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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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LA SPOSA PERSIANA

Di: Carlo Goldoni

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ATTO SECONDO

Scena I

Ircana e Curcuma.

Ircana:

Ah Curcuma, e fia vera la nova dolorosa?

Tamas andò egli istesso ad incontrar la sposa?

Curcuma:

Questi occhi lo han veduto, e, qual da giovinetta

Conservo (grazie al cielo) la vista ancor perfetta.

Ircana:

Ohimè!

Curcuma:

Non vi affliggete, di già ci siamo intese;

M’impegno, che la sposa viva non dura un mese,

Ho tutto preparato, rospi, cicute, e fieli,

E d’animali immondi sangue, cervella e peli;

Delle spinose piante nutrite in Carmania

Che avvelenano i venti, ne ho sempre in mia balìa.

Ho l’antimonio, il sale, il solfo e l’orpimento,

E mancami soltanto dell’oro, e dell’argento.

Ircana:

Eccome, prendi questo (si strappa uno smaniglio).

Curcuma:

Piano non lo strappate;

Spiacemi, che d’un fregio la bella man spogliate.

E pur fia necessario scioglierlo in una tazza.

(Sciogliere lo smaniglio? Affé, non son sì pazza) (da sé).

Ircana:

Ma incontro alla sua sposa è volontario andato

Tamas, o da suo padre a forza strascinato?

Curcuma:

Non so; ma l’ho veduto montar sul suo destriere,

Tutto coperto d’oro, che a mirarlo è un piacere,

Al lato era del padre, intorno avea parenti,

Preceduto da turba di servi, e di stromenti.

L’eunuco Bulganzar (quel sozzo eunuco nero,

Che se far lo potesse, farebbe altro mestiero)

Egli si è ritrovato in mezzo alla brigata,

Allor che fu la sposa dal giovine incontrata,

Là dove il Sanderut vicin, con l’acque sue

Tra Zulfa ed Ispaan parte il terreno in due;

Fatima, d’ogn’intorno da schiave circondata.

Sedea sopra un camello colla faccia velata.

Con tante ricche vesti, con tante perle, ed oro,

Che abagliava la vista, avea seco un tesoro.

Però la sopraveste ch’avea la sposa intorno,

E parte delle gioie onde il bel crine è adorno,

Bulganzar mi assicura, che fur, due giorni sono,

Da Machmut mandate alla sua nuora in dono.

Tale è in Persia è costume, ahi troppo dolorosa

Disparità, che passa tra una schiava, e una sposa!

Curcuma, tu mi uccidi, tu m’empi di dispetto,

Vedrai morire Ircana con uno stile in petto.

Curcuma:

Sì, quando al fianco vostro Curcuma non aveste,

E di costei, che vi ama, fidar non vi poteste.

O Tamas vi è fedele, e Fatima sen riede,

O ch’io ben ben lo concio, quando manco sel crede.

In ogni guisa certa io son del vostro bene...

Sentite i gridi, i suoni; ecco la sposa viene.

Ircana:

Ah non voglio vederla; ah non fia mai, che a quella

Fia destinata Ircana servir schiava, ed ancella.

Al figlio lo protesta, e al genitore istesso;

Dieci siam nel serraglio d’età pari, e di sesso.

Di me conto non facci, meco non usi orgoglio;

Schiava di Tamas sono, donna servir non voglio.

Digli, che non mi cale d’esser tra ferree porte,

Che Ircana non paventa onte, minaccie, e morte (parte).

 

Scena II

Curcuma sola.

La compatisco in parte, ma in parte la condanno;

Perché per una sposa prendersi tanto affanno?

Esser vuol sola sola? Un uom tutto per lei?

D’un che ne avesse trenta io mi contenterei.

Ma Curcuma infelice! la bella età sen vola,

Né trovo chi mi voglia, né in compagnia, né sola.

Quel disgraziato eunuco mi fa sì gran dispetto!

Mi segue e mi tormenta... eunuco maledetto!

Oh se valer potesse delle malìe la forza,

Vorrei di questo viso mutar l’antica scorza,

E liscie ritornando tuttor le carni mie,

Non offrirei per altre usar le stregarie.

