Home

Welcome

Email

De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Bar

LA SPOSA PERSIANA

Di: Carlo Goldoni

BulletSmall Bullet BulletSmall Bullet BulletSmall Bullet Bullet


Bar

ATTO TERZO

 

Scena I

Ibraima, Zama ed altre Schiave.

 

Ibraima:

Vedesti ancor la sposa?

Zama:

Poc’anzi l’ho veduta.

Ibraima:

Come ti piace?

Zama:

Assai.

Ibraima:

A me pure è piacciuta.

Parlar non le potei, ma sembrami gentile.

Zama:

Si conosce dal volto, ch’è affettuosa, umile.

Ibraima:

E pure, udisti Ircana?

Zama:

In lei parla lo sdegno.

Ibraima:

E Curcuma?

Zama:

La vecchia ha tal costume indegno,

Che a te di me parlando, te esalta, e me deprime;

E meco fa lo stesso, quando di te si esprime.

Ibraima:

Prego di cuore il cielo, che ami il padron la sposa,

E umilïata resti Ircana orgogliosa.

Zama:

E vedasi costei, cui servitude è grave,

Al bagno, ed alla mensa servir colle altre schiave.

Ibraima:

Qual merto aver presume la lusinghiera astuta?

Ella è, quali noi siamo schiava al signor venduta.

Zama:

E ancor per poco prezzo. Machmut l’ebbe alle mani

Per cento mamoède, che forman due tomani.

Ibraima:

Per me ne hanno sborsato quatordeci i meschini,

Che formano dugento gialli, europei zecchini.

Zama:

Lo so, che Machmut, avido di comprarmi,

Saziar non si potea di soppiato in mirarmi.

Pare a lodar volesse in me qualche bellezza,

Ma il costume ti è noto; chi vuol comprar disprezza.

Vidi però, che all’uso di Persia contrattando,

Le man col padre mio sotto il manto celando,

Le punta delle dita, le dita or curve, or tese

Tanto alternò, che alfine a dir "basta" s’intese;

E co la mano aperta, che suol valer per cento,

Mostrossi il padre mio del prezzo esser contento.

Ibraima:

Ma non aperse il pugno, che conta mille.

Zama:

Alfine

Noi siam Circasse, e siam del più colto confine.

E Ircana non è degna né men di starci a fronte.

Ibraima:

E soffrirem da lei busse, minaccie ed onte?

Affé se mi ci metto...

Zama:

Se mi ci metto anch’io...

Ibraima:

Vuo’ svellerle le chiome.

Zama:

Vuo’ fare il dover mio.

Ora che vi è la sposa non conta più nïente;

Finito avrà l’audace di far l’impertinente.

 

 

 

Scena II

Fatima, e dette.

 

Fatima:

(Desio mirarla in viso questa rival sì bella;

Qui con le schiave unite vi sarà forse anch’ella) (da sé).

Ibraima:

Vedi? (a Zama).

Zama:

La sposa (a Ibraima).

Ibraima:

O bella!

Zama:

Mira che luci oneste!

Fatima:

(La schiava fortunate qual mai sarà di queste?) (da sé).

Ibraima:

Via; faciamole onore (a Zama).

Zama:

Sì, l’obligo lo vuole (a Ibraima).

Ibraima:

Signora, che coi lumi splendete al par del sole,

Che a Venere in bellezza potete muover guerra,

Che avete nel bel ciglio l’arbitrio della terra,

Possano i cari figli, che voi darete al mondo

Regger dell’universo coi loro cenni il pondo.

Zama:

Di quelle lunghe chiome possano ai fili neri

In numero esser pari de’ figliuoli gl’imperi.

Venuta dalle stelle a noi per ornamento,

II lume, la ricchezza scemaste al firmamento,

Degna, che Persia tutta vi veneri e v’adori,

Regina delle donne, bell’idolo de’ cuori.

Fatima:

Donne, l’usato stile d’Oriente io non ammetto;

Adulazion mi spiace, candor bramo, ed affetto.

Al ver quest’alma avvezza, del ver s’appaga, e gode.

Serbate a chi l’apprezza l’iperbolica lode.

Ibraima:

Senti? Questa è virtude (a Zama).

Zama:

Virtude, che innamora (a Ibraima).

Fatima:

(Qual sia Ircana fra queste, non ben discerno ancora) (da sé).

Ibraima:

Sposa del signor nostro, che di lui donna siete,

Usate il poter vostro, e di me disponete.

