Home

Welcome

Email

De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Bar

LA SPOSA PERSIANA

Di: Carlo Goldoni

BulletSmall Bullet BulletSmall Bullet BulletSmall Bullet Bullet


Bar

ATTO PRIMO

 

Scena I

Tamas, ed Alì.

 

Tamas:

Non mi annoiare, Alì: son dal dolore oppresso;

Odio gli altrui consigli, odio perfin me stesso.

L’oppio, che pur sai, quanto suole alterar gli spirti,

Nulla giovommi; oh pensa... Vanne; non voglio udirti.

Alì:

Si, me ne andrò: che importa a me, che voi parliate?

Io sarò sempre Alì, ancor quando crepiate;

E sarò sempre stato vostro fedele amico,

Ancor, che de’ miei detti non ve ne caglia un fico.

Tamas:

Come parli? Che stile inusitato, e nuovo?

Fra tai sconce parole, Alì, più non ritrovo.

Pregio è di noi Persiani il parlar grave, e bene:

Ridicolo costume in Ispaan sconviene.

Come favelli? Hai d’oppio la dose caricata?

Alì:

Si, amico; doppia dose per voi ne ho trangugiata:

Per voi, che pur vorrei colla letizia mia

Scotere da cotesta letal malinconia.

L’oppio, quel succo amaro, ch’è agli Europei veleno,

Di cui nell’Asia nostra s’empion le genti il seno,

Gioia mi desta in petto inusitata, e strana.

Tamas, gioite meco.

Tamas:

Ogni tua cura è vana:

Gioir non mi farebbe né scettro, né corona;

Vedi se potrà farlo un ebrio, che ragiona.

Alì:

Ebrio son io, nol niego, pel sonnifero amaro,

Non pel vietato vino, dolce al palato, e caro;

E pur (ve lo confido) in quattro ier di sera

Un orcio ne bevemmo nella caravanzera

Tamas:

Cosa tu mi confidi da me con sdegno udita;

Vino non bevvi mai pel corso di mia vita.

Ciò, che il pubblico offende, per ragion del divieto,

Dee l’anime bennate offendere in segreto.

E dove non arriva la forza di chi regge,

Vincola nei recessi dell’onesta la legge.

Alì:

Si, giovine bennato, alma di virtù piena,

Alma, ch’esser tranquilla dovrebbe, e più serena;

Poiché se un giovin pio ripieno ha il cor di doglie,

Chi fia che ad imitarlo nella bontà s’invoglie?

Tamas:

In te cresce de’ spirti l’alterazion funesta;

Per tai ragionamenti ora importuna è questa.

Lasciami, te ne priego.

Alì:

Io non vi lascio al certo,

Se il duol, che avete in seno, non mi mostrate aperto;

Non vi darò consigli, non vi sarò molesto;

Altro da voi non bramo.

Tamas: Altro non vuoi?

Alì: Che questo.

Tamas:

Sai tu, che a padre mio sposa mi ha destinata

La figliuola di Osmano?

Alì:

Ella era appena nata,

E voi d’un lustro appena; senz’ara, e senza Nume

Foste legati insieme, giusta il Perso costume.

Tamas:

Empio costume, e rio, che il maggior ben ci fura;

Che toglie a noi l’arbitrio, e offende la natura.

Ecco, amico, la fonte del mio dolore estremo;

La sposa oggi s’aspetta, l’ora s’appressa, io tremo.

Alì:

Ed io, ridete amico, ed io sarei contento,

Non se una sola sposa aspettassi, ma cento.

Tamas:

Vanne, lo dissi, il veggio, hai la ragion perduta.

Alì:

Vado... È brutta la sposa?

Tamas:

Non so, non l’ho veduta.

Sai pur che le fanciulle serbansi ritirate,

E scopronsi allo sposo dopo esser maritate.

Ma tu deliri, vanne.

Alì:

Un’altra cosa sola.

Tamas:

Teco non vuo’ parlare.

Alì:

Udite una parola.

Tamas:

Che sofferenza! Parla.

Alì:

Fra 1’ebrio, e fra l’astuto

Vuo’ domandarvi: avete forse il cor prevenuto?

Tamas:

Ah sì, d’Ircana mia, della mia schiava acceso,

Soffrir non potrò mai d’un altro nodo il peso.

