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Biblioteca Telematica |
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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA |
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L'Olimpiade | ||
di: Pietro Metastasio |
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ATTO
PRIMO SCENA PRIMA Fondo selvoso di cupa ed angusta valle, adombrata dall'alto da grandi alberi, che giungono ad intrecciare i rami dall'uno all'altro colle, fra' quali è chiusa. LIC. Ho risoluto, Aminta; più consiglio non vuo'. AMI. Licida, ascolta. Deh modera una volta questo tuo violento spirito intollerante. LIC. E in chi poss'io fuor che in me più sperar? Megacle istesso, Megacle m'abbandona nel bisogno maggiore. Or va, riposa su la fé d'un amico. AMI. Ancor non dèi condannarlo però. Breve cammino non è quel che divide Elide, in cui noi siamo, da Creta ov'ei restò. L'ali alle piante non ha Megacle al fin. Forse il tuo servo subito nol rinvenne. Il mar frapposto forse ritarda il suo venir. T'accheta: in tempo giungerà. Prescritta è l'ora agli olimpici giuochi oltre il meriggio, ed or non è l'aurora. LIC. Sai pur che ognun, che aspiri all'olimpica palma, or sul mattino dee presentarsi al tempio; il grado, il nome, la patria palesar; di Giove all'ara giurar di non valersi di frode nel cimento. AMI. Il so. LIC. T'è noto ch'escluso è dalla pugna chi quest'atto solenne giunge tardi a compir? Vedi la schiera de' concorrenti atleti? Odi il festivo tumulto pastoral? Dunque che deggio attender più, che più sperar? AMI. Ma quale sarebbe il tuo disegno? LIC. All'ara innanzi presentarmi con gli altri. AMI. E poi? LIC. Con gli altri a suo tempo pugnar. AMI. Tu! LIC. Sì. Non credi in me valor che basti? AMI. Eh qui non giova, prence, il saper come si tratti il brando. Altra specie di guerra, altr'armi ed altri studi son questi. Ignoti nomi a noi cesto, disco, palestra, a' tuoi rivali per lung'uso son tutti familiari esercizi. Al primo incontro del giovanile ardire ti potresti pentir. LIC. Se fosse a tempo Megacle giunto a tai contese esperto, pugnato avria per me: ma, s'ei non viene, che far degg'io? Non si contrasta, Aminta, oggi in Olimpia del selvaggio ulivo la solita corona. Al vincitore sarà premio Aristea, figlia reale dell'invitto Clistene, onor primiero delle greche sembianze; unica e bella fiamma di questo cor, benché novella. AMI. Ed Argene? LIC. Ed Argene più riveder non spero. Amor non vive, quando muor la speranza. AMI. E pur giurasti tante volte... LIC. T'intendo. In queste fole, finché l'ora trascorra, trattener mi vorresti. Addio. AMI. Ma senti. LIC. No no. AMI. Vedi che giunge... LIC. Chi? AMI. Megacle. LIC. Dov'è? AMI. Fra quelle piante parmi... No... non è desso. LIC. Ah mi deridi, e lo merito, Aminta. Io fui sì cieco, che in Megacle sperai. SCENA II MEG. Megacle è teco. LIC. Giusti dei! MEG. Prence. LIC. Amico. Vieni, vieni al mio seno. Ecco risorta la mia speme cadente. MEG. E sarà vero che il Ciel m'offra una volta la via d'esserti grato? LIC. E pace e vita tu puoi darmi, se vuoi. MEG. Come? LIC. Pugnando nell'olimpico agone per me, col nome mio. MEG. Ma tu non sei noto in Elide ancor? LIC. No. MEG. Quale oggetto ha questa trama? LIC. Il mio riposo. Oh Dio! non perdiamo i momenti. Appunto è l'ora che de' rivali atleti si raccolgono i nomi. Ah vola al tempio; dì che Licida sei. La tua venuta inutile sarà, se più soggiorni. Vanne. Tutto saprai quando ritorni. MEG. Superbo di me stesso andrò portando in fronte quel caro nome impresso, come mi sta nel cor. Dirà la Grecia poi che fur comuni a noi l'opre, i pensier, gli