Fatima:

(Questa non è) (da sé).

Zama:

Signora, sempre più in me si desta

Il desio di servirvi.

Fatima:

(Non è nemeno questa.

Fra quelle, che stan chete forse saravvi anch’ella

Ma pur niuna di quelle parmi superba, e bella) (da sé).

 

Scena III

Ircana, e dette.

 

Ircana:

Olà, qual ozio è questo? Le schiave in concistoro?

Itene immantinente ai giardini, al lavoro.

Fatima:

(Eccola, me l’addita quell’altero sembiante) (da sé).

Ibraima:

Frenate quell’orgoglio (a Fatima e parte).

Zama:

Punite l’arrogante (fa lo stesso).

Ircana:

(Chi è costei, che non parte?) (da sé).

Fatima:

(Numi, Consiglio, aita) (da sé).

Ircana:

(Ah sì la veggio; è questa la rivale abborrita.

Fuggasi) (da sé).

Fatima: Ircana.

Ircana:

A nome chi sei tu, che m’appelli?

Fatima:

Di Tamas la consorte questa è, con cui favelli.

Ircana:

E ben? che dir vorresti? che io son tua schiava?

Fatima:

Invano

Temi, che usar io voglia teco il poter sovrano.

Non servono con l’altre le schiave, che han l’onore

D’aver incatenato del signor loro il cuore.

Ircana:

Né comandare è dato a sposa non amata,

Per obbedire il padre, dal giovane sposata.

Fatima:

È ver, non lo contrasto; tu sei la più felice.

Vuoi, che io ti serva? Imponi!

Ircana:

A te servir non lice.

Donna fra suoni, e canti al talamo venuta,

Schiava obbedir non deve da’ parenti venduta.

Fatima:

Tal legge in un serraglio rare volte si osserva

Spesso il signor confonde colla sposa la serva.

Ircana:

E chi tal legge soffre mal volentier, sen rieda,

Pria che all’onta privata la pubblica succeda.

Fatima:

L’onte sfuggir non cura chi soffre, e non s’aggrava.

Ircana:

Donna, che soffre i torti è più vil di una schiava.

Fatima:

Qual torto, se non mi ama sposo, di te invaghito?

Ircana:

Non vi è ragion, che approvi le ingiurie d’un marito.

Fatima:

Con tai ragion condanni te sol di contumace.

Ircana:

Condanno te, se resti, se lo sopporti in pace.

Fatima:

Ma se ne’ lumi tuoi merto maggiore io vedo,

Se Tamas compatisco, se amo il tuo ben...

Ircana:

Nol credo.

Fingi ben, lo conosco, fingi soffrir suoi lacci,

Ma tanto più t’accendi, quanto più fremi, e tacci.

Chi sa sotto quel ciglio qual covisi lo sdegno,

Qual della mia rovina si mediti il disegno?

Fatima, donne siamo; parliam tra noi sincere,

Ciascuna in modi vari sa fare il suo mestiere,

Io d’un amor schernito non soffrirei gli affanni

Tu, se il tuo cuor lo soffre, o sei stolta, o m’inganni.

Fatima:

Stolta sarò.

Ircana:

Non dice d’esserlo chi è in diffetto.

Fatima:

Dunque?

Ircana:

Dunque tu celi colla pace il dispetto.

Fatima:

E tu con labro sciolto ad insultare avvezzo

Aggiungi all’altrui danno con l’ingiurie il disprezzo.

Vuoi, che lo sdegno io nutra? tu pur lo nutri in seno,

Ma con parole audaci non ne fo pompa almeno.

Ircana:

Taci; or siamo scoperte, sei mia nemica.

Fatima:

Ed io

Dovrei a chi m’insulta giurar lo sdegno mio.

Ma non temer, son tale, che a chi m’insulta ancora

Non posso il cor sincero serbar nemico un’ora.

Ircana:

Segno di tua viltade.

Fatima:

T’inganni; un segno è questo,

Che dell’anime vili la vendetta detesto,

E se la virtù stessa vuoi che per te mi aggrave,

Segno è, che non mi cale di altercar colle schiave.

Ircana:

Schiava son io che puote far tremare un’altera.

Fatima:

Anche di gallo il canto fa tremar una fera.

Ircana:

O parti, o Tamas d’una di noi vedrà la morte.

Fatima:

Veggala; ambe moriamo; ma dentro a queste porte.