Nel rimirarla intesi tosto ferirmi il petto,

E crebbe a dismisura in sei lune l’affetto.

L’alma quei suoi begli occhi a vagheggiare avvezza,

Odia d’ogni altra il nome, ogni beltà disprezza.

ALÌ

Tamas, il mio consiglio...

Tamas:

Vattene, io non l’ascolto.

Alì:

Vado, ma prima udite i sensi d’uno stolto,

D’uno, che in fretta in fretta vi dice il suo pensiere,

E l’oppio a digerire sen va sull’origliere.

Vi lodo, se costanza v’empie per una il petto,

Ma in Oriente non si usa preferirla al diletto.

Chi assicurar voi puote, che Fatima, la sposa,

Non abbia agli occhi vostri a comparir vezzosa?

Chi sa, che nel mirarla non siate anche pentito

D’aver troppo tardato ad esserle marito?

Miratela, e poi dite: "oh la mia schiava è bella;

Ircana sol mi piace, non voglio altre, che quella".

Almeno sospendete di dir, che v’hanno ucciso,

Fino, che non vediate la nuova sposa in viso.

Astrologo non siete; chi sa come sia fatta?

Di Tartare, e Giorgiane bellissima è la schiatta.

Tartaro è il padre suo; in Ispaan dimora,

Ma serberà la figlia il natio sangue ancora.

Miratela con pace. Quest’è il consiglio mio:

Tenetela, s’è bella, se non vi piace... Addio (parte).

 

 

Scena II

Tamas solo.

 

Quest’ultime parole non son d’ebrio, o di stolto;

Ragion trovo in que’ detti, e la ragion m’ha colto.

È ver, m’accese Ircana d’amor quasi improvviso,

Ma non mirai finora d’altra più bella il viso.

Noi non godiam quel bene, che agli Europei vien dato;

Donna mirar non sua, è al Maomettan vietato.

Itali, Galli, Ispani, Angli, Germani e Greci

Non pon, qual noi possiamo, otto tenerne o dieci;

Ma per le vie scoperte mirarle a cento a cento,

E vagheggiarle almeno possono a lor talento.

E pur serba l’Europa fra gli abitanti suoi,

Chi un serraglio infelice suol invidiare a noi,

Come se d’un legame, che a lor molesto è reso,

Non si dovesse a noi moltiplicare il peso.

Chi sa che rimirando Fatima a faccia a faccia,

Beltade in lei non trovi, che mi diletti e piaccia?

Avrà questa d’Ircana non men le grazie sue,

Potrò, se ambe son vaghe, amarle tutte due.

Ma che pretenda Ircana esser sola il mio Nume,

Oltre il dover di figlio, offende anche il costume.

Sì, mirerò la sposa, sì, mirerolla in pace:

D’Alì mio fido amico il consiglio mi piace.

 

Scena III

Ircana, e detto.

 

Ircana:

Tamas, perché sì lento a riveder ritorni

Quella, che per te solo mena felici i giorni?

Sai pur, che oltre il vederti non provo altro contento,

Un secolo mi sembra lungi da te un momento.

Tamas:

Molto non è, che al bagno io ti lasciai, mia vita;

Tosto più dell’usato sei fuor dell’acque uscita,

Ircana:

Ah son tre giorni interi, ch’io piango, e mi dispero.

Barbaro tu mi lasci.

Tamas:

No, [non] sarà mai vero.

D’amarti fin ch’io viva sacra ti do parola.

Bastati?

Ircana:

No.

Tamas:

Che brami?

Ircana:

Voglio, che mi ami sola.

Tamas:

Oh ciel!

Ircana:

Lo vedi, ingrato? Lo vedi se m’inganni?

Lo so perché sospiri, [lo so] perché t’affanni.

Non mi tenere occulto ciò, che pur troppo ho inteso,

Oggi verrà la sposa, sei di vederla acceso.

Venga, ma non si speri, che abbia a servirla Ircana;

Di Machmut tuo padre cotal lusinga è vana.

Egli mi ha compra, è vero, dal genitor crudele,

Schiava servir io deggio al mio signor fedele;

Ma tu non mi dovevi accendere nel petto

D’amor, di gelosia, d’ambizion l’affetto.