Quest’è l’acciecamento di chi ci ascolta, e crede:

Spera 1’effetto in lui di quel, che in noi non vede.

Ho avuto uno smaniglio col parlar destro, e scaltro,

E certo non diffido d’avere anche quell’altro;

Uno smaniglio solo a Ircana disconviene.

Su queste nere mani starebbero pur bene!

Ma vuo’ veder la sposa; ella ne avra de’ belli!

Oh se potessi averne un paio anche di quelli!

Chi sa? La donna antica, se il bel fiore ha perduto,

Senno acquista col tempo, e fa il pensiere arguto.

Vedrò s’ella ha bisogno punto dell’arti mie,

Di lisci, di profumi, d’inganni, e di malie.

La vita che mi resta (già che ho d’amar finito)

Vuo’ saziar l’ambizione, la gola, e l’appetito.



Scena III

Machmut, Fatima coperta d’un velo, ed Osmano, preceduti da vari instrumenti; e seguito di schiavi, che portano su vari bacini la dote delta Sposa.

 

Osmano:

Figlia, questo che premi, del tuo sposo il suolo:

Fuor del paterno impero, devi obbedir lui solo.

Finor t’increbbe forse il giogo de’ parenti,

Tanto più ai figli in odio, quanto a lor bene intenti;

Ma non pensar per questo orgoglïosa, altera,

D’aver, per esser donna, la libertade intera.

Passi da un giogo all’altro; qual più pesante, e stretto

A te non saprei dirlo, che tu mel dica aspetto.

Pur se soave il brami, sta in tua balía; contenta

Il tuo destino incontra, il tuo dover ramenta.

L’obbedienza, che usasti ai genitor severi,

Usala in avvenire dello sposo agl’imperi;

Che se obbedisti il padre talor con qualche stento,

Nell’obbedir lo sposo troverai più contento.

Amalo, e coll’amore anche il servir sia misto,

Se vuoi del di lui cuore formar l’intero acquisto.

Schiave avrà il tuo consorte, l’uso comun ti è noto,

Non esca dal tuo labbro contro di loro un voto;

Ma vincerle procura, accanto al tuo diletto,

In amore, in dolcezza, in virtude, in rispetto;

Ed ei, trovando il merto col casto nodo unito,

Amerà con costanza gli amplessi di marito.

Figlia, ti lascio; osserva, ecco quanto potei

Per formarti la dote trar dagli erari miei.

Ma più di gemme, e d’oro, nei mali, e nei perigli,

Vaglianti per tua scorta questi ultimi consigli.

Ama quel che amar lice, non quel che giova, e piace;

Serba, promovi, e cura la domestica pace:

Misura con l’onesto e l’utile, e il diletto,

Prima il ciel, poi lo sposo: soffri, conosci; ho detto (parte).

 

Scena IV

Machmut, Fatima, e li suddetti.

 

Machmut:

Olà, parta ciascuno; in libertà qui resti

Dello sposo la sposa ai primi sguardi onesti.

Figlia, che con tal nome posso chiamarti anch’io,

Se unita fra momenti sarai col sangue mio,

Non so quale a’ tuoi occhi recato abbia diletto

Quel che or mirasti appena sposo tuo giovinetto.

Non brilla ad esso in volto gran vezzo, e gran bellezza,

Ma la beltade in uomo non è quel che si apprezza.

Valor, sangue, decoro, virtù, costanza, e amore.

Questo è quel, che di donna rende felice il cuore.

L’amor non nasce a un tratto, col tempo in sen si accende:

Male, se a’ primi colpi un debil cuor si arrende.

Se il figlio mio non langue, tosto che può mirarti,

Usa di sposa amante, i vezzi, i sguardi, e l’arti.

Soffri da prima il gelo, o lo vedrai fra poco

Ardere ai tuoi bei lumi, ardere al tuo bel foco.

Vietare io non potei, per legge, o per costume,

Ch’egli non rimirasse di qualche schiava il lume.

Ma spero (e lo vedrai) che sol di te contento,

Ogni straniero fuoco nel suo cor sarà spento

(Fatima si va contorcendo).

