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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

Con gli occhi chiusi

di Federigo Tozzi

PARTE QUARTA

Si faceva ancora più di rado la barba, di un biondo quasi bianco. Gli occhi gli lustravano come i gusci delle ostriche; ma le estremità delle palpebre erano gonfie, con due fili purpurei. I capelli gli erano divenuti radi, per quanto se li bagnasse con un'acqua di sua invenzione, fatta con le coccole di ginepro; i baffi, attaccati alle guance, si arruffavano intorno alla bocca; che aveva un senso di bontà.
S'era fatto alquanto curvo, con le spalle ingrossate; ma se ne teneva d'esser forte come prima e di pesare più di un quintale. Gli pareva che i suoi polsi e il suo collo fossero quasi indomabili; qualche cosa che egli doveva conservare, per servirsene al bisogno.
Domandò Ceccaccio: - Dunque a peso?
Disse il trattore: - Non sarà cento chili.
Urlò Ceccaccio: - Che cosa dice? Un quintale e mezzo.
Aggiunse Palloccola: - Siamo onesti noi!
E bestemmiò. Ma corsero a sciogliere le funi, per scendere la paglia dal barroccio. Domenico s'avanzò, la prese per la legatura e la sollevò; aiutandosi con i ginocchi.
- Vi dò quattro lire. È anche troppo.
- L'abbiamo rubata, è vero, Ceccaccio?
Tutti risero. Poi bestemmiarono e gridarono, confusamente.
- Dunque, paghi noi; ce ne andremo.
- O non volevate bere?
Domandò lo stalliere annoiato, dall'apertura della capanna.
- No, no. Siamo stanchi. Non possiamo aiutare a tirarla su.
- Guarda che muscoli!
Disse Pipi, prendendo un braccio di Domenico; la cui camicia era rimboccata fino ai gomiti.
Esclamò Nosse: - Con quelle braccia!
Disse Ceccaccio: - Fate lesti, figlioli.
Dalla porta mezza aperta si vedeva la strada. E passò una giovine. Ceccaccio la chiamò, con un fischio.
Disse Pipi: - Bada se viene qua.
- Che cosa si fa qui? - domandò il trattore. - Si chiacchiera soltanto?
- O che cosa vuol fare?
E il compagno di Ceccaccio si sedé su la paglia, mettendosi le mani sopra i ginocchi.
- Non avevate furia, dianzi?
- È vero. Ci paghi.
- Eccovi sei lire. Levatevi di qui!
Pipi e Nosse escirono, con il loro barroccio.
- Tocca a noi ora.
- Dunque quanto ci vuole dare?
- Pesiamola.
I due presero una stanga, e vi misero l'uncino della stadera; a cui attaccarono il laccio della fune.
- Pesi bene, padrone!
- E tu non appoggiarti con le ginocchia.
- Io? Guardi: c'è un braccio di distanza.
Ed avendo su la spalla la stanga, Palloccola alzò sopra il capo le mani; mentre il corpo gli tremava per lo sforzo.
La paglia era un quintale. Fecero il conto; e la legarono, per trarla su con la carrucola.
- Lavora anche lei, padrone?
- Più di te, perché le mie braccia sono più forti.
E tutti si afferrarono alla fune, che pendeva dalla carrucola alta. Domenico l'avvolse ad uno dei polsi. Come il fastello cominciò a salire, il legno della carrucola scricchiolò; mentre la polvere con le festuche ricadevano su gli uomini. Lo stalliere stava con la mano tesa, sporgendosi dall'apertura. Gli alzatori si piegavano con un solo respiro; e il fastello penzolava su le loro teste; poi, afferrato dallo stalliere, imboccò nella finestra e disparve nell'ombra.
- È fatta!
Disse Ceccaccio, spolverandosi intorno al collo, dove le festuche restavano attaccate. Ma le braccia gli dolevano, come se fossero state strappate.
Il trattore, venutogli sospetto, andò verso un mucchio di mattoni rotti e di ferracci. Disse: - Qui manca una serratura vecchia. Chi l'ha presa?
I due pagliaioli si guardarono, e continuarono ad avvolgere le loro funi.
- Giovinotti, chi ha preso una serratura?
Ridomandò Domenico, doventando bianco.
- Io no di certo.
Rispose Ceccaccio con calma.
- Non dico a te. Dico che è stata portata via.
- Che ne facciamo noi?
Chiese Palloccola con odio e risentimento.
- L'avrà presa Pipi! Lui ci mercanta!
Disse, ridendo, Ceccaccio.
- Io non lo so. Ma, se lo sapessi, me la farei rendere. Non sono cose da lodare.
I due uomini divennero inquieti, perché a vicenda l'uno temeva che l'altro fosse stato il ladro. Ma Palloccola gridò: - Ci fruchi!
- Io non fruco nessuno! Eccovi il denaro. Ma non ricomprerò mai più la paglia da voi!
- Noi non ne sappiamo niente!
Domenico si convinse ch'era impossibile trovare il colpevole; e li credette tutti e quattro d'accordo. E, fatto un gesto per invitarli ad andarsene, rientrò nella trattoria. Disse a Pietro, riprendendolo per il colletto: - Se tu stessi attento, com'io ti comando, non ti porterebbero via la roba.
Pietro alzò le spalle, pensando: hanno rubato perché sono poveri. E si allontanò con quello stato d'ansia, che lo invadeva tutte le volte che suo padre era per percuoterlo. Infatti, Domenico fece per slanciarsi; ma Rosaura lo trattenne.
La serratura era stata presa il giorno innanzi da un accattone forestiero.
La sera questi uomini, storditi dalla fatica, sfamatisi a qualche convento, si addormentavano briachi in una bettola, e Pipi con la moglie.
Quando il Rosi era doventato padrone del Pesce Azzurro, c'era un ingresso solo, quello da Via dei Rossi, con un'insegna di ferro, a banderuola, ferma al muro e con un pesce dipinto tanto dall'una parte che dall'altra. Sulla porta, una Madonna in bassorilievo; del quattrocento. Ci stava ancora il lume attaccato, ma la fune per tirarlo giù mancava.
Poi furono aperti anche due ingressi dalla Via Cavour. Ed ad uno di questi, dietro il cristallo della porta, una vetrina a due piani, foderata con la carta che cambiavano una volta tutte le settimane; piena di polli già pelati, di carni arrostite, e d'altre delizie.
Dopo l'ingresso da Via dei Rossi una gran porta, per entrare in una piazzola interna sempre ingombra di calessi e d'ogni specie di legni. Accanto a questa, la stalla; che poteva contenere fino a trenta bestie. Sopra la stalla, la capanna.
