendetta, le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generosità; onde ammirò Achille, eroe della forza: ma vecchio compose poi l'Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qual è madre dell'accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe della sapienza. Talché a' tempi d'Omero giovine a' popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l'atrocità: a' tempi d'Omero vecchio già gli dilettavano i lussi d'Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de' proci e di, nonché tentare, assediar e combattere le caste Penelopi; i quali costumi, tutti ad un tempo, sopra ci sembrarono incompossibili. La qual difficultà poté tanto nel divino Platone che, per solverla, disse che Omero aveva preveduti in estro tali costumi nauseanti, morbidi e dissoluti. Ma egli, così, fece Omero uno stolto ordinatore della greca civiltà, perché, quantunque gli condanni, però insegna i corrotti e guasti costumi, i quali dovevano venire dopo lungo tempo ordinate le nazioni di Grecia, affinché, affrettando il natural corso che fanno le cose umane, i greci alla corrottella più s'avacciassero.

VI

In cotal guisa si dimostra l'Omero autor dell'Iliade avere di molt'età preceduto l'Omero autore dell'Odissea.

VII

Si dimostra che quello fu dell'oriente di Grecia verso settentrione, che cantò la guerra troiana fatta nel suo paese; e che questo fu dell'occidente di Grecia verso mezzodì, che canta Ulisse, ch'aveva in quella parte il suo regno.

VIII

Così Omero, sperduto dentro la folla de' greci popoli, non solo si giustifica di tutte le accuse che gli sono state fatte da' critici, e particolarmente:

IX

delle vili sentenze,

X

de' villani costumi,

XI

delle crude comparazioni,

XII

degl'idiotismi,

XIII

delle licenze de' metri,

XIV

dell'incostante varietà de' dialetti,

XV

e di avere fatto gli uomini dèi e gli dèi uomini.

Le quali favole Dionigi Longino non si fida di sostenere che co' puntelli dell'allegorie filosofiche, cioè a dire che, come suonano cantate a' greci, non possono avergli produtto la gloria d'essere stato l'ordinatore della greca civiltà: la qual difficultà ricorre in Omero la stessa, che noi sopra, nell'Annotazioni alla Tavola cronologica, facemmo contro d'Orfeo, detto il fondatore dell'umanità della Grecia. Ma le sopradette furono tutte propietà di essi popoli greci, e particolarmente l'ultima: che, nel fondarsi, come la teogonia naturale sopra l'ha dimostrato, i greci di sì pii, religiosi, casti, forti, giusti e magnanimi, tali fecero i dèi; e poscia, col lungo volger degli anni, con l'oscurarsi le favole e col corrompersi de' costumi, come si è a lungo nella Sapienza poetica ragionato, da sé, dissoluti estimaron gli dèi, - per quella Degnità, la qual è stata sopra proposta: che gli uomini naturalmente attirano le leggi oscure o dubbie alla loro passione ed utilità, - perché temevano gli dèi contrari a' loro voti, se fussero stati contrari a' di loro costumi, com'altra volta si è detto.

XVI

Ma di più appartengono ad Omero per giustizia i due grandi privilegi, che 'n fatti son uno, che gli danno Aristotile, che le bugie poetiche, Orazio, che i caratteri eroici solamente si seppero finger da Omero. Onde Orazio stesso si professa di non esser poeta, perché o non può o non sa osservare quelli che chiama "colores operum", che tanto suona quanto le "bugie poetiche", le quali dice Aristotile; come appresso Plauto si legge "obtinere colorem" nel sentimento di "dir bugia che per tutti gli aspetti abbia faccia di verità", qual dev'esser la buona favola.

Ma, oltre a questi, gli convengono tutti gli altri privilegi, ch'a lui danno tutti i maestri d'arte poetica, d'essere stato incomparabile:

XVII

in quelle sue selvagge e fiere comparazioni,

XVIII

in quelle sue crude ed atroci descrizioni di battaglie e di morti,

XIX

in quelle sue sentenze sparse di passioni sublimi,

XX

in quella sua locuzione piena di evidenza e splendore. Le quali tutte furono propietà dell'età eroica de' greci, nella quale e per la quale fu Omero incomparabil poeta; perché, nell'età della vigorosa memoria, della robusta fantasia e del sublime ingegno, egli non fu punto filosofo.

