PARTE QUARTA
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I
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Erano appena trascorsi sei mesi, quando sopravvennero altri guai a don
Gesualdo. Isabella minacciava di suicidarsi; il genero aveva preso a viaggiare fuori
regno, e faceva temere di voler intentare causa di separazione, per incompatibilità di
carattere. Altre chiacchiere giunsero in segreto sino al povero padre, il quale corse a
rotta di collo alla villa di Carini, dov'era confinata la duchessa per motivi di salute.
Ritornò poi invecchiato di dieci anni, pigliandosela colla moglie che non capiva nulla,
maledicendo in cuor suo la Cirmena e tutto il parentado che gli dava soltanto bocconi
amari, costretto a correr dietro al notaio per accomodare la faccenda e placare il signor
genero a furia di denari. Fu un gran colpo pel poveretto. Tacque alla moglie il vero
motivo, per non affliggerla inutilmente; tenne tutto per sè; ma non si dava pace;
parevagli che la gente lo segnasse a dito; sentivasi montare il sangue al viso quando ci
pensava, da solo, o anche se incontrava quell'infame della Cirmena. Lui era un villano;
non c'era avvezzo a simili vergogne! Intanto la figlia duchessa gli costava un occhio.
Prima di tutto le terre della Canziria, d'Alìa e Donninga che le aveva assegnato in dote,
e gli facevano piangere il cuore ogni qualvolta tornava a vederle, date in affitto a
questo e a quello, divise a pezzi e bocconi dopo tanti stenti durati a metterle insieme,
mal tenute, mal coltivate, lontane dall'occhio del padrone, quasi fossero di nessuno. Di
tanto in tanto gli arrivavano pure all'orecchio altre male nuove che non gli lasciavano
requie, come tafani, come vespe pungenti; dicevasi in paese che il signor duca vi
seminasse a due mani debiti fitti al pari della grandine, la medesima gramigna che
devastava i suoi possessi e si propagava ai beni della moglie peggio delle cavallette.
Quella povera Canziria che era costata tante fatiche a don Gesualdo, tante privazioni,
dove aveva sentito la prima volta il rimescolìo di mettere nella terra i piedi di
padrone! Donninga per cui si era tirato addosso l'odio di tutto il paese! le buone terre
dell'Alìa che aveva covato dieci anni cogli occhi, sera e mattina, le buone terre al
sole, senza un sasso, e sciolte così che le mani vi sprofondavano e le sentivano grasse e
calde al pari della carne viva... tutto, tutto se ne andava in quella cancrena! Come
Isabella aveva potuto stringere la penna colle sue mani, e firmare tanti debiti? Maledetto
il giorno in cui le aveva fatto imparare a scrivere! Sembravagli di veder stendere l'ombra
delle ipoteche sulle terre che gli erano costate tanti sudori, come una brinata di marzo,
peggio di un nebbione primaverile, che brucia il grano in erba. Due o tre volte, in
circostanze gravi, era stato costretto a lasciarsi cavar dell'altro sangue. Tutti i suoi
risparmi se ne andavano da quella vena aperta, le sue fatiche, il sonno della notte,
tutto. E pure Isabella non era felice. L'aveva vista in tale stato, nella villa sontuosa
di Carini! Indovinava ciò che doveva esserci sotto, quando essa scriveva delle lettere
che gli mettevano addosso la febbre, l'avvelenavano coll'odore sottile di quei foglietti
stemmati, lui che aveva fatto il cuoio duro anche alla malaria. Il signor duca invece
trattava simili negozi per mezzo del notaro Neri - poichè non erano il suo forte. - E
alla fine, quando mastro-don Gesualdo s'impennò sul serio, sbuffando, recalcitrando, gli
fece dire:
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- Si vede che mio suocero, poveretto, non sa quel che ci vuole a
mantenere la figliuola col decoro del nome che porta...
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- Il decoro?... Io me ne lustro gli stivali del decoro! Io mangio pane e
cipolle per mantenere il lustro della duchea! Diteglielo pure al signor genero! In pochi
anni s'è mangiato un patrimonio!
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Fu un casa del diavolo. Donna Bianca, la quale era assai malandata, e
sputava sangue ogni mattina, fece una ricaduta che in quindici giorni la condusse in fin
di vita. Nel paese ormai si sapeva ch'era tisica: tutti così quei Trao! una famiglia che
si estingueva per esaurimento, diceva il medico. Soltanto il marito, ch'era sempre fuori,
in faccende, occupato dai suoi affari, con tanti pensieri e tanti guai per la testa, si
lusingava di farla guarire appena avrebbe potuto condursela a
Mangalavite, in quell'aria
balsamica che avrebbe fatto risuscitare un morto. Essa sorrideva tristamente e non diceva
nulla.
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Era ridotta uno scheletro, docile e rassegnata al suo destino, senza
aspettare o desiderare più nulla. Soltanto avrebbe voluto rivedere la figliuola. Suo
marito glielo aveva anche promesso. Ma siccome erano in dissapore col genero non ne aveva
più parlato. Isabella prometteva sempre di venire, da un autunno all'altro, ma non si
decideva mai, come avesse giurato di non metterci più i piedi in quel paese maledetto, e
se lo fosse tolto dal cuore interamente. A misura che le mancavano le forze, Bianca
sentiva dileguare anche quella speranza, come la vita che le sfuggiva, e sfogavasi a
ruminare dei progetti futuri, vaneggiando, accendendosi in viso delle ultime fiamme
vitali, con gli occhi velati di lagrime che volevano sembrare di tenerezza ed erano di
sconforto: - Farò questo! farò quell'altro! - Faceva come quegli uccelletti in gabbia i
quali provano il canto della primavera che non vedranno. Il letto le mangiava le carni; la
febbre la consumava a fuoco lento. Adesso, quand'era presa dalla tosse, si metteva ad
ansare, sfinita, colla bocca aperta, gli occhi smaniosi in fondo alle occhiaie che
sembravano fonde fonde, brancicando colle povere braccia stecchite quasi volesse
afferrarsi alla vita.
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- Bene! - sospirò infine don Gesualdo che vedeva la moglie in quello
stato. - Farò anche questa!... Pagherò anche stavolta perché il signor duca ti faccia
rivedere la figliuola!... Già son fatto per portare il carico...
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Il medico andava e veniva; provava tutti i rimedi, tutte le sciocchezze
che leggeva nei suoi libracci; c'era un conto spaventoso aperto dal farmacista. - Almeno
giovassero a qualche cosa! - brontolava don Gesualdo. - Io non guardo ai denari spesi per
mia moglie; ma voglio spenderli perché le giovino e le si veggano in faccia... non già
per provare i medicamenti nuovi come all'ospedale!... Ora che si sono messi in testa ch'io
sia ricco, ciascuno se ne giova pei suoi fini...
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La prima volta però che s'arrischiò a fare velatamente queste lagnanze
allo stesso medico, Saleni, un altro dottorone ch'era peggio di Tavuso, buon'anima, gli
piantò in faccia gli occhiacci, e rispose burbero:
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- Allora perché mi chiamate?
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Dovette anche pregarlo e scongiurarlo di continuare a fare il comodo
suo, quantunque non giovasse a nulla. La vigilia dell'Immacolata parve proprio che la
povera Bianca volesse rendere l'anima a Dio. Il marito ch'era andato ad aspettare il
medico sulla scala gli disse subito:
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- Non mi piace, dottore! Stasera mia moglie non mi piace!
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- Eh! ve ne accorgete soltanto adesso? A me è un pezzo che non mi
piace. Credevo che l'aveste capita.
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- Ma che non c'è rimedio, vossignoria? Fate tutto ciò che potete. Non
guardate a spesa... I denari servono in queste occasioni!...
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- Ah, adesso me lo dite? Adesso capite la ragione? Me ne congratulo
tanto!
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Saleni ricominciò la commedia: il polso, la lingua, quattro chiacchiere
seduto ai piedi del letto, col cappello in testa e il bastone fra le gambe. Poi scrisse la
solita ricetta, le solite porcherie che non giovavano a nulla, e se ne andò lasciando nei
guai marito e moglie. La casa era diventata una spelonca. Tutti che vogavano alla larga.
Finanche le serve temevano del contagio. Zacco era il solo parente che si rammentasse di
loro nella disgrazia, dacchè avevano fatto società per l'appalto dello stradone, tornati
amici con don Gesualdo. Egli veniva ogni giorno insieme a tutta la famiglia, la baronessa
impresciuttita e ubbidiente, le figliuole che empivano la camera, stagionate, grasse e
prosperose che sfidavano le cannonate. - Lui non aveva paura del contagio! Sciocchezze!...
Poi, quando si tratta di parenti!... Quella sera aveva sentito dire in piazza che la
cugina Bianca stava peggio ed era giunto più presto del solito. - Per distrarre un po'
don Gesualdo lo tirò nel vano del balcone, e cominciò a parlargli dei loro negozi.
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- Volete ridere adesso? Il cugino Rubiera dirà all'asta per gli altri
due tronchi di strada!... Sissignore! quella bestia!... Eh? eh? che ne dite?... Lui che
non ha potuto pagarvi ancora i denari della prima donna?... C'è l'inferno a causa vostra
con la moglie che non vuol pagare del suo!... I figliuoli sì, glieli ha portati in
dote!... ma i denari vuol tenerseli per sé! E' predestinato quel povero don
Ninì!... E
sapete chi comparisce all'asta, eh? volete saperlo?... Canali, figuratevi!... Canali che
fa l'appaltatore in società col barone Rubiera!... Ora s'è svegliata in tutti quanti la
fame del guadagno!... Eh?... Non avevo ragione di dire?... Non ridete?...
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Ma l'amico non gli dava retta, inquieto, coll'orecchio sempre teso
dall'altra parte. Indi si alzò e andò a vedere se Bianca avesse bisogno di qualche cosa.
Essa non aveva bisogno di nulla, guardando fisso con quegli occhi di creatura innocente,
recandosi alla bocca di tanto in tanto il fazzoletto che ricacciava poi sotto il guanciale
insieme alla mano scarna. Le cugine Zacco stavano sedute in giro dinanzi al letto, colle
mani sul ventre. La mamma per rompere il silenzio balbettò timidamente:
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- Sembra un po' più calma... da che siam qui noi...
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Le figliuole a quelle parole guardarono tutte insieme, e approvarono col
capo.
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Il barone s'accostò al letto lui pure, dimostrando molto interesse per
l'ammalata:
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- Sì, sì, non c'è confronto!... l'occhio è più sveglio; anche la
fisonomia è più animata... Si capisce!... udendo discorrere intorno a lei... Bisogna
distrarla, tenerle un po' di conversazione... Per fortuna siete in buone mani. Il dottore
sa il fatto suo. Poi, quando si hanno dei mezzi!... quando non manca nulla! Ne conosco
tanti altri invece... ben nati... di buona famiglia... cui manca di giorno il pane e di
notte la coperta!... vecchi e malati, senza medico né speziale...
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Si chinò all'orecchio di don Gesualdo e spifferò il resto. Bianca
l'udì o l'indovinò, con gli occhi luminosi che fissavano in volto la gente, e cavò di
sotto il guanciale la mano scarna e pallida che sembrava quella di una bambina, per far
segno al marito d'avvicinarsi. Don Gesualdo s'era chinato su di lei e accennava di sì col
capo. Il barone vedendo che non era più il caso di misteri parlò chiaro:
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- Non verrà! Don Ferdinando è diventato proprio un ragazzo. Non
capisce nulla, poveretto!... Bisogna compatirlo. Diciamola qui, fra noi parenti... Che gli
sarebbe mancato?... Un cognato con tanto di cuore, come questo qui!...
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L'inferma agitò di nuovo in aria quella mano che parlava da sola.
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- Eh? Che dice? Cosa vuole? - domandò il barone.
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Donna Lavinia, la maggiore delle ragazze, s'era alzata premurosa per
servirla in quel che occorresse. Donna Marietta, l'altra sorella, tirò invece il papà
per la falda. Bianca s'era chiusa in un silenzio che le affilò come un coltello il viso
smunto, sì che il barone stesso se ne avvide e mutò discorso.
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- Domeneddio alle volte ci allunga i giorni per farci provare altri
guai... Parlo della baronessa Rubiera, poveretta! Eh?... Vivere per vedersi disfare sotto
i propri occhi la roba che s'è fatta!... senza poter dire una parola né muovere un
dito... eh?... eh? Suo figlio è una bestia. La nuora gli conta i bocconi che mangia!...
Com'è vero Iddio! Non vede l'ora di levarsela dai piedi!... E lei, no! non vuole
andarsene! Vuol vivere apposta per vedere come farà suo figlio a togliersi dal collo il
debito e don Gesualdo... Eh? Ho parlato or ora con vostro marito dei gran progetti che ha
don Ninì pel capo...
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Don Gesualdo stava zitto, sopra pensieri. Poi, siccome il barone
aspettava la risposta della cugina Bianca, col risolino fisso in bocca, brontolò:
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- No, non c'è tanto da ridere... Dietro il paravento
dev'essere anche
il canonico Lupi.
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Zacco rimase interdetto: - Quel briccone? quell'intrigante?... Come lo
sapete?... Chi ve l'ha detto?...
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- Nessuno. E' un'idea mia. Ma vedrete che non m'inganno. Del resto non
me ne importa nulla! Ho altro pel capo adesso!
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Ma il barone non si dava pace: - Che? Non ve ne importa? Grazie tante!
Sapete cosa dicono pure? Che vogliono levarci di mano le terre del comune!... Dicono che
stavolta hanno trovato il modo e la maniera... e che né voi né io potremo rimediarci,
capite?...
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Don Gesualdo si strinse nelle spalle. Sembrava che davvero non gliene
importasse nulla di nulla adesso. Il barone a poco a poco andò calmandosi, in mezzo al
coro dei suoi che mormoravano sottovoce contro il canonico.
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- Un intrigante!... un imbroglione!... Non si fa nulla in paese che non
voglia ficcarci il naso lui!... - Donna Marietta, più prudente, tirò il babbo per la
falda un'altra volta.
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- Scusate! scusate! - aggiunse lui. - Si chiacchiera per dire qualche
cosa... per distrarre l'ammalata... Non si sa di che parlare... Sapete voi cosa vanno
narrando pure i malintenzionati come Ciolla?... che fra otto giorni si farà la
rivoluzione... per spaventare i galantuomini... Vi rammentate, nel ventuno, eh? don
Gesualdo?
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- Ah?... Che volete?... La rivoluzione adesso l'ho in casa!...
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- Capisco, capisco... Ma infine, non mi pare...
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La baronessa, che parlava al bisogno, si rivolse a don Gesualdo, con
quella faccia di malaugurio, chiedendogli se alla duchessa avessero scritto di sua madre
che era in quello stato... Bianca aveva l'orecchio fino degli ammalati gravi. - No! no!
Non c'è premura! - interruppe Zacco. Intanto donna Lavinia si era alzata per andare a
prendere un bicchier d'acqua. Come si udì suonare il campanello dell'uscio voleva anche
correre a vedere chi fosse.
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- Una spada a due mani! - esclamò sottovoce il barone, quasi facesse
una confidenza, e sorridendo di compiacimento. - Una ragazza che in casa vale un tesoro...
Giudiziosa!... Per sua cugina Bianca poi si butterebbe nel fuoco!... - La mamma sorrideva
lei pure discretamente. In quella sopraggiunse la serva ad annunziare che c'era il barone
Rubiera con la moglie.
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- Lui? Ci vuole una bella faccia tosta!... - saltò su il barone
cercando il cappello che teneva in testa. - Vedrete che viene a parlarvi di ciò che v'ho
detto! Non ci avete un'altra uscita?... per non vederlo in faccia, quella bestia!...
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La sua famiglia toglieva commiato in fretta e in furia al pari di lui,
cercando gli scialli, rovesciando le seggiole, urtandosi fra di loro, quasi don Ninì
stesse per irrompere a mano armata nella camera. La povera inferma, smarrita in quel
parapiglia, si lasciò sfuggire con un filo di voce:
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- Per l'amor di Dio... Non ne posso più!
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- No... Non potete farne a meno, cugina mia!... Sono parenti
anch'essi!... Vedrete che vengono apposta, onde approfittare dell'occasione... Finta di
farvi una visita... Piuttosto ce ne andremo noi... E' giusto... Chi prima arriva al
mulino...
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Ma i Rubiera non spuntavano ancora. Don Gesualdo andò nell'anticamera,
dove seppe dalla serva che aspettavano nel salotto, come avevano sentito che c'erano i
Zacco...
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- Meglio! - osservò il barone. - Vuol dire che desidera parlarvi a
quattr'occhi, don Ninì!... Allora noi non ci moviamo. Restiamo a far compagnia alla
cugina, intanto che voi fate gli affari vostri... Sentiremo poi cosa è venuto a dirvi
quello sciocco!
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La serva aveva portato un lumicino nel salotto, e in quella
semioscurità don Ninì sembrava addirittura enorme, infagottato nel cappotto, con la
sciarpa di lana sino alle orecchie una zazzera sulla nuca che non tagliava sino a maggio.
Donna Giuseppina invece s'era aggobbita, aveva il viso floscio e grinzoso nel cappuccio
rotondo, i capelli di un grigio sudicio mal pettinati, lisciati in fretta con le mani e
fermati dal fazzoletto di seta che portava legato sotto il mento, le mani corrose e nere,
delle mani di buona massaia con le quali gesticolava per difendere gli interessi del
marito, agitandosi nel cappottino seminato di pillacchere, che la copriva tutta quanta,
mostrando in tutta la persona l'incuria e la trascuraggine della signora ricca che non ha
bisogno di parere, della moglie che ha cessato di far figliuoli e non deve neppure piacere
al marito. E sulla bocca sdentata teneva fisso un sorriso di povera, il sorriso umile di
chi viene a sollecitare un favore, mentre don Ninì cercava le parole, girando il
cappellaccio fra le mani, con quella sciarpa sino al naso che gli dava un aspetto
minaccioso. La moglie gli fece animo con un'occhiata, e cominciò lei:
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- Abbiamo sentito che la cugina sta male... Siam corsi subito con
Ninì... Infine siamo parenti... dello stesso sangue... Le questioni... gl'interessi... si
sa, in tutte le famiglie... Ma ogni cosa deve mettersi da banda in certe occasioni...
Anche Ninì... poveretto, non si dava pace... Diceva sempre... Infine vorrei sapere
perché...
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Don Ninì approvava coi gesti e con tutta la persona che aveva lasciato
cadere sul canapè facendolo scricchiolare; e subito intavolò il discorso per cui erano
venuti - sua moglie volle assolutamente che il cugino sedesse in mezzo, fra due fuochi. -
Abbiamo quell'affare del nuovo appalto, caro don Gesualdo. Perché dobbiamo farci la
guerra fra di noi, dico io? a vantaggio altrui?... giacchè infine siamo parenti!...
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- Sicuro! - interruppe la moglie. - Siamo venuti per questo... Come sta
la cugina?
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- Come Dio vuole!... Come ci avessi il gastigo di Dio sulle spalle!...