Tutti i sabati, Domenico faceva l'elemosina dei pezzi di pane avanzati agli avventori.
La stretta Via dei Rossi, al principio, dov'era l'uscio vecchio della trattoria, si empiva un'ora prima del tempo, di mendicanti; fra i quali era anche la moglie di Pipi, giovine, ma così smunta e gialla che la sua bocca era come un taglio senza labbra: andava come se non avesse potuto piegare la testa da nessuna parte. Molte volte, dalla veste male abbottonata e sudicia, si vedeva il petto vuoto e senza seni.
C'era anche una vecchia, dal naso enorme e pavonazzo, con un cappello da contadina, del quale le trecce di paglia si disfacevano intorno; e ne rimaneva sempre un giro di meno. Questa pretendeva d'avere la prima elemosina, e non se ne andava finché tutti i pezzi di pane non fossero stati distribuiti. Talvolta gridava: - Quella vecchiaccia ne ha avuto più di me.
Ed apriva ancora i lembi del fazzoletto pieno di pane duro, sorreggendo sotto l'ascella il bastoncino.
C'era una mendicante, a cui Domenico faceva l'elemosina tre giorni della settimana; una donna grande, dal volto acceso ed uguale come una maschera sottile, che non si poteva togliere, una maschera di pelle rossa. Portava, d'estate e d'inverno, uno scialletto di lana nero annodato dietro il dorso. Teneva sempre incrociate le mani pallide sul petto. La sua figliola, alta e leggiadra, non la lasciava mai, tenendo una mano infilata sotto uno dei suoi bracci; era scema e sorrideva sempre; ma di un sorriso dolce ed appassionato.
Camminavano ambedue rasentando i muri; a passi lunghi, come se avessero voluto fuggire. Nell'attraversare la strada da una parte all'altra, si affrettavano anche di più.
Quando mangiavano la zuppa a qualche convento, la figliola voltava il dorso a tutti; e ritraendo il cucchiaio dalla bocca, faceva grandi risate silenziose.
Quando la madre morì, fu rinchiusa in un manicomio.
C'era un cieco, che imprecava contro il figlio; che aveva una mano secca con un dito di meno: - Sei un mascalzone, e non mi aiuti. Se tu stai costì appoggiato al muro, non troverai più pane per noi. Mascalzone! Mascalzone!
E tendeva un orecchio, accartocciandovi dietro una mano; per capire quanta elemosina ci fosse ancora; mentre la voce era la stessa di quando recitava le devozioni.
Tutti gli altri poveri erano andati incontro a Rosaura come un branco di polli verso il punto dov'è rimbalzato un chicco di granturco.
Il giovinetto del cieco ascoltava, scalcinando con le dita le commessure dei mattoni: preferiva esser l'ultimo perché, senza leticare, era sicuro che Rosaura avrebbe serbato qualche cosa per lui.
Tutte le mendicanti guardavano il pane avuto; e qualcuna ne riposava un pezzo troppo secco dentro una fenditura del muro, che era accanto all'uscio. Allora Rosaura, sporgendosi tutta fuori, esclamava: - Guardatela: viene a chiedere l'elemosina, e poi la scrafia!
Una donna rispondeva, tenendosi ambedue le mani strette sopra i fianchi: - Se l'avessi avuto io, l'avrei mangiato!
Qualcuna rideva, addentando il pane: dopo averlo un poco rigirato tra le mani sudicie. Ad un tratto, dal mormorio basso e incomprensibile, cominciava un alterco: - Viene a chiedere il pane, ed è ricca quanto vuole.
- Che importa a te? Sono ricca?... Non le dia retta.
Rosaura interrompeva: - State zitta, altrimenti non ve ne daremo più.
Un'altra donna, con il volto guasto da un ezzema, bendato con una pezzuola azzurra annodata dietro la testa, rispondeva:
- Ha ragione. Ma io non mi sono mai lamentata.
Si vedevano soltanto i suoi occhi infiammati, come piaghe, che non potevano stare aperti; ed era costretta, per guardare, a sollevare il capo di traverso; mentre, parlando, la benda seguiva i movimenti della bocca. E che bocca aveva!
Un vecchio, che sopravveniva quasi sempre a elemosina finita, cercava d'impietosire con quel tono che i mendicanti adoprano: - Per amor di Dio... anche a me.
- Non c'è più niente. Perché non venite prima?
- Le gambe non mi reggono più!
E batteva il suo bastone su lo scalino dell'uscio. Rosaura se ne andava senza dargli niente; dopo avergli risposto: - Ma per arrivare ora vi reggono!
Allora egli aspettava ancora per lungo tempo; con un'ostinazione rabbiosa: - Signora mia, non mi faccia soffrire più!
Aveva lavorato tutta la vita; e pensava, come a una magnificenza, che se si ammalasse avrebbe potuto entrare in un ospedale, dove sarebbe stato tutto il giorno steso sopra il letto. E a mangiare bene!
La moglie almeno gli era morta giovine, e non soffriva più! Ma egli finì con il credere un obbligo l'elemosina, come trovare uno scalone e mettercisi a sedere senza che lo mandassero via.
Domenico non riprese mai moglie, quantunque vi riflettesse sovente, grattandosi forte con le unghie il mento poco rasato, stringendo la pelle della gola e poi battendo le nocche su qualche cosa, ma senza farsi male. Lo annunciava con veemenza, di proposito, dopo ogni sua arrabbiatura. E credendo che Pietro si sarebbe dato agli interessi, per non trovarsi in casa una matrigna, gli diceva: - Ora toccherebbe a te! Ma tu, imbecille, fai il socialista! Non ti vergogni?
Comprava un cappello all'anno, portandolo tutti i giorni; finché la tesa, che si adagiava su gli orecchi, rovesciandoli più giù, non fosse untuosa. Gli piaceva di tenere la camicia almeno per due settimane; e bestemmiava quando doveva decidersi a rifarsele nuove. L'istinto di conservarsi nella condizione guadagnata lo costringeva anche ad inutili economie; che, del resto, faceva notare agli altri; anzi, volendo che fossero apprezzate, diceva, ed era vero: - Io sono un galantuomo: ho fatto i denari con il mio sudore; e me li voglio mantenere.
In una ciotola di legno, teneva, insieme con le monete di rame, per superstizione, una medaglietta trovata mentre gli assalariati vangavano. Per guardarla meglio, il che gli succedeva tutte le volte che gli veniva in mano, mettevasi gli occhiali.