Ircana:

Perfida!

Fatima:

Io non t’insulto.

Ircana:

Più il tuo tacer m’affanna.

Fatima:

Non la mia sofferenza, il tuo furor condanna.

Ircana:

Parto perché il tuo volto mi provoca, e m’uccide;

Più della morte ho in odio donna, che freme, e ride (parte).

 

Scena IV



Fatima sola.

No, non vogl’io pentirmi d’aver sofferto in pace,

Senza cambiar le offese, senza insultar l’audace.

L’ira sfogar col labbro con chi c’insulta è segno,

Che sopra la ragione, predomina lo sdegno.

È la viltà un estremo, temeritade è l’altro;

Prudenza è il mezzo onesto, in un nobile, e scaltro:

Nobile che gl’insulti sdegna, conosce, e prova;

Scaltro, che per virtude sa simular, se giova.

Era di quell’indegna ogni superbo detto

Aspra mortal ferita d’una consorte al petto;

Ma a lei giovar potea più, che a me l’irritarmi

Empia per questo Ircana tentò di provocarmi,

Ed io l’ira celando, senza mostrarla in viso,

Le ingiurie, e le minaccie ricompensai col riso:

Tamas, che l’abbia offesa dir non potrà, se affetto

Tenero le promisi, e le mostrai rispetto.

Pietà più facilmente sperare alle mie pene

Posso nel di lui cuore... Eccolo, che a me viene.

 

Scena V

Tamas, e detta.

 

Tamas:

(Eccola quell’audace; creduto ah non l’avrei...

Onte, insulti ad Ircana? Provi gli sdegni miei) (da sé).

Fatima:

Sposo?

Tamas:

T’accheta, e parti.

Fatima:

A me che parta? Oh cielo!

Tamas, alla tua sposa?

Tamas:

Torna a riporti il velo.

Fatima:

Come?

Tamas:

Divorzio io chiedo.

Fatima:

Senza ragion?

Tamas:

Ragione?

È il mio voler, t’accheta: femmina invan s’oppone.

Fatima:

Io vi dissento; è legge nell’Alcoran firmata,

Che non sia moglie a forza senza ragion scacciata.

Al Cadì si ricorra, egli, che il dritto regge,

Esamini le colpe, interpetri la legge.

Tamas:

Che parli di Cadì, di legge, e d’Alcorano?

Io son nei tetti miei l’interpetre, e il sovrano.

Fatima:

Ah signor qual mia colpa v’arma a sì ria vendetta?

Tamas:

Non merta l’amor mio colei, che nol rispetta.

Fatima:

Che dir volete? Ircana...

Tamas:

Sì, l’insultasti, audace.

Fatima:

Ah non è ver.

Tamas:

T’accheta; non è Ircana mendace.

Fatima:

Ella che l’insultassi può sostenere? L’afferma

Francamente il suo labbro?

Tamas:

E Curcuma il conferma.

Fatima:

Curcuma? scellerata! Quella, che un rio veleno...

Tamas:

Doveva alla mia schiava dar, per tua legge, al seno.

Ma il cielo...

Fatima:

Ah non è vero.

Tamas:

Perfida!

Fatima:

Ah son tradita.

Tamas:

Indegna d’uno sposo, indegna della vita.

Togliti agli occhi miei; non vi sarà chi invano

Teco d’unirmi ardisca col cuore, o con la mano;

E se volesse il padre, a forza, e a mio dispetto,

Ti caccerei, ribalda, questo pugnale in petto

(sfodra un pugnale).

Fatima:

Aita...

 

Scena VI

Machmut, e detti.

 

Machmut:

Olà, che tenti?

Tamas:

Minaccio, e non ferisco.

Machmut:

Chi minacci?

Tamas:

Un’indegna.

Machmut:

Sei tu? (a Fatima). (Non lo capisco) (da sé).

Fatima:

Son io quell’infelice, che ha la gran colpa in seno

D’aver alla sua bella...

Tamas:

Preparato il veleno.

Fatima:

Ah mi fulmini il cielo! orrida sepoltura

M’apra quindi la terra, se ciò fia ver.

Tamas:

Spergiura!

Machmut:

Fatima, ti allontana.

Fatima:

Pietà!

Tamas:

Parti.

Fatima:

Obbedisco.

Miratemi signore, m’insulta, ed io languisco (a Machmut).