affetti, e al fine i nomi ancor. SCENA III LIC. Oh generoso amico! Oh Megacle fedel! AMI. Così di lui non parlavi poc'anzi. LIC. Eccomi al fine possessor d'Aristea. Vanne, disponi tutto, mio caro Aminta. Io con la sposa, prima che il sol tramonti, voglio quindi partir. AMI. Più lento, o prence, nel fingerti felice. Ancor vi resta molto di che temer. Potria l'inganno esser scoperto: al paragon potrebbe Megacle soggiacer. So ch'altre volte fu vincitor; ma un impensato evento so che talor confonde il vile e 'l forte; né sempre ha la virtù l'istessa sorte. LIC. Oh sei pure importuno con questo tuo noioso perpetuo dubitar. Vicino al porto vuoi ch'io tema il naufragio? A' dubbi tuoi chi presta fede intera, non sa mai quando è l'alba o quando è sera. Quel destrier, che all'albergo è vicino, più veloce s'affretta nel corso; non l'arresta l'angustia del morso, non la voce, che legge gli dà. Tal quest'alma, che piena è di speme, nulla teme, consiglio non sente; e si forma una gioia presente del pensiero che lieta sarà. SCENA IV Vasta campagna alle falde d'un monte, sparsa di capanne pastorali. Ponte rustico sul fiume Alfeo, composto di tronchi d'alberi rozzamente commessi. Veduta della città d'Olimpia in lontano, interrotta da poche piante, che adornano la pianura, ma non l'ingombrano. CORO Oh care selve, oh cara felice libertà! ARG. Qui se un piacer si gode, parte non v'ha la frode ma lo condisce a gara amore e fedeltà. CORO Oh care selve, oh cara felice libertà! ARG. Qui poco ognun possiede, e ricco ognun si crede: né, più bramando, impara che cosa è povertà. CORO Oh care selve, oh cara felice libertà! ARG. Senza custodi o mura la pace è qui sicura, che l'altrui voglia avara onde allettar non ha. CORO Oh care selve, oh cara felice libertà! ARG. Qui gl'innocenti amori di ninfe... Ecco Aristea. ARI. Siegui, o Licori. ARG. Già il rozzo mio soggiorno torni a render felice, o principessa? ARI. Ah fuggir da me stessa potessi ancor, come dagli altri! Amica tu non sai qual funesto giorno per me sia questo. ARG. E` questo un giorno glorioso per te. Di tua bellezza qual può l'età futura prova aver più sicura? A conquistarti nell'olimpico agone tutto il fior della Grecia oggi s'espone. ARI. Ma chi bramo non v'è. Deh si proponga men funesta materia al nostro ragionar. Siedi, Licori: gl'interrotti lavori riprendi, e parla. Incominciasti un giorno a narrarmi i tuoi casi. Il tempo è questo di proseguirli. Il mio dolor seduci; raddolcisci, se puoi, i miei tormenti in rammentando i tuoi. ARG. Se avran tanta virtù, senza mercede non va la mia costanza. A te già dissi che Argene è il nome mio; che in Creta io nacqui d'illustre sangue, e che gli affetti miei fur più nobili ancor de' miei natali. ARI. So fin qui. ARG. De' miei mali ecco il principio. Del cretense soglio Licida il regio erede fu la mia fiamma, ed io la sua. Celammo prudenti un tempo il nostro amor; ma poi l'amor s'accrebbe, e, come in tutti avviene, la prudenza scemò. Comprese alcuno il favellar de' nostri sguardi: ad altri i sensi ne spiegò. Di voce in voce tanto in breve si stese il maligno romor, che 'l re l'intese: se ne sdegnò, sgridonne il figlio; a lui vietò di più vedermi, e col divieto glien'accrebbe il desio; che aggiunge il vento fiamme alle fiamme, e più superbo un fiume fanno gli argini opposti. Ebro d'amore freme Licida, e pensa di rapirmi e fuggir. Tutto il disegno spiega in un foglio: a me l'invia. Tradisce la fede il messo, e al re lo reca. E` chiuso in custodito albergo il mio povero amante. A me s'impone che a straniero consorte porga la destra. Io lo ricuso. Ognuno contro me si dichiara. Il re minaccia: mi