La medaglietta gli piaceva, perché con le unghie riusciva a grattare il metallo; che, allora, pareva nuovo. Quando gli avevano portato gli occhiali, dopo averglieli cercati da per tutto, sedeva, li puliva con il fazzoletto rosso, puzzolente di lezzo: - Non la vedo bene!
E usciva fuori, per farla esaminare prima al droghiere, poi al mercante e al barbiere; che erano i suoi amici più vicini.
Ma né meno loro, naturalmente, sapevano che medaglietta fosse.
Talvolta si appoggiava, senza cappello, all'uscio della bottega; salutando anche chi conosceva a pena.
D'estate, vi si faceva portare una sedia; sonnecchiando, finché qualcuno, che passava, non lo destasse con un colpo sopra la coscia. Allora si risentiva, dicendo: - Mi ero addormentato un poco.
E, per levarsi il sonno, andava a dare qualche ordine.
Durante la giornata, inghiottiva tutte le frutta trapassate; e diceva al cuoco, i cui capelli neri toccavano quasi le ciglia: - Portami un tegame!
Assaggiava e rimandava via il cuoco, spingendolo sul braccio: - Ci hai messo poco pepe. Quando imparerai a fare da te?
Il rimproverato restava male ed alzava a poco a poco una spalla.
- Portami quell'altro tegame, ora.
Quegli obbediva, restando poi dritto a guardarlo; con una mano sopra la tavola.
Domenico non aspettava di aver ingoiato il boccone, per gridargli: - Hai fatto bruciare l'aglio.
Si puliva i baffi, sdrusciandoseli con il tovagliolo; e concludeva: - Bisognerà che in cucina non ti lasci più solo o ti mandi via. Degli uomini non ne nascono più.
Ogni mattina mangiava di quel che c'era rimasto il giorno innanzi in fondo ai recipienti della dispensa.
Ma del vino ne beveva quasi un fiasco; e ruttava sopra il fazzoletto, volgendosi verso il muro. I sapori lo esaltavano, lo facevano loquace; e fuori della cucina gli pareva di perder tempo, a meno che non fosse a Poggio a' Meli.
Pietro era riuscito a iscriversi all'istituto tecnico di Firenze, dopo aver fatto privatamente, quasi da sé, il primo corso a Siena. Ma fu la completa sparizione d'ogni legame tra padre e figliolo. Sempre di più si trattarono come due estranei costretti a vivere insieme; e Domenico aveva smesso addirittura di voler su di lui qualunque autorità; credendo che, comportandosi a quel modo, gli facesse rimorso. Ma, ormai, non l'avrebbe perdonato mai più. Durante magari un mese, Domenico era stato capace di prendere tutto in scherzo; e ambedue si dicevano facezie, che qualche volta doventavano litigi.
Pietro era sempre socialista, ma andava meno con gli operai. Si vergognava d'aver già vent'anni, e d'essere così a dietro degli studii: questa cosa l'avviliva.
Presa a Firenze una camera in Via Cimabue, mangiava a una trattoria, lì vicino.
Stava lunghe ore con la testa tra le mani, imaginandosi di studiare; con un'ansia attraversata e tagliata in tutti i sensi da malumore e da malinconia, come da linee tirate con una squadra.
Si sforzava d'essere soddisfatto e di affezionarsi alla scuola; ma gli pareva che i giorni fossero così staccati e separati l'uno dall'altro che sentiva prendersi dallo scoraggiamento. Il giorno dopo non era capace più a ricordarsi e a raccapezzarsi del giorno avanti; e provava difficoltà a pensare ai giorni successivi.
E non riuscendo quanto avrebbe voluto, né meno ora che ci metteva tutto il suo impegno, studiava sempre meno!
Sotto la sua finestra di camera c'era la cinta di un convento di suore; nel cui giardino, quasi subito dopo mezzogiorno, andavano a cantare e a ruzzare un centinaio di bambine. Quanta tristezza quel baccano! E poi egli odiava le suore!
Quando le bambine arrivavano all'angolo più vicino, sorrideva amaramente, sperando che lo avrebbero scorto. Ma non se ne accorgevano né meno; e, allora, s'infastidiva anche di loro.
Della città, invece, non sentiva né meno il rumore; perché la cinta, perpendicolare al muro della casa, era lunga e andava a finire a un fabbricato così grande che gli tappava quasi tutta la Piazza Beccaria; e, di qua e di là, altre case, quantunque più basse, quasi in semicerchio, chiudevano ogni cosa.
Si trovava sempre a disagio: ed era come una cosa che non riesciva a spiegarsi. Non si affidava agli amici, e ne sentiva la mancanza. Si annoiava di tutto; e la cupola di Santa Maria del Fiore, velata quasi sempre di nebbia in fondo a Via dei Servi, che egli vedeva prima di rientrare a scuola, quando andava a prendere cinque minuti di sole in Piazza dell'Annunziata, gli dava uno scoraggiamento languido, che ingrandiva se qualche campana suonava.
E tra tutti i rumori, verso il tramonto, flebili e lontani, gli veniva voglia di fuggire; come se l'aria ascoltasse; quell'aria trasparente, della quale aveva quasi timidezza e paura.
Quando andava a cenare, cominciava a farsi buio; e, sotto gli alberi della Piazza Beccaria, le baracche di un circo equestre abbagliavano con i loro lumi ad acetilene, mentre un carosello non smetteva più di girare con la musica del suo organo.
Egli vedeva la Via Ghibellina e la Via dell'Agnolo così strette che le loro case si chiudono insieme; mentre le altre, dalla parte della Barriera Aretina, terminano dritte dinanzi agli alberi e alla campagna.
Entrando in casa, trovava la padrona a cucire insieme con altre donne; alle quali non parlava mai.
Ma, intanto, cominciarono ad affittirsi i giorni, in cui sentiva stanchezza della scuola; una stanchezza che gli faceva lo stesso effetto di una colpa inspiegabile.
Pensava anche che non tutti avevano i mezzi per studiare!
Tra i compagni, si sentiva un giovane che aveva già troppo vissuto più di loro. Ecco perché, con simpatia e volentieri, li chiamava ragazzi. Il loro modo di comportarsi verso gli insegnanti gli dava un senso di compatimento. Ma non riesciva a ridere di quel che li divertiva; e, molte volte, se ne mostrava seccato e li rimproverava.
Stava bene sul letto, con gli occhi chiusi.