No, non ti dia ciò pena. Fatima, tel prometto

Che t’amerà; sii certa; eccolo il giovinetto.

Sola con lui ti lascio; scopriti, e lo consola;

Fagli gustar il dolce di qualche tua parola.

Se un dardo da’ tuoi lumi entro il suo cuor sia spinto,

Fatima, non temere, egli ti adora, hai vinto (parte).

 

Scena V

Fatima sola.

Misera me, che sento? Qual rio serpe geloso

Prevenuto ha il momento da scoprirmi allo sposo?

Negletta s’io mi vedo per una schiava audace,

Come tacer penando? come soffrirlo in pace?

E se un divorzio ingrato mi torna al genitore,

Qual menerei mai vita tra il dispetto e il rossore?

Ah mi lusingo ancora! Eccolo; giusti Dei,

Piacessi agli occhi suoi, come egli piace ai miei.

 

Scena VI

Tamas, e detta.

 

Tamas:

(Eccomi al gran cimento. Ah quel ch’io temo in quella

È, che d’Ircana sia più vezzosa, e più bella

E tanto in lei sorpassi beltà, grazia, e costumi,

Ch’io resister non possa al poter de’ suoi lumi.

Arder mi sento in seno... e l’ho veduta appena...

Scoprasi il volto ignoto; escasi ormai di pena) (da sé).

Sposa, a voi si presenta tal, che ha per voi rispetto,

E pari aver desia alla stima l’affetto.

Quest’è il primier momento, che ad uom scoprir vi lice:

Svelatevi a’ miei lumi; fatemi omai felice.

Fatima:

Dolce obbedire a sposo, che può volere, e prega;

Squarcierò il velo ingrato, che disciogliersi niega.

Ecco la sposa vostra, ecco la vostra ancella (si scuopre),

Che v’ama, che v’adora.

Tamas: (No, che non è più quella)

(da sé).

Fatima:

Signor, se questi luci a voi non sembran vaghe,

Se in me non v’è beltade, che il genio vostro appaghe,

Non disprezzate almeno le fiamme d’una sposa,

Che a voi destina il cielo.

Tamas:

(Ircana è più vezzosa) (da sé).

Fatima:

(Misera, son perduta; ogni speranza è estinta) (da sé).

Tamas:

(Fatima è bella, è vero, ma nel confronto è vinta) (da sé).

Fatima:

(Vezzi di sposa amante, arte di moglie onesta,

Deh non mi abbandonate in occasion funesta) (da sé).

Tamas:

(Ma che farò? Mi duole darle un sì rio tormento)

(da sé).

Fatima:

Tamas, nel vostro volto veggo un fier turbamento;

Quelle nozze, a cui fummo dal genitor costretti,

Non han delle alme nostre preparati gli affetti

E s’io tosto in mirarvi arder d’amor m’intesi,

Forse nel vostro petto fuoco di sdegno accesi.

Colpa, voi lo vedete, mia non è, se vi spiaccio,

La destra ambi porgemmo obbediente al laccio.

V’amo, Tamas, v’adoro, ma non per questo io voglio

Obbligarvi ad amarmi con vezzi, e con orgoglio.

Solo in mercé d’amore grazia vi chiedo, e spero;

Anima generosa, parlatemi sincero.

Ditemi se m’odiate, per mio infelice aspetto,

O se beltà più vaga v’abbia ferito il petto.

Tamas:

Fatima, non lo niego; a forza i’ son marito,

Questo sen, questo cuore, è ver, fu già ferito.

Pregai che in libertade fosse di noi la mano,

Per mio, per vostro bene; ed il pregar fu vano.

II genitor meschiando le lusinghe all’impero

M’empié l’alma di foco, di speranza il pensiero.

Sperai ne’ vostri lumi trovar cotal valore,

Che avesse a mio dispetto ad involarmi il cuore;

E mi credei che il danno di perdere il mio bene

Costar non mi dovesse tanti sospiri, e pene.

Vi scopriste, v’ammiro: bella e vezzosa siete;

Ma cancellar quell’altra dal cuor non mi potete.