Soglion le spose in Persia, per gelosia di schiave,

Chiedere esse il divorzio, e a me par duro, e grave

Poiché se per destino seco mi sono unita,

Mi han per destino ancora, quegli occhi suoi ferita.

Vendetta non domando, vendetta non procuro;

Veleni non conosco, tocco la fronte, e il giuro.

Pietà chiedo allo sposo, se invan gli chiedo affetto:

Ecco la sua pietade, m’alza un pugnale al petto.

Morirei pria di dirlo al Muftì, o al Divano,

Lo dico al genitore, che per il figlio è umano.

Bramo la di lui pace, bramo, che mi ami, e viva;

Io morirei più tosto ch’essere di lui priva.

Signor, voi padre siate di me qual dello sposo,

Nuora non abbandoni il suocero amoroso.

Attenderò il decreto, pene, supplicii, e morte;

Tutto, fuor che staccarmi dal mio crudel consorte (parte).

 

Scena VII

Machmut e Tamas.

Machmut:

Misera, sventurata!

Tamas:

Colei...

Machmut:

Taci, e m’ascolta.

Tamas:

Non conoscete il cuore...

Machmut:

Rispettami una volta!

Tamas:

Vi ascolterò.

Machmut:

Tu celi sotto ragion mendace

L’amor, che nutri in seno per una schiava audace.

Di questo amore indegno niun ti contrasta il foco;

Si tollera, si tace, e per te ancora è poco?

Tace, e tollera un padre, lo fa la sposa istessa;

Tu il genitore insulti, vuoi la consorte oppressa...

Tamas:

Una consorte indegna...

Machmut:

Taci.

Tamas:

Che per vendetta...

Machmut:

Taci.

Tamas:

Non parlo.

Machmut:

Ardito! m’ascolta, e mi rispetta.

Che far puote in un giorno, anzi in poch’ore appena,

Al talamo guidata, figlia di rossor piena?

A preparar veleni, a meditar fierezza,

Tempo vi vuole, e un’alma ai tradimenti avvezza.

Sciocchi pretesti indegni d’alma ribalda e nera,

Sedotta da una schiava, che le comanda altera!

Empio, col ferro in mano minacci una donzella?

Ecco perché l’Europa barbari noi appella;

Non per le leggi nostre, non per il culto al Nume,

Non perché di scienza in noi non siavi il lume;

Ma perché un uom lascivo, pien di scorrette voglie

Al piacer d’una schiava sagrifica una moglie.

Tamas:

Permettete, ch’io parli?

Machmut:

Oh traccotanza estrema!

Non lo permetto ancora; odimi, audace, e trema.

Trema del tuo destino, trema del tuo periglio:

Odi a che mi esponesti, ingratissimo figlio.

Non si conosce in Persia nobiltà de’ natali!

Fuor della regia stirpe, tutti siam nati eguali,

E quel più si distingue fra noi, che ha più fortuna,

Quel, che ha gli onori in casa, e le ricchezze aduna.

Lo sai che il padre mio per Angli, Ispani, e Galli

Con le sue man pescava le perle, e i coralli;

Ei col denaro, a forza di sudori acquistato,

Mi ha questo pingue officio di finanzier comprato;

Ed io per le gabelle, esposto a gente ardita,

Mille soffersi ingiurie, ed arrischiai la vita.

Or tu, che unico sei, d’ogni mio bene erede,

Cui, dopo me, comprata ho la medesma sede,

Tu, ingratissimo figlio, anzi che sollevarmi,

Con onte, e con insulti vorrai precipitarmi?

Sai pur, che ogni pretesto serve al giudice avaro

A togliere in Oriente le cariche, e il denaro.

E sai che facilmente soggetto è a tal periglio

Anche il padre innocente, per le colpe del figlio.

Tu minacciar la sposa? Tu con il ferro in mano,

Minacciar la figliuola del terribile Osmano?

Sai tu qual pena avresti, se incauto l’uccidevi?

(E ucciderla pur troppo, s’i’ non venia, potevi).

Ecco la legge: un reo, che abbia talun svenato,

Conducesi da’ schiavi al tribunal legato;

Fatto il processo in breve, confessor ovver convinto,

Consegnasi ai parenti dell’infelice estinto;

Ed essi, con tormenti inusitati, e strani,

Dell’uccisor nel sangue si lavano le mani.