Non ho testa di pensare agli affari adesso...
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- No, no, non voglio che ci pensiate... Appunto dicevo... dovreste
rimettervene a una persona di fiducia... Salvo l'interesse, ben inteso...
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Don Ninì a un tratto si fece scuro in viso, cacciandosi all'indietro
appuntandogli in faccia gli occhi sospettosi:
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- Ditemi un po' vi fidate voi di Zacco? Eh? vi fidate?
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Don Gesualdo malgrado il malumore che aveva in corpo, mosse la bocca a
riso, come a dire che non si fidava di nessuno.
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- Bene! Se sapeste che roba è quell'uomo!... Ciò che diceva di voi,
prima!... prima di essere pane e cacio con voi!... Che roba gli scappava di bocca!...
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Donna Giuseppina, con le gote gonfie, stringeva le labbra, quasi per non
lasciarselo scappare neppur lei.
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- Infine, lasciamo andare! Chiacchiera non macina al mulino... E'
parente anche lui!... Dunque torniamo a noi. Perché ci facciamo la guerra? Perché
facciamo campare giudici ed avvocati alle nostre spalle? Cosa sono questi malumori fra
parenti? Per quella miseria che vi devo? Sì, una miseria! Per voi è una presa di
tabacco...
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- Scusate, scusate, anche per voi...
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Allora interloquì donna Giuseppina, contando miserie, una famiglia
numerosa, sua suocera, la baronessa, finché viveva lei...
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- Scusate... Non c'entra... E' che i denari servono, sapete... I miei
denari li ho dati a vostro marito.
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Don Ninì prese a scusarsi, dinanzi alla moglie. Certo... i denari se li
era fatti prestare... in un momento che aveva persa la testa... Quando si è giovani...
sarebbe meglio tagliarsela la testa, alle volte... Voleva pagare... col tempo... sino
all'ultimo baiocco, senza liti, senza altre spese... appena chiudeva gli occhi sua
madre... Ma era giusto inasprirgli contro la baronessa, santo Dio? Farle commettere
qualche bestialità?...
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- Ah? - disse don Gesualdo. - Ah? - E guardò donna Giuseppina come per
chiedere perché non pagasse lei.
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Don Ninì imbarazzato guardava ora lui ed ora la moglie. Essa infine
interloquì, troncandogli la parola con un segno del fazzoletto che aveva tirato fuori
dalla borsa.
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- Non è questo soltanto... L'affare delle terre... Non glie ne avete
ancora parlato al cugino don Gesualdo?...
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- Sì... l'affare delle terre comunali...
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- Lo so, - rispose don Gesualdo. - L'affitto scade in agosto. Chi vorrà
dire all'asta, poi...
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- No! no!... né voi né io ce le mangeremo.
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- Legge nuova! - interruppe donna Giuseppina con un sorriso agro. - Le
terre non si dànno più in affitto! Il comune le dà a censo... ai più poveri... Un
bocconcino per ciascuno... Saremo tutti possidenti nel paese, da qui a un po'!... Non lo
sapete?
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Don Gesualdo drizzò le orecchie, mettendo da parte un momento i suoi
guai. Indi abbozzò un sorriso svogliato.
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- Come è vero Dio! - soggiunse il barone Rubiera. - Ho visto il
progetto, sì, al palazzo di città! Dicono che il comune ci guadagna, e ciascuno avrà il
suo pezzo di terra.
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Allora don Gesualdo cavò fuori la tabacchiera, fiutando un agguato.
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- Cioè? cioè?
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- Don Gesualdo! - chiamò la serva dall'uscio. - Un momento,
vossignoria...
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- Fate, fate pure il comodo vostro! - disse donna Giuseppina. - Non
abbiamo premura. Aspetteremo.
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- La padrona! Vuol parlare con vossignoria!
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- Eh? Che vogliono? Che dicono? - L'assalirono subito i Zacco appena don
Gesualdo entrò nella stanza dell'inferma. - Son io che ho mandato a chiamarvi, - disse il
barone col sorriso furbo.
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Ma lui non rispose, chino sulla moglie, la quale s'aiutava cogli occhi e
con quella povera mano pallida e scarna che diceva per lei:
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"No!... Non vi mettete con colui... se volete darmi retta una volta
sola... Non vi mettete insieme con mio cugino Rubiera, voi!... Guardate che vi parlo in
punto di morte!..."
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Aveva la voce afonica, gli occhi che penetravano, così lucenti e fissi.
Zacco che si era chinato anche lui sul letto per udire, esclamò trionfante:
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- Benedetta! parla come una che vede al di là! Non fareste nulla di
buono con quell'uomo! Una bestia! Una banderuola! Ciò che vi dice vostra moglie in un
momento come questo è vangelo, don Gesualdo! Ricordatevi bene! Io mi farei scrupolo a non
darle retta, in parola d'onore!...
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- E donna Giuseppina? Finta, maligna!... - aggiunse la
Zacco. - Ha
abbreviato i giorni della suocera! Non vede l'ora di levarsela dagli occhi!
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- Andate, andate a sentire il resto. Qui ci siamo noi. Andateci pure, se
no vi restano lì fino a domani!
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Don Ninì stava ancora seduto sul canapè, sbuffando dal caldo nella
sciarpa di lana, col cappello in testa; e donna Giuseppina si era alzata per osservare al
buio le galanterie disposte in bell'ordine sui mobili: il servizio da caffè, i fiori di
carta sotto le campane di cristallo, l'orologio che segnava sempre la stessa ora. Vedendo
don Gesualdo di ritorno gli disse subito:
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- Vi ha fatto chiamare il barone Zacco? Non c'era motivo... Qui non si
fanno misteri...
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- Non si fanno misteri! - ripigliò il marito. - Si tratta di metterci
d'accordo... tutti i bene intenzionati... Se è bene intenzionato anche lui... quel
signore!...
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- Ma, - osservò don Gesualdo. - se la cosa è come dite, io non saprei
che farci... Cosa volete da me?
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Donna Giuseppina si era perfino trasformata in volto, appuntando in
faccia a questo e a quello gli occhi come due spilli, masticando un sorriso con la bocca
nera. Cacciò indietro del tutto il marito, e si prese tutto per sé il cugino
Motta.
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- Sì, il rimedio c'è!... c'è! - E stette un po' a guardarlo fisso per
fare più colpo. Poscia, tenendo stretta la borsa fra le mani gli si accostò con una
mossa dei fianchi, in confidenza:
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- Si tratta di far prendere le terre a gente nostra... sottomano... -
disse il barone.
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- No! no!... Lasciate che gli spieghi io... Le terre del comune devono
darsi a censo, eh? a pezzi e a bocconi perché ogni villano abbia la sua parte? Va bene!
Lasciamoli fare. Anzi, mettiamo avanti, sottomano, degli altri pretendenti... dei maestri
di bottega, della gente che non sa cosa farsene della terra e non ne caverà neppure i
denari del censo. Ci hanno tutti lo stesso diritto, non è vero? Allora, con un po' di
giudizio, anticipando a questo e a quello una piccola somma... Loro falliscono in capo
all'anno, e noi ci pigliamo la terra in compenso del credito. Avete capito? Bisogna
evitare per quanto si può che ci mettano mano i villani. Quelli non se lo lasciano
scappare mai più il loro pezzetto di terra. Ci lasciano le ossa piuttosto!
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Don Gesualdo si alzò di botto, colle narici aperte, la faccia rianimata
a un tratto, e si mise a passeggiare per la stanza. Poi, tornando in faccia ai due che
s'erano alzati pure, sorpresi:
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- Questa non viene da voi! - esclamò. - Questa è buona! Questa so di
dove viene!
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- Ah! ah! capite? vedete?... - rispose il barone trionfante. - Prima di
tutto bisogna tappare la bocca a Nanni l'Orbo... Col giudizio... con un po' di denaro...
senza far torto a nessuno, ben inteso!... La giustizia...
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- Voi che ci avete mano... Quello è un imbroglione, un
arruffapopolo...
capace di aizzarci contro tutto il paese. Voi che ci avete mano dovreste chiudergli la
bocca.
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Don Gesualdo tornò a sedersi, pentito d'essersi lasciato trasportare
dal primo movimento, grattandosi il capo.
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Ma il barone Zacco, che stava di là coll'orecchio teso, non seppe più
frenarsi.
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- Scusate, scusate, signori miei! - disse entrando. - Se disturbo... se
avete da parlare in segreto... Me ne vo... - E si mise a sedere lui pure, col cappello in
testa.
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Tacquero tutti, ciascuno sbirciando sottecchi il compagno, don Ninì col
naso dentro la sciarpa, sua moglie colle labbra strette. Infine disse che le rincresceva
tanto della malattia di Bianca. - Proprio! c'è un lutto nel paese. Ninì è un pezzo che
mi predica: Giuseppina mia, dobbiamo andare a vedere come sta mia cugina... Gl'interessi
sono una cosa, ma la parentela poi è un'altra...
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- Dunque, - riprese don Gesualdo, - questa bella pensata di pigliarci
sottomano le terre del comune chi l'ha fatta?
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Allora non fu più il caso di fingere. Donna Giuseppina tornò a
discorrere del fermento che c'era in paese, della rivoluzione che minacciavano. Il barone
Zacco si agitò, facendo segno col capo a don Gesualdo.
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- Eh? eh? Cosa vi ho detto or ora?...
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- Infine... - conchiuse donna Giuseppina, - è meglio parlarci chiaro e
darci la mano tutti quelli che abbiamo da perdere...
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E tornò su quella birbonata di sminuzzare le terre del comune fra i
più poveri, in tante briciole, un pizzico per ciascuno, che non fa male a nessuno!...
Essa rideva così che le ballava il ventre dalla bile.
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- Ah??? - esclamò il barone pavonazzo in viso, e cogli occhi fuori
dell'orbita. - Ah??? - E non disse altro Don Gesualdo rideva anche lui.
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- Ah? voi ridete, ah?
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- Cosa volete che faccia? Non me ne importa nulla, vi dico!
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Donna Giuseppina rimase stupefatta: - Come!... voi!... - Quindi lo tirò
in disparte, vicino al canterano dov'era l'orologio fermo, parlandogli piano, con le mani
negli occhi. Don Gesualdo stava zitto, lisciandosi il mento, con quel risolino calmo che
faceva schiattare la gente. I due baroni da lontano tenevano gli occhi fissi su di lui,
come due mastini. Infine egli scosse il capo.
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- No! no! Ditegli al canonico Lupi che denari non ne metto fuori più
per simili pasticci. Le terre se le pigli chi vuole... Io ho le mie...
|
Gli altri gli si rivoltarono contro tutti d'accordo, vociando,
eccitandosi l'un l'altro. Zacco, adesso che aveva capito di che si trattava, scalmanavasi
più di tutti: - Una pensata seria! Da uomo con tanto di barba! Il miglior modo per
evitare quella birbonata di dividere fra i nullatenenti i fondi del comune!... Capite?...
Allora vuol dire che il mio non è più mio, e ciascuno vuole la sua parte!... - Don
Gesualdo, duro, scrollava il capo; badava a ripetere: - No! no! non mi ci pigliano! -
Tutt'a un tratto il barone Zacco afferrò don Ninì per la sciarpa e lo spinse verso il
canapè quasi volesse mangiarselo, sussurrandogli nell'orecchio:
|
- Volete sentirla? Volete che ve la canti? E' segno che quello lì ci ha
il suo fine per farci rimaner tutti quanti siamo con tanto di naso!... Lo conosco!...
|
Le signore Zacco allo strepito s'erano affacciate sull'uscio
dell'anticamera. Successe un istante d'imbarazzo fra i parenti. Zacco e don Ninì si
calmarono di botto, tornando cerimoniosi.
|
- Scusate! scusate! La cugina Bianca crederà chissà cosa, al sentirci
gridare... per nulla poi!... - Zacco sorrideva bonariamente, con la faccia ancora
infocata. Don Ninì s'avvolgeva di nuovo la sciarpa al collo. Sua moglie, col sorriso
amabile lei pure, tolse commiato.
|
- Tanti saluti a donna Bianca... Non vogliamo disturbarla... Speriamo
che la Madonna abbia a fare il miracolo... - Don Ninì con la bocca coperta grugnì anche
lui qualche parola che non potè udirsi. - Un momento. Vengo con voi, - esclamò
Zacco. -
E fingendo di cercare il cappello e la canna d'India s'accostò a don Gesualdo nel buio
dell'anticamera.
|
- Sentite... Fate male, in parola d'onore! Quella è una proposta
seria!... Fate male a non intendervi col barone Rubiera!...
|
- No, non voglio impicci!... Ho tanti altri fastidi pel capo!... Poi,
mia moglie ha detto di no. Avete udito voi stesso.
|
Il barone stava per montare in furia davvero!
|
- Ah!... vostra moglie?... Le date retta quando vi accomoda! - Ma
cambiò tono subito. - Del resto fate voi!... Fate voi, amico mio!... Aspettate, don
Ninì. Veniamo subito. - Sua moglie non la finiva più. Sembrava che non potesse staccarsi
dal letto dell'ammalata, rincalzando la coperta, sprimacciandole il guanciale, mettendole
sotto mano il bicchier d'acqua e le medicine, con la faccia lunga, sospirando, biasciando
avemarie. Voleva pure che restasse la sua ragazza ad assistere la notte, se mai. Donna
Lavinia acconsentiva di tutto cuore, dandosi da fare anche essa, premurosa, impadronendosi
già delle chiavi, vigilando su tutto, come una padrona.
|
- No!... - mormorò Bianca con la voce rauca. - No!... Non ho bisogno di
nessuno!... Non voglio nessuno!...
|
Li seguiva per la camera con l'occhio inquieto, sospettoso, diffidente,
con un certo tono di rancore nella voce cavernosa. Sforzavasi di mostrarsi più forte,
sollevandosi a stento sui gomiti tremanti, cogli omeri appuntati che sembravano forare la
camiciuola da notte. Poscia, appena le Zacco se ne furono andate, ricadde sfinita, facendo
segno al marito d'accostarsi.
|
- Sentite!... sentite!... Non le voglio più!... Non le fate venir più
quelle donne... Si son messe in testa di darvi moglie... come se fossi già morta.
|
E col capo seguitava a far segno di sì, di sì, che non s'ingannava,
col mento aguzzo nell'ombra della gola infossata, mentr'egli, chino su di lei, le parlava
come a una bimba sorridendo, con gli occhi gonfi però.
|
- Vi portano in casa la Lavinia... Non vedono l'ora che io chiuda gli
occhi... - Lui protestava di no che non gliene importava nulla della Lavinia, che non
voleva più rimaritarsi, che ne aveva visti abbastanza dei guai. E la poveretta stava ad
ascoltarlo tutta contenta, cogli occhi lustri che penetravano fin dentro, per vedere se
dicesse la verità.
|
- Sentite... ancora... un'altra cosa...
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Accennava sempre con la mano, poichè la voce le mancava, quella voce
che sembrava venire da lontano, gli occhi che si velavano a quando a quando di un'ombra.
Aveva fatto anche uno sforzo per sollevarsi, onde passargli un braccio al collo, come non
le restasse che lui per attaccarsi alla vita, agitando il viso che si era affilato
maggiormente, quasi volesse nasconderglielo in petto, quasi volesse confessarsi con lui.
Dopo un momento allentò le braccia, col volto rigido e chiuso, colla voce mutata:
|
- Più tardi... Vi dirò poi... Ora non posso...
|
|
II
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Adesso tutto andava a rotta di collo per don Gesualdo; la casa in
disordine; la gente di campagna, lontano dagli occhi del padrone, faceva quel che voleva;
le stesse serve scappavano ad una ad una, temendo il contagio della tisi; persino Mena,
l'ultima che era rimasta pel bisogno, quando parlarono di farle lavare i panni
dell'ammalata che la lavandaia rifiutavasi di portare al fiume, temendo di perdere le
altre pratiche, disse chiaro il fatto suo:
|
- Don Gesualdo, scusate tanto, ma la mia pelle vale quanto la vostra che
siete ricco... Non vedete com'è ridotta vostra moglie?... Mal sottile è, Dio liberi! Io
ho paura, e vi saluto tanto.
|
Dopo che s'erano ingrassati nella sua casa! Ora tutti l'abbandonavano
quasi rovinasse, e non c'era neppure chi accendesse il lume. Sembrava quella notte alla
Salonia, in cui aveva dovuto mettere colle sue mani il padre nel cataletto. Né denari né
nulla giovava più. Allora don Gesualdo si scoraggiò davvero. Non sapendo dove dar di
capo, pensò agli amici antichi, quelli che si ricordano nel bisogno, e mandò a chiamare
Diodata per dare una mano. Venne invece il marito di lei, sospettoso, guardandosi intorno,
badando dove metteva i piedi, sputacchiando di qua e di là:
|
- Quanto a me... anche la mia pelle, se la volete, don Gesualdo!... Ma
Diodata è madre di famiglia, lo sapete... Se le capita qualche disgrazia, Dio ne liberi
voi e me... Se piglia la malattia di vostra moglie... Siamo povera gente... Voi siete
tanto ricco; ma io non avrei neppure di che pagarle il medico e lo speziale...
|
Insomma le solite litanie, la solita giaculatoria per cavargli
dell'altro sangue. Finalmente, dopo un po' di tira e molla, s'accordarono sul compenso.
Gli toccava chiudere gli occhi e chinare il capo. Nanni l'Orbo, tutto contento del negozio
che aveva fatto, conchiuse:
|
- Quanto a noi siete padrone anche della nostra pelle, don Gesualdo.
Comandateci pure, di notte e di giorno. Vo a pigliare mia moglie e ve la porto.
|
Ma Bianca soffriva adesso di un altro male. Non voleva vedersi Diodata
per casa. Non pigliava nulla dalle sue mani. - No!... tu, no!... Vattene via! Che sei
venuta a fare, tu? - Irritavasi contro quegli affamati che venivano a mangiare alle sue
spalle. Come s'affezionasse anche alla roba, in quel punto; come si risvegliasse in lei un
rancore antico, una gelosia del marito che volevano rubarle, quella cattiva gente venuta
apposta a chiuderle gli occhi, a impadronirsi di tutto il suo. Era diventata tale e quale
una bambina, sospettosa irascibile, capricciosa. Si lagnava che le mettessero qualche cosa
nel brodo, che le cambiassero le medicine. Ogni volta che si udiva il campanello
dell'uscio c'era una scena. Diceva che mandavano via la gente per non fargliela vedere.
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- Ho sentito la voce di mio fratello don Ferdinando!... E' arrivata una
lettera di mia figlia, e non hanno voluto darmela!... - Il pensiero della figlia era un
altro tormento. Isabella stava anch'essa poco bene, lontano tanto, un viaggio che
l'avrebbe rovinata per sempre, scriveva suo marito. Del resto sapevano da un pezzo come
Bianca si strascinasse fra letto e lettuccio, e non avrebbero mai creduto la catastrofe
così prossima. Intanto la povera madre non sapeva darsi pace, e se la pigliava con don
Gesualdo e con tutti quanti le stavano vicino. Ci voleva una pazienza da santi. Aveva un
bel dire suo marito:
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- Guarda!... Cosa diavolo ti viene in mente adesso!... Anche la gelosia
ti viene in mente!... - Essa aveva certe occhiate nere che non le aveva mai visto. Con
certo suono che non le aveva mai udito nella voce rauca, essa gli diceva:
|
- Mi avete tolto mia figlia... anche adesso che sono in questo stato!...