Fatima:

Né cancellarla io spero, né in me vuo’ che si dica,

Che in vece d’una sposa, trovaste una nemica.

Ma di me sventurata, signor, che sarà mai?

Tamas:

Fatima, non so dirlo; ancor non ci pensai.

Fatima:

Sposi noi siamo, è vero, ma niun de’ nostri petti

Può esaminar gli ardori, può discoprir gli affetti.

Celisi in faccia al mondo, che il volto mio vi spiace,

Io soffrirò, che amiate la mia rivale in pace.

Tamas:

Bella virtù, che merta amante a voi più grato!

Fatima, lo confesso, compiango il vostro stato;

Poco chiedete, in premio d’un cor di virtù pieno,

E il poco, che chiedete, posso accordar nemeno.

Fatima:

Misera me! Vorreste col rossor d’un rifiuto

Rendermi d’una schiava vergognoso tributo?

Che gelosia le puote rendere una consorte,

Fra tante, e tante donne rinchiuse in queste porte?

Teme che io le comandi? Non lo farò, il prometto.

Ha timor, che io l’insulti? No, le userò rispetto.

La servirò (se lice servire ad una moglie,

Senza oltraggiar l’amato signor di queste soglie).

Che vol di più? Lo dica; farlo vi do parola.

Tamas:

Gelosa è del cuor mio; brama regnarvi sola.

Fatima:

Sola? Di sì bel regno l’arbitra non io sono,

Voi sugli affetti vostri, dar le potete il trono.

Sola nel vostro cuore fate che regni in pace;

Usi pietà, non ira, con chi lo vede, e tace.

Soffra, che possa almeno errar fra queste mura

Confusa fra le donne, nate di stirpe oscura;

Ed a soffrir le insegni, senza esserne sdegnosa,

L’esempio avanti agli occhi d’una non vile, e sposa

(piange).

Tamas:

(Muove pietà col pianto, misera donna oppressa.

Se la vedesse Ircana, pietà ne avrebbe anch’essa)

(da sé).

Fatima:

Da voi sposata appena, se lungi mi scacciate,

Pensate a qual destino, signor, mi condannate.

È ver che ripudiata donna talor si sposa,

Ma espiar le conviene la macchia vergognosa.

Colpa non ho, che vaglia a meritar disprezzi,

Non v’è ragion, per cui nodo fra noi si spezzi.

Pien di furore, e sdegno il padre mio, la morte,

Per vendicar la figlia, vorrebbe del consorte;

Ed io, che di adorarvi, misera, ancor mi vanto,

Per voi, non per me stessa, mi struggerei nel pianto

(piange).

Tamas:

Fatima, non piangete, a voi torno a momenti.

(Che stile inusitato! che amor! che dolci accenti!

Ah voglia il ciel, che Ircana m’oda, s’arrenda, e taccia.

Se nega? se persiste? Non so quel che mi faccia) (parte).

 

 

Scena VII

Fatima sola.

 

Padre mio, se veduta m’avessi in tal periglio,

Diresti, che seguito non abbia il tuo consiglio?

Potea soffrir di più? Di più soffrir mi resta?

Bella consolazione per una sposa è questa!

Nel momento primiero, che scopromi allo sposo,

Veggolo nel mirarmi immobile, e ritroso.

Misera, e quand’io spero m’accolga fra le braccia,

Volge le luci altrove, e non mi guarda in faccia!

Oltre al dover, son prima a scioglier la favella,

Non ha rossore a dirmi, che la sua schiava è bella,

Che l’ama, e che pretender per contentar l’audace,

Sagrificar la sposa, e rimandarla in pace.

Vile non son; de’ torti sento nell’alma il peso,

Veggo l’amor di sposa, veggo l’onore offeso.

Ma che giovar poteami con un che mi disprezza,

Con un che può scacciarmi, lo sdegno, e la fierezza?

Quel che non fa la pace, quel che non fa l’amore,

Coi sposi monsulmani far non puote il furore.

Dissimular conviene, soffrir la crudeltade

Per moverlo col tempo a dolcezza, a pietade;

E celando nel petto la gelosia cruciosa,

Agli occhi del crudele rendermi meno odiosa.