Si avvide di aver tentato invano di affezionarsi ai compagni: le indifferenze con alcuni si mutarono in ostilità e inimicizie; per gli altri provava avversione, specie per quelli più ricchi, che lo stimavano da poco perché era socialista. I più lo credevano pazzo; ma gli volevano quasi tutti bene.
Finalmente, convinto che doveva cedere alla sua stanchezza, non andò più a scuola; e ai compagni, che ne ridevano, disse che suo padre non aveva più denaro per tenerlo a Firenze.
Gli ultimi giorni si era sentito, con angoscia, ma anche con piacere, sempre più differente a tutti; e non seppe spiegarsi come gli altri studiassero senza essere costretti a fare come lui. Ed ebbe più fretta d'allontanarsene.
Dopo quattro mesi soli di scuola, invece di pagare alla padrona di casa la nuova mesata anticipata con il denaro ricevuto dal padre, tornò a Siena senza né meno avvertirlo.
Fu ricevuto come se avesse messo giudizio, sebbene un poco tardi. Ed egli non osava dire che voleva studiare da sé per fare gli esami lo stesso. Ma saputo, per caso, da una lettera ricevuta da Rebecca, che Ghìsola era a Firenze da molto tempo, e non più a Radda, prese senz'altro la decisione.
Domenico, che invece aveva subito sperato troppo, avendo apprezzato il suo ritorno spontaneo a Siena, spiegandolo come un ravvedimento mandato da Dio, cercava d'avere piuttosto buone maniere; e gli chiedeva: - Perché preferisci stare lontano da me, che sono tuo padre? Dio ti deve toccare il cuore. Non te ne accorgi?
Ma, visto che né meno ora poteva farsi obbedire, lo lasciò di più; sicuro che il tempo l'avrebbe aiutato.
E Pietro, per scrupolo di coscienza e per sentirsi in diritto di fare il contrario di quello che il padre voleva, si dette a studiare con una soddisfazione prima a lui ignota.
Al seminario si erano sovrapposti i tre anni della scuola tecnica, cambiando tutto; si sentiva proprio un altro, e sul punto di cambiare ancora.
Il suo socialismo doventava, come diceva lui, e com'era di moda, intellettuale. Egli non aveva più la fede con la quale una volta voleva convertire gli altri; ma adoprava la moralità socialista per i suoi sentimenti.
Ora quei tre anni gli parevano rapidi come un giorno solo, perdevano ogni consistenza, anche mentale; come se appena gli avessero dato tempo di respirare.
Gli esami, anche contro la volontà che voleva avere, doventavano sempre più un pretesto; e non gli pareva né lecito né leale. Ma la sua impazienza di rivedere Ghìsola aumentava; perché metteva in Ghìsola tutta la fiducia della sua vita.
Stava a giornate intere, solo, in casa; guardando, con la faccia su i vetri, il sottile rettangolo di azzurro tra i tetti. Quell'azzurro sciocco, così lontano, gli metteva quasi collera; ma non ne distaccava gli occhi. Le rondini, che di lì parevano nere, passavano come attraventate. Soltanto là su, all'ultime finestre, qualcuno affacciato che non conosceva né meno! E allora sentiva il vuoto di quella solitudine rinchiusa in uno dei più antichi palazzi di Siena, tutto disabitato, con la torre mozza sopra il tetro Arco dei Rossi; in mezzo alle case oscure e deserte, l'una stretta all'altra; con stemmi scolpiti che nessuno conosce più, di famiglie scomparse; case a muri con due metri di spessore, a voltoni, le stanze quasi senz'aria. I ragnateli larghi come stracci e la polvere su le finestre sempre chiuse e i davanzali sporgenti dalle facciate.
Talvolta, all'improvviso, pensava a Firenze e a Ghìsola che forse, aspettandolo, gli avrebbe fatto un rimprovero che lo esaltava; all'Arno scrociante; a tutte le colline sempre belle; a quelle nebbie che lasciano i muri bagnati, annerendo le pietre delle strade che sembrano rappezzature.
Il padre, parlando, gli produceva una malinconia invidiosa: e si allontanava per non udirlo, per non vederlo; con un brivido. Perché nessuna parola era proprio per lui? Perché lo trattavano come se lo tollerassero, anche ora? Perché tentare invano di essere come gli altri? Come erano fatti gli altri?
Ripensava ai compagni di Firenze, ad uno per volta. E perché loro, forse, non lo ricordavano né meno?
Da quanto tempo era morta la mamma? Gli parevano cento anni. E tutte le cose s'erano svolte senza bisogno di lui; a sua insaputa.
I suoi occhi, che avevano una mansuetudine mistica, contrastavano con le linee magre e sfuggenti del volto; sì che subito se ne notava la differenza.
Aveva quelle indefinitezze profonde e persistenti, senza nome e senza mèta; che lasciano una traccia anche quando sono passate, come si vede se è passata l'acqua su la rena.
Credutosi inferiore ai suoi amici di Siena, ora conosceva lo sbaglio acre; che poteva aver conseguenze anche nell'avvenire simile ad un'espiazione arida.
Ma perché aveva sperato di poter doventare un pittore? Che significava quel tentativo inutile, dinanzi al suo amor proprio? Poteva non tenerne conto, per credere ancora a se stesso?
Si confortava, sognando un'esistenza nuova e insolita. Ma quando? Talvolta, essa si riperdeva; ed egli non riesciva né meno a capire come l'avesse sognata.
Per quanto di una sincerità fanatica, nessuno avrebbe potuto rendersene conto. Sentiva di non essere più come una volta per quelli ch'erano stati suoi amici prima che fosse andato a Firenze. Avrebbe voluto farsi perdonare di non avere più amicizia per loro; ma si vergognava e si pentiva di essere stato troppo sincero ed espansivo tanto facilmente. Rivedeva quelle sue sottomissioni morali, di cui gli altri s'erano approfittati. A Siena aveva voluto essere amico anche dei più cretini e dei più farabutti, credendoli degni di se stesso; come un dovere, fino a stimarsi cattivo ad andare a spasso solo, senza qualcuno di loro. Ma, tornato da Firenze, era riuscito a non parlare più a nessuno, con una smania amara di non vederli più!
Egli era il giovine che, sebbene debole, porta impeti di energie; anche se sbaglia.
Molte volte, in sogno, provava come avrebbero dovuto svolgersi i suoi sentimenti; svegliandosi quasi soddisfatto, come se un'esistenza superiore e indefinibile gli avesse dato ragione.
E con quale gioia stravolta aspettava il giorno dell'incontro con quella, che già metteva sottosopra tutto il suo essere!