Ve lo lascio per scrupolo di coscienza!... - Oppure gli rinfacciava di averle messo fra i
piedi quell'altra gente... Oppure non rispondeva affatto, col viso rivolto al muro,
implacabile.
|
Nanni l'Orbo s'era installato come un papa in casa di don Gesualdo.
Mangiava e beveva. Veniva ogni giorno a empirsi la pancia. Diodata badava a quel che c'era
da fare, e lui correva in piazza a spassarsela, a confabulare cogli amici, a dir che ci
voleva questo e si doveva far quell'altro, a difendere la causa della povera gente nella
quistione di spartirsi i feudi del comune, ciascuno il suo pezzetto, come voleva Dio, e
quanti figliuoli ogni galantuomo aveva sulle spalle, tante porzioni! Egli conosceva anche
per filo e per segno tutti i maneggi dei pezzi grossi che cercavano appropriarsi le terre.
Una volta attaccò una gran discussione su quest'argomento con Canali, e andò a finire a
pugni, adesso che non era più il tempo delle prepotenze e ognuno diceva le sue ragioni.
|
Il giorno dopo mastro Titta era andato da Canali a radergli la barba,
allorché suonarono il campanello e Canali andò a vedere colla saponata al mento. Mentre
affilava il rasoio, mastro Titta allungò il collo per semplice curiosità, e vide Canali
il quale parlava nell'anticamera con Gerbido, una faccia tutti e due da far tendere
l'orecchio a chiunque. Canali diceva a Gerbido: - Ma ti fidi poi? - E Gerbido rispose: -
Oh!!! - Nient'altro.
|
Canali tornò a farsi la barba, tranquillo come nulla fosse, e mastro
Titta non ci pensò più. Soltanto la sera, non sapeva egli stesso il perché... un
presentimento, vedendo Gerbido appostato alla cantonata della Masera, colla carabina
sotto!... Gli tornarono in mente le parole di poco prima.
|
- Chissà per chi è destinata quella pillola, Dio liberi!... - pensò
fra di sé.
|
Già i tempi erano sospetti, e la gente s'era affrettata a casa prima
che suonasse l'avemaria. Più in là incontrando Nanni l'Orbo, che stava da quelle parti,
il cuore gli disse che Gerbido aspettasse appunto lui.
|
- Che fate a quest'ora fuori, compare Nanni? - gli disse mastro Titta. -
Venitevene a casa piuttosto, che faremo la strada insieme...
|
- No, mastro Titta, devo passare qui dal tabaccaio, e poi vo un momento
a vedere Diodata, che è ad assistere la moglie di don Gesualdo.
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- Fatemi questo piacere, compare Nanni! Venite a casa piuttosto! Il
tabacco ve lo darò io, e da vostra moglie ci andrete domani. Non son tempi d'andare per
le strade a quest'ora!... Credete a me!...
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L'altro la voltava in burla; diceva di non aver paura lui, che gli
rubassero i denari che non aveva... L'aspettava sua moglie con un piatto di maccheroni...
e tante altre cose... Per un piatto di maccheroni, Dio liberi, ci lasciò la pelle!
|
Appena mastro Titta udì il rumore della schioppettata, due minuti dopo,
disse fra sé: - Questa è compare Nanni che se l'è presa.
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Don Gesualdo quel giorno aveva avuto degli altri dispiaceri. Speranza
mandava l'usciere giusto quando sapeva di fargli dare l'anima al diavolo. Non gli
lasciavano requie da anni ed anni, e gli avevano fatto incanutire i capelli con quella
lite. Anche Speranza ci si era ridotta simile a una strega; ci s'era mangiata la chiusa e
la vigna, stuzzicata da ciascuno che avesse avuto da dire con suo fratello. Andava
vituperandolo da per tutto. L'aspettava apposta nella strada per vomitargli addosso delle
ingiurie. Gli aizzava contro i figliuoli, poiché il marito non voleva guastarsi il sangue
- era buono soltanto per portarsi la pancia a spasso nel paese, lui - e lo stesso Santo,
allorchè aveva bisogno di denari, voltava casacca e si metteva dalla parte di Gesualdo, a
sputare contro di lei gli stessi improperi che aveva diretto al fratello: una banderuola
che girava a seconda del vento.
|
- E' una vera bricconata, vedete, don Camillo! Mi tirano di queste
sassate giusto mentre sono nei guai sino al collo. Ho seminato bene e raccolgo male da
tutti quanti, vedete!
|
Don Camillo si strinse nelle spalle.
|
- Scusate, don Gesualdo. Io fo l'ufficio mio. Perché vi siete guastato
col canonico Lupi?... Per l'appalto dello stradone!... per una cosa da nulla... Quello è
un servo di Dio che bisogna tenerselo amico... Ora soffia nel fuoco coi vostri parenti...
Non voglio dir male di nessuno; ma vi darà da fare, caro don Gesualdo!
|
E don Gesualdo stava zitto; curvava le spalle adesso che ciascuno gli
diceva la sua, e chi poteva gli tirava la sassata. Come sapevasi che sua moglie stava
peggio, il marchese Limòli era venuto a visitare la nipote, e ci aveva condotto pure don
Ferdinando, tutti e due a braccetto, sorreggendosi a vicenda. - La morte e l'ignorante, -
osservavano quanti li incontravano a quell'ora per le strade, col fermento che c'era nel
paese; e si facevano la croce vedendo ancora al mondo don Ferdinando, con quella
palandrana che non teneva più insieme. I due vecchi s'erano messi a sedere dinanzi al
letto, col mento sul bastone, mentre don Gesualdo faceva la storia della malattia, e il
cognato gli voltava la schiena senza dir nulla, rivolto alla sorella, la quale guardava or
questo ed ora quell'altro, poveretta, con quegli occhi che volevano far festa a tutti
quanti, allorché s'udì un vocìo per la strada, gente che correva strillando, quasi
fosse scoppiata la rivoluzione che s'aspettava. Tutt'a un tratto si udì bussare al
portone e una voce che gridava:
|
- Comare Diodata, aprite! Correte, subito! Andate a vedere, che vostro
marito si è presa una schioppettata!... lì, nella farmacia!...
|
Diodata corse così come si trovava, a testa scoperta, urlando per le
strade. In un momento la casa di don Gesualdo fu tutta sottosopra. Venne anche il barone
Zacco, sospettoso, inquieto, masticando le parole, guardandosi dinanzi e di dietro prima
d'aprir bocca.
|
- Avete visto? E' fatta! Hanno ammazzato il marito di Diodata!
|
Don Gesualdo allora si lasciò scappare la pazienza.
|
- Che ci posso fare io? Mi mancava anche questa! Che diavolo volete da
me?
|
- Ah, cosa potete farci?... Scusate! Credevo che doveste ringraziarmi...
se vengo subito ad avvertirvi... pel bene che vi voglio... da amico... da parente...
|
Intanto sopraggiungeva dell'altra gente. Zacco allora andava a vedere
chi fosse, socchiudendo l'uscio dell'anticamera. Ogni momento si udiva sbattere il
portone, tanti scossoni per la povera ammalata. A un certo punto Zacco venne a dire, tutto
stravolto:
|
- A Palermo c'è un casa del diavolo... La rivoluzione... Vogliono farla
anche qui... Quel briccone di Nanni l'Orbo doveva farsi ammazzare giusto adesso!...
|
Don Gesualdo continuava a stringersi nelle spalle, come uno che non
gliene importa nulla oramai, tutto per la poveretta ch'era in fin di vita. Dopo un po'
giunsero la moglie e le figlie del barone Zacco, vestite di casa, cogli scialli giù pel
dorso, le facce lunghe, senza salutar nessuno. Si vedeva ch'era finita. La baronessa
andava a parlare ogni momento sottovoce col marito. Donna Lavinia s'impadronì delle
chiavi. A quella vista don Gesualdo si sbiancò in viso. Non ebbe il coraggio neppure di
chiedere s'era giunta l'ora. Soltanto, cogli occhi lustri interrogava tutti quanti, ad uno
ad uno.
|
Ma gli rispondevano con delle mezze parole. Il barone allungava il muso,
sua moglie alzava gli occhi al cielo, colle mani giunte. Le ragazze, già prese dal sonno,
stavano zitte sedute nella stanza accanto a quella dov'era l'ammalata. Verso mezzanotte,
come la poveretta s'era chetata a poco a poco, don Gesualdo voleva mandarli a riposare.
|
- No, - disse il barone, - non vi lasceremo solo questa notte.
|
Allora don Gesualdo non fiatò più, giacchè non c'era più speranza.
Si mise a passeggiare in lungo e in largo, a capo chino, colle mani dietro la schiena. Di
tanto in tanto si chinava sul letto della moglie. Poi tornava a passeggiare nella stanza
vicina, borbottava fra di sè, scrollava il capo, si stringeva nelle spalle. Infine si
rivolse a Zacco, colla voce piena di lagrime:
|
- Io direi di mandare a chiamare i suoi parenti... eh? don Ferdinando...
Che ne dite voi?
|
Zacco fece una smorfia.- I suoi parenti?... Ah, va bene... Come
volete... Domani... a giorno fatto...
|
Ma il pover'uomo non seppe più frenarsi, le parole gli cuocevano dentro
e sulle labbra.
|
- Capite?... Neanche farle vedere la figliuola per l'ultima volta! E' un
porco, quel signor duca! Tre mesi che scrive oggi verremo e domani verremo! Come se avesse
dovuto campar cent'anni quella poveretta! Dice bene il proverbio: Lontano dagli occhi e
lontano dal cuore. Ci ha rubato la figlia e la dote, quell'assassino!
|
E continuò a sfogarsi così per un pezzo colla moglie di
Zacco, che era
mamma anche lei, e accennava di sì, sforzandosi di tenere aperti gli occhi che le si
chiudevano da soli. Egli, che non sentiva nè il sonno nè nulla, tornava a brontolare:
|
- Che notte! che nottata eterna! Com'è lunga questa notte,
|
Domeneddio!
|
Appena spuntò il giorno aprì il balcone per chiamare Nardo il
manovale, e mandarlo da tutti i parenti, chè Bianca, poveretta, stava assai male, se
volevano vederla. Per la strada c'era un via vai straordinario, e laggiù in piazza
udivasi un gran sussurro. Mastro Nardo, al ritorno, portò la notizia.
|
- Hanno fatto la rivoluzione. C'è la bandiera sul campanile.
|
Don Gesualdo lo mandò al diavolo. Gliene importava assai della
rivoluzione adesso! L'aveva in casa la rivoluzione adesso! Ma Zacco procurava di calmarlo.
|
- Prudenza, prudenza! Questi son tempi che ci vuol prudenza, caro amico.
|
Di lì a un po' si udì bussare di nuovo al portone. Don Gesualdo corse
in persona ad aprire, credendo che fosse il medico o qualchedun' altro di tutti coloro che
aveva mandato a chiamare. Invece si trovò di faccia il canonico Lupi, vestito di corto,
con un cappellaccio a cencio, e il baronello Rubiera che se ne stava in disparte.
|
- Scusate, don Gesualdo... Non vogliamo disturbarvi... Ma è un affare
serio... Sentite qua...
|
Lo tirò nella stalla onde dirgli sottovoce il motivo per cui erano
venuti. Don Ninì da lontano, ancora imbroncito, approvava col capo.
|
- S'ha da fare la dimostrazione, capite? Gridare che vogliamo Pio Nono e
la libertà anche noi... Se no ci pigliano la mano i villani. Dovete esserci anche voi.
Non diamo cattivo esempio, santo Dio!
|
- Ah? La stessa canzone della Carboneria? - saltò su don Gesualdo
infuriato. - Vi ringrazio tanto, canonico! Non ne fo più di rivoluzioni! Bel guadagno che
ci abbiamo fatto a cominciare! Adesso ci hanno preso gusto, e ogni po' ve ne piantano
un'altra per togliervi i denari di tasca. Oramai ho capito cos'è: Levati di lì, e dammi
il fatto tuo!
|
- Vuol dire che difendete il Borbone? Parlate chiaro.
|
- Io difendo la mia roba, caro voi! Ho lavorato... col mio sudore...
Allora... va bene... Ma adesso non ho più motivo di fare il comodo di coloro che non
hanno e non posseggono...
|
- E allora ve la fanno a voi, capite! Vi saccheggiano la casa e tutto!
|
Il canonico aggiunse che veniva nell'interesse di coloro che avevano da
perdere e dovevano darsi la mano, in quel frangente, pel bene di tutti... Se no, non ci
avrebbe messo i piedi in casa sua... dopo il tiro che gli aveva giocato per l'appalto
dello stradone...
|
- Scusate! Giacché volete fare il sordo... Sapete che avete tanti
nemici! Invidiosi... quel che volete... Intanto non vi guardano di buon occhio... Dicono
che siete peggio degli altri, ora che avete dei denari. Questo è il tempo di spenderli, i
denari, se volete salvar la pelle!
|
A quel punto prese la parola anche don Ninì:
|
- Lo sapete che ci accusano di aver fatto uccidere Nanni l'Orbo... per
chiudergli la bocca... Voi pel primo!... Mi dispiace che m'hanno visto venire con mia
moglie, l'altra sera...
|
- Già, - osservò il canonico, - siamo giusti. Chi poteva avere
interesse che compare Nanni non chiacchierasse tanto?... Una bocca d'inferno, signori
miei! La storia di Diodata la sa tutto il paese. Ora vi scatenano contro anche i
figliuoli... vedrete, don Gesualdo!
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- Va bene, - rispose don Gesualdo. - Vi saluto. Non posso lasciar mia
moglie in quello stato per ascoltar le vostre chiacchiere. - E volse loro le spalle.
|
- Ah, - soggiunse il canonico andandogli dietro su per le scale. -
Scusate, non ne sapevo nulla. Non credevo che fossimo già a questo punto...
|
Giacché erano lì non potevano fare a meno di salire un momento a veder
donna Bianca, lui e il baronello. Don Ninì si fermò all'uscio col cappello in mano,
senza dire una parola, e il canonico, che se ne intendeva, dopo un po' fece cenno col capo
a don Gesualdo, come a dirgli di sì, ch'era ora.
|
- Io me ne vo, - disse don Ninì rimettendosi il cappello. - Scusatemi
tanto, io non ci reggo.
|
C'era già don Ferdinando Trao al capezzale, come una mummia, e la zia
Macrì, la quale asciugava il viso alla nipote con un fazzoletto di tela fine. Le Zacco
erano pallide della nottata persa, e donna Lavinia non si reggeva più in piedi.
Sopraggiunse il marchese Limòli insieme al confessore. Donna Agrippina allora li mise
fuori tutti quanti. Don Gesualdo, dietro a quell'uscio chiuso, si sentiva un gruppo alla
gola, quasi gli togliessero prima del tempo la sua povera moglie.
|
- Ah!... - borbottò il marchese. - Che commedia, povera Bianca! Noi
restiamo qui per assistere ogni giorno alla commedia, eh, don Ferdinando!... Anche la
morte s'è scordata che ci siamo al mondo noi!...
|
Don Ferdinando stava a sentire, istupidito. Tratto tratto guardava
timidamente di sottecchi il cognato che aveva gli occhi gonfi, la faccia gialla e ispida
di peli, e faceva atto d'andarsene, impaurito.
|
- No, - disse il marchese. - Non potete lasciare la sorella in questo
punto. Siete come un bambino, caspita!
|
Entrò in quel mentre il barone Mèndola, col fiato ai denti,
cominciando dallo scusarsi a voce alta:
|
- Mi dispiace... Non ne sapevo nulla... Non credevo... - Poi, vedendosi
intorno quei visi e quel silenzio, abbassò la voce e andò a finire il discorso in un
angolo, all'orecchio del barone Zacco. Costui tornava a parlare della nottata che avevano
persa: le sue ragazze senza chiudere occhio, Lavinia che non si reggeva in piedi. Don
Gesualdo guardava è vero stralunato di qua e di là, ma si vedeva che non gli dava retta.
In quella tornò ad uscire il prete, strascicando i piedi, con una commozione che gli
faceva tremar le labbra cadenti, povero vecchio.
|
- Una santa!... - disse al marito. - Una santa addirittura!
|
Don Gesualdo affermò col capo, col cuore gonfio anche lui. Bianca ora
stava supina, cogli occhi sbarrati, il viso come velato da un'ombra. Donna Agrippina
preparava l'altare sul comò, con la tovaglia damascata e i candelieri d'argento. A che
gli giovava adesso avere i candelieri d'argento? Don Ferdinando andava toccando ogni cosa,
proprio come un bambino curioso. Infine si piantò ritto dinanzi al letto, guardando la
sorella che stava facendo i conti con Domeneddio in quel momento, e si mise a piangere e a
singhiozzare. Piangevano tutti quanti. In quell'istante fece capolino dall'uscio donna
Sarina Cirmena, scalmanata, col manto alla rovescia, esitante, guardando intorno per
vedere come l'avrebbero accolta, cominciando diggià a fregarsi gli occhi col fazzoletto
ricamato.
|
- Scusate! Perdonate! Io non ci ho il pelo nello stomaco... Ho sentito
che mia nipote... Il cuore l'ho qui, di carne!... L'ho tenuta come una figliuola!...