Per me di morte istessa più barbaro è il dolore

Di cedere a una schiava del mio diletto il cuore;

Ma perché ciò non segua, dir degg’io di volerlo,

E guadagnar lo sposo, mostrando compiacerlo.

 

Scena VIII

Curcuma, e detta.

 

Curcuma:

Sposa gentil, e vaga, degna d’eterna lode,

Curcuma a voi s’inchina, delle donne custode.

Fatima:

Sì, cara mia, prendete, d’aggradimento in segno,

Questo di vero affetto amichevole pegno (s’abbracciano).

Curcuma:

Siete gentil davvero; bella siete, e graziosa.

(E parmi, che esser debba discreta e generosa) (da sé).

Fatima:

Ditemi: quante schiave Tamas ha in suo potere?

Curcuma:

(Principia dalle schiave). Dieci ne suole avere

(Principia dalle schiave lo dice da sé).

Fatima:

Son belle? son vezzose?

Curcuma:

Oibò, non ve n’è alcuna

Che delle grazie vostre possa vantarne una.

Fatima:

Però non mi crediate soggetta a gelosia:

Codesta in un serraglio sarebbe una follia.

Curcuma:

Certamente (con ironia).

Fatima:

Ma pure bramo sapere anch’io

Qual sia la più diletta, fra voi, del signor mio.

Curcuma:

Vi dirò; veramente, ha per me qualche affetto,

Ma statene sicura, non abbiate sospetto.

Se meco qualche volta accendersi lo veggo,

Gli batto su le mani, lo sgrido, e lo correggo.

Fatima:

Né per il grado vostro, né per la vostra etade,

Si può temer.

Curcuma:

No, dite, perché amo l’onestade.

Fatima:

Tamas non ha di voi, chi più gli punga il cuore?

Curcuma:

Eh disgraziato! Basta; non vuo’ darvi dolore.

Fatima:

Via, lo so, d’una schiava egli è perduto amante:

Ditemi, come ha ricco di grazie il bel sembiante?

Curcuma:

Eh! mi fareste dire; con voi, la mia fanciulla,

Le grazie di colei non vagliono per nulla.

Avete, gioia mia, un viso che innamora,

E alle mie mani poi sarà più bello ancora.

Di lisci, e di pomate io son maestra antica;

Tutte per farsi belle mi vorrebbono amica.

Fatima:

Sinora io non usai, sien brutte, o sieno belle,

Su queste guancie mie di mascherar la pelle.

Lo farei, se credessi di render più gradito

L’infelice mio volto agli occhi del marito;

Ma inutil la bellezza, inutile è l’amore,

Con un, che ad altra amante abbia donato il cuore.

Curcuma:

Proviam?

Fatima:

No; non mi piace.

Curcuma:

Le mani almen potete...

Ah quante belle gemme su queste mani avete!

Fatima:

Ecco un altro costume, di cui farei di meno:

S’ornano inutilmente le dita, il collo, il seno.

Curcuma:

Affé, per caricarvi troppi denari han speso;

Io, cara, m’esibisco di allegerirvi il peso.

Fatima:

No, no, tener le deggio di notte al chiaro lume.

Anche sì bella pompa delle spose è in costume.

Vanità senza frutto, far pompa di splendore,

Quando tra le gramaglie piagne dolente il cuore.

Curcuma:

Voi, più d’un apparato di gioje strepitoso,

Bramate di godere la gioia dello sposo!

Fatima:

Sì, il di lui cor sospiro.

Curcuma:

Ogni lusinga è vana.

II di lui cor, figliuola, l’ha donato ad Ircana.

Fatima:

Voi di costei sarete fida compagna, e amica.

Curcuma:

Io? Non passa un momento, che non la maledica.

Fatima:

Perché?

Curcuma:

Perché è superba, inquieta, fastidiosa:

Non vuol servir da schiava, vuol comandar da sposa.

E se voi non farete quel che insegnarvi io voglio,

Colei col piè sul collo vi terrà per orgoglio.

Fatima:

(Scoprasi, non mi fido). Dite, madonna, come

Trattar dovrei la schiava, quella, che Ircana ha nome?