Anche le donne stesse, per legge altrui celate,

Sono per tai tragedie in libertà lasciate,

Con l’ugne, e con i denti straccian le carni, e i crini

Avide di vendetta, fiere più de’ mastini.

Di’, che ti pare? Ircana merta d’avere il vanto

Che il suo signor per lei s’accenda, e arrischi tanto?

Tamas:

Posso parlar, signore?

Machmut:

Parla, sì, tel concedo.

Tamas:

Padre, se per Ircana...

Machmut:

Osmano quel ch’io vedo (osservando verso la scena).

Tamas:

Se per Ircana il petto...

Machmut:

Parti.

Tamas:

Ma dunque invano

Potrò sperar, signore....

Machmut:

Lasciami con Osmano.

Tamas:

(Non so che dir; dal padre il cor mi si divide,

Fatima mi tormenta, ed Ircana mi uccide) (da sé e parte).

Machmut:

Parmi commosso, oh cielo! Tamas, lo sai, se ti amo,

Ma il periglioso laccio veder troncato io bramo.

 

Scena VIII

Osmano, e Machmut.

 

Osmano:

Che ha Fatima, che piange?

Machmut:

Non lo chiedesti a lei?

Osmano:

Mostra di non saperlo.

Machmut:

Io più nol chiederei.

Osmano:

Odimi: due poeti del seguito festoso

Cantano della sposa le lodi, e dello sposo;

Ma in mezzo ai loro canti, in mezzo ai loro accenti,

Framischiano sovente le satire pungenti.

Fatima (un di quei dice), Fatima è mia sovrana,

Ma dovrà star soggetta alla mia schiava Ircana.

Fatima un sol rassembra (l’altro poeta disse),

Ma un sole, a cui minaccia l’altro pianeta ecclisse.

Io loro avrei d’un colpo tronca la testa, e il canto;

Rispettai le tue soglie, l’ira frenai; ma intanto,

Dimmi tu, che il saprai, chi è quest’ardita Ircana;

Che potrebbe a mia figlia comandar da sovrana?

Machmut:

Ah indegni, scellerati satirici cantori,

Che or fanno i maldicenti, or fan gli adulatori,

E quando dicon bene, e quando dicon male,

Sempre in lor l’interesse alla ragion prevale!

Possano andar raminghi per l’Asia, e mal pasciuti,

Come in Europa sono in obbrobrio venuti,

Sbanditi dare genti cotai spiriti inquieti,

Derise, e svergognate le satire, e i poeti.

Odimi, Osmano, il vero celar fia cosa vana

Mio figlio ama una schiava, il di cui nome è Ircana.

Osmano:

Che ami una schiava, è poco; ne ami anche dieci, è nulla;

Sposa soffrir lo deve, sia donna, o sia fanciulla.

Basta, che non ardisca per un amore insano

Tenere a lei soggetta la figliuola di Osmano.

Machmut:

No, non temer.

Osmano:

Se invano temer ciò si dovesse,

Non sentiriansi i vati cantar satire espresse;

Le donne dagli eunuchi han preso l’argomento,

E Fatima è ormai resa l’altrui divertimento.

Machmut:

Da un padre, e da un amico chiedo consiglio, e aita.

Osmano:

Odimi: a quante schiave questa superba è unita?

Machmut:

Quelle del genitore non son quelle del figlio.

Le sue dieci saranno.

Osmano:

Eccoti il mio Consiglio.

Dieci donne son troppe; vendi l’audace Ircana.

Cesserà ogni periglio, quando è costei lontana.

Machmut:

Facciasi.

Osmano:

Ogni dimora può assassinare il cuore

Di un figlio affascinato.

Machmut:

Si cerchi il compratore.

Osmano:

Come è costei?

Machmut:

Vezzosa.

Osmano:

Giovine?

Machmut:

Giovinetta.

Osmano:

Lavora?

Machmut:

Nel ricamo l’ho trovata perfetta.

Osmano:

La comprerò.

Machmut:

A qual prezzo?

Osmano:

Vederla, e si contratti.

Machmut:

Fra due, che giusti sono brevi saranno i patti.

Olà... Curcuma io voglio (esce un eunuco, e parte).

Osmano:

Chi è costei?

Machmut:

La custode.

Osmano:

Queste son ne’ serragli maestre d’ogni frode.

 

Scena IX

Curcuma, e detti.

 

Curcuma:

Eccomi: (oh me meschina!) un uom, che mi ha veduta.