Bianca!... Bianca!...
|
- No, zia! - disse donna Agrippina. - S'aspetta il viatico. Non la
disturbate adesso con pensieri mondani...
|
- E' giusto, - disse donna Sarina. - Scusatemi, don Gesualdo.
|
Dopo che si fu comunicata, Bianca parve un po' più calma. L'affanno era
cessato, e arrivò a balbettare qualche parola. Ma aveva una voce che s'udiva appena.
|
- Vedete? - disse donna Agrippina. - Vedete, ora che si è messa in
grazia di Dio!... Alle volte il Signore fa il miracolo. - Le misero sul petto la reliquia
della Madonna. Donna Agrippina si tolse il cingolo della tonaca per ficcarglielo sotto il
guanciale. La zia Cirmena portava esempi di guarigioni miracolose: tutto sta ad avere fede
nei santi e nelle reliquie benedette: il Signore può far questo ed altro. Lo stesso don
Gesualdo allora si mise a piangere come un bambino.
|
- Anche lui! - borbottò donna Sarina, fingendo di parlare all'orecchio
della Macrì. - Anche lui, il cuore non l'ha cattivo in fondo. Non capisco però come
Isabella non sia venuta... duchessa o no!... Mamme ne abbiamo una sola!... Se bisognava
fare tante storie per arrivare a questo bel risultato...
|
- E' un porco!... un infame!... un assassino! - seguitò a brontolare
don Gesualdo, stralunato, colle labbra strette, gli occhi accesi che pareva un pazzo.
|
- Eh? che cosa? - domandò la Cirmena.
|
- Ssst! ssst! - interruppe donna Agrippina.
|
Il barone Mèndola si chinò all'orecchio di Zacco per dirgli qualche
cosa. L'altro scosse il testone arruffato e gonfio due o tre volte. La baronessa
approfittò del buon momento per indurre don Gesualdo a pigliare un po' di ristoro dalle
mani stesse di Lavinia. - Sì, un po' di brodo, due giorni che non apriva bocca il
pover'uomo!...
|
Come passarono nella stanza accanto, che dava sulla strada, si udì da
lontano un rumore che pareva del mare in tempesta. Mèndola narrò allora quello che aveva
visto nel venire.
|
- Sissignore! Hanno messo la bandiera sul campanile.
|
Dicono ch'è il segno di abolire tutti i dazi e la fondiaria. Perciò or
ora faranno la dimostrazione. Il procaccia delle lettere ha portato la notizia che a
Palermo l'hanno già fatta... e anche in tutti i paesi lungo la strada. Sicché sarebbe
una porcheria a non farla anche qui da noi... Infine cosa può costare? La banda, quattro
palmi di mussolina... Guardate!... guardate!...
|
Dalla via del Rosario spuntava una bandiera tricolore in cima a una
canna, e dietro una fiumana di gente che vociava e agitava braccia e cappelli in aria. Di
tanto in tanto partiva anche una schioppettata. Il marchese, ch'era sordo come una talpa,
domandò:
|
- Eh? Che c'è?
|
Il finimondo c'era! Don Gesualdo rimase colla chicchera in mano. S'udì
in quel punto una forte scampanellata all'uscio, e Zacco corse a vedere. Dopo un momento
sporse il capo dall'uscio dell'anticamera, e chiamò a voce alta:
|
- Marchese! Marchese Limòli!
|
Rimasero a discutere sottovoce nell'altra stanza. Pareva che il barone
mettesse buone parole con un terzo che era arrivato allora, e il marchese andasse
scaldandosi. - No! no! è una porcheria! - In quella rientrò Zacco, solo, col viso
acceso.
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- Sentite, don Gesualdo!... Un momento... una parolina...
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La folla era giunta lì, sotto la casa; si vedeva la bandiera
all'altezza del balcone, quasi volesse entrare. Si udivano degli urli: viva, morte.
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- Un momento! - esclamò allora Zacco, mettendo da parte ogni riguardo.
- Affacciatevi un momento, don Gesualdo! Fatevi vedere, se no succede qualche diavolo!...
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C'era il canonico Lupi, che portava il ritratto di Pio Nono, il
baronello Rubiera, giallo come un morto, sventolando il fazzoletto, tant'altra gente,
tutti gridando:
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- Viva!... abbasso!... morte!...
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Don Gesualdo, accasciato sulla seggiola, colla chicchera in mano,
seguitava a scrollare il capo, a stringersi nelle spalle, pallido come la camicia, ridotto
un vero cencio. Il marchese assolutamente voleva sapere cosa cercasse quella gente,
laggiù: - Eh? che cosa?
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- Vogliono la vostra roba! - esclamò infine il barone Zacco fuori dei
gangheri. Il marchese si mise a ridere dicendo: - Padroni! padronissimi! - In quel momento
passò di furia donna Agrippina Macrì, colla tonaca color pulce che le sbatteva dietro, e
nella camera della moribonda si udì un gran trambusto, seggiole rovesciate, donne che
strillavano. Don Gesualdo s'alzò di botto, vacillando, coi capelli irti, posò la
chicchera sul tavolino, e si mise a passeggiare innanzi e indietro, fuori di sé,
picchiando le mani l'una sull'altra e ripetendo:
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- S'è fatta la festa!... s'è fatta!
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III
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Giunse poco dopo una lettera d'Isabella la quale non sapeva nulla ancora
della catastrofe, e fece piangere gli stessi sassi. Il duca scrisse anche lui - un
foglietto con una lista nera larga un dito, e il sigillo stemmato, pur esso nero, che
stringeva il cuore - inconsolabile per la perdita della suocera. Diceva che alla duchessa
s'era dovuto nascondere la verità per consiglio degli stessi medici, visto che sarebbe
stato un colpo di fulmine, malaticcia com'era anch'essa, giusto alla vigilia di mettersi
in viaggio per andare a vedere sua madre!... Terminava chiedendo per lei qualche ricordo
della morta, una bazzecola, una ciocca di capelli, il libro da messa, l'anellino nuziale
che soleva portare al dito...
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Al notaro poi scrisse per chiedere se la defunta, buon'anima, avesse
lasciati beni stradotali. - Si seppe poi da don Emanuele Fiorio, l'impiegato della posta,
il quale scovava i fatti di tutto il paese, giacché il notaro non rispose neppure, e solo
con qualche intimo, brontolone come s'era fatto coll'età, andava dicendo:
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- Mi pare che il signor duca sia ridotto a cercare la luna nel pozzo, mi
pare!
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La povera morta se n'era andata alla sepoltura in fretta, fra quattro
ceri, nel subbuglio della gente ammutinata che voleva questo, e voleva quell'altro, stando
in piazza dalla mattina alla sera, a bociare colle mani in tasca e la bocca aperta,
aspettando la manna che doveva piovere dal campanile imbandierato. Ciolla ch'era diventato
un pezzo grosso alfine, con una penna nera nel cappello e un camiciotto di velluto che
sembrava un bambino, a quell'età, passeggiava su e giù per la piazza, guardando di qua e
di là come a dire alla gente: - Ehi! badate a voi adesso! - Don Luca, portando la croce
dinanzi alla bara, ammiccava gentilmente, per farsi strada fra la folla, e sorrideva ai
conoscenti, come udiva lungo la via tutti quei gloria che recitava la gente alle spalle di
mastro-don Gesualdo.
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- Un brigante! un assassino! uno che s'era arricchito, mentre tanti
altri erano rimasti poveri e pezzenti peggio di prima! uno che aveva i magazzini pieni di
roba, e mandava ancora l'usciere in giro per raccogliere il debito degli altri. - A
strillare più forte erano i debitori che s'erano mangiato il grano in erba prima della
messe. Gli rinfacciavano pure di essere il più tenace a non voler che gli altri si
pigliassero le terre del comune, ciascuno il suo pezzetto. Non si sapeva donde fosse
partita l'accusa; ma ormai era cosa certa. Lo dicevano tutti: il canonico Lupi armato sino
ai denti, il barone Rubiera colla cacciatora di fustagno, come un povero diavolo. Essi
erano continuamente in mezzo ai capannelli, alla mano e bonaccioni, col cuore sulle
labbra: - Quel mastro-don Gesualdo sempre lo stesso! aveva fatto morire la moglie senza
neppure chiamare un medico da Palermo! Una Trao! Una che l'aveva messo all'onore del
mondo! A che l'era giovato essere tanto ricca? - Il canonico si lasciava sfuggire
dell'altro ancora, in confidenza: Le stesse messe in suffragio dell'anima avevano lesinato
alla poveretta! - Lo so di certo. Sono stato in sagrestia. Se non ha cuore neppure pel
sangue suo!... Non mi fate parlare, chè domattina devo dir messa! - Nobili e plebei,
passato il primo sbigottimento, erano diventati tutti una famiglia. Adesso i signori erano
infervorati a difendere la libertà; preti e frati col crocifisso sul petto, o la coccarda
di Pio Nono, e lo schioppo ad armacollo. Don Nicolino Margarone s'era fatto capitano,
cogli speroni e il berretto gallonato. Donna Agrippina Macrì preparava filacce e parlava
d'andare al campo, appena cominciava la guerra. La signora Capitana raccoglieva per la
compera dei fucili, vestita di tre colori, il casacchino rosso, la gonnella bianca, e un
cappellino calabrese colle penne verdi ch'era un amore. Le altre dame ogni giorno
portavano sassi alle barricate, fuori porta, coi canestrini ornati di nastri e la musica
avanti. Sembrava una festa, mattina e sera, con tutte quelle bandiere, quella folla per le
strade, quelle grida di viva e di abbasso, ogni momento, lo scampanìo, la banda che
suonava, la luminaria più tardi. Le sole finestre che rimanessero chiuse erano quelle di
don Gesualdo Motta. Lui il solo che se ne stesse rintanato come un lupo, nemico del suo
paese, adesso che ci s'era ingrassato, lagnandosi continuamente che venivano a pelarlo
ogni giorno, la commissione per i poveri, il prestito forzoso la questua pei fucili!...
Lui lo mettevano in capo lista, lo tassavano il doppio degli altri. Gli toccava difendersi
e litigare. I signori del Comitato che tornavano stanchi di casa sua, dopo un'ora di tira
e molla, ne contavano delle belle. Dicevano che non capiva più niente, uno stupido,
l'ombra di mastro-don Gesualdo, un cadavere addirittura, che stava ancora in piedi per
difendere i suoi interessi, ma la mano di Dio arriva, tosto o tardi!
|
Intanto i villani e gli affamati che stavano in piazza dalla mattina
alla sera, a bocca aperta, aspettando la manna che non veniva, si scaldavano il capo a
vicenda, discorrendo delle soperchierie patite, delle invernate di stenti, mentre c'era
della gente che aveva i magazzini pieni di roba, dei campi e delle vigne!... Pazienza i
signori, che c'erano nati... Ma non si davano pace, pensando che don Gesualdo Motta era
nato povero e nudo al par di loro. - Se lo rammentavano tutti povero bracciante. -
Speranza, la stessa sua sorella predicava lì, di faccia alla bandiera inalberata sul
Palazzo di Città, ch'era giunto alfine il momento di restituire il mal tolto, di farsi
giustizia colle proprie mani. Aizzava contro allo zio i suoi figliuoli che s'erano fatti
grandi e grossi, e capaci di far valere le loro ragioni, se non fossero stati due capponi,
come il genitore, che s'era acquetato subito, quando il cognato aveva mandato un
gruzzoletto, allorché Bianca stava male, dicendo che voleva fare la pace con tutti
quanti, e dei guai ne aveva anche troppi. Giacalone, a cui don Gesualdo aveva fatto
pignorar la mula pel debito del raccolto, l'erede di Pirtuso, che litigava ancora con lui
per certi denari che il sensale s'era portati all'altro mondo, tutti coloro che gli erano
contro per un motivo o per l'altro, soffiavano adesso nel fuoco, dicendone roba da chiodi,
raccontando tutte le porcherie di mastro-don Gesualdo, sparlandone in ogni bettola e in
ogni crocchio, stuzzicando anche gli indifferenti, con quella storia delle terre comunali
che dovevano spartirsi fra tutti quanti, delle quali ciascuno aspettava il suo pezzetto,
di giorno in giorno, e ancora non se ne parlava, e chi ne parlava lo facevano uccidere a
tradimento, per tappargli la bocca... Si sapeva da dove era partito il colpo! Mastro Titta
aveva riconosciuto Gerbido, l'antico garzone di don Gesualdo, mentre fuggiva celandosi il
viso nel fazzoletto. Così tornò a galla la storia di Nanni l'Orbo il quale s'era
accollata la ganza di don Gesualdo coi figliuoli, dei poveri trovatelli che andavano a
zappare nei campi del genitore per guadagnarsi il pane, e gli baciavano le mani per
giunta, come quella bestia di Diodata che a chi gli dava un calcio rispondeva grazie.
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Dài e dài erano arrivati a scatenargli contro anche loro, una sera che
li avevano tirati in quelle chiacchiere all'osteria, e i due ragazzacci non possedevano
neppure di che pagar da bere agli amici. Don Gesualdo si vide comparire a quell'ora
Nunzio, il più ardito. - Il nome del nonno, sì glielo aveva dato; ma la roba no! - Per
poco non s'accapigliarono, padre e figlio. Si fece un gran gridare, una lite che durò
mezz'ora. Accorse anche Diodata, coi capelli per aria, vestita di nero. Nunzio, ubbriaco
fradicio, pretendeva il fatto suo lì su due piedi, e gliene disse di tutte le specie, a
lei e a lui. Lo zio Santo, che s'era accomodato col fratello, dopo la morte della cognata,
aiutandolo a passar l'angustia, mangiando e bevendo alla sua barba, afferrò la stanga per
metter pace. Il povero don Gesualdo andò a coricarsi più morto che vivo.
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In mezzo a tanti dispiaceri s'era ammalato davvero. Gli avvelenavano il
sangue tutti i discorsi che sentiva fare alla gente. Don Luca il sagrestano, il quale gli
s'era ficcato in casa, quasi fosse già l'ora di portargli l'olio santo, pretendeva che
don Gesualdo dovesse aprire i magazzini alla povera gente, se voleva salvare l'anima e il
corpo. Lui ci aveva cinque figliuoli sulle spalle, cinque bocche da sfamare, e la moglie
sei. Mastro Titta, quand'era venuto a cavargli sangue, gli cantò il resto, colla lancetta
in aria:
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- Vedete? Se non mettono giudizio, certuni, va a finir male, stavolta!
La gente non ne può più! Sono quarant'anni che levo pelo e cavo sangue, e sono ancora
quello di prima, io!
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Don Gesualdo, malato, giallo, colla bocca sempre amara, aveva perso il
sonno e l'appetito; gli erano venuti dei crampi allo stomaco che gli mettevano come tanti
cani arrabbiati dentro. Il barone Zacco era il solo amico che gli fosse rimasto. E la
gente diceva pure che doveva averci il suo interesse a fargli l'amico, qualche disegno in
testa. Veniva a trovarlo sera e mattina, gli conduceva la moglie e le figliuole, vestiti
di nero tutti quanti, che annebbiavano una strada. Gli lasciava la sua ragazza per
curarlo: - Lavinia ci ha la mano apposta, per far decotti. - Lavinia è un diavolo, per
tener d'occhio una casa. - Lasciate fare a Lavinia che sa dove metter le mani. -
Dall'altro canto poi faceva il viso brusco se Diodata aveva la faccia di farsi vedere
ancora lì, da don Gesualdo, con il fazzoletto nero in testa, carica di figliuoli, di già
canuta e curva come una vecchia: - No, no, buona donna. Non abbiamo bisogno di voi! Badate
ai fatti vostri piuttosto, ché qui la cuccagna è finita. - Poscia in confidenza
spifferava anche delle paternali all'amico. - Che diavolo ne fate di quella vecchia?...
Non vi conviene di lasciarvela bazzicar fra i piedi colei, ora ch'è vedova!... Dopo che
l'avete avuta in casa anche da zitella... Il mondo, sapete bene, ha la lingua lunga! Poi,
quell'altra storia... la morte di suo marito... E' vero che se lo meritava!... Ma infine
è meglio chiudere la bocca alla gente!... Del resto, non avete bisogno di nulla, ora che
ci abbiamo qui la mia ragazza.
|
Lui stesso si faceva in quattro a disporre e a ordinare nella casa del
cugino don Gesualdo, a ficcare il naso in tutti i suoi affari, a correre su e giù con le
chiavi dei magazzini e della cantina. Gli consigliava pure di mettere a frutto il denaro
contante, se ce ne aveva in serbo, caso mai le faccende s'imbrogliassero peggio.
|
- Datelo a mutuo, col suo bravo atto dinanzi notaio... un po' per uno, a
tutti coloro che gridano più forte perché non hanno nulla da perdere, e minacciano
adesso di scassinarvi i magazzini e bruciarvi la casa. Taceranno, per adesso. Poi, se
arrivano a pigliarsi le terre del comune, voi ci mettete subito una bella ipoteca. Le cose
non possono andare sempre a questo modo. I tempi torneranno a cambiare, e voi ci avrete
messo sopra le unghie a tempo.
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Ma lui non voleva sentir parlare di denaro. Diceva che non ne aveva, che
suo genero l'aveva rovinato, che preferiva riceverli a schioppettate, quelli che venivano
a bruciargli la casa o a scassinargli i magazzini. Era diventato una bestia feroce, verde
dalla bile, la malattia stessa gli dava alla testa. Minacciava: - Ah! La mia roba? Voglio
vederli! Dopo quarant'anni che ci ho messo a farla... un tarì dopo l'altro!... Piuttosto
cavatemi fuori il fegato e tutto il resto in una volta, ché li ho fradici dai
dispiaceri... A schioppettate! Voglio ammazzarne prima una dozzina! A chi ti vuol togliere
la roba levagli la vita!
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Perciò aveva armato Santo e mastro Nardo, il vecchio manovale, con
sciabole e carabine. Teneva il portone sbarrato, due mastini feroci nel cortile. Dicevasi
che in casa sua ci fosse un arsenale; che la sera ricevesse Canali, il marchese
Limòli,
dell'altra gente ancora, per congiurare, e un bel mattino si sarebbero trovate le forche
in piazza, e appesi tutti coloro che avevano fatta la rivoluzione. I pochi amici perciò
l'avevano abbandonato, onde non esser visti di cattivo occhio. E Zacco correva davvero un
brutto rischio continuando ad andare da lui e a condurgli tutta la famiglia. - Peccato che
con voi ci si rimette il ranno e il sapone! - gli disse però più di una volta. Sua
moglie infine, vedendo che non si veniva a una conclusione con quell'uomo, lasciò
scoppiare la bomba, un giorno che don Gesualdo s'era appisolato sul canapè, giallo come
un morto, e la sua ragazza gli faceva da infermiera, messa a guardia accanto alla
finestra.
|
- Scusatemi, cugino! Sono madre, e non posso più tacere, infine... Tu,
Lavinia, vai di là, chè ho da parlare col cugino don Gesualdo... Ora che non c'è più
la mia ragazza, apritemi il cuore, cugino mio... e ditemi chiaro la vostra intenzione...
Quanto a me ci avrei tanto piacere... ed anche il barone mio marito... Ma bisogna parlarci
chiaro...
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Il poveraccio spalancò gli occhi assonnati, ancora disfatto dalla
colica: - Eh? Che dite? Che volete? Io non vi capisco.
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- Ah! Non mi capite? Allora che ci sta a far qui la mia Lavinia? Una
zitella! Siete vedovo finalmente, e gli anni del giudizio li dovete anche avere, per
pigliare una risoluzione, e sapere quel che volete fare!
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- Niente. Io non voglio far niente. Voglio stare in pace, se mi ci
lasciano stare...
|
- Ah? Così? Stateci pure a comodo vostro... Ma intanto non è giusto...
capite bene!... Sono madre...