Dopo lusinghe tante, schiava negletta, oppressa,

Saprei svenarmi in faccia della tua sposa istessa.

Tamas:

Fra noi tal è il costume di chi suddito nasce;

Fatima, ed io dal padre fummo legati in fasce.

Io lei non vidi, ed ella non mi ha veduto ancora,

Chi sposasi in tal guisa, rade volte si adora;

Ed io, che del tuo bello ho l’alma prevenuta,

Amar come potrei sposa non pria veduta?

Consolati, ben mio, se umile al genitore,

Darò ad altra la mano, tuo sarà sempre il core.

Ircana:

Eh che mal si divide da chi ha la destra in pegno,

De’ forsennati il cuore con un affetto indegno.

Sì mi sovvien, che spesso la crudel genitrice,

"Figlia (diceami) un giorno esser potrai felice,

Se schiava in un serraglio avrai del tuo signore

Unita alle altre belle una porzion del cuore".

Ma detestando allora il barbaro costume,

Tai l’innocente labbro voti mandava al Nume:

"Faccia Macon, ch’io trovi signor, che mi ami sola,

O tolgami dal petto lo spirto, e la parola".

Tamas:

Sensi d’alma bennata, voti di cor sincero;

Sì, ti amerò: te sola...

Ircana:

Non lo dir, non lo spero.

Tamas:

Ma se lo giuro...

Ircana:

Taci.

Tamas:

Lo giuro al Ciel...

Ircana:

Gli audaci

Beltà rende spergiuri, amor rende mendaci.

Vedrai la sposa in volto, di me sarà più bella:

Ella sarà tua donna, io svergognata ancella.

Va’ pur la sposa accogli; far lo dei, non lo niego;

Sol d’una grazia almeno non mi privar ti priego.

Aprimi queste porte, dove rinchiusa io sono;

Dammi, d’amore in vece, la libertade in dono.

Tamas:

Ah crudel, sì penosa parti la mia catena!

Ircana:

Tu lo sai, se finora n’ebbi diletto, o pena.

La libertà ti chiedo, non per lusinga insana,

Ma per morire, ingrato, dagli occhi tuoi lontana;

Ma per lasciarti in pace accanto alla consorte,

Senza, che ti funesti l’orror della mia morte.

Tamas:

Ah, che ogni tua parola è a questo cuor ferita:

Non lascierotti, Ircana, non morirai mia vita.

In faccia al genitore armerò il cuor d’orgoglio;

Venga l’odiata sposa, dirò, che non la voglio.

Se del figliuolo il padre desia mirar la prole,

Abbiala; ma col mezzo delle tue fiamme sole.

In altra guisa aspetti vedermi all’Ottomano

Tra le persiane genti andar col ferro in mano...

Ircana:

Dunque?

Tamas:

Non più; se temi, se del mio amor diffidi,

Tamas, che pietà merta, tu crudelmente uccidi.

In questo punto istesso, del genitore al piede

Vo a svelare il secreto di mio amor, di mia fede.

Se usar vorrà la forza (egli non è sovrano,

E un re la vita togliermi potrebbe, e non la mano),

Pregherò, finché giova, parlerò con rispetto;

Ma poi... sì, di te sola sarò, te lo prometto (parte).

 

Scena IV

Ircana sola.

Nulla intentato io voglio lasciar per un tal bene,

Per l’unico fra’ beni, che a noi sperar conviene.

Donna fra’ Maumettani, sia schiava, o sia consorte,

Deve qual rea cattiva viver tra ferree porte;

E rendersi può solo il carcer men penoso

Dall’amor di colui, che è signor nostro, e sposo.

Ma se l’amor d’un solo si parte in più donzelle,

Essere non mi basta nel numero di quelle;

Anzi pria di vedermi con altre donne amata,

Voglio essere più tosto, o morta, o disprezzata.

 

Scena V

Curcuma, e detta.

 

Curcuma:

Ircana, ove t’aggiri? Posso io bene aspettarti,

Non vieni questa mane a pulirti, a lisciarti?

Perché prima di tutte uscir dal bagno fuori?

E andar per il serraglio senza unti, e senza odori?

Se il tuo Tamas ti vede, oh si, gli parrai bella!

Con questi giovinotti vi vol arte, sorella:

Sono le tue compagne lisciate come specchi,

E tu senz’artifizio accorlo ti apparecchi?