Non sapeva le parole che le avrebbe detto, quantunque se le imaginasse luminose di bontà; accorgendosi talvolta di aver pensato parole senza significato, che gli portavano via la bocca e l'anima! Parole avventate che non si ritolgono più, come coltelli infilati troppo forte, con rabbia. Parole che vuotano l'essere con piacere frenetico: alle quali succedono paure folli, giorni temporaleschi, piogge calde e asciutte più della stessa aridità che dovrebbero bagnare.
Talvolta, aveva voglia di farsi uccidere; forse da Ghìsola, che già sentiva sua; tornata come una tentazione deliziosa dal tempo scorso.
Toppa era morto di vecchiaia. Lo trovarono una mattina di febbraio, sotto il carro; nell'aia. Il gelo lo aveva attaccato mezzo ai mattoni; e la pancia, quando Carlo gli ci picchiò la pala che doveva adoprare per sotterrarlo a un olivo, suonò come un tamburo; e fece, perciò, ridere.
Era stato, dopo la castratura, piuttosto cattivo: quando non voleva esser toccato, prima si allontanava; e poi, se non smettevano, si avventava digrignando i denti. Era bastardo e alto un mezzo metro. Aveva quel pelo bianco che vicino alla pelle è giallo, con una macchia nera sopra un orecchio; e perciò gli trovarono quel nome.
Da piccolo, a pena slattato, Domenico lo legò al ferro del pozzo; e, quando guaiva, gli assalariati avevano l'ordine di pigliarlo a calci.
Poi gli comprò un collare con i chiodi d'ottone; un collare che non gli levavano mai altro che mentre lo tosavano.
Egli udiva la sonagliera del cavallo di Domenico quando ancora era al borgo fuor di Porta Camollia. Allora, esciva nella strada; e cominciava ad abbaiare. Quando il cavallo appariva ad una svolta poco distante dal cancello del podere, si metteva a correre da un punto all'altro della strada. Le persone si tiravano da parte; ma Toppa aveva buttato giù parecchi ragazzi, che non erano stati in tempo.
Quando aveva mangiato, andava invece a correre per i campi, e ci lasciava i segni da per tutto; specie dov'era il grano alto ci restava un solco che si vedeva anche di lontano. Quando seminavano, dovevano prenderlo a sassate perché dove passava saltando bisognava rifare il lavoro. Gli piaceva l'uva matura e i fichi anche di più.
Obbediva soltanto a Domenico e a Giacco; degli altri aveva soltanto timore, quando non gli veniva voglia di mordere; come fece una volta a Ghìsola che gli era salita a cavallo.
Non c'era nessun altro cane che la potesse con lui; e ne fece morire più d'uno per averli azzannati su la spina dorsale. Due li sbranò perché erano andati a mangiargli la zuppa nel catino.
Tollerava invece i gatti, purché non gli andassero vicino. Ma quando stava al sole, non ce li voleva in nessun modo: teneva, allora, un occhio chiuso e un altro aperto: ne apriva uno e ne chiudeva un altro. All'improvviso, faceva un balzo con un abbaio che stordiva.
Non ebbe voglia di ruzzare né meno da cucciolo. E si comportava a seconda di chi lo avvicinasse: non sbagliava. Non avrebbe obbedito a Pietro, né mai gli fece una carezza.
Quando lo sotterrarono, dopo aver avvertito il Rosi, che ricordò di averlo pagato due lire soltanto, dando l'ordine di serbare il collare, Giacco pianse. Anch'egli si sentiva vecchio; e, guardando il cadavere della bestia, disse agli altri: - Noi faremo la stessa fine.
Enrico rispose: - Di più ormai non poteva campare. Che ci fanno i vecchi al mondo?
E dette un'occhiata a Carlo, che rideva.
Ma Giacco buttò via la zappa, e gridò: - Io camperò più di te: mettitelo bene in mente. Vedi questa povera bestia? Aveva il cuore più buono del tuo!
- Io non ho voluto alludere a te.
- E a chi, dunque? Il cervello l'ho debole ora, ma la ragione l'ho sempre...
Carlo, allora, cominciò a bestemmiare e a pigliarsela con il cane: - Non poteva campare? La fatica per la buca non ci sarebbe stata; e né meno questa questione. Bada se per una carogna ci si deve offendere!
Egli fingeva d'essere arrabbiato; ma invece, aveva piacere che, senza compromettersi lui, Giacco facesse il viso bianco a quel modo. E Giacco guardava il cane, stando attento che gli altri non lo pestassero per sbadataggine e per dispetto.
Masa, venuta a vederlo mettere sotterra, si fermò un poco distante dalla buca; senza smettere di mangiare, sebbene si sentisse agitata. Quand'ebbero finito, si picchiò il ventre con un pugno, e disse: - Se mangio dell'altro, le budella mi fanno gomìcciolo in corpo.
Giacco alzò la testa e la guardò: - Vorrei ridere, allora! Piuttosto va' alle tue faccende. Creperesti prima di smettere! Lo capisci che mi fai rabbia?
Masa mise il pane in tasca, e rispose: - Sei un gran brontolone! Il Signore lo sa!
Sospirò; e, seguitando a camminare innanzi agli altri, aggiunse tra sé: - Pazienza, pazienza!
Ella non sapeva quel che avevano detto al marito.
Ghìsola era stata mandata via da Poggio a' Meli, con astuta precauzione, da Domenico; che, vedendo il contegno poco sicuro di lei, non volle trovarsi in impicci.
Ella era andata a Poggio a' Meli a dodici anni ed era tornata a Radda a diciassette.
Conosceva quasi soltanto di nome gli altri parenti e non aveva più veduto le due sorelle, che non le erano affezionate, perché non vivevano insieme; ma andarono a prenderla alla diligenza, mettendosi le scarpe nuove e gli scialletti delle feste.
Ella portò loro due anelli d'oro falso, per regalo. La baciarono e poi si trovarono tutte e due impacciate. Non sapevano se la tenevano nel mezzo; e, camminando, cambiavano sempre di posto. La minore, anzi, si mise dietro; e, quando Ghìsola la chiamò con sé, invece andò lungo la proda sul margine erboso della strada; riabbassando la testa tutte le volte che Ghìsola si voltava a lei, perché non voleva far vedere che la guardava. Anche la sorella più grande parlò poco, anzi non disse niente.
Quando giunsero a casa, dove l'aspettavano i genitori, Ghìsola si mise a piangere. Ma, poi, fecero un bel pranzo, mangiando un coniglio fritto e due galline in padella; due galline che avrebbero dovuto campare, perché avevano le ovaie grasse e piene. Il pane era stato sfornato la mattina stessa.