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E stavolta, risoluta, ordinò alla figliuola di prendere il manto e
venirsene via. Lavinia obbedì, furibonda anche lei. Tutt'e due, uscendo da quella casa
per l'ultima volta, fecero tanto di croce sulla soglia. - Una galera, quella baracca! La
povera cugina Bianca ci aveva lasciato le ossa col mal sottile! - Zacco la sera stessa
andò a far visita al barone Rubiera, invece di annoiarsi con quel villano di mastro-don
Gesualdo che passava la sera a lamentarsi, tenendosi la pancia, all'oscuro, per
risparmiare il lume.
|
- Mi volete, eh? cugino Rubiera... donna Giuseppina...
|
Don Ninì era uscito per assistere a certo conciliabolo in cui si
trattavano affari grossi. Intanto che aspettava, il barone Zacco volle fare il suo dovere
colla baronessa madre, ch'era stato un pezzo senza vederla. La trovò nella sua camera,
inchiodata nel seggiolone di faccia al letto matrimoniale, accanto al quale era ancora lo
schioppo del marito, buon'anima, e il crocifisso che gli avevano messo sul petto in punto
di morte, imbacuccata in un vecchio scialle, e colle mani inerti in grembo. Appena vide
entrare il cugino Zacco si mise a piangere di tenerezza, rimbambita: delle lagrime grosse
e silenziose che si gonfiavano a poco a poco negli occhi torbidi, e scendevano lentamente
giù per le guance floscie. - Bene, bene, mi congratulo, cugina Rubiera! La testa è sana!
Conoscete ancora la gente! - Essa voleva narrargli anche i suoi guai, biasciando,
sbuffando e imbrogliandosi, con la lingua grossa e le labbra pavonazze, spumanti di bava.
Il barone, affettuoso, tendeva l'orecchio, si chinava su di lei. - Eh? Che cosa? Sì, sì,
capisco! Avete ragione, poveretta! - In quella sopraggiunse la nuora infuriata. - Non si
capisce una maledetta! - osservò Zacco. - Deve essere un purgatorio per voialtri parenti.
- La paralitica fulminò un'occhiata feroce, rizzando più che poteva il capo piegato
sull'omero, mentre donna Giuseppina la sgridava come una bimba, asciugandole il mento con
un fazzoletto sudicio. - Che avete? che volete? stolida!... Vi rovinate la salute!... E'
proprio una creaturina di latte, Dio lodato! Non bisogna credere a quello che dice! Ci
vuole una pazienza da santi a durarla con lei!... - La suocera adesso spalancava gli
occhi, guardandola atterrita, rannicchiando il capo nelle spalle, quasi aspettando di
essere battuta: - Vedete? Santa pazienza!
|
- Ve l'ho detto, - conchiuse il barone. - Avete il purgatorio in terra,
per andarvene diritto in paradiso.
|
Indi giunse don Ninì a prendere le chiavi della cantina. Trovando il
cugino fece un certo viso sciocco.
|
- Ah... cugino!... che c'è di nuovo? Vostra moglie sta bene?... Qui, da
me, lo vedete... guai colla pala! Che c'è, mammà? i soliti capricci? Permettetemi,
cugino Zacco, devo scendere giù un momento...
|
Le chiavi stavano sempre lì, appese allo stipite dell'uscio. La
paralitica li accompagnava cogli occhi, senza poter pronunziare una parola, sforzandosi
più che potesse di girare il capo a ogni passo che faceva il figliuolo, con delle chiazze
di sangue guasto che le ribollivano a un tratto nel viso cadaverico. Zacco allora
cominciò a snocciolare il rosario contro di mastro-don Gesualdo. - Signore Iddio, me ne
accuso e me ne pento! L'ho durata fin troppo con colui! Mi pareva una brutta cosa
abbandonarlo nel bisogno... in mezzo a tutti i suoi nemici... Non fosse altro per carità
cristiana... Ma via! è troppo... Neanche i suoi parenti possono tollerarlo, quell'uomo!
Figuratevi! neanche quello stolido di don Ferdinando!... Si contenta di non uscire più di
casa pur di non essere costretto a mettere il vestito nuovo che gli ha mandato a regalare
il cognato... Sin che campa, avete inteso? Quello è un uomo di carattere! Infine sono
stanco, avete capito? Non voglio rovinarmi per amore di mastro-don Gesualdo. Ho moglie e
figliuoli. Dovrei portarmelo appeso al collo come un sasso per annegarmi?
|
- Ah!... ve l'avevo detto io! Vediamo, via, in coscienza! Cosa era
mastro-don Gesualdo vent'anni fa?... Ora ci mette i piedi sul collo, a noialtri! Vedete,
signori miei, un barone Zacco che gli lustra le scarpe e s'inimica coi parenti per lui!
|
L'altro chinava il capo, contrito. Confessava che aveva errato, a fin di
bene, per impedirgli di far dell'altro male, e cercare di cavarne quel poco di buono che
si poteva. Una volta, in vita, si può sbagliare...
|
- L'avete capita finalmente? Avete visto chi aveva ragione di noi due?
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La moglie gli chiuse la parola in bocca con una gomitata: - Lasciatelo
parlare. E' lui che deve dire ciò che vuole adesso da noi... quel ch'è venuto a fare...
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- Bene! - conchiuse Zacco con una risata bonaria. - Son venuto a fare il
Figliuol Prodigo, via! Siete contenti?
|
Donna Giuseppina era contenta a bocca stretta. Suo marito guardò prima
lei, poi il cugino Zacco, e non seppe che dire.
|
- Bene, - riprese Zacco un'altra volta. - So che stasera quei ragazzi
vogliono fare un po' di chiasso per le strade. Ci avete appunto in mano le chiavi della
cantina per tenerli allegri. Badate che non ho peli sulla lingua, se a qualcuno salta in
mente di venire a seccarmi sotto le mie finestre. Ci ho molta roba anch'io nello stomaco,
e non voglio aver dei nemici a credenza, come mastro-don Gesualdo!...
|
Marito e moglie si guardarono negli occhi.
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- Son padre di famiglia! - tornò a dire il barone. - Devo difendere i
miei interessi... Scusate... Se giochiamo a darci il gambetto fra di noi!...
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Donna Giuseppina prese la parola lei, scandolezzata:
|
- Ma che discorsi son questi?... Scusatemi piuttosto se metto bocca nei
vostri affari. Ma infine siamo parenti...
|
- Questo dico io. Siamo parenti! Ed è meglio stare uniti fra di noi...
di questi tempi!...
|
Don Ninì gli stese la mano: - Che diavolo!... che sciocchezze!... -
Quindi si sbottonò completamente, guardando ogni tanto sua moglie: - Venite in teatro
questa sera, per la cantata dell'inno. Fatevi vedere insieme a noialtri. Ci sarà anche il
canonico. Dice che non fa peccato, perché è l'inno del papa... Discorreremo poi...
Bisogna metter mano alla tasca, amico mio. Bisogna spendere e regalare. Vedete io?
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E agitava in aria le chiavi della cantina. La vecchia, che non aveva
perduto una parola di tutto il discorso, sebbene nessuno badasse a lei, si mise a grugnire
in una collera ostinata di bambina, gonfiando apposta le vene del collo per diventar
pavonazza in viso. Ricominciò il baccano: nuora e figliuolo la sgridavano a un tempo; lei
cercava di urlar più forte, agitando la testa furibonda. Accorse anche Rosaria, col
ventre enorme, le mani sudice nella criniera arruffata e grigiastra, minacciando la
paralitica lei pure:
|
- Guardate un po'! E' diventata cattiva come un asino rosso! Cosa gli
manca, eh? Mangia come un lupo!
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Rosaria non la finiva più su quel tono. Il barone Zacco pensò bene di
accomiatarsi in quel frangente.
|
- Dunque, stasera, alla cantata.
|
|
IV
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C'era un teatrone, poiché s'entrava gratis. Lumi, cantate, applausi che
salivano alle stelle. La signora Aglae era venuta apposta da Modica, a spese del comune,
per declamare l'inno di Pio Nono ed altre poesie d'occasione. Al vederla vestita alla
greca, con tutta quella grazia di Dio addosso, prosit a lei, don Ninì
Rubiera, nella
commozione generale, si sentiva venire le lagrime agli occhi, e smanacciava più forte
degli altri, borbottando fra di sé:
|
- Corpo di!... E' ancora un bel pezzo di donna!... Fortuna che non ci
sia mia moglie qui!...
|
Ma i rimasti fuori, che spingevano senza poter entrare, partirono
finalmente a strillare viva e morte per conto proprio; e quanti erano in teatro, al
baccano, uscirono in piazza, lasciando la prima donna e il signor Pallante a sbracciarsi
da soli, colle bandiere in mano. In un momento si riunì una gran folla, che andava
ingrossando sempre al par di un fiume.
|
Udivasi un gridìo immenso, degli urli che nel buio e nella confusione
suonavano minacciosi. Don Niccolino Margarone, Zacco, Mommino Neri, tutti i bene
intenzionati, si sgolavano a chiamare "fuori i lumi!" per vederci chiaro, e che
non nascessero dei guai.
|
La folla durò un pezzo a vociare di qua e di là. Indi si rovesciò
come un torrente giù per la via di San Giovanni. Dinanzi all'osteria di Pecu-Pecu c'era
un panchettino con dei tegami di roba fritta che andò a catafascio - petronciani e
pomidoro sotto i piedi. Santo Motta, che stava lì di casa e bottega, strillava come un
ossesso, vedendo andare a male tutta quella roba.
|
- Bestie! animali! Che non ne mangiate grazia di Dio? - Quasi pestavano
anche lui, nella furia. Giacalone e i più infervorati proposero di sfondar l'uscio della
chiesa e portare il santo in processione, per far più colpo. Sì e no. - Bestemmie e
sorgozzoni, lì all'oscuro, sul sagrato. Mastro Cosimo intanto s'era arrampicato sul
campanile e suonava a distesa. Le grida e lo scampanìo giungevano sino
all'Alìa, sino a
Monte Lauro, come delle folate di uragano. Dei lumi si vedevano correre nel paese alto, -
un finimondo. A un tratto, quasi fosse corsa una parola d'ordine, la folla s'avviò
tumultuando verso il Fosso, dietro coloro che sembravano i caporioni.
Mèndola, don
Nicolino, lo stesso canonico Lupi che s'era cacciato nella baraonda a fin di bene,
strillavano inutilmente: - Ferma! ferma! - Il barone Zacco, non avendo più le gambe di
prima, faceva piovere delle legnate, a chi piglia piglia, per far intender ragione agli
orbi.
|
- Ehi? Che facciamo?... Adagio, signori miei!.. Non cominciamo a far
porcherie! In queste cose si sa dove si comincia e non si sa...
|
Come molti avevano messo orecchio al discorso di sfondar usci e far la
festa a tutti i santi, la marmaglia ora pigiavasi dinanzi ai magazzini di mastro-don
Gesualdo. Dicevasi ch'erano pieni sino al tetto. - Uno ch'era nato povero come Giobbe, e
adesso aveva messo superbia, ed era nemico giurato dei poveretti e dei liberali! - Coi
sassi, coi randelli - due o tre s'erano armati di un pietrone e davano sulla porta che
parevano cannonate. Si udiva la vocetta stridula di Brasi Camauro il quale piagnucolava
come un ragazzo:
|
- Signori miei! Non c'è più religione! Non vogliono più sapere né di
cristi né di santi! Vogliono lasciarci crepare di fame tutti!
|
All'improvviso dal frastuono scapparono degli urli da far accapponare la
pelle. Santo Motta malconcio e insanguinato, rotolandosi per terra, riescì a far fare un
po' di largo dinanzi all'uscio del magazzino. Allora i galantuomini, vociando anche loro,
spingendo, tempestando, cacciarono indietro i più riottosi. Il canonico Lupi, aggrappato
alla inferriata della finestra, tentava di farsi udire:
|
-... maniera?... religione!... la roba altrui!... il Santo Padre!... se
cominciamo... - Altre grida rispondevano dalla moltitudine: -... eguali... poveri...
tirare pei piedi!... bue grasso!... - Giacalone, onde aizzar la folla, spinse avanti i due
bastardi di Diodata ch'erano nella calca, schiamazzando: -... don Gesualdo!... se c'è
giustizia!... abbandonati in mezzo a una strada!... se ne lagna anche Domeneddio!...
andare a fare i conti con lui!...
|
Dalla piazza di Santa Maria di Gesù, dalle prime case di San
Sebastiano, i vicini, spaventati, videro passare una fiumana di gente, una baraonda, delle
armi che luccicavano, delle braccia che si agitavano in aria, delle facce accese e
stravolte che apparivano confusamente al lume delle torce a vento. Usci e finestre si
chiudevano con fracasso. Si udivano da lontano strilli e pianti di donne, voci che
chiamavano: - Maria Santissima! Santi cristiani!...
|
Don Gesualdo era in letto malato, quando udì bussare alla porticina del
vicoletto che pareva volessero buttarla giù. Poi il rombo della tempesta che
sopravveniva. La sera stessa un'anima caritatevole era corsa a prevenirlo: - Badate, don
Gesualdo! Ce l'hanno con voi perché siete borbonico. Chiudetevi in casa! - Lui, che aveva
tanti altri guai, s'era stretto nelle spalle. Ma al vedere adesso che facevano sul serio,
balzò dal letto così come si trovava, col fazzoletto in testa e il cataplasma sullo
stomaco, infilandosi i calzoni a casaccio, mettendo da parte i suoi malanni, a quella voce
che gli gridava:
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- Don Gesualdo!... presto!... scappate!...
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Una voce che non l'avrebbe dimenticata in mille anni! Arruffato,
scamiciato, cogli occhi che luccicavano, simili a quelli di un gatto inferocito, nella
faccia verde di bile, andava e veniva per la stanza, cercando pistole e coltellacci,
risoluto a vender cara la pelle almeno. Mastro Nardo e quei pochi di casa che gli erano
rimasti affezionati pel bisogno si raccomandavano l'anima a Dio. Finalmente il barone
Mèndola riescì a farsi aprire l'uscio del vicoletto. Don Gesualdo, appostato alla
finestra col fucile, stava per fare un subisso.
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- Eh! - gridò Mèndola entrando trafelato. - Tirate ad ammazzarmi, per
giunta? Questa è la ricompensa?
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L'altro non voleva sentir ragione. Tremava tutto dalla collera.
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- Ah! così? A questo punto siamo arrivati, che un galantuomo non è
sicuro neppure in casa? che la roba sua non è più sua? Eccomi! Cadrà Sansone con tutti
i Filistei, però! Lo stesso lupo, quando lo mettono colle spalle al muro!... -
Zacco, e
due o tre altri benintenzionati ch'erano sopravvenuti intanto, sudavano a persuaderlo,
vociando tutti insieme:
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- Che volete fare? Contro un paese intero? Siete impazzito? Bruceranno
ogni cosa! Cominciano di qua la Strage degli Innocenti! Ci farete ammazzare tutti quanti!
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Lui s'ostinava, furibondo, coi capelli irti:
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- Quand'è così!... Giacché pretendono metterci le mani in tasca per
forza!... Giacchè mi pagano a questo modo!... Ho fatto del bene... Ho dato da campare a
tutto il paese... Ora gli fo mangiar la polvere, al primo che mi capita!...
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Proprio! Era risoluto di fare uno sterminio. Per fortuna irruppe nella
stanza il canonico Lupi, e gli si buttò addosso senza badare al rischio, spingendolo e
sbatacchiandolo di qua e di là, finché arrivò a strappargli di mano lo schioppo. - Che
diavolo! Colle armi da fuoco non si scherza! - Aveva il fiato ai denti, il cranio rosso e
pelato che gli fumava come quando era giovane, e balbettava colla voce rotta:
|
- Santo diavolone!... Domeneddio, perdonatemi! Mi fate parlare come un
porco, don asino! Siamo qui per salvarvi la vita, e non ve lo meritate! Volete far mettere
il paese intero a sacco e fuoco? Non m'importa di voi, bestia che siete! Ma certe cose non
bisogna lasciarle incominciare neppure per ischerzo, capite? Neppure a un nemico mortale!
Se coloro che sinora si sfogano a gridare, pigliano gusto anche a metter mano nella roba
altrui, siamo fritti!
|
Il canonico era addirittura fuori della grazia di Dio. Gli altri davano
addosso ancor essi su quella bestia testarda di mastro-don Gesualdo che risicava di
comprometterli tutti quanti; lo mettevano in mezzo; lo spingevano verso il muro; gli
rinfacciavano l'ingratitudine; lo stordivano. Il barone Zacco arrivò a passargli un
braccio al collo, in confidenza, confessandogli all'orecchio ch'era con lui, contro la
canaglia; ma pel momento ci voleva prudenza, lasciar correre, chinare il capo. - Dite di
sì... tutto quello che vogliono, adesso... Non c'è lì il notaio per mettere in carta le
vostre promesse... Un po' di maniera, un po' di denaro... Meglio dolor di borsa che dolor
di pancia...
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Don Gesualdo, seduto su di una seggiola, asciugandosi il sudore colla
manica della camicia, non diceva più nulla, stralunato. Giù al portone intanto il barone
Rubiera, don Nicolino, il figlio di Neri, si sbracciavano a calmare i più riottosi.
|
- Signori miei... Avete ragione... Si farà tutto quello che volete...
Abbiamo la bocca per mangiare tutti quanti... Viva! viva!... Tutti fratelli!... Una mano
lava l'altra... Domani... alla luce del sole. Chi ha bisogno venga qui da noi... Ora è
tardi, e siamo tutti d'un colore... birbanti e galantuomini... Ehi! ehi, dico!...
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Don Nicolino dovette afferrare pel collo un tale che stava per cacciarsi
dentro il portone socchiuso, approfittando della confusione e della ressa che facevasi
attorno a una donna la quale strillava e supplicava:
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- Nunzio! Gesualdo! Figliuoli miei!... Che vi fanno fare?... Nunzio...
Ah Madonna santa!...
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Era Diodata, la quale aveva sentito dire che i suoi ragazzi erano nella
baraonda, a gridare viva e morte contro don Gesualdo anche loro, ed era corsa colle mani
nei capelli. - Madonna santa! che vi fanno fare!... - Zacco e mastro Nardo portarono giù
intanto dei barili pieni, e aiutavano a metter pace mescendo da bere a chi ne voleva,
mentre il canonico di lassù predicava:
|
- Domani! Tornate domani, chi ha bisogno... Adesso non c'è nessuno in
casa... Don Gesualdo è fuori, in campagna... ma col cuore è anch'esso qui, con
noialtri... per aiutarvi... Sicuro... Ciascuno ha da avere il suo pezzo di pane e il suo
pezzo di terra... Ci aggiusteremo... Tornate domani...
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- Domani, un corno! - brontolò di dentro don Gesualdo. - Mi pare che
vossignoria aggiustate ogni cosa a spese mie, canonico!
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- Volete star zitto! Volete farmi fare la figura di bugiardo?... Se ho
detto che non ci siete, per salvarvi la pelle...
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Don Gesualdo tornò a ribellarsi:
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- Perchè? Che ho fatto? Io sono in casa mia!...
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- Avete fatto che siete ricco come un maiale! - gli urlò infine
all'orecchio il canonico che perse la pazienza. Gli altri allora l'assaltarono tutti
insieme, colle buone, colle cattive, dicendogli che se i rivoltosi lo trovavano lì, della
casa non lasciavano pietra sopra pietra; pigliavano ogni cosa; neanche gli occhi per
piangere gli lasciavano. Finché lo indussero a scappare dalla parte del
vicoletto.
Mèndola corse a bussare all'uscio dello zio Limòli.