Ircana:

S’adorni e si profumi, e s’unga, e si colori

Chi di natura ha d’uopo di corregger gli errori.

Incolta, qual mi vedi, sparuta, e senza incanto,

Tamas finor trattenni, né mai gli piacqui tanto.

Sì, Curcuma, tel dico, ora gli piacqui a segno,

Che d’esser di me sola prese il più saldo impegno.

A te fido l’arcano; son lieta, e son contenta

E la temuta sposa or più non mi spaventa.

Curcuma:

Sì, qualche volta, è vero, l’amante si diletta

Nel vagheggiar di furto la femina negletta,

Ma quando con il tempo la mira a parte a parte,

Scopre i difetti, e credi, necessaria è un po’ d’arte.

Sia pur la donna bella, non abbia in beltà eguali,

Scoloransi sovente le rose naturali.

Una passione, un detto, un mal de’ nostri usati

Tinge di verde, e giallo i visi delicati:

Ma allor, che dalla mano fia la beltà accresciuta,

La donna è sempre bella, ancor quando è svenuta.

Ircana:

Orsù, più d’esser bella calsemi veder lui

Per tempo, e i dolci accenti udir dai labbri sui.

Curcuma:

E t’ha promesso amarti?

Ircana:

Sacra mi die’ parola

(Questo è quel che mi cale) d’amarmi sempre, e sola.

Curcuma:

Figlia, se tal promessa a te fia poi serbata,

Poi dir, che la fenice in Persia hai ritrovata;

Che un uom di donna sola contentisi è un portento:

Vorrebbero i Persiani possederne anche cento.

Oh maledetta legge, fatta dall’uomo ingrato,

Che rende di noi donne sì misero lo stato!

Compagne son dell’uomo le donne in altro clima;

Servito è il sesso nostro, e si onora, e si stima;

E se d’[un] uomo solo dee contentarsi, almeno

Posto è da pari legge anche ai mariti il freno.

Ircana:

Chi sa? La dura legge spero per me corretta.

Curcuma:

Ma se la nuova sposa Tamas in breve aspetta?

Ircana:

Tamas in questo punto, del genitore al piede,

Spinto dalle mie fiamme, a ricusarla andiede.

Curcuma:

E se volesse il padre?...

Ircana:

Tu mi tormenti invano.

Esser dee mio quel core.

Curcuma:

E sarà tua la mano?

Ircana:

Sì, lo spero: tu mi ami, e so, che di te niuna

Brama più del mio cuore la pace, e la fortuna.

Curcuma, è questi il giorno d’usar l’ingegno, e l’arte,

Per esser con il tempo d’ogni mio bene a parte.

Anzi con questa gemma, che Tamas mi ha donata,

Una d’amor vuo’ darti caparra anticipata.

Custode delle donne, sei per l’etade in pregio,

Dal signor nostro intesi lodar più d’un tuo fregio.

Tu puoi del di lui cuore spiar gli occulti arcani:

Per madre mia ti eleggo, io son nelle tue mani.

Curcuma:

Figlia, perché lo merti, al desir tuo mi unisco,

Non già per questa gemma, che per amor gradisco;

E se le mie parole, e i cauti miei consigli

Non basteranno, e i’ veda all’amor tuo perigli,

Di pentole, e di vetri piena ho la stanza mia:

Zitto, Ircana figliuola, faremo una malia.

Una malia faremo sì forte, e portentosa,

Che strugga in pochi giorni e l’amante e la sposa.

Ircana:

No, l’amante.

Curcuma:

Sta cheta; l’amante sino a tanto

Che della nuova sposa viva giulivo a canto;

Indi fedel tornando sia d’ogni mal guarito,

D’esserti impazïente, non più signor, marito.

Ircana:

Hai tal poter?

Curcuma:

Sì, cara, vedrai portenti strani,

Vedrai quel che san fare di Curcuma le mani.

Dacché l’età primiera mi abbandonò, tre lustri

Amar mi feci ancora con sughi, ed erbe industri;

Con serpi, sangue, e pietre certa bevanda fassi,

Che innamorar farebbe anche le piante, e i sassi.

Dell’oro, e dell’argento vi entra in cotal mistura:

Averne, quanto puoi, dal tuo signor procura;

Recalo alle mie mani, e ne vedrai 1’effetto.