Curcuma:

Par, che quell’anellino non istia ben con quelli;

Scomparisce, meschino, fra tanti a lui più belli.

Fatima:

Meglio sarebbe dunque, che al dito lo levassi,

Ed alla mia custode in dono io lo recassi.

Curcuma:

Meglio sarebbe.

Fatima:

Ho inteso, domani lo faremo.

Curcuma:

Quel che può farsi adesso perché il differiremo?

Fatima:

Perché il mio genitore questa sera al convito

Voglio che me lo veda con l’altre gemme in dito.

Curcuma:

Bene bene, domani sarò di bon mattino

A darvi l’ova fresche, e a prender l’anellino.

Fatima:

Ma intanto non potreste darmi d’amor consiglio,

Per reggermi più franca a fronte d’un periglio?

Curcuma:

Figlia, il Consiglio è questo: la quiete non sperate,

D’una rivale ardita se voi non vi disfate;

E per disfarvi d’una, che ha il cor del suo signore

Armarvi è necessario di sdegno, e di furore.

Ma sdegno di parole, furor d’ingiurie è poco;

Altro vi vuol che pianti per terminare il gioco.

Chiedete il mio consiglio? Eccolo: vi rispondo

Che con un thè la schiava mandasi all’altro mondo.

Fatima:

Ed io rispondo a voi, perfida vecchia indegna,

Che all’anime ben nate a tradir non s’insegna.

Sul cuor del mio consorte non ho rival sospetta;

E quando ancor l’avessi non ne farei vendetta.

Usa pomate, e lisci, usa veleni, e stili

Con le schiave tue pari, empie, ribalde, e vili.

Gemme per te non serbo, serbo per te nel petto

Il disprezzo che merti, la noia, ed il dispetto (parte).

 

 

Scena IX

Curcuma, poi Ircana.

 

Curcuma:

Sì? Saprò vendicarmi. A me? Non son chi sono,

Se tu non me la paghi; mai più te la perdono.

Ircana:

Dimmi: è colei la sposa?

Curcuma:

Sì.

Ircana:

Che ti pare? è bella?

Curcuma:

Con voi sembra un vapore in faccia di una stella.

Ircana:

Come è vezzosa?

Curcuma:

Niente.

Ircana:

Parla bene?

Curcuma:

Nemmeno.

Altro non ha di bello, che delle gioie al seno.

Ircana:

Delle gemme non parlo; il viso?

Curcuma:

Scolorito.

Altro non ha di bello, che delle gemme in dito.

Ircana:

Posso io dunque sperare, che Tamas la disprezzi?

Curcuma:

Sì, quando egli le gemme non preferisca ai vezzi.

Ircana:

Tamas gioie non cura.

Curcuma:

Ma sono belle assai.

Ircana:

Di me parlotti forse?

Curcuma:

Parlommi, e m’irritai.

Ircana:

Che disseti l’audace?

Curcuma:

Ch’ella è la sposa, e voi

Dovete obbedïente servire a’ cenni suoi.

Ircana:

Tamas dov’è?

Curcuma:

Nol vidi.

Ircana:

Cercalo, o cielo! io fremo.

Obbedirla? servirla? Curcuma, io sudo, io tremo.

Curcuma:

Le dissi...

Ircana:

Eccolo: parti.

Curcuma:

Dissi, che voi...

Ircana:

T’invola.

Curcuma:

Voi siete la padrona...

Ircana:

Va’ via, lasciami sola.

Curcuma:

Affé, se avrà il coraggio d’alzar la testa un poco...

Vo’ a porre in questo punto le pentoline al foco (parte).

 

Scena X

Ircana, poi Tamas.

 

Ircana:

Vedrem sin dove arriva l’amore, o la incostanza

D’un cor, che nel mio seno ebbe finor sua stanza.

Tamas:

Ircana.

Ircana:

E ben, che rechi?

Tamas:

Odimi...

Ircana:

Ti confondi?

Parte la sposa tua? Resta con te? Rispondi.

Tamas:

Partirà, se lo vuoi, ma che nol voglia, io spero.

Ircana:

Speri che non lo voglia?