XXI

Onde né filosofie, né arti poetiche e critiche, le quali vennero appresso, poterono far un poeta che per corti spazi potesse tener dietro ad Omero.

E, quel ch'è più, egli fa certo acquisto degli tre immortali elogi, che gli son dati:

XXII

primo, d'essere stato l'ordinatore della greca polizia o sia civiltà;

XXIII

secondo, d'essere stato il padre di tutti gli altri poeti;

XXIV

terzo, d'essere stato il fonte di tutte le greche filosofie: niuno de' quali all'Omero finor creduto poteva darsi. Non lo primo, perché, da' tempi di Deucalione e Pirra, vien Omero da mille e ottocento anni dopo essersi incominciata co' matrimoni a fondare la greca civiltà, come si è dimostrato in tutta la scorsa della Sapienza poetica che la fondò. Non lo secondo, perché prima d'Omero fiorirono certamente i poeti teologi, quali furon Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri, tra' quali i cronologi han posto Esiodo e fattolo di trent'anni prevenir ad Omero; altri poeti eroici innanzi d'Omero sono affermati da Cicerone nel Bruto e nominati da Eusebio nella Preparazione evangelica, quali furono Filamone, Temirida, Demodoco, Epimenide, Aristeo ed altri. Non finalmente il terzo, imperciocché, come abbiamo a lungo ed appieno nella Sapienza poetica dimostrato, i filosofi nelle favole omeriche non ritruovarono, ma ficcarono essi le loro filosofie; ma essa sapienza poetica, con le sue favole, diede l'occasioni a' filosofi di meditare le lor altissime verità, e diede altresì le comodità di spiegarle, conforme il promettemmo nel di lui principio e 'l facemmo vedere per tutto il libro secondo.

2.

I POEMI D'OMERO SI TRUOVANO DUE GRANDI TESORI DEL DIRITTO NATURALE DELLE GENTI DI GRECIA.

Ma sopra tutto, per tal discoverta, gli si aggiugne una sfolgorantissima lode:

XXV

d'esser Omero stato il primo storico, il quale ci sia giunto di tutta la gentilità;

XXVI

onde dovranno, quindi appresso, i di lui poemi salire nell'alto credito d'essere due grandi tesori de' costumi dell'antichissima Grecia. Tanto che lo stesso fato è avvenuto de' poemi d'Omero, che avvenne della legge delle XII Tavole: perché, come queste, essendo state credute leggi date da Solone agli ateniesi, e quindi fussero venute a' romani, ci hanno tenuto finor nascosta la storia del diritto naturale delle genti eroiche del Lazio; così, perché tai poemi sono stati creduti lavori di getto d'un uomo particolare, sommo e raro poeta, ci hanno tenuta finor nascosta l'istoria del diritto naturale delle genti di Grecia.

3.

ISTORIA DE' POETI DRAMATICI E LIRICI RAGIONATA.

Già dimostrammo sopra tre essere state l'età de' poeti innanzi d'Omero: la prima de' poeti teologi, ch'i medesimi furon eroi, i quali cantarono favole vere e severe; la seconda de' poeti eroici, che l'alterarono e le corruppero; la terza d'Omero, ch'alterate e corrotte le ricevette. Ora la stessa critica metafisica sopra la storia dell'oscurissima antichità, ovvero la spiegazione dell'idee ch'andarono naturalmente faccendo le antichissime nazioni, ci può illustrar e distinguere la storia de' poeti dramatici e lirici, della quale troppo oscura e confusamente hanno scritto i filologi.

Essi pongono tra' lirici Anfione metinneo, poeta antichissimo de' tempi eroici, e ch'egli ritruovò il ditirambo e, con quello, il coro, e che introdusse i satiri a cantar in versi, e che 'l ditirambo era un coro menato in giro, che cantava versi fatti in lode di Bacco. Dicono che dentro il tempo della lirica fiorirono insigni tragici, e Diogene Laerzio afferma che la prima tragedia fu rappresentata dal solo coro. Dicono ch'Eschilo fu il primo poeta tragico, e Pausania racconta essere stato da Bacco comandato a scriver tragedie (quantunque Orazio narri Tespi esserne stato l'autore, ove nell'Arte poetica incomincia dalla satira a trattare della tragedia, e che Tespi introdusse la satira sui carri nel tempo delle vendemmie); che appresso venne Sofocle, il quale da Palemone fu detto l'"Omero de' tragici"; e che compiè la tragedia finalmente Euripide, che Aristotile chiama traghikótaton. Dicono che dentro la medesima età provenne Aristofane, che ritruovò la commedia antica ed aprì la strada alla nuova (nella quale caminò poi Menandro), per la commedia d'Aristofane intitolata Le nebbie, che portò a Socrate la rovina. Poi altri di loro pongono Ippocrate nel tempo de' tragici, altri in quello de' lirici. Ma Sofocle ed Euripide vissero alquanto innanzi i tempi della legge delle XII Tavole, e i lirici vennero anco dappoi; lo che sembra assai turbar la cronologia, che pone Ippocrate ne' tempi de' sette savi di Grecia.