Presto, pria, che si dica, che ho l’onestà perduta (vuol coprirsi).

Machmut:

Odimi.

Curcuma:

Si, signore (coprendosi).

Machmut:

Qual timore improviso?

Curcuma:

Non v’è un uomo? mi sento i rossori sul viso.

Machmut:

Vieni; l’età canuta ti salva dal rigore.

Curcuma:

Eh, se sono canuta, è per troppo calore.

Machmut:

Odimi.

Curcuma:

Dite pure.

Machmut:

Eh scopriti, schifosa.

Curcuma:

Signor sì; sono stata sempre un po’ vergognosa.

Machmut:

Fa, che Ircana a me venga, e se venir non vuole.

Usa la forza, quando non vaglian le parole;

Legata dagli eunuchi, guidala al mio cospetto.

Eseguisci il comando, sollecita ti aspetto.

Curcuma:

Legata? strascinata? oh povera ragazza!

Più tosto son qua io...

Machmut:

Vanne: sei vecchia, e pazza.

Curcuma:

Oh questo maltrattarmi, signor padron mio caro,

Dirmi che sono vecchia è un boccon troppo amaro.

Per le fatiche il viso par un po’ crespo, e vecchio,

Ma sono le mie carni lustre come uno specchio (parte).

 

Scena X

Machmut, e Osmano.

 

Machmut:

(Giovine sventurato!) (da sé).

Osmano:

Machmut, che pensi?

Machmut:

Ah penso

Qual dolore il mio figlio proverà crudo, intenso!

Osmano:

Dagli una sciabla, un arco, dagli un agil destriero,

Meco in tre giorni al campo dilegua ogni pensiero;

Stanco di tollerare la neghittosa pace,

II Perso valoroso vuole attaccare il Trace;

Poiché, quantunque uniti sien sotto l’Alcorano,

Sono i più fier nemici il Perso, e l’Ottomano.

L’una e l’altra nazione venera, il sai, Maometto,

Ma abbiam noi per Alì forse maggior rispetto.

E quei nel nostro Impero, che ci governa, e regge,

Col parer degl’Omani interpreta la legge.

Venera il Turco Omar, Albumelech, Osmano,

Diviso in due partiti il popol monsulmano.

Articoli di legge tengono in aspra guerra,

Due principi fra loro formidabili in terra.

Machmut:

Tu nel parlar di guerra perdi te stesso: osserva:

Ecco la schiava.

Osmano:

A forza guidano la proterva.

 

Scena XI

Ircana tenuta legata da due eunuchi, e detti.

 

Ircana:

Ah signor, perché in lacci? Misera! in che peccai?

Che da me si pretende?

Machmut:

Chetati, e lo saprai.

Ircana:

Fammi coprire almeno dinnanzi a uno straniero.

Machmut:

(Mirala qual ti sembra?) (ad Osmano).

Osmano: (Ha il portamento altero) (a Machmut).

Machmut:

Piaceti?

Osmano:

Non mi spiace.

Machmut:

Se la vuoi contrattiamo.

Osmano:

Sotto il manto le mani (pongono le mani sotto le vesti).

Machmut:

Prestamente accordiamo.

Ircana:

(Ah che il crudel mi vende! In tal modo fu fatto

Già da Machmut istesso col padre mio il contratto) (da sé).

Misera me! lasciate, perfidi, un’infelice (tenta liberarsi dalle catene).

Tamas più non m’ascolta, sperar più non mi lice.

Machmut:

Basta cosi, son pago.

Osmano:

Avrai tosto il contante;

Avrai zecchini cento, del nuovo giorno innante.

Ircana:

Ah per pietà, signore, a qual destin funesto?... (a Machmut).

Machmut:

Schiava mia più non sei, il tuo signore è questo (parte).

Osmano:

Seguimi (ad Ircana).

Ircana:

Ah pria di trarmi lungi da questo tetto,

Pensate, che di Tamas son io l’unico affetto.

Osmano:

E tu pensa, ch’io sono padre della sua sposa;

Ti tratterò qual merti, femina orgogliosa (parte).

Ircana:

Ahimé? che intesi mai? Ahimé, l’amor, la vita...

Tamas, Tamas, mio bene, io parto; io son tradita

(parte cogli eunuchi).

Bar

Home

Next

Back

Email

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:17/07/2005 20.14

Bulletpkvgb.gif (2336 byte)Bullet

Victorian Elegance
Bar