Borio di Sandro, un vedovo amico della famiglia che aiutava anche con il denaro, aveva portato un fiasco del suo buon vino. E, il primo giorno, quella mezza sbornia mise tutti d'accordo.
Ma Ghìsola non se la sentiva di faticare come le sorelle, che la chiamavano tra sé la "signorina delicata". Non voleva saperne di starci insieme; e, quando le era possibile, andava nel campo sola. Non le volevano male, ma lei trovava sempre modo di smetter subito qualunque discorso che volessero incominciare. Anche alla messa andava sola; e ripensava a Poggio a' Meli. Già tornare a Radda era stato un dispiacere; e Borio soltanto lo capiva. Ella gli diceva sempre che non ci sarebbe rimasta a costo di farsi ammazzare!
Un anno dopo, la sera di una solenne festa religiosa, egli l'aveva accompagnata alla processione su dentro il paese.
Era stata una processione con i contadini dei dintorni dietro ad una piccola croce, a coppie, con i loro cappelli in mano. Le ragazze, tutte insieme dopo, cantavano leggendo in un libro tenuto aperto con ambedue le mani, sempre a testa bassa, come quando si va incontro a un vento impetuoso. Poi un'altra croce, grande e nera, polverosa, con una corona di spine e con i flagelli di corda pendenti. Poi il prete.
Il vedovo ricondusse a casa Ghìsola che non aveva mai voluto dare retta a nessun giovinotto, perché si teneva molto da più di tutti.
Scesero per una strada ripida, sempre più buia, che porta fuori del paese; accanto alle file dei cipressi folti, entrando poi nei campi. Percorsero un sentiero scosceso, a metà di un grande poggio nano e coperto di querci alte.
Ghìsola, a cui Borio piaceva molto, camminava un passo innanzi, un poco triste come succedeva sovente dopo l'allegria insolita e quasi involontaria di una festa.
"Perché ella non mi guarda più?"
Gettò via il sigaro che ora gli faceva male e gli aumentava la confusione.
Erano soli! Tutta l'altra gente non si sa dove fosse scomparsa! È vero che qualche volta egli udiva, prima di lei, rumore di passi; ma poi il calpisticcio si allontanava.
Pareva che Ghìsola volesse farsi sempre più piccola, camminando quasi senza vedere; e se non ci fossero stato Borio, a cui stava vicino ascoltandolo respirare, sarebbe andata a battere in qualche proda.
Di quando in quando, inciampava; le sue gambe parevano intirizzite e così lunghe che ad ogni passo la facevano rintronare tutta. E allora pensò di fermarsi. Credeva d'aver bevuto troppo; e si sentiva portar via la testa; senza avvedersene, sospirava sollevando lungamente lo stomaco.
L'oscurità, con la luna palpitante sotto un velo di nuvole, empiva ogni parte di ombre fievoli e trasparenti. Allora egli la prese per mano, ed ella lasciò fare: gli pareva che Ghìsola fosse doventata un essere debole, quasi buffa. Ma capì. La baciò; ed ella si discostò, trasalendo. La baciò ancora, guardando dopo fissamente la sua nuca e il suo dorso solcato tra le spalle. Ma, forse, non sarebbe riuscito a baciarla un'altra volta! E siccome non si voltava a dietro, le cinse la vita con il braccio.
Stava zitta! Ella aveva paura di parlare, quanto dell'ombre di quei cipressi: le quali, all'improvviso, subito fuori del paese, attraversavano la strada, risalendo come se fossero vive, con la cima su per il muro della parte opposta.
Ad un tratto si sedette a metà del viottolo sopra una pietra, nascondendo la faccia con lo scialletto caduto giù dai capelli; e, sopra, le mani: mani che parevano di ferro, come le punte del forcone.
Egli, volendole parlare, pur non sapendo come, dovette abbassarsi tutto. Non gli pareva di essere accanto a quella Ghìsola che conosceva da tanto tempo e che era con lui anche poco fa. Ella strinse le gambe l'una contro l'altra, così insieme che somigliavano ad un aratro voltato in sù.
Allora Borio, dopo una lotta silenziosa, con le mani, poté dire, sentendo già il rimorso, senza nessuna voluttà: - Ti dico di sì... ti dico di sì...
Le loro dita, sudate, si sguisciavano; egli aveva voglia di storcergliele: si guardavano come quando si sta per leticare, perché ormai era impossibile smettere.
Ella allontanò le gambe. Poi pianse.
Borio, più anziano, le incuteva anche una certa obbedienza. Aveva la testa grossa e con un birignoccolo, il viso tutto rasato; e i capelli, a spazzola, che gli coprivano fin giù le tempie: le sopracciglia come lunghe setole nere e attaccate insieme sul naso.
Ella stessa l'indomani andò a ritrovarlo; e ne divenne gelosa.
Adesso i suoi occhi parevano sempre molli; e i capelli più morbidi; con la fronte troppo piccola.
Borio ci si era perso, e l'avrebbe sposata. Ma anche il suo fattore la possedette; e ambedue, per gelosia, ne sparlavano con tutti: allora molti di quei giovinotti, da lei respinti, non la lasciarono più in pace.
Andavano a cercarla nel campo, sotto i fichi e i peschi; l'appostavano, quando tornava, attraverso i ginepri. Si doveva difendere a morsi e con le unghie, piangendo e rifugiandosi a casa di corsa. E allora le veniva da ridere; e aspettava che passassero sotto la sua finestra. Qualcuno cercava d'arrampicarsi anche su per il muro. Poi facevano le sassaiuole alla porta.
Il fattore voleva tirare qualche fucilata, come alle lepri.
Ma ella, per non buscarne tutti i giorni dai suoi, e per essere più indipendente, trovò servizio da una signora della Castellina, un altro paese distante da Radda pochi chilometri.
La strada da Siena, dopo essere discesa fin giù ad un torrente dov'è un mulino, sale in mezzo a linee contorte e raggomitolate di colli che s'assomigliano e della stessa dolcezza, con i filari delle viti tra i muriccioli a secco, di sassi, con le fattorie dietro i cipressi, con qualche campanile così lontano che dopo una voltata non si vede più. E di mano in mano che la strada s'aggira, quasi tormentandosi della sua lunghezza, impaziente, si fa sempre più silenziosa; e le campagne più aride e solitarie.
Vi sono poggi con cime piane, lastricate di pietre, sterpigne: qualche croce, fatta con i pali delle viti, talvolta abbattuta, in proda a una scorciatoia per i contadini e per le bestie.