La qual difficultà per solversi, deesi dire che vi furono due spezie di poeti tragici ed altrettante di lirici.

I lirici antichi devon essere prima stati gli autori degl'inni in lode degli dèi, della spezie della quale sono quelli che si dicon d'Omero, tessuti in verso eroico; dipoi deon essere stati i poeti di quella lirica onde Achille canta alla lira le laudi degli eroi trappassati. Siccome tra' latini i primi poeti furono gli autori de' versi saliari, ch'erano inni che si cantavano nelle feste degli dèi da' sacerdoti chiamati "salii" (forse detti così dal saltare, come saltando in giro s'introdusse il primo coro tra' greci), i frantumi de' quali versi sono le più antiche memorie che ci son giunte della lingua latina, c'hanno un'aria di verso eroico, com'abbiamo sopra osservato. E tutto ciò convenevolmente a questi princìpi dell'umanità delle nazioni, che ne' primi tempi, i quali furon religiosi, non dovetter altro lodar che gli dèi (siccome a' tempi barbari ultimi ritornò tal costume religioso, ch'i sacerdoti, i quali soli, come in quel tempo, erano letterati, non composero altre poesie che inni sagri); appresso, ne' tempi eroici, non dovetter ammirare e celebrare che forti fatti d'eroi, come gli cantò Achille. Così di tal sorta di lirici sagri dovett'esser Anfione metinneo, il qual altresì fu autore del ditirambo; e che il ditirambo fu il primo abbozzo della tragedia, tessuta in verso eroico (che fu la prima spezie di verso nel quale cantarono i greci, come sopra si è dimostrato); e sì il ditirambo d'Anfione sia stata la prima satira, dalla qual Orazio comincia a ragionare della tragedia.

I nuovi furono i lirici melici, de' quali è principe Pindaro, che scrissero in versi che nella nostra italiana favella si dicon "arie per musica"; la qual sorta di verso dovette venire dopo del giambico, che fu la spezie di verso nel quale, come sopra si è dimostrato, volgarmente i greci parlarono dopo l'eroico. Così Pindaro venne ne' tempi della virtù pomposa di Grecia, ammirata ne' giuochi olimpici, ne' quali tai lirici poeti cantarono; siccome Orazio venne a' tempi più sfoggiosi di Roma, quali furono quelli sotto di Augusto; e nella lingua italiana è venuta la melica ne' di lei tempi più inteneriti e più molli.