Figlia, senza interesse l’amor mio ti prometto (parte).

 

Scena VI

Ircana sola.

Ah voglia il ciel, che mai abbiasi a usar tal’arte:

Laddove amor fa d’uopo, rigor non abbia parte.

Sguardi, parole, amplessi, vezzi, sospiri e pianti

Son le malìe, che han forza sul cuore degli amanti.

Ma allor, che un’altra donna venga con forza eguale

A disputarmi un cuor, che per natura è frale,

Se a sostenere il dritto il mio valor fia poco,

L’arte, l’ardir, l’inganno e le malìe avran loco.

Tutto tentar io voglio, sino la morte istessa;

Pria di vedermi in faccia d’una rival depressa

Oh genitori ingrati, che al ciel mandaste i voti,

Non per mirar, canuti, della figlia i nipoti,

Ma sol, perché, accresciuto alla beltade il vezzo,

Al comprator poteste vendermi a maggior prezzo!

Ma se destin crudele nascer mi fe’ da gente

Che per il proprio sangue tenero amor non sente,

Se per costume indegno esser dovea venduta

Ah nel serraglio almeno fossi del re venuta.

Sì, nell’Haram spazioso, anche fra mine, e mine

Distinguer si farebbono al Sofi (mie pupille;

Sia vaga, o non sia vaga, incolta qual io sono,

Dato avrei forse io sola il successore al trono.

Ma a un Killientar venduta, venduta a un finanziere,

Avrò chi mi contrasti nel merto, e nel potere?

No, no, questo non fia, Tamas, è mio soltanto;

Regnar nel di lui cuore è mia gloria, è mio vanto.

Picciolo regno ancora mi basta, e mi consola,

Purché in quel cuore io possa sempre regnarvi, e sola

(parte).

 

Scena VII

Machmut accompagnato da quattro Officiali,

che attendono gli ordini suoi.

Olà, ciascun s’impieghi: i schiavi, i servi, i cuochi;

Si preparin le mense, i vasi, i cibi, i giuochi.

Tosto al caffè; prepara oltre il costume adorno

II picciolo banchetto, che usasi a mezzo il giorno.

Latte, poponi ed altre frutta del mio giardino,

Confezioni, sorbetti, oppio purgato, e fino,

Thè non manchi; si dia tabacco a chi ne brama,

Siavi per tutto il vaso, che kalïam si chiama:

Il kalïam, quel vaso, che fra noi si accostuma,

Con cui sì dolcemente l’uom si riposa, e fuma.

Canti vi sieno, e danze, vi sien poeti egregi,

Che della nuova sposa formin poema ai pregi;

Quindi nell’ampia sala, di lumi intorno piena,

Al seguito festivo diasi superba cena.

Del terso e bianco riso sodo pilò sia fatto,

Di burro, e droghe carco, nel color contrafatto.

Sieno in minuti pezzi nello schidion girati,

D’aromati nutriti i migliori castrati.

Lepri, maiali ed altre carni vietate immonde

Non sianvi alla mia mensa; cerchinle i ghiotti altronde.

Del bove in acqua pura al più l’uso permetto,

Salse bandisco, e sughi, e ogni manicaretto,

Lasciando agli Europei la follia, ch’io deploro,

Di accellerar coi cibi il fin de’ giorni loro.

Ma Tamas viene; andate; gli ordini udiste in parte,

Supplisca ad ogni altr’uopo l’uso, l’ingegno e l’arte

(partono i servi).

Merita ben tal sposa, che dote reca, e onore,

Che il suocero l’accolga con pompa, e con splendore.

Ah voglia il ciel, che il figlio con pari ardor la miri.

Ma temo, è mesto in viso; par che pianga, e sospiri.

 

Scena VIII

Tamas e detto.

 

Tamas:

Signor, a’ piedi vostri...

Machmut:

Perché sì mesto in viso?

Lungi non è la sposa, n’ebbi testé l’avviso.

Accoglierla a momenti dovrai fra le tue braccia.

E ti disponi a farlo torvo? turbato in faccia?

Tamas:

Signor pria che la sposa giunga fra i muri nostri,

Eccomi a voi prostrato, eccomi a’ piedi vostri

(s’inginocchia).