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Al baccano, il marchese, oramai sordo come una talpa, s'era buttato un
ferraiuolo sulle spalle, e stava a vedere dietro l'invetriata del balcone, in camicia,
collo scaldino in mano e i piedi nudi nelle ciabatte, quando gli capitò quella nespola
fra capo e collo. Ci volle del bello e del buono a fargli capire ciò che volevano da lui
a quell'ora, mastro-don Gesualdo più morto che vivo, gli altri che gli urlavano
nell'orecchio, uno dopo l'altro:
|
- Vogliono fargli la festa... a vostro nipote don Gesualdo... Bisogna
nasconderlo...
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Egli ammiccava, colle palpebre floscie e cascanti, accennando di sì,
mentre abbozzava un sorriso malizioso.
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- Ah?... la festa?... a don Gesualdo?... E' giusto! E' venuto il vostro
tempo, caro mio... Siete il campione della mercanzia!...
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Ma finalmente, al sentire che invece volevano accopparlo, mutò
registro, fingendo d'essere inquieto, colla vocetta fessa:
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- Che?... Lui pure? Cosa vogliono dunque?... Dove andiamo di questo
passo?
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Mèndola gli spiegò che don Gesualdo era il pretesto per dare addosso
ai più denarosi; ma lì non sarebbero venuti a cercarne dei denari. Il vecchio accennava
di no anche lui, guardando intorno, con quel sorrisetto agro sulla bocca sdentata.
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Erano due stanzacce invecchiate con lui, nelle quali ogni sua abitudine
aveva lasciato l'impronta: la macchia d'unto dietro la seggiola su cui appisolavasi dopo
pranzo, i mattoni smossi in quel breve tratto fra l'uscio e la finestra, la parete
scalcinata accanto al letto dove soleva accendere il lume. E in quel sudiciume il marchese
ci stava come un principe, sputando in faccia a tutti quanti le sue miserie.
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- Scusate, signori miei, se vi ricevo in questa topaia... Non è pel
vostro merito, don Gesualdo... La bella parentela che avete presa, eh?...
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Sul vecchio canapè addossato al muro, puntellandolo cogli stessi
mattoni rotti, improvvisarono alla meglio un letto per don Gesualdo che non stava più in
piedi, mentre il marchese continuava a brontolare:
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- Guardate cosa ci capita! Ne ho viste tante! Ma questa qui non me
l'aspettavo...
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Pure gli offrì di dividere con lui la scodella di latte in cui aveva
messo a inzuppare delle croste di pane.
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- Son tornato a balia, vedete. Non ho altro da offrirvi a cena. La carne
non è più pei miei denti, né per la mia borsa... Voi sarete avvezzo a ben altro, amico
mio... Che volete farci? Il mondo gira per tutti, caro don Gesualdo!...
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- Ah! - rispose lui. - Non è questo, no, signor marchese. E' che lo
stomaco non mi dice. L'ho pieno di veleno! Un cane arrabbiato ci ho.
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- Bene, - dissero gli altri. - Ringraziate Iddio. Qui nessuno vi tocca.
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Fu un colpo tremendo per mastro-don Gesualdo. L'agitazione, la bile, il
malanno che ci aveva in corpo... La notte passò come Dio volle. Ma il giorno dopo,
all'avemaria, tornò Mèndola intabarrato, col cappello sugli occhi, guardandosi intorno
prima d'infilar l'uscio.
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- Un'altra adesso! - esclamò entrando. - Vi hanno fatto la spia, don
Gesualdo! E vogliono stanarvi anche di qua per costringervi a mantenere ciò che ha
promesso il canonico... Ciolla in persona... l'ho visto laggiù a far sentinella...
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Il marchese, ch'era tornato arzillo e gaio fra tutto quel parapiglia,
aguzzando l'udito, ficcandosi in mezzo per acchiappar qualche parola, corse al balcone.
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- Sicuro! Eccolo lì col camiciotto, come un bambino... Vuol dire che si
torna indietro tutti!...
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Don Gesualdo s'era alzato sbuffando, gridando ch'era meglio finirla, che
correva giù a dargliela lui, la promessa, al Ciolla! E giacchè lo cercavano, era lì,
pronto a riceverli!...
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- Certo, certo, - ripeteva il marchese. - Se vi cercano vuol dire che
hanno bisogno di voi. Di me non vengono a cercare sicuro! Vogliono farvi gridare viva e
morte insieme a loro? E voi andateci! Viva voi che avete da farli gridare!
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- No! So io quello che vogliono! - ribattè don Gesualdo imbestialito.
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- Scusate, non si tratta soltanto di voi adesso, - osservò
Mèndola. -
E' che dietro di voi ci siamo tutto il paese!...
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Sopraggiunse il canonico, grattandosi il capo, impensierito della piega
che pigliava la faccenda. Durava la baldoria. Una bella cosa per certa gente! Quei
bricconi s'erano legate al dito le parole di pace ch'egli si era lasciato sfuggire in quel
frangente, e stavano in piazza tutto il giorno ad aspettare la manna dal cielo: - M'avete
messo in un bell'imbroglio, voi, don Gesualdo!
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A quell'uscita del canonico successe un altro battibecco fra loro due: -
Io, eh?... Io!... Son io che ho promesso mari e monti?
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- Per chetarli, in nome di Dio! Parole che si dicono, si sa! Avrei
voluto vedervi, dinanzi a quelle facce scomunicate!
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Il marchese si divertiva: - Senti senti! Guarda guarda!
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- Insomma, - conchiuse Mèndola, - queste son chiacchiere, e bisogna
pigliar tempo. Intanto voi levatevi di mezzo, causa causarum! In fondo a una cisterna, in
un buco, dove diavolo volete, ma non è la maniera di compromettere tanti padri di
famiglia, per causa vostra!
|
- In casa Trao! - suggerì il canonico. - Vostro cognato vi accoglierà
a braccia aperte. Nessuno sa che c'è ancora lui al mondo, e non verranno a cercarvi sin
lì. - Il marchese approvò anch'esso: - Benissimo. E' una bella pensata! Cane e gatto
chiusi insieme... - Don Gesualdo s'ostinava ad opporsi.
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- Allora, - esclamò il canonico, - io me ne lavo le mani come
Pilato.
Anzi vado a chiamarvi Ciolla e tutti quanti, se volete!...
|
Don Gesualdo era ridotto in uno stato che di lui ne facevano quel che
volevano. A due ore di notte, per certe stradicciuole fuori mano, andarono a svegliare
Grazia che aveva la chiave del portone, e al buio, tentoni, arrivarono sino all'uscio di
don Ferdinando.
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- Chi è? - si udì belare di dentro una voce asmatica. - Grazia, chi
è?
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- Siamo noi, don Gesualdo, vostro cognato...
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Nessuno rispose. Poi si udì frugare nel buio. E a un tratto don
Ferdinando si chiuse dentro col paletto, e si mise ad ammonticchiare sedie e tavolini
dietro l'uscio, continuando a strillare spaventato:
|
- Grazia! Grazia!
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- Corpo del diavolo! - esclamò Mèndola. - Qui si fa peggio! Quella
bestia farà correre tutto il paese!
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Il canonico rideva sotto il naso, scuotendo il capo. Grazia intanto
aveva acceso un mozzicone di candela, e li guardava in faccia ad uno ad uno,
allibbita,
battendo le palpebre.
|
- Che volete fare, signori miei? - azzardò infine timidamente. Don
Gesualdo, che non si reggeva più in piedi, pallido e disfatto, proruppe in tono
disperato:
|
- Io voglio tornarmene a casa mia!... a qualunque costo... Sono
risoluto!...
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- Nossignore! - interruppe il canonico. - Qui siete in casa vostra. C'è
la quota di vostra moglie. Ah, caspita! Avete avuto pazienza sino adesso... Ora basta!...
Lì, nella camera di donna Bianca. Il letto è ancora tal quale.
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Mèndola s'era messo di buon umore, mentre preparavano la stanza.
Frugava da per tutto. Andava a cacciare il naso nell'andito oscuro, dietro
l'usciolino.
Trovava delle barzellette, ricordando le vecchie storie. Quanti casi! Quante vicende! -
Chi ve lo avrebbe detto, eh, don Gesualdo? - Lo stesso canonico Lupi si lasciò sfuggire
un sorrisetto.
|
- Intanto che siete qui, potete fare le vostre meditazioni sulla vita e
sulla morte, per passare il tempo. Che commedia, questo mondaccio! Vanitas
vanitatum!
|
Don Gesualdo gli rivolse un'occhiata nera, ma non rispose. Ci aveva
ancora dello stomaco per chiudervi dentro i suoi guai e le sue disgrazie, senza farne
parte agli amici, per divertirli. Si buttò a giacere sul letto, e rimase solo al buio coi
suoi malanni, soffocando i lamenti, mandando giù le amarezze che ogni ricordo gli faceva
salire alla gola. D'una cosa sola non si dava pace, che avrebbe potuto crepare lì dove
era, senza che sua figlia ne sapesse nulla. Allora, nella febbre, gli passavano dinanzi
agli occhi torbidi Bianca, Diodata, mastro Nunzio, degli altri ancora, un altro sé stesso
che affaticavasi e s'arrabattava al sole e al vento, tutti col viso arcigno, che gli
sputavano in faccia: - Bestia! bestia! Che hai fatto? Ben ti stia!
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A giorno tornò Grazia per aiutare un po', sfinita, ansando se smuoveva
una seggiola, fermandosi ogni momento per piantarsi dinanzi a lui colle mani sul ventre
enorme, e ricominciare le lagnanze contro i parenti di don Ferdinando che le lasciavano
quel poveretto sulle spalle, lesinandogli il pane e il vino. - Sissignore, l'hanno tutti
dimenticato, lì nel suo cantuccio, come un cane malato!... Ma io il cuore non mi dice...
Siamo stati sempre vicini... buoni servi della famiglia... una gran famiglia... Il cuore
non mi dice, no!
|
Dietro di lei veniva una masnada di figliuoli che mettevano ogni cosa a
soqquadro. Poi sopraggiunse Speranza strepitando che voleva vedere suo fratello, quasi
egli stesse per rendere l'anima a Dio.
|
- Lasciatemi entrare! E' sangue mio infine! Ora ch'è in questo stato mi
rammento solo di essere sua sorella. - Lei, il marito, i figliuoli. Mise a rumore tutto il
vicinato. Don Gesualdo lasciò il letto sbuffando. Non lo avrebbero tenuto le catene.
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- Voglio tornare a casa mia! Che ci sto a fare qui? Tanto, lo sanno
tutti!...
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A gran stento lo indussero ad aspettare la sera. E dopo l'avemaria,
quatti quatti, Burgio e tutti i parenti l'accompagnarono a casa. Speranza volle restare a
guardia del fratello, giacché trovavasi tanto malato, e per miracolo quella notte non gli
avevano messo ogni cosa a sacco e ruba.
|
- Non vuol dire se siamo in lite. Al bisogno si vede il cuore della
gente. Gli interessi sono una cosa, e l'amore è un'altra. Abbiamo litigato, litigheremo
sino al giorno del Giudizio, ma siamo figli dello stesso sangue! - Protestò che l'avrebbe
tenuto meglio delle pupille dei propri occhi, lui e la sua roba. Gli schierò dinanzi al
letto marito e figliuoli che giravano intorno sguardi cupidi, ripetendo:
|
- Questo è il sangue vostro! Questi non vi tradiscono! - Lui,
combattuto, stanco, avvilito, non ebbe neanche la forza di ribellarsi.
|
Così, a poco a poco, gli si misero tutti quanti alle costole. I nipoti
scorazzando per la casa e pei poderi, spadroneggiando, cacciando le mani da per tutto. La
sorella, colle chiavi alla cintola, frugando, rovistando, mandando il marito di qua e di
là, pei rimedi, e a coglier erbe medicinali. Come massaro Fortunato si lagnava di non
aver più le gambe di vent'anni per affacchinarsi a quel modo, essa lo sgridava:
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- Che volete? Non lo fate per amore di vostro cognato? Carcere, malattie
e necessità si conosce l'amistà.
|
Lei non aveva suggezione di Ciolla e di tutti gli altri della sua risma.
Una volta che Vito Orlando pretese di venire a fare una sbravazzata, colla pistola in
tasca, per liquidare certi conti con don Gesualdo, essa lo inseguì giù per le scale
buttandogli dietro una catinella d'acqua sporca. Lo stesso canonico Lupi aveva dovuto
mettersi la coda fra le gambe, e non era tornato a fare il generoso colla roba altrui, ora
che Ciolla e i più facinorosi erano partiti a cercar fortuna in città, con bandiere e
trombette. Il canonico, onde chetare gli altri, aveva preso il ripiego di sortire in
processione, colla disciplina e la corona di spine; e così gli altri si sfogavano in
feste e quarant'ore, mentre lui andava predicando la fratellanza e l'amore del prossimo.
|
- Però un baiocco non lo mette fuori! - sbraitava comare Speranza. - E
questo va bene. Ma se torna a fare il camorrista, qui da noi, lo ricevo come
va... tal
quale Vito Orlando!
|
Intanto la casa di don Gesualdo era messa a sacco e ruba egualmente.
Vino, olio, formaggio, pezze di tela anche, sparivano in un batter d'occhio. Dalla
Canziria e da Mangalavite giungevano fattori e mezzadri a reclamare contro i figliuoli di
massaro Fortunato Burgio che comandavano a bacchetta, e saccheggiavano i poderi dello zio,
quasi fosse già roba senza padrone. Lui, poveraccio, confinato in letto, si rodeva in
silenzio; non osava ribellarsi al cognato e alla sorella; pensava ai suoi guai. Ci aveva
un cane, lì nella pancia, che gli mangiava il fegato, il cane arrabbiato di San Vito
martire, che lo martirizzava anche lui. Inutilmente Speranza, amorevole, cercava erbe e
medicine, consultava Zanni e persone che avevano segreti per tutti i mali. Ciascuno
portava un rimedio nuovo, dei decotti, degli unguenti, fino la reliquia e l'immagine
benedetta del santo, che don Luca volle provare colle sue mani. Non giovava nulla.
L'infermo badava a ripetere:
|
- Non è niente... un po' di colica. Ho avuto dei dispiaceri. Domani mi
alzerò...
|
Ma non ci credeva più neppur lui, e non si alzava mai. Era ridotto
quasi uno scheletro, pelle e ossa; soltanto il ventre era gonfio come un otre. Nel paese
si sparse la voce che era spacciato: la mano di Dio che l'agguantava e l'affogava nelle
ricchezze. Il signor genero scrisse da Palermo onde avere notizie precise. Parlava anche
d'affari da regolare, e di scadenze urgenti. Nella poscritta c'erano due righe sconsolate
d'Isabella, la quale non si era ancora riavuta dal gran colpo che aveva ricevuto poco
prima. Speranza, che era presente mentre il fratello s'inteneriva sulla lettera, sputò
fuori il veleno:
|
- Ecco! Ora vi guastate il sangue, per giunta! Potreste andarvene
all'altro mondo... solo e abbandonato, come uno che non ha nè possiede!... Chi vi siete
trovato accanto nel bisogno, ditelo? Vostra figlia vi manda soltanto belle parole... Suo
marito però va al sodo!
|
Don Gesualdo non rispose. Ma di nascosto, rivolto verso il muro, si mise
a piangere cheto cheto. Sembrava diventato un bambino. Non si riconosceva più. Allorchè
Diodata, sentendo ch'era tanto malato, volle andare a visitarlo e a chiedergli perdono per
la mancanza che gli avevano fatto i suoi ragazzi, la notte della sommossa, rimase di
stucco al vederlo così disfatto, che puzzava di sepoltura, e gli occhi che a ogni faccia
nuova diventavano lustri lustri.
|
- Signor don Gesualdo... son venuta a vedervi perché mi hanno detto che
siete in questo stato... Dovete perdonare... a quegli screanzati che vi hanno offeso...
Ragazzi senza giudizio... Si son lasciati prendere in mezzo, senza sapere quello che
facessero... Dovete perdonare per amor mio, signor don Gesualdo!...
|
E si vedeva che parlava sincera, la poveretta, con quel viso, mandando
giù, per nasconderle, le lagrime che a ogni parola le tornavano agli occhi, cercando di
pigliargli la mano per baciargliela. Egli faceva un gesto vago, e scuoteva il capo, come a
dire che non gliene importava, oramai. In quella sopravvenne Speranza, e fece una
partaccia a quella sfacciata che veniva a tentarle il fratello in fin di vita, per
cavargli qualcosa, per pelarlo sino all'ultimo. Una sanguisuga. Ci s'era ingrassata alle
spalle di lui! Non le bastava? Ora calavano i corvi, all'odor del carname. Il malato
chiudeva gli occhi per sfuggire quel supplizio, e agitavasi nel letto come al
sopraggiungere di un'altra colica. Talché Diodata se ne andò senza poterlo salutare, a
capo chino, stringendosi nella mantellina. Speranza tornò al fratello, tutta amorevole e
sorridente.
|
- Per assistervi adesso ci avete qui noi... Non vi lasceremo solo, non
temete,.. Tutto ciò che avete bisogno... Comandate. Che ne fareste adesso di quella
strega? Vi mangerebbe anima e corpo. Neanche il viatico potreste ricevere, con quello
scandalo in casa!
|
Lei lo assisteva meglio di una serva, e lo curava con amore, senza
guardare a spesa né a fatiche. Vedendo che nulla giovava, arrivò a chiamare il figlio di
Tavuso, il quale tornava fresco fresco da Napoli, laureato in medicina, - un ragazzotto
che non aveva ancora peli al mento e si faceva pagare come un principe. - Però don
Gesualdo gli disse il fatto suo, al vedergli metter mano alla penna per scrivere le solite
imposture:
|
- Don Margheritino, io vi ho visto nascere! A me scrivete la ricetta?
Per chi mi pigliate, amico caro!
|
- Allora, - ribattè il dottorino infuriato, - allora fatevi curare dal
maniscalco! Perché mi avete fatto chiamare? - Prese il cappello, e se ne andò.
|
Ma siccome il malato soffriva tutti i tormenti dell'inferno, nella
lusinga che qualcheduno trovasse il rimedio che ci voleva, per non far parlare anche i
vicini che li accusavano di avarizia, dovettero chinare il capo a codesto, chinare il capo
a medici e medicamenti. Il figlio di Tavuso, Bomma quanti barbassori c'erano in paese,
tutti sfilarono dinanzi al letto di don Gesualdo. Arrivavano, guardavano, tastavano,
scambiavano fra di loro certe parolacce turche che facevano accapponar la pelle, e
lasciavano detto ciascuno la sua su di un pezzo di carta - degli sgorbi come sanguisughe.
Don Gesualdo, sbigottito, non diceva nulla, cercava di cogliere le parole a volo; guardava
sospettoso le mani che scrivevano. Soltanto, per non buttare via il denaro malamente,
prima di spedire la ricetta, prese a parte don Margheritino, e gli fece osservare che
aveva un armadio pieno di vasetti e boccettine, comperati per la buon'anima di sua moglie.