condannan gli amici: il padre mio vuol che al nodo acconsenta. Altro riparo che la fuga o la morte al mio caso non trovo. Il men funesto credo il più saggio, e l'eseguisco. Ignota in Elide pervenni. In queste selve mi proposi abitar. Qui fra pastori pastorella mi finsi, e or son Licori: ma serbo al caro bene fido in sen di Licori il cor d'Argene. ARI. In ver mi fai pietà. Ma la tua fuga non approvo però. Donzella e sola cercar contrade ignote, abbandonar... ARG. Dunque dovea la mano a Megacle donar? ARI. Megacle? (Oh nome!) Di qual Megacle parli? ARG. Era lo sposo questi, che il re mi destinò. Dovea dunque obbliar... ARI. Ne sai la patria? ARG. Atene. ARI. Come in Creta pervenne? ARG. Amor vel trasse, com'ei stesso dicea, ramingo, afflitto. Nel giungervi fu colto da stuol di masnadieri; e oppresso ormai la vita vi perdea. Licida a sorte vi si avvenne, e il salvò. Quindi fra loro fidi amici fur sempre. Amico al figlio, fu noto al padre; e dal reale impero destinato mi fu, perché straniero. ARI. Ma ti ricordi ancora le sue sembianze? ARG. Io l'ho presente. Avea bionde le chiome, oscuro il ciglio, i labbri vermigli sì, ma tumidetti, e forse oltre il dover; gli sguardi lenti e pietosi: un arrossir frequente, un soave parlar... Ma... principessa, tu cambi di color! Che avvenne? ARI. Oh Dio! Quel Megacle, che pingi, è l'idol mio. ARG. Che dici! ARI. Il vero. A lui, lunga stagion già mio segreto amante, perché nato in Atene, negommi il padre mio, né volle mai conoscerlo, vederlo, ascoltarlo una volta. Ei disperato da me partì; più nol rividi: e in questo punto da te so de' suoi casi il resto. ARG. In ver sembrano i nostri favolosi accidenti. ARI. Ah s'ei sapesse ch'oggi per me qui si combatte! ARG. In Creta a lui voli un tuo servo; e tu procura la pugna differir. ARI. Come? ARG. Clistene è pur tuo padre: ei qui presiede eletto arbitro delle cose; ei può, se vuole... ARI. Ma non vorrà. ARG. Che nuoce, principessa, il tentarlo? ARI. E ben, Clistene vadasi a ritrovar. ARG. Fermati: ei viene. SCENA V CLIST. Figlia, tutto è compìto. I nomi accolti, le vittime svenate, al gran cimento l'ora è prescritta; e più la pugna ormai, senza offesa de' numi, della pubblica fé, dell'onor mio, differir non si può. ARI. (Speranze, addio). CLIST. Ragion d'esser superba io ti darei, se ti dicessi tutti quei, che a pugnar per te vengono a gara. V'è Olinto di Megara, v'è Clearco di Sparta, Ati di Tebe, Erilo di Corinto, e fin di Creta Licida venne. ARG. Chi? CLIST. Licida, il figlio del re cretense. ARI. Ei pur mi brama? CLIST. Ei viene con gli altri a prova. ARG. (Ah si scordò d'Argene!) CLIST. Sieguimi, figlia. ARI. Ah questa pugna, o padre, si differisca. CLIST. Un impossibil chiedi: dissi perché. Ma la cagion non trovo di tal richiesta. ARI. A divenir soggette sempre v'è tempo. E` d'Imeneo per noi pesante il giogo; e già senz'esso abbiamo che soffrire abbastanza nella nostra servil sorte infelice. CLIST. Dice ognuna così, ma il ver non dice. Del destin non vi lagnate se vi rese a noi soggette; siete serve, ma regnate nella vostra servitù. Forti noi, voi belle siete, e vincete in ogn'impresa, quando vengono a contesa la bellezza e la virtù. SCENA VI ARG. Udisti, o principessa? ARI. Amica, addio: convien ch'io siegua il padre. Ah tu, che puoi, del mio Megacle amato, se pietosa pur sei, come sei bella, cerca, recami, oh Dio, qualche novella. Tu di saper procura dove il mio ben s'aggira, se più di me si cura, se parla più di me. Chiedi se mai sospira quando il mio nome ascolta; se il profferì talvolta nel ragionar fra sé. SCENA VII ARG. Dunque Licida ingrato già di me si scordò! Povera