Boschi di querci, ma radi; e, tra il fogliame, si vedono prominenze e insenature di altre colline, scoscendimenti ripidi e a un tratto pianeggianti, con tre o quattro facce che si attaccano a ondulazioni di prati, a ripiani di terra rossastra, a balze.
Dopo Fonterutoli, un villaggio come un angolo di case, con quattro botteghe, la strada si fa ripidissima; e riesce ad esser più alta che altrove.
Talvolta tutto un pezzo di bosco appare quanto è largo, e un uccello vi passa sopra; da un doccio, il solo che è per quella strada, vecchio e sbocconcellato, scroscia l'acqua dentro un abbeveratoio massiccio.
Il silenzio di quei boschi, le lunghe ore di seguito! È uguale a quello delle pietre aggavignate dalle radici degli alberi. Ma quando il vento soffia da dove gli altri monti doventano quasi diafani, gli scontorcimenti delle fronde impauriscono, strepitando e sibilando: ogni fronda, ristrettasi accostando insieme le foglie, quando si riapre per tutto il bosco è un tremolio che s'attenua, accompagnato da qualche suono, che sbalza da un punto all'altro, flebile e melodioso. I ramicelli si schiantano, le foglie sbattono su le pietraie; gli uccelli volano qua e là come portati dal vento.
Nel temporale tutte le querci si piegano insieme, con sforzo, per abbassarsi. Le nuvole si fermano sopra, quasi si mettessero a guardare; e par che né meno il vento riesca a smuoverle.
Talvolta sono immobili le querci, e allora le nuvole passano.
La strada, dopo il villaggio, si volge a gomito, in salita, come una fetta bianca tra due spianatine di verde; poi, all'improvviso e dritta, precipita per più di un chilometro, tagliata tra i macigni; e allora si vede giù tutta la Castellina.
E in quel punto, a destra, seguitano altre colline poco più alte. Mentre, a sinistra, sono sempre più basse fino alle pianure della Val d'Elsa; con i paesi che sembrano piccole macie; poi cominciano la Montagnola e Montemaggio; e dietro a loro si stendono altre file di monti, che a vederli di lassù sono uguali alle nuvole lontane.
Ci si imbatte, quasi sempre, in un branco di pecore, che attraversano lo spazio dove non sono piante e si rimboscano dall'altra parte, trotterellando. Oppure scendono giù per una viottola, l'una dopo l'altra; come si buttassero con il capo in avanti; e il peso della prima le traesse dietro tutte.
Quanti carri verniciati di rosso, con i bovi; e sopra, per lo più, i contadini a coccoloni per stare più comodi!
Qualche automobile, proprio delle prime, faceva affacciare alla finestra e agli usci quelli che erano in tempo, meravigliati che passasse tra loro come se non ci fossero né meno stati; poi si scambiavano il solito sguardo e tornavano alle faccende. Che fretta!
Le donne, che avevano i bambini a raspare la terra, quasi in mezzo alla strada, gridavano imprecando.
Qualcuno di quei vecchi fattori arricchiti, strettosi al muro più di quanto ce ne fosse bisogno, andava a sfogarsi con gli amici, seduto sopra uno sgabello, con il bastone di legno sbucciato tra le gambe, appoggiando la schiena torta su le segolette, le fruste, le funi attaccate alla bottega che vendeva anche lo zolfo, le spazzole e le bullette per le scarpe.
Se ne stava lì magari due ore, sputando sempre dalla stessa parte; facendosi comprare il sigaro da qualche ragazzo, per non muoversi.
- Andrebbero messi in prigione, non è vero? Ai nostri tempi, queste stupidaggini non c'erano.
E rideva spalancando tanto la bocca che si vedeva tutto il solco della lingua a punta; una lingua aguzzata con il coltello.
A mezzogiorno, quando il sole troppo caldo aumentava il silenzio, egli, con l'orologio in mano, aspettava che le campane suonassero: - Tu che ora hai?
Le campane si muovevano; tutti si alzavano come sorpresi: quasi avessero dovuto cambiar di posto anche le muraglie. Le botteghe erano chiuse ad un tratto. E coloro che abitavano fuori del paese si avviavano a mangiare; indugiandosi, però, al sole; come i cani che scodinzolavano a tutti.
La metà superiore della torre era dentro alla luce, e pareva dovesse consumarsi come una fiamma.
Quando le campane tacevano, se ne udiva una lontana sperduta tra le boscaglie; che continuava a cantare per conto proprio, mescolando il suono con i campani dei greggi.
Una ragazza, venuta da un altro paese vicino e conosciuto, si porta sempre con sé tutti i pregiudizi con le simpatie e le ostilità che quello ha. Ora, a Ghìsola, s'erano aggiunte molte dicerie; che facevano ridere.
Il prete, avvertito certo da quell'altro di Radda, rimproverò la signora che l'aveva presa al servizio. La giovine sentì in lui un persecutore fanatico: lo vedeva bene dalla sua fisonomia alterata e biancastrona quand'egli la guardava torcendo la bocca tutta da una parte; con gli occhi noccioluti e miopi. Ed ella allora camminò più rimpettita, più lasciva, come un'anatra che tiene alto il becco.
Come odiava Radda, ora! No, Borio non avrebbe fatto così con un'altra; con una delle sue sorelle, per esempio!
Rivedeva tutta la processione: anzi si divertiva riconoscendo a uno a uno quegli che cantavano senza badare a lei, dicendo mentalmente i loro nomi, dietro quel crocifisso nudo e tarlato; con le gocce di vernice rossa come sangue vero, che battesse in terra, spaccando gli zoccoli di tutta quella calca! Le pareva che la processione entrasse, vertiginosamente, dentro i suoi occhi! Il baldacchino un poco di sghembo, e la musica riecheggiata, come se suonasse anche la valle tortuosa, a nicchia: quella musica quasi che parlasse; e il suono delle campane così forte da farle staccare.
Ghìsola aveva creduto di trovare alla Castellina gente che s'occupasse meno di lei; ma questa differenza non c'era.
Tutti sapevano qualche cosa; e chi non la sapeva se l'inventava.
Il sindaco ne era impensierito, perché doventava un vero scandalo; e diceva che certe donne stanno bene nella città e non nei paesi. E, poi, alla Castellina! Ma Ghìsola gli piaceva, e ci faceva invece anche il galante.
Ella, benché ce ne fossero parecchi, non trovò né meno uno da farci amicizia; perché, appena si parlavano, c'era sempre la persona che li scopriva a andava a dirlo. Così non avevano più il modo di riavvicinarsi.