- Non ho guardato a spesa, signor dottore. Li ho ancora lì, tali e quali. Se vi pare che
possano giovare adesso...
|
Non gli davano retta neppur quando tornava a balbettare, spaventato da
quelle facce serie: - Mi sento meglio. Domani mi alzo. Mandatemi in campagna che guarirò
in ventiquattr'ore. - Gli dicevano di sì, per contentarlo, come a un bambino. - Domani,
doman l'altro. - Ma lo tenevano lì, per smungerlo, per succhiargli il sangue, medici,
parenti e speziali. Lo voltavano, lo rivoltavano, gli picchiavano sul ventre con due dita,
gli facevano bere mille porcherie, lo ungevano di certa roba che gli apriva dei vescicanti
sullo stomaco. C'era di nuovo sul cassettone un arsenale di rimedi, come negli ultimi
giorni di Bianca, buon'anima. Egli borbottava, tentennando il capo. - Siamo già ai
medicamenti che costano cari! Vuol dire che non c'è più rimedio. - Il denaro a fiumi, un
va e vieni, una baraonda per la casa, tavola imbandita da mattina a sera.
Burgio, che non
c'era avvezzo, correva a mostrare la lingua ai medici, come venivano pel cognato; Santo
non usciva più nemmeno per andare all'osteria; e i nipoti, quando tornavano dai poderi,
si pigliavano pei capelli: liti e quistioni fra di loro che facevano a chi più arraffa,
degli strepiti che arrivavano fin nella camera dell'infermo, il quale tendeva l'orecchio,
smanioso di sapere quello che facevano della sua roba, e anche lui si metteva a strillare
dal letto:
|
- Lasciatemi andare a Mangalavite. Ci ho tutti i miei interessi alla
malora. Qui mi mangio il fegato. Lasciatemi andare, se no crepo!
|
Ci aveva come una palla di piombo nello stomaco, che gli pesava, voleva
uscir fuori, con un senso di pena continuo; di tratto in tratto, si contraeva,
s'arroventava e martellava, e gli balzava alla gola, e lo faceva urlare come un dannato, e
gli faceva mordere tutto ciò che capitava. Egli rimaneva sfinito, anelante, col terrore
vago di un altro accesso negli occhi stralunati. Tutto ciò che ingoiava per forza, per
aggrapparsi alla vita, i bocconi più rari, senza chiedere quel che costassero, gli si
mutavano in veleno; tornava a rigettarli come roba scomunicata, più nera dell'inchiostro,
amara, maledetta da Dio. E intanto i dolori e la gonfiezza crescevano: una pancia che le
gambe non la reggevano più. Bomma, picchiandovi sopra, una volta disse: - Qui c'è roba.
|
- Che volete dire, vossignoria? - balbettò don Gesualdo, balzando a
sedere sul letto, coi sudori freddi addosso.
|
Bomma lo guardò bene in faccia, accostò la seggiola, si voltò di qua
e di là per vedere s'erano soli.
|
- Don Gesualdo, siete un uomo... Non siete più un ragazzo, eh?
|
- Sissignore, - rispose lui con voce ferma, calmatosi a un tratto, col
coraggio che aveva sempre avuto al bisogno. - Sissignore, parlate.
|
- Bene, qui ci vuole un consulto. Non avete mica una spina di fico
d'India nel ventre! E' un affare serio, capite! Non è cosa per la barba di don
Margheritino o di qualcun altro... sia detto senza offenderli, qui in confidenza. Chiamate
i migliori medici forestieri, don Vincenzo Capra, il dottor Muscio di
Caltagirone, chi
volete... Denari non ve ne mancano...
|
A quelle parole don Gesualdo montò in furia: - I denari!... Vi stanno a
tutti sugli occhi i denari che ho guadagnato!... A che mi servono... se non posso comprare
neanche la salute?... Tanti bocconi amari m'hanno dato... sempre!...
|
Ma però volle stare a sentire la conclusione del discorso di
Bomma.
Alle volte non si sa mai... Lo lasciò finire, stando zitto, tenendosi il mento, pensando
ai casi suoi. Infine volle sapere:
|
- Il consulto? Che mi fa il consulto?
|
Bomma perse le staffe: - Che vi fa? Caspita! Quello che vi può fare...
Almeno non si dirà che vi lasciate morire senza aiuto. Io parlo nel vostro interesse. Non
me ne viene nulla in tasca... Io fo lo speziale... Non è affar mio... Non me ne intendo.
Vi ho curato per amicizia... - Come l'altro tentennava il capo, diffidente, col sorriso
furbo sulle labbra smorte, il farmacista mise da banda ogni riguardo. - Morto siete, don
minchione! A voi dico!
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Allora don Gesualdo volse un'occhiata lenta e tenace in giro, si soffiò
il naso, e si lasciò andar giù sul letto supino. Di lì a un po', guardando il soffitto,
aggiunse con un sospiro:
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- Va bene. Facciamo il consulto.
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La notte non chiuse occhio. Tormentato da un'ansietà nuova, con dei
brividi che lo assalivano di tratto in tratto, dei sudori freddi, delle inquietudini che
lo facevano rizzare all'improvviso sul letto coi capelli irti, guardando intorno nelle
tenebre, vedendo sempre la faccia minacciosa di Bomma, tastandosi, soffocando i dolori,
cercando d'illudersi. Parevagli di sentirsi meglio infatti. Voleva curarsi, giacché era
un affar serio. Voleva guarire. Ripeteva le parole stesse dello speziale: denari ne aveva;
s'era logorata la vita apposta; non li aveva guadagnati per far la barba al signor genero;
perché se li godessero degli ingrati che lo lasciavano crepare lontano: Lontano dagli
occhi, lontan dal cuore! Il mondo è fatto così, che ciascuno tira l'acqua al suo mulino.
Il mulino suo, di lui, era di riacquistare la salute, coi suoi denari. C'erano al mondo
dei buoni medici che l'avrebbero fatto guarire, pagandoli bene. Allora asciugavasi quel
sudore d'agonia, e cercava di dormire. Voleva che i medici forestieri che aspettava il
giorno dopo gli trovassero miglior cera; contava le ore; gli pareva
mill'anni che fossero
lì dinanzi al suo letto. La stessa luce dell'alba gli faceva animo. Poi, allorché udì
le campanelle della lettiga che portava il Muscio e don Vincenzo Capra si sentì slargare
il cuore tanto fatto. Si tirò su svelto a sedere sul letto come uno che si senta proprio
meglio. Salutò quella brava gente con un bel sorriso che doveva rassicurare anche loro,
appena li vide entrare.
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Essi invece gli badarono appena. Erano tutti orecchi per don
Margheritino che narrava la storia della malattia con gran prosopopea; approvavano coi
cenni del capo di tanto in tanto; volgevano solo qualche occhiata distratta sull'ammalato
che andavasi scomponendo in volto, alla vista di quelle facce serie, al torcer dei musi,
alla lunga cicalata del mediconzolo che sembrava recitasse l'orazione funebre. Dopo che
colui ebbe terminato di ciarlare s'alzarono l'uno dopo l'altro, e tornarono a palpare e a
interrogare il malato, scrollando il capo, con certo ammiccare sentenzioso, certe occhiate
fra di loro che vi mozzavano il fiato addirittura. Ce n'era uno specialmente, dei
forestieri, che stava accigliato e pensieroso, e faceva a ogni momento uhm! uhm! senza
aprir bocca. I parenti, la gente di casa, dei vicini anche, per curiosità, si affollavano
all'uscio, aspettando la sentenza, mentre i dottori confabulavano a bassa voce fra di loro
in un canto. A un cenno dello speziale, Burgio e sua moglie andarono a sentire anch'essi,
in punta di piedi.
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- Parlate, signori miei! - esclamò allora il pover'uomo pallido come un
morto. - Sono io il malato, infine! Voglio sapere a che punto sono.
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Il Muscio abbozzò un sorriso che lo fece più brutto. E don Vincenzo
Capra, in bel modo, cominciò a spiegare la diagnosi della malattia: Pylori
cancer, il
pyrosis dei greci. Non s'avevano ancora indizii d'ulcerazione; l'adesione stessa del
tumore agli organi essenziali non era certa; ma la degenerescenza dei tessuti accusavasi
già per diversi sintomi patologici. Don Gesualdo, dopo avere ascoltato attentamente,
riprese:
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- Tutto questo va benone. Però ditemi se potete guarirmi, vossignoria.
Senza interesse... pagandovi secondo il vostro merito...
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Capra ammutolì da prima e si strinse nelle spalle.
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- Eh, eh... guarire... certo... siamo qui per cercar di guarirvi... - Il
Muscio, più brutale, spifferò chiaro e tondo il solo rimedio che si potesse tentare:
l'estirpazione del tumore, un bel caso, un'operazione chirurgica che avrebbe fatto onore a
chiunque. Dimostrava il modo e la maniera, accalorandosi nella proposta, accompagnando la
parola coi gesti, fiutando già il sangue cogli occhi accesi nel faccione che gli
s'imporporava tutto, quasi stesse per rimboccarsi le maniche e incominciare; tanto che il
paziente spalancava gli occhi e la bocca, e tiravasi indietro per istinto; e le donne,
atterrite, scapparono a gemere e a singhiozzare.
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- Madonna del Pericolo! - cominciò a strillare Speranza. - Vogliono
ammazzarmi il fratello... squartarlo vivo come un maiale!
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- Chetatevi! - balbettò lui passandosi un lembo del lenzuolo sulla
faccia che grondava goccioloni. Gli altri medici tacevano e approvavano più o meno la
proposta del dottor Muscio per cortesia. Don Gesualdo, visto che nessuno fiatava,
ripigliò a dire:
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- Chetatevi!... Si tratta della mia pelle... devo dir la mia anch'io...
Signori miei... sono un uomo... Non sono un ragazzo... Se dite ch'è necessaria... questa
operazione... Se dite che è necessaria... Sissignore... si farà... Però, lasciatemi dir
la mia...
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- E' giusto. Parlate.
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- Ecco... Una cosa sola.. Voglio sapere prima se mi garantite la
pelle... Siamo galantuomini... Mi fido di voi... Non è un negozio da farsi a occhi
chiusi. Voglio vederci chiaro nel mio affare...
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- Che discorsi son questi! - interruppe il Muscio dimenandosi sulla
seggiola. - Io fo il chirurgo, amico mio. Io fo il mio mestiere, e non m'impiccio a far
scommesse da ciarlatano! Credete di trattare col Zanni, alla fiera?
|
- Allora non ne facciamo nulla, - rispose don Gesualdo. E gli voltò le
spalle. - Andate là, Bomma, che m'avete dato un bel consiglio!
|
Speranza, premurosa, vide giunta l'ora di rivolgersi ai santi, e si
diede le mani attorno a procurar reliquie e immagini benedette. Neri pensò che si doveva
avvertire subito la figliuola e il genero del pericolo che correva don Gesualdo. Lui non
dava più retta. Diceva che di santi e di reliquie ne aveva un fascio, lì nell'armadio di
Bianca, insieme alle altre medicine. Non voleva veder nessuno. Giacché era condannato,
voleva morire in pace, senza operazioni chirurgiche, lontano dai guai, nella sua campagna.
S'attaccava alla vita mani e piedi, disperato. Ne aveva passate delle altre; s'era aiutato
sempre da sé, nei mali passi. Coraggio ne aveva e aveva il cuoio duro anche. Mangiava e
beveva; si ostinava a star meglio; si alzava dal letto due o tre ore al giorno; si
trascinava per le stanze, da un mobile all'altro. Infine si fece portare a
Mangalavite,
col fiato ai denti, mastro Nardo da un lato e Masi dall'altro che lo reggevano sul mulo -
un viaggio che durò tre ore, e gli fece dire cento volte: - Buttatemi nel fosso, ch'è
meglio.
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Ma laggiù, dinanzi alla sua roba, si persuase che era finita davvero,
che ogni speranza per lui era perduta, al vedere che di nulla gliene importava, oramai. La
vigna metteva già le foglie, i seminati erano alti, gli ulivi in fiore, i sommacchi
verdi, e su ogni cosa stendevasi una nebbia, una tristezza, un velo nero. La stessa
casina, colle finestre chiuse, la terrazza dove Bianca e la figliuola solevano mettersi a
lavorare, il viale deserto, fin la sua gente di campagna che temeva di seccarlo e se ne
stava alla larga, lì nel cortile o sotto la tettoia, ogni cosa gli stringeva il cuore;
ogni cosa gli diceva: Che fai? che vuoi? La sua stessa roba, lì, i piccioni che roteavano
a stormi sul suo capo, le oche e i tacchini che schiamazzavano dinanzi a lui... Si udivano
delle voci e delle cantilene di villani che lavoravano. Per la viottola di
Licodia, in
fondo, passava della gente a piedi e a cavallo. Il mondo andava ancora pel suo verso,
mentre non c'era più speranza per lui, roso dal baco al pari di una mela fradicia che
deve cascare dal ramo, senza forza di muovere un passo sulla sua terra, senza voglia di
mandar giù un uovo. Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e
tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d'un colpo tutto quel ben
di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui,
disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese, più
morto che vivo.
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Di lì a qualche giorno arrivò il duca di Leyra, chiamato per espresso,
e s'impadronì del suocero e della casa, dicendo che voleva condurselo a Palermo e farlo
curare dai migliori medici. Il poveretto, ch'era ormai l'ombra di sé stesso, lasciava
fare; riapriva anzi il cuore alla speranza; intenerivasi alle premure del genero e della
figliuola che l'aspettava a braccia aperte. Gli pareva che gli tornassero già le forze.
Non vedeva l'ora d'andarsene, quasi dovesse lasciare il suo male lì, in quella casa e in
quei poderi che gli erano costati tanti sudori, e che gli pesavano invece adesso sulle
spalle. Il genero intanto occupavasi col suo procuratore a mettere in sesto gli affari.
Appena don Gesualdo fu in istato di poter viaggiare, lo misero in lettiga e partirono per
la città. Era una giornata piovosa. Le case note, dei visi di conoscenti che si voltavano
appena, sfilavano attraverso gli sportelli della lettiga. Speranza, e tutti i suoi, in
collera dacché era venuto il duca a spadroneggiare, non si erano fatti più vedere. Ma
Nardo aveva voluto accompagnare il padrone sino alle ultime case del paese. In via della
Masera si udì gridare: - Fermate! fermate! - E apparve Diodata, ché voleva salutare don
Gesualdo l'ultima volta, lì, davanti il suo uscio. Però, giunta vicino a lui, non seppe
trovare le parole, e rimaneva colle mani allo sportello, accennando col capo.
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- Ah, Diodata... Sei venuta a darmi il buon viaggio?... - disse lui.
Essa fece segno di sì, di sì, cercando di sorridere, e gli occhi le si riempirono di
lagrime.
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- Povera Diodata! Tu sola ti rammenti del tuo padrone...
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Affacciò il capo allo sportello, cercando forse degli altri, ma siccome
pioveva lo tirò indietro subito.
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- Guarda che fai!... sotto la pioggia... a capo scoperto!... E' il tuo
vizio antico! Ti rammenti, eh, ti rammenti?
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- Sissignore, - rispose lei semplicemente, e continuava ad accompagnare
le parole coi cenni del capo. - Sissignore, fate buon viaggio, vossignoria.
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Si staccò pian piano dalla lettiga, quasi a malincuore, e tornò a
casa, fermandosi sull'uscio, umile e triste. Don Gesualdo s'accorse allora di mastro Nardo
che l'aveva seguìto sin lì, e mise mano alla tasca per regalargli qualche baiocco.
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- Scusate, mastro Nardo... non ne ho... sarà per un'altra volta, se
torniamo a vederci, eh?... se torniamo a vederci... - E si buttò all'indietro, col cuore
gonfio di tutte quelle cose che si lasciava dietro le spalle, la viottola fangosa per cui
era passato tante volte, il campanile perduto nella nebbia, i fichi d'India rigati dalla
pioggia che sfilavano di qua e di là della lettiga.
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|
V
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Parve a don Gesualdo d'entrare in un altro mondo, allorché fu in casa
della figliuola. Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto
cortinaggi e tappeti che non si sapeva dove mettere i piedi - sin dallo scalone di marmo -
e il portiere, un pezzo grosso addirittura, con tanto di barba e di
soprabitone, vi
squadrava dall'alto al basso, accigliato, se per disgrazia avevate una faccia che non lo
persuadesse, e vi gridava dietro dal suo gabbione: - C'è lo stoino per pulirsi le scarpe!
- Un esercito di mangiapane, staffieri e camerieri, che sbadigliavano a bocca chiusa,
camminavano in punta di piedi, e vi servivano senza dire una parola o fare un passo di
più, con tanta degnazione da farvene passar la voglia. Ogni cosa regolata a suon di
campanello, con un cerimoniale di messa cantata - per avere un bicchier d'acqua, o per
entrare nelle stanze della figliuola. Lo stesso duca, all'ora di pranzo, si vestiva come
se andasse a nozze.
|
Il povero don Gesualdo, nei primi giorni, s'era fatto animo per
contentare la figliuola, e s'era messo in gala anche lui per venire a tavola, legato e
impastoiato, con un ronzìo nelle orecchie, le mani esitanti, l'occhio inquieto, le fauci
strette da tutto quell'apparato, dal cameriere che gli contava i bocconi dietro le spalle,
e di cui ogni momento vedevasi il guanto di cotone allungarsi a tradimento e togliervi la
roba dinanzi. L'intimidiva pure la cravatta bianca del genero, le credenze alte e
scintillanti come altari, e la tovaglia finissima, che s'aveva sempre paura di lasciarvi
cadere qualche cosa. Tanto che macchinava di prendere a quattr'occhi la figliuola, e dirle
il fatto suo. Il duca, per fortuna, lo tolse d'impiccio, dicendo ad Isabella, dopo il
caffè, col sigaro in bocca e il capo appoggiato alla spalliera del seggiolone:
|
- Mia cara, d'oggi innanzi credo che sarebbe meglio far servire papà
nelle sue stanze. Avrà le sue ore, le sue abitudini... Poi, col regime speciale che
richiede il suo stato di salute...
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- Certo, certo, - balbettò don Gesualdo. - Stavo per dirvelo... Sarei
più contento anch'io... Non voglio essere d'incomodo...
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- No. Non dico per questo. Voi ci fate a ogni modo piacere, caro mio.
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Egli si mostrava proprio un buon figliuolo col suocero. Gli riempiva il
bicchierino; lo incoraggiava a fumare un sigaro; lo assicurava infine che gli trovava
miglior cera, da che era arrivato a Palermo, e il cambiamento d'aria e una buona cura
l'avrebbero guarito del tutto. Poi gli toccò anche il tasto degli interessi. Mostravasi
giudizioso; cercava il modo e la maniera d'avere il piacere di tenersi il suocero in casa
un pezzo, senza timore che gli affari di lui andassero a rotta di collo... Una procura
generale... una specie d'alter ego... Don Gesualdo si sentì morire il sorriso in bocca.