I tragici poi e i comici corsero dentro questi termini: che Tespi in altra parte di Grecia, come Anfione in altra, nel tempo della vendemmia diede principio alla satira, ovvero tragedia antica, co' personaggi de' satiri, ch'in quella rozzezza e semplicità dovettero ritruovare la prima maschera col vestire i piedi, le gambe e cosce di pelli caprine, che dovevan aver alla mano, e tingersi i volti e 'l petto di fecce d'uva, ed armar la fronte di corna (onde forse finor, appresso di noi, i vendemmiatori si dicono volgarmente "cornuti"); e sì può esser vero che Bacco, dio della vendemmia, avesse comandato ad Eschilo di comporre tragedie; e tutto ciò convenevolmente a' tempi che gli eroi dicevano i plebei esser mostri di due nature, cioè d'uomini e di caproni, come appieno sopra si è dimostrato. Così è forte congettura che anzi da tal maschera che da ciò: - che in premio a chi vincesse in tal sorta di far versi si dasse un capro (il qual Orazio, senza farne poi uso, riflette e chiama pur "vile"), il quale si dice trágos, - avesse preso il nome la tragedia, e ch'ella avesse incominciato da questo coro di satiri. E la satira serbò quest'eterna propietà, con la qual ella nacque, di dir villanie ed ingiurie, perché i contadini, così rozzamente mascherati sopra i carri co' quali portavano l'uve, avevano licenza, la qual ancor oggi hanno i vendemmiatori della nostra Campagna felice, che fu detta "stanza di Bacco", di dire villanie a' signori. Quindi s'intenda con quanto di verità poscia gli addottrinati nella favola di Pane, perché pãn significa "tutto", ficcarono la mitologia filosofica che significhi l'universo, e che le parti basse pelose voglian dire la terra, il petto e la faccia rubiconda dinotino l'elemento del fuoco, e le corna significhino il sole e la luna. Ma i romani ce ne serbarono la mitologia istorica in essa voce "satyra", la quale, come vuol Festo, fu vivanda di varie spezie di cibi: donde poi se ne disse "lex per satyram" quella la quale conteneva diversi capi di cose: siccome nella satira dramatica, ch'ora qui ragioniamo, al riferire di esso Orazio (poiché né de' latini né de' greci ce n'è giunta pur una), comparivano diverse spezie di persone, come dèi, eroi, re, artegiani e servi. Perché la satira, la quale restò a' romani, non tratta di materie diverse, poiché è assegnata ciascheduna a ciaschedun argomento.

Poscia Eschilo portò la tragedia antica, cioè cotal satira, nella tragedia mezzana con maschere umane, trasportando il ditirambo d'Anfione, ch'era coro di satiri, in coro d'uomini. E la tragedia mezzana dovett'esser principio della commedia antica, nella quale si ponevan in favola grandi personaggi, e perciò le convenne il coro. Appresso vennero Sofocle prima, e poi Euripide, che ci lasciarono la tragedia ultima. Ed in Aristofane finì la commedia antica, per lo scandalo succeduto nella persona di Socrate; e Menandro ci lasciò la commedia nuova, lavorata su personaggi privati e finti, i quali, perché privati, potevan esser finti, e perciò esser creduti per veri, come sopra si è ragionato; onde dovette non più intervenirvi il coro, ch'è un pubblico che ragiona, né di altro ragiona che di cose pubbliche.

In cotal guisa fu tessuta la satira in verso eroico, come la conservarono poscia i latini, perché in verso eroico parlarono i primi popoli, i quali appresso parlarono in verso giambico; e perciò la tragedia fu tessuta in verso giambico per natura, e la commedia lo fu per una vana osservazione d'esemplo, quando i popoli greci già parlavano in prosa. E convenne certamente il giambico alla tragedia, perocch'è verso nato per isfogare la collera, che cammina con un piede ch'Orazio chiama "presto" (lo che in una Degnità si è avvisato): siccome dicono volgarmente che Archiloco avesselo ritruovato per isfogare la sua contro di Licambe, il quale non aveva voluto dargli in moglie la sua figliuola, e con l'acerbezza de' versi avesse ridutti la figliuola col padre alla disperazion d'afforcarsi: che dev'esser un'istoria di contesa eroica d'intorno a' connubi, nella qual i plebei sollevati dovetter afforcar i nobili con le loro figliuole.

Quindi esce quel mostro d'arte poetica, ch'un istesso verso violento, rapido e concitato convenga a poema tanto grande quanto è la tragedia, la qual Platone stima più grande dell'epopea, e ad un poema dilicato qual è la commedia; e che lo stesso piede, propio, come si è detto, per isfogare collera e rabbia, nelle quali proromper dee atrocissime la tragedia, siesi egualmente buono a ricevere scherzi, giuochi e teneri amori, che far debbono alla commedia tutta la piacevolezza ed amenità.

Questi stessi nomi non diffiniti di poeti "lirici" e "tragici" fecero porre Ippocrate a' tempi de' sette savi; il quale dev'esser posto circa i tempi d'Erodoto, perché venne in tempi ch'ancora si parlava buona parte per favole (com'è di favole tinta la di lui vita, ed Erodoto narra in gran parte per favole le sue storie), e non solo si era introdutto il parlare da prosa, ma anco lo scrivere per volgari caratteri, co' quali Erodoto le sue storie, ed egli scrisse in medicina le molte opere che ci lasciò, siccome altra volta sopra si è detto.

home

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com

Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 01.43.15

email

top top