Per i signorotti, poi, si trattava di un divertimento molto allegro; e ognuno se la spacciava per sua amante.
La mezza dozzina di signorine, in fondo, la invidiavano che piacesse così e che gli uomini la guardassero benché parlandone male.
Per Ghìsola doventava troppo; e bisognava venir via anche dalla Castellina: "Che ci faceva, là su, tra quel pettegolezzaio?".
Dopo né meno un mese, per mezzo di alcune amicizie, d'accordo con una mezzana, fu presa da un commerciante di stoviglie separato dalla moglie; il quale appunto voleva conoscere una ragazza di quel genere. Egli, avendola trovata di suo piacimento e disposta, la mise in una sua casetta nei dintorni di Badia a Ripoli; dove da tutti era chiamato, alla buona, il signor Alberto.
E Ghìsola, mandando il suo indirizzo ai parenti, scrisse d'aver trovato servizio.
Ghìsola viveva più volentieri così, quando Pietro, venuto il tempo degli esami, andò a trovarla.
Suonò al piccolo uscio, la cui vernice celeste s'era screpolata al sole. La piastra di porcellana, bianchissima, con i numeri della casa, luccicava alla luce; e i numeri, turchini, danzavano e s'aggrovigliavano.
Udì un calpestìo; e poi una voce di donna gli rispose nel momento che la porta s'apriva. Egli salì in fretta, respirando forte, come se il troppo fiato durasse fatica a passargli per le narici, e fosse doventato liquido.
- C'è Ghìsola?
La donna, incuriosita e sorridendo del suo imbarazzo, gli rispose come avesse risposto tutta la stanza: - La chiamo subito.
Egli s'accorse che la sua prima impressione non aveva corrisposto a quella aspettata: c'era una specie di ostilità. Non pensò a nulla; ma cercò di ricordare, con quel che ne aveva provato, la fotografia.
La donna, strascicando le ciabatte, uscì. Pietro restò troppo solo nel silenzio improvviso; e non avrebbe voluto esserci: gli pareva che i suoi sentimenti non avessero avuto nessuna relazione né con quel luogo né con Ghìsola. Ci stava proprio lei?
Un raggio di sole penetrava da uno strappo dello stoino della finestra fino al mezzo della stanza; e dal raggio si diffondeva una chiarità tranquilla. Ma quel silenzio sembrava un abisso e un agguato inspiegabili! Nondimeno, egli si sentiva lieto. Udì alcuni passi rapidi: era Ghìsola.
Riconosciutolo, rise e arrossì; poi, rimase il sorriso soltanto. Ed egli credeva, guardandola, di non vedere il suo volto; e non fu capace di salutarla.
Allora ella lo toccò sopra una mano, lo invitò a sedersi; e si appoggiò alla tavola, aspettando che parlasse.
Lì per lì, un poco sconvolta, s'era sentita prendere dalla voglia di piangere; vincendosi perché la vedesse subito imbellita.
La striscia della luce, essendo su la sottana, aumentava la chiarità.
La sua buona Ghìsola! L'aveva ritrovata! S'alzò di scatto; e, allora, poté chiederle, guardando una parete: - Da quando sei qui?
Ella glielo disse con una disinvoltura, che a Pietro dispiacque; e, tenendo le mani insieme dinanzi, chiese: - È fidanzato?
- No.
Ma ebbe voglia, chi sa perché, di dirle una bugia.
- So che è fidanzato, invece.
Fece un gesto di furbizia; e riprese, come se avesse parlato di una cosa che la mettesse di buon umore: - Crede ch'io non sia informata di lei?
Ma Pietro, per la contentezza, era incapace di parlare.
Ella se n'avvide e le apparve, tra gli occhi e la bocca, un segno di dolcezza. Allora Pietro, credendo giunto il momento opportuno, disse senza guardarla: - Ho pensato sempre a te.
Ghìsola si volse verso uno degli usci: parve che la striscia di luce, movendosi la sottana, volesse andarsene; e Pietro chiese, sottovoce: - Credi che ci oda quella donna?
Infatti, Ghìsola aveva sospettato proprio così; ma s'era rallegrata, pensando alle risate che ne avrebbero fatte insieme, pigliandosi, per il troppo ridere, le braccia. Quasi si dimenticava di rispondergli; ma, vedendo il suo imbarazzo, disse: - Potrebbe ascoltare. Non importa!
- Chi è? Perché sta con te?
Ella non si trovò a corto di bugie; e, dopo aver cavato la lingua fuori per dire: "quante ne vuol sapere!" gli rispose: - È l'amica della mia padrona.
- È sola la tua padrona?
- Sola: tiene questa donna per compagnia, perché non fa entrare mai nessun uomo.
- E ci stai volentieri? Come ti tiene? Hai da affaticarti troppo?
- Oh, mi vuol bene!
Egli pensò: "Si è affezionata ora a lei, come prima a Giacco e a Masa!". E disse, per timore e per riguardo di lei: - Penserebbe male di te la tua padrona se mi trovasse qui? Dov'è ora?
- Tornerà più tardi del solito, oggi. Bisognerà ch'io le dica che ci è stato lei.
- Diglielo; non ti rimprovererà. Non devi esser bugiarda.
Egli, così, voleva alludere ai loro rapporti. E intanto si meravigliò del modo di fare di quella casa e di quella donna, di cui Ghìsola si preoccupava così poco. Ma anche rifletteva che ella doveva lavorare per vivere. Allora uno scrupolo lo prese: non doveva prometterle a un tratto il suo amore, per non offenderla: era stata la sua contadina, e avrebbe potuto non credergli. Ma, vinto dall'impazienza, domandò: - E tu hai mai pensato a me?
Sentì che con queste parole s'era riallacciato al suo sentimento; e credette di chiudere dentro esso anche Ghìsola. Era necessario strapparla da quella gente, che la teneva con sé e che egli non conosceva!
Divenne taciturno, ed ella fece una di quelle mosse che rivelano di scorcio tutte le abitudini di una esistenza. Pietro non comprese, ma però le domandò: - E nessuno ti ha mai voluto bene?
Ella non rispose: egli ripeté la domanda. Non rispose lo stesso: credette di aver preteso di sapere troppo per la prima volta. Avrebbe dovuto, però, esser subito sincera! Allora si chiese se poteva parlare con la stessa confidenza di prima; e sentì una gran simpatia per quel silenzio improvviso d'agguato, perché per lui era una cosa insolita.

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Ultimo Aggiornamento: 01/03/99 0.49