Non c'era che fare. Il genero, nel viso, nelle parole, sin nel tono della voce, anche
quando voleva fare l'amabile e pigliarvi bel bello, aveva qualcosa che vi respingeva
indietro, e vi faceva cascar le braccia, uno che avesse voluto buttargliele al collo,
proprio come a un figlio, e dirgli:
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- Te'! per la buona parola, adesso! Pazienza il resto! Fai quello che
vuoi!
|
Talché don Gesualdo scendeva raramente dalla figliuola. Ci si sentiva a
disagio col signor genero; temeva sempre che ripigliasse l'antifona dell'alter ego. Gli
mancava l'aria, lì fra tutti quei ninnoli. Gli toccava chiedere quasi licenza al
servitore che faceva la guardia in anticamera per poter vedere la sua figliuola, e
scapparsene appena giungeva qualche visita. L'avevano collocato in un quartierino al pian
di sopra, poche stanze che chiamavano la foresteria, dove Isabella andava a vederlo ogni
mattina, in veste da camera, spesso senza neppure mettersi a sedere, amorevole e
premurosa, è vero, ma in certo modo che al pover'uomo sembrava d'essere davvero un
forestiero. Essa alcune volte era pallida così che pareva non avesse chiuso occhio neppur
lei. Aveva una certa ruga fra le ciglia, qualcosa negli occhi, che a lui, vecchio e
pratico del mondo, non andavan punto a genio. Avrebbe voluto pigliarsi anche lei fra le
braccia, stretta stretta, e chiederle piano in un orecchio: - Cos'hai?... dimmelo!...
Confidati a me che dei guai ne ho passati tanti, e non posso tradirti!...
|
Ma anch'essa ritirava le corna come fa la lumaca. Stava chiusa, parlava
di rado anche della mamma, quasi il chiodo le fosse rimasto lì, fisso... accusando lo
stomaco peloso dei Trao, che vi chiudevano il rancore e la diffidenza, implacabili!
|
Perciò lui doveva ricacciare indietro le parole buone e anche le
lagrime, che gli si gonfiavano grosse grosse dentro, e tenersi per sé i propri guai.
Passava i giorni malinconici dietro l'invetriata, a veder strigliare i cavalli e lavare le
carrozze, nella corte vasta quanto una piazza. Degli stallieri, in manica di camicia e coi
piedi nudi negli zoccoli, cantavano, vociavano, barattavano delle chiacchiere e degli
strambotti coi domestici, i quali perdevano il tempo alle finestre, col grembialone sino
al collo, o in panciotto rosso, strascicando svogliatamente uno strofinaccio fra le mani
ruvide, con le barzellette sguaiate, dei musi beffardi di mascalzoni ben rasi e ben
pettinati che sembravano togliersi allora una maschera. I cocchieri poi, degli altri pezzi
grossi, stavano a guardare, col sigaro in bocca e le mani nelle tasche delle giacchette
attillate, discorrendo di tanto in tanto col guardaportone che veniva dal suo casotto a
fare una fumatina, accennando con dei segni e dei versacci alle cameriere che si vedevano
passare dietro le invetriate dei balconi, oppure facevano capolino provocanti, sfacciate,
a buttar giù delle parolacce e delle risate di male femmine con certi visi da Madonna.
Don Gesualdo pensava intanto quanti bei denari dovevano scorrere per quelle mani; tutta
quella gente che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che egli le aveva
dato, su l'Alìa e su Donninga, le belle terre che aveva covato cogli occhi tanto tempo,
sera e mattina, e misurato col desiderio, e sognato la notte, e acquistato palmo a palmo,
giorno per giorno, togliendosi il pane di bocca: le povere terre nude che bisognava arare
e seminare; i mulini, le case, i magazzini che aveva fabbricato con tanti stenti, con
tanti sacrifici, un sasso dopo l'altro. La Canziria, Mangalavite, la casa, tutto, tutto
sarebbe passato per quelle mani. Chi avrebbe potuto difendere la sua roba dopo la sua
morte, ahimè, povera roba! Chi sapeva quel che era costata? Il signor duca, lui, quando
usciva di casa, a testa alta, col sigaro in bocca e il pomo del bastoncino nella tasca del
pastrano, fermavasi appena a dare un'occhiata ai suoi cavalli, ossequiato come il
Santissimo Sagramento, le finestre si chiudevano in fretta, ciascuno correva al suo posto,
tutti a capo scoperto, il guardaportone col berretto gallonato in mano, ritto dinanzi alla
sua vetrina, gli stallieri immobili accanto alla groppa delle loro bestie, colla striglia
appoggiata all'anca, il cocchiere maggiore, un signorone, piegato in due a passare la
rivista e prendere gli ordini: una commedia che durava cinque minuti. Dopo, appena lui
voltava le spalle, ricominciava il chiasso e la baraonda, dalle finestre, dalle arcate del
portico che metteva alle scuderie, dalla cucina che fumava e fiammeggiava sotto il tetto,
piena di sguatteri vestiti di bianco, quasi il palazzo fosse abbandonato in mano a un'orda
famelica, pagata apposta per scialarsela sino al tocco della campana che annunziava
qualche visita - un'altra solennità anche quella. - La duchessa certi giorni si metteva
in pompa magna ad aspettare le visite come un'anima di purgatorio. Arrivava di tanto in
tanto una carrozza fiammante; passava come un lampo dinanzi al portinaio, che aveva appena
il tempo di cacciare la pipa nella falda del soprabito e di appendersi alla campana; delle
dame e degli staffieri in gala sguisciavano frettolosi sotto l'alto vestibolo, e dopo
dieci minuti tornavano ad uscire per correre altrove a rompicollo; proprio della gente che
sembrava presa a giornata per questo. Lui invece passava il tempo a contare le tegole
dirimpetto, a calcolare, con l'amore e la sollecitudine del suo antico mestiere, quel che
erano costate le finestre scolpite, i pilastri massicci, gli scalini di marmo, quei mobili
sontuosi, quelle stoffe, quella gente, quei cavalli che mangiavano, e inghiottivano il
denaro come la terra inghiottiva la semente, come beveva l'acqua, senza renderlo però,
senza dar frutto, sempre più affamati, sempre più divoranti, simili a quel male che gli
consumava le viscere. Quante cose si sarebbero potute fare con quel denaro! Quanti buoni
colpi di zappa, quanto sudore di villani si sarebbero pagati! Delle fattorie, dei villaggi
interi da fabbricare... delle terre da seminare, a perdita di vista... E un esercito di
mietitori a giugno, del grano da raccogliere a montagne, del denaro a fiumi da
intascare!... Allora gli si gonfiava il cuore al vedere i passeri che schiamazzavano su
quelle tegole, il sole che moriva sul cornicione senza scendere mai giù sino alle
finestre. Pensava alle strade polverose, ai bei campi dorati e verdi, al cinguettìo lungo
le siepi, alle belle mattinate che facevano fumare i solchi!... Oramai!... oramai!...
|
Adesso era chiuso fra quattro mura, col brusìo incessante della città
negli orecchi, lo scampanìo di tante chiese che gli martellava sul capo, consumato
lentamente dalla febbre, roso dai dolori che gli facevano mordere il guanciale, a volte,
per non seccare il domestico che sbadigliava nella stanza accanto. Nei primi giorni, il
cambiamento, l'aria nuova, forse anche qualche medicina indovinata, per sbaglio, avevano
fatto il miracolo, gli avevano fatto credere di potersi guarire. Dopo era ricaduto peggio
di prima. Neppure i migliori medici di Palermo avevano saputo trovar rimedio a quella
malattia scomunicata! tal quale come i medici ignoranti del suo paese, e costavano di
più, per giunta! Venivano l'uno dopo l'altro, dei dottoroni che tenevano carrozza, e si
facevano pagare anche il servitore che lasciavano in anticamera. L'osservavano, lo
tastavano, lo interrogavano quasi avessero da fare con un ragazzo o un contadino. Lo
mostravano agli apprendisti come il zanni fa vedere alla fiera il gallo con le corna,
oppure la pecora con due code, facendo la spiegazione con parole misteriose. Rispondevano
appena, a fior di labbra, se il povero diavolo si faceva lecito di voler sapere che
malattia covava in corpo, quasi egli non avesse che vederci, colla sua pelle! Gli avevano
fatto comperare anch'essi un'intera farmacia: dei rimedi che si contavano a gocce, come
l'oro, degli unguenti che si spalmavano con un pennello e aprivano delle piaghe vive, dei
veleni che davano delle coliche più forti e mettevano come del rame nella bocca, dei
bagni e dei sudoriferi che lo lasciavano sfinito, senza forza di muovere il capo, vedendo
già l'ombra della morte da per tutto.
|
- Signori miei, a che giuoco giuochiamo? - voleva dire. - Allora, se è
sempre la stessa musica, me ne torno al mio paese...
|
Almeno laggiù lo rispettavano pei suoi denari, e lo lasciavano sfogare,
se pretendeva di sapere come li spendeva per la sua salute. Mentre qui gli pareva d'essere
all'ospedale, curato per carità. Doveva stare in suggezione anche del genero che veniva
ad accompagnare i pezzi grossi chiamati a consulto. Parlavano sottovoce fra di loro,
voltandogli le spalle, senza curarsi di lui che aspettava a bocca aperta una parola di
vita o di morte. Oppure gli facevano l'elemosina di una risposta che non diceva niente, di
un sorrisetto che significava addirittura - Arrivederci in Paradiso, buon uomo! - C'erano
persino di quelli che gli voltavano le spalle, come si tenessero offesi. Egli indovinava
che doveva essere qualche cosa di grave, al viso stesso che facevano i medici, alle alzate
di spalle scoraggianti, alle lunghe fermate col genero, e al borbottìo che durava un
pezzo fra di loro in anticamera. Infine non si tenne più. Un giorno che quei signori
tornavano a ripetere la stessa pantomima, ne afferrò uno per la falda, prima d'andarsene.
|
- Signor dottore, parlate con me! Sono io il malato, infine! Non sono un
ragazzo. Voglio sapere di che si tratta, giacché si giuoca sulla mia pelle!
|
Colui invece cominciò a fare una scenata col duca, quasi gli si fosse
mancato di rispetto in casa sua. Ci volle del bello e del buono per calmarlo, e perché
non piantasse lì malato e malattia una volta per sempre. Don Gesualdo udì che gli
dicevano sottovoce: - Compatitelo... Non conosce gli usi... E' un uomo primitivo... nello
stato di natura... - Sicché il poveraccio dovette mandar giù tutto, e rivolgersi alla
figliuola, per sapere qualche cosa.
|
- Che hanno detto i medici? Dimmi la verità?... E' una malattia grave,
di'?...
|
E come le vide gonfiare negli occhi le lagrime, malgrado che tentasse di
cacciarle indietro, infuriò. Non voleva morire. Si sentiva un'energia disperata d'alzarsi
e andarsene via da quella casa maledetta.
|
- Non dico per te... Hai fatto di tutto... Non mi manca nulla... Ma io
non ci sono avvezzo, vedi... Mi par di soffocare qui dentro...
|
Neppur lei non ci stava bene in quella casa. Il cuore glielo diceva, al
povero padre. Sembrava che fossero in perfetto accordo, marito e moglie; discorrevano
cortesemente fra di loro, dinanzi ai domestici; il duca passava quasi sempre una
mezz'oretta nel salottino della moglie dopo pranzo; andava a darle il buon giorno ogni
mattina, prima della colazione; per i Morti, a Natale, per la festa di Santa Rosalia, e
nella ricorrenza del suo onomastico o dell'anniversario del loro matrimonio, le regalava
dei gioielli, ch'essa aveva fatto ammirare al babbo, in prova del bene che le voleva il
marito.
|
- Ah, ah... capisco... dev'essere costata una bella somma!... però non
sei contenta... si vede benissimo che non sei contenta....
|
Leggeva in fondo agli occhi di lei un altro segreto, un'altra ansietà
mortale, che non la lasciava neppure quand'era vicino a lui, che le dava dei sussulti,
allorché udiva un passo all'improvviso, o suonava ad ora insolita la campana che
annunziava il duca; e dei pallori mortali, certi sguardi rapidi in cui gli pareva di
scorgere un rimprovero. Alcune volte l'aveva vista giungere correndo, pallida, tremante
come una foglia, balbettando delle scuse. Una notte, tardi, mentre era in letto coi suoi
guai, aveva udito un'agitazione insolita nel piano di sotto, degli usci che sbattevano, la
voce della cameriera che strillava, quasi chiamasse aiuto, una voce che lo fece rizzare
spaventato sul letto. Ma sua figlia il giorno dopo non gli volle dir nulla; sembrava anzi
che le sue domande l'infastidissero. Misuravano fino le parole e i sospiri in quella casa,
ciascuno chiudendosi in corpo i propri guai, il duca col sorriso freddo, Isabella con la
buona grazia che le aveva fatto insegnare in collegio. Le tende e i tappeti soffocavano
ogni cosa. Però, quando se li vedeva dinanzi a lui, marito e moglie, così tranquilli,
che nessuno avrebbe sospettato quel che covava sotto, si sentiva freddo nella schiena.
|
Del resto, che poteva farci? Ne aveva abbastanza dei suoi guai. Il
peggio di tutti stava lui che aveva la morte sul collo. Quand'egli avrebbe chiuso gli
occhi tutti gli altri si sarebbero data pace, come egli stesso s'era data pace dopo la
morte di suo padre e di sua moglie. Ciascuno tira l'acqua al suo mulino. Ne aveva data
tanta dell'acqua per far macinare gli altri! Speranza, Diodata, tutti gli altri... un vero
fiume. Anche lì, in quel palazzo di cuccagna, era tutto opera sua; e intanto non trovava
riposo fra i lenzuoli di tela fine, sui guanciali di piume; soffocava fra i cortinaggi e
le belle stoffe di seta che gli toglievano il sole. I denari che spendeva per far andare
la baracca, i rumori della corte, il cameriere che gli tenevano dietro l'uscio a contargli
i sospiri, insino al cuoco che gli preparava certe brode insipide che non riusciva a
mandar giù, ogni cosa l'attossicava; non digeriva più neanche i bocconi prelibati, erano
tanti chiodi nelle sue carni.
|
- Mi lasciano morir di fame, capisci! - lagnavasi colla figliuola, alle
volte, cogli occhi accesi dalla disperazione. - Non è per risparmiare... Sarà della roba
buona... Ma il mio stomaco non c'è avvezzo... Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli
occhi dove son nato!
|
L'idea della morte ora non lo lasciava più; si tradiva nelle domande
insidiose, nelle occhiate piene di sospetto, anche nella preoccupazione affannosa di
dissimularla in vari modi. Adesso non aveva più suggezione di nessuno, e afferrava chi
gli capitava per domandare:
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- Voglio sapere la verità, signori cari... Per regolare le mie cose...
i miei interessi... - E se cercavano di rassicurarlo, dicendogli che non c'era nulla di
grave... di serio... pel momento... egli tornava ad insistere, ad appuntare gli occhi,
furbo, per scavar terreno: - E' che ho tanto da fare laggiù, al mio paese, signori
miei... capite!... Non posso mica darmi bel tempo, io!... Bisogna che pensi a tutto, se no
c'è la rovina!...
|
Poi spiegava di dove gli era venuto quel male: - Sono stati i
dispiaceri!... i bocconi amari!... ne ho avuti tanti! Vedete, me n'è rimasto il lievito
qui dentro!... - Era tornato diffidente. Temeva che non vedessero l'ora di levarselo di
torno, per risparmiar la spesa e impadronirsi del fatto suo. Cercava di rassicurar tutti
quanti, col sorriso affabile:
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- Non guardate a spesa... Posso pagare... Mio genero lo sa... Tutto ciò
che occorre... Non saranno denari persi... Se campo, ne guadagno ancora tanti dei
denari... - Cogli occhi lucenti, cercava d'ingraziarsi la sua figliuola stessa. Sapeva che
la roba, ahimè, mette l'inferno anche fra padri e figli. La pigliava in parola.
Balbettava, accarezzandola come quand'era bambina, spiandola di sottecchi intanto, col
cuore alla gola:
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- Qui cosa mi manca? Ho tutto per guarire... Tutto quello che ci vorrà
spenderemo, non è vero?
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Ma il male lo vinceva e gli toglieva ogni illusione. In quei momenti di
scoraggiamento il pover'uomo pensava a voce alta:
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- A che mi serve?... a che giova tutto ciò?... Neppure a tua madre è
giovato!
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Un giorno venne a fargli visita l'amministratore del duca, officioso,
tutto gentilezze come il suo padrone quando apparecchiavasi a dare la botta. S'informò
della salute; gli fece le condoglianze per la malattia che tirava in lungo. Capiva bene,
lui, un uomo d'affari come don Gesualdo... che dissesto... quanti danni... le
conseguenze... un'azienda così vasta... senza nessuno che potesse occuparsene sul
serio... Infine offrì d'incaricarsene lui... per l'interesse che portava alla casa...
alla signora duchessa... Del signor duca era buon servo da tanti anni... Sicché prendeva
a cuore anche gli interessi di don Gesualdo. Proponeva d'alleggerirlo d'ogni carico...
finché si sarebbe guarito... se credeva... investendolo per procura...
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A misura che colui sputava fuori il veleno, don Gesualdo andava
scomponendosi in viso. Non fiatava, stava ad ascoltarlo, cogli occhi bene aperti, e
intanto ruminava come trarsi d'impiccio. A un tratto si mise a urlare e ad agitarsi quasi
fosse colto di nuovo dalla colica, quasi fosse giunta l'ultima sua ora, e non udisse e non
potesse più parlare. Balbettò solo, smaniando:
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- Chiamatemi mia figlia! Voglio veder mia figlia!
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Ma appena accorse lei, spaventata egli non aggiunse altro. Si chiuse in
sè stesso a pensare come uscire dal malo passo, torvo, diffidente, voltandosi in là per
non lasciarsi scappare qualche occhiata che lo tradisse. Soltanto ne piantò una lunga
lunga addosso a quel galantuomo che se ne andava rimminchionito. Infine, a poco a poco,
finse di calmarsi. Bisognava giuocar d'astuzia per uscire da quelle grinfie. Cominciò a
far segno di sì e di sì col capo, fissando gli occhi amorevoli in volto alla figliuola
allibbita, col sorriso paterno, il fare bonario;
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- Sì... voglio darvi in mano tutto il fatto mio... per alleggerirmi il
carico... Mi farete piacere anzi... nello stato in cui sono... Voglio spogliarmi di
tutto... Già ho poco da vivere... Rimandatemi a casa mia per fare la procura... la
donazione... tutto ciò che vorrete... Lì conosco il notaro... so dove metter le mani...
Ma prima rimandatemi a casa mia... Tutto quello che vorrete, poi!...
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- Ah, babbo, babbo! - esclamò Isabella colle lagrime agli occhi.
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Ma egli sentivasi morire di giorno in giorno. Non poteva più muoversi.
Sembravagli che gli mancassero le forze d'alzarsi dal letto e andarsene via perché gli
toglievano il denaro, il sangue delle vene, per tenerlo sottomano, prigioniero. Sbuffava,
smaniava