Machmut:

Alzati... Olà, che dici? Sei tu di lei pentito?

È tardi; ella ti aspetta, esser le dei marito.

Tamas:

Ma se il mio cor...

Machmut:

T’accheta, nel vincolarsi il figlio

Prenda dal genitore, non dal suo cor, consiglio.

Tamas:

E se l’odiassi?

Machmut:

Degna d’amor Fatima io stimo,

Ma se la sposa odiassi, tu non saresti il primo.

Tamas:

Che nozze! che sponsali! che barbaro costume!

L’approvano le leggi, e lo comporta il Nume?

Machmut:

Sì, di Maccone stesso, d’Alì, ch’indi si onora,

E dei dodici Imanni, che venner dopo ancora,

Questa è la legge: a noi tener non è vietato

Schiave quante vogliamo nel serraglio privato.

Non è dall’Alcorano aver più mogli escluso,

Ma prenderne una sola è fra Persiani in uso.

E questa non s’apprezza dal vezzo, o dai colori,

Ma dal poter del padre, dai schiavi e dai tesori.

Costei che a te in isposa da me fu destinata,

Da genitor guerriero, carco di glorie, è nata:

Ricchi smanigli e gemme, schiavi ti reca in dote:

Queste son beltà vere, l’altre a me sono ignote.

Tamas:

Dunque per gemme, e schiavi, per vesti, perle ed oro,

Perder dovranno i figli di libertà il tesoro?

Machmut:

Odi, vuo’ consolarti. Fatima la tua sposa

Ricca non è soltanto, ma è bella, ed è vezzosa.

Donne, che l’han veduta uscir dal bagno fuora,

Giuran, che beltà pari non han veduto ancora.

D’alta statura, e grave, lunghi capelli e neri,

Non tinti di sandracca, ma nel color sinceri,

Guancie vermiglie, e piene, bocca del riso amica,

Seno, che imprigionato suol tenere a fatica;

Non ha, qual si accostuma nell’ultime pendici

Del tartaro confine, pendenti alle narici;

Ma vagamente adorna i crini, il collo, il petto,

Spira dolcezza, e amore in maestoso aspetto.

D’uopo non ha la bella d’usar candido impiastro

Sulla mano di neve, sul piede di alabastro:

Nel portamento altera, piena di brio, di foco...

Parti che molto io dica, e pur dissi anche poco.

Mirala, e dimmi poi, se fia tal peso grave,

Se può sposa sì vaga valer per cento schiave.

Che l’ami, e che l’adori non dico, e non comando;

Mirala, e ciò mi basta, questo è quel che io domando

(Parte).

 

Scena IX

Tamas solo.

E vi sarà d’Ircana donna più bella ancora?

Di Fatima il ritratto nell’udirlo innamora.

Gli occhi, le guancie, il crine, la mano, il viso, il petto...

Tanta beltà innocente raccolta in un oggetto?

Tamas... vediamla; alfine il padre lo domanda;

E il domandar del padre vuol dir, che lo comanda.

Ma Ircana mia?... Qual torto le fo, se un’altra io miro?

Non mi trarrà per questo dal petto un sol sospiro.

E se beltà sì rara poi mi accendesse il cuore,

Resister chi potrebbe alla forza d’amore?

Fuggasi... No, si vegga; finora Ircana è quella,

Che agli occhi miei d’ogni altra parve più vaga, e bella.

Svelisi in suo confronto beltà tanto lodata,

E delle due si vegga, chi è vinta, e superata.

Questa non è incostanza, non è mancar di fede,

È un desio... ma neppure; è il padre che lo chiede.

È ver che il padre istesso disubbidir giurai;

Ma in onta delle leggi giurar non si può mai.

Sia forza, sia consiglio, seguo del padre i detti,

Ma terrò in guardia il cuore, non cangierò gli affetti.

Ircana, sì, ti adoro, sì, tu sarai più bella;

Ma lascia, che rimiri le luci ancor di quella;

E se negli occhi suoi non vedo il tuo splendore,

In te cresciuto il merto, crescerà in me l’ardore (parte).

Bar

Home

Next

Back

Email

Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:17/07/2005 20.13

Bulletpkvgb.gif (2336 byte)Bullet

Victorian Elegance
Bar