Argene, a che mai ti serbar le stelle irate! Imparate, imparate, inesperte donzelle. Ecco lo stile de' lusinghieri amanti. Ognun vi chiama suo ben, sua vita e suo tesoro: ognuno giura che, a voi pensando, vaneggia il dì, veglia le notti. Han l'arte di lagrimar, d'impallidir. Tal volta par che su gli occhi vostri voglian morir fra gli amorosi affanni: guardatevi da lor, son tutti inganni. Più non si trovano fra mille amanti sol due bell'anime, che sian costanti e tutti parlano di fedeltà. E il reo costume tanto s'avanza, che la costanza di chi ben ama ormai si chiama semplicità. SCENA VIII MEG. Licida. LIC. Amico. MEG. Eccomi a te. LIC. Compisti... MEG. Tutto, o signor. Già col tuo nome al tempio per te mi presentai. Per te fra poco vado al cimento. Or, fin che il noto segno della pugna si dia, spiegar mi puoi la cagion della trama. LIC. Oh, se tu vinci, non ha di me più fortunato amante tutto il regno d'Amor. MEG. Perché? LIC. Promessa in premio al vincitore è una real beltà. La vidi appena, che n'arsi e la bramai. Ma poco esperto negli atletici studi... MEG. Intendo. Io deggio conquistarla per te. LIC. Sì. Chiedi poi la mia vita, il mio sangue, il regno mio; tutto, o Megacle amato, io t'offro, e tutto scarso premio sarà. MEG. Di tanti, o prence, stimoli non fa d'uopo al grato servo, al fido amico. Io sono memore assai de' doni tuoi: rammento la vita che mi desti. Avrai la sposa; speralo pur. Nella palestra elèa non entro pellegrin. Bevve altre volte i miei sudori: ed il silvestre ulivo non è per la mia fronte un insolito fregio. Io più sicuro mai di vincer non fui. Desio d'onore, stimoli d'amistà mi fan più forte. Anelo, anzi mi sembra d'esser già nell'agon. Gli emuli al fianco mi sento già; già li precorro: e, asperso dell'olimpica polve il crine, il volto, del volgo spettator gli applausi ascolto. LIC. Oh dolce amico! Oh cara sospirata Aristea! MEG. Che! LIC. Chiamo a nome il mio tesoro. MEG. Ed Aristea si chiama? LIC. Appunto. MEG. Altro ne sai? LIC. Presso a Corinto nacque in riva all'Asopo, al re Clistene unica prole. MEG. (Aimè! Questa è il mio bene). E per lei si combatte? LIC. Per lei. MEG. Questa degg'io conquistarti pugnando? LIC. Questa. MEG. Ed è tua speranza e tuo conforto sola Aristea? LIC. Sola Aristea. MEG. (Son morto). LIC. Non ti stupir. Quando vedrai quel volto, forse mi scuserai. D'esserne amanti non avrebbon rossore i numi istessi. MEG. (Ah così nol sapessi!) LIC. Oh, se tu vinci, chi più lieto di me! Megacle istesso quanto mai ne godrà! Dì; non avrai piacer del piacer mio? MEG. Grande. LIC. Il momento, che ad Aristea m'annodi, Megacle, dì, non ti parrà felice? MEG. Felicissimo. (Oh dei!) LIC. Tu non vorrai pronubo accompagnarmi al talamo nuzial? MEG. (Che pena!) LIC. Parla. MEG. Sì; come vuoi. (Qual nuova specie è questa di martirio e d'inferno!) LIC. Oh quanto il giorno lungo è per me! Che l'aspettare uccida nel caso, in cui mi vedo, tu non credi, o non sai. MEG. Lo so, lo credo. LIC. Senti, amico. Io mi fingo già l'avvenir: già col desio possiedo la dolce sposa. MEG. (Ah questo è troppo!) LIC. E parmi... MEG. Ma taci: assai dicesti. Amico io sono; il mio dover comprendo; ma poi... LIC. Perché ti sdegni? In che t'offendo? MEG. (Imprudente, che feci!) Il mio trasporto è desio di servirti. Io stanco arrivo da cammin lungo: ho da pugnar: mi resta picciol tempo al riposo, e tu mel togli. LIC. E chi mai ti ritenne di spiegarti fin ora? MEG. Il mio rispetto. LIC. Vuoi dunque riposar? MEG. Sì. LIC. Brami altrove meco venir? MEG. No. LIC. Rimaner ti piace qui fra quest'ombre? MEG. Sì. LIC. Restar degg'io? MEG. No. LIC. (Strana voglia!) E ben, riposa: addio. Mentre dormi, Amor fomenti il piacer de' sonni tuoi con l'idea del mio piacer. Abbia il rio passi più lenti; e sospenda i moti suoi ogni zeffiro leggier. SCENA IX MEG. Che intesi, eterni dei! Quale improvviso fulmine mi colpì! L'anima mia dunque fia d'altri! E ho da condurla io stesso in braccio al mio rival! Ma quel rivale è il caro amico. Ah quali nomi unisce per mio strazio la sorte! Eh che non sono rigide a questo segno le leggi d'amistà. Perdoni il prence, ancor io sono amante. Il domandarmi ch'io gli ceda Aristea non è diverso dal chiedermi la vita. E questa vita di Licida non è? Non fu suo dono? Non respiro per lui? Megacle ingrato, e dubitar potresti? Ah! se ti vede con questa in volto infame macchia e rea, ha ragion d'aborrirti anche Aristea. No, tal non mi vedrà. Voi soli ascolto obblighi d'amistà, pegni di fede, gratitudine, onore. Altro non temo che 'l volto del mio ben. Questo s'evìti formidabile incontro. In faccia a lei, misero, che farei! Palpito e sudo solo in pensarlo, e parmi istupidir, gelarmi, confondermi, tremar... No, non potrei... SCENA X ARI. Stranier. MEG. Chi mi sorprende? ARI. (Oh stelle!) MEG. (Oh dei!) ARI. Megacle! mia speranza! Ah sei pur tu? Pur ti riveggo? Oh Dio! di gioia io moro; ed il mio petto appena può alternare i respiri. Oh caro! Oh tanto e sospirato e pianto e richiamato in vano! Udisti al fine la povera Aristea. Tornasti: e come opportuno tornasti! Oh Amor pietoso! Oh felici martìri! Oh ben sparsi fin or pianti e sospiri! MEG. (Che fiero caso è il mio!) ARI. Megacle amato, e tu nulla rispondi? E taci ancor? Che mai vuol dir quel tanto cambiarti di color? Quel non mirarmi che timido e confuso? E quelle a forza lagrime trattenute? Ah! più non sono forse la fiamma tua? Forse... MEG. Che dici! Sempre... Sappi... Son io... Parlar non so. (Che fiero caso è il mio!) ARI. Ma tu mi fai gelar. Dimmi: non sai che per me qui si pugna? MEG. Il so. ARI. Non vieni ad esporti per me? MEG. Sì. ARI. Perché mai dunque sei così mesto? MEG. Perché... (Barbari dei, che inferno è questo!) ARI. Intendo: alcun ti fece dubitar di mia fé. Se ciò t'affanna, ingiusto sei. Da che partisti, o caro, non son rea d'un pensier. Sempre m'intesi la tua voce nell'alma: ho sempre avuto il tuo nome fra' labbri, il tuo volto nel cor. Mai d'altri accesa non fui, non sono, e non sarò. Vorrei... MEG. Basta: lo so. ARI. Vorrei morir più tosto che mancarti di fede un sol momento. MEG. (Oh tormento maggior d'ogni tormento!) ARI. Ma guardami, ma parla, ma dì... MEG. Che posso dir? ALC. Signor, t'affretta, se a combatter venisti. Il segno è dato, che al gran cimento i concorrenti invita. MEG. Assistetemi, o numi. Addio, mia vita. ARI. E mi lasci così? Va; ti perdono, pur che torni mio sposo. MEG. Ah sì gran sorte non è per me! ARI. Senti. Tu m'ami ancora? MEG. Quanto l'anima mia. ARI. Fedel mi credi? MEG. Sì, come bella. ARI. A conquistar mi vai? MEG. Lo bramo almeno. ARI. Il tuo valor primiero hai pur? MEG. Lo credo. ARI. E vincerai? MEG. Lo spero. ARI. Dunque allor non son io, caro, la sposa tua? MEG. Mia vita... Addio. Ne' giorni tuoi felici ricordati di me. ARI. Perché così mi dici, anima mia, perché? MEG. Taci, bell'idol mio. ARI. Parla, mio dolce amor. MEG. Ah che parlando oh Dio! ARI. Ah che tacendo oh Dio! A DUE tu mi trafiggi il cor. ARI. (Veggio languir chi adoro, né intendo il suo languir). MEG. (Di gelosia mi moro, e non lo posso dir). A DUE Chi mai provò di questo affanno più funesto, più barbaro dolor! |
Edizione HTML a cura di : mail@debibliotheca.comUltimo Aggiornamento:13/07/2005 23.57 |
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