Tamas:

Frena lo spirto altero.

La vidi; ella ti cede in merto, ed in bellezza;

Ma soffri, che io tel dica...

Ircana:

Mi supera in dolcezza!

E non è scarso pregio, ancorché non sia vaga,

Donna, che facilmente di parole s’appaga (con ironia).

Le sciocche non invidio; io son femina audace.

Eleggi delle due; sciegli qual più ti piace... (altera).

Tamas:

Ho scelto; e tu lo sai, crudel, se preferita

Ti ho alla sposa non solo, ma al padre, ed alla vita.

Questa, che a torto insulti, questa, che aborri tanto,

Ha di stimarti il pregio, vuol di piacerti il vanto.

Sa, che ti adoro, e il soffre; sa che mi piaci, e loda,

Che io serbi fede, e sembra, che per te esulti, e goda.

Giura le fiamme nostre soffrir senza fatica;

Non la temer rivale, l’avrai compagna, e amica.

Che ti par?

Ircana:

Non lo credo.

Tamas:

T’inganni, idolo mio.

Ircana:

Son donna, e delle donne l’arte conosco anch’io.

Tamas:

Che puoi temer?

Ircana:

Che finga non essere gelosa,

E di vendetta in seno covi la serpe ascosa.

Tamas:

No, non può darsi. In viso troppo è modesta, e umile.

Ircana:

Questo delle alme accorte, questo è l’usato stile.

Tamas, tu non sai quanto sotto un placido aspetto

Facilmente s’asconda la rabbia, ed il dispetto.

Quando ho lo sdegno in viso, tu me lo vedi in faccia;

Se mi conosco offesa, dubbio non vi è, che io taccia;

Palese è il mio disdegno, palese è la vendetta,

Chi simula, e non parla, tempo, e comodo aspetta.

Fatima è mia nemica, lo so, non mi lusingo;

Ella di amarmi finge, io l’odio, e non lo fingo.

Tu, se di lei ti cale, vibrami un ferro in petto,

E se di me ti preme, scacciala a suo dispetto.

Tamas:

Vedila, Ircana, almeno; odi parlar quel labro.

Ircana:

Misero! Ti ha incantato la bocca di cinabro?

No, vederla non voglio.

Tamas:

Dunque...

Ircana:

O Fatima, o io,

Fuori di queste mura, o fuor del mondo. Addio (parte).

 

Scena XI



Tamas solo.

A qual misero stato femina, o ciel, mi pone?

Oltre del proprio foco non ode altra ragione.

Dunque, per compiacerla, crudo sarò a tal segno;

E del mio amore in vece, Fatima avrà il mio sdegno?

Ma se d’amor col manto l’odio nel sen coprisse?

Fatima è donna... e donna, l’altra è pur che lo disse.

E la ragione istessa, che fa temer di quella

Può rendermi d’Ircana sospetta la favella.

No, per sei lune avvezzo è il mio cuore ad amarla,

Né aver mentito un giorno poss’io rimproverarla.

Questa mi ha date prove certissime di fede,

Fatima è dolce in viso, ma il cor non le si vede.

Potria mentir; ma intanto, la scaccierò? Non deggio.

La torrò meco? Oh Dio! Perdersi Ircana io veggio.

Chi mi consiglia? ah dove trovo un amico vero?

Alì, mio caro Alì, dov’è il tuo cor sincero?

L’oppio, per cui brillava, ora lo tiene oppresso;

Ed io tra dubbi, e pene non conosco me stesso.

A te volgo la faccia, tempio in Arabia antico,

A cui peregrinando va il grande, e va il mendico.

Kabàche nella Meca, tra barbari e divoti,

De’ Turchi, e Persiani hai le preghiere, e i voti.

Giuro venir io stesso, d’oro munito, e spoglie,

Con cento schiavi e cento a baciar le tue soglie.

Passar indi a Medina dalla Meca prometto,

‘Ve nella ferrea cassa sta sepolto Maometto.

Tutto farò pel solo desio d’aver mia pace.

Fatima fa pietade, ed Ircana mi piace (parte).

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:17/07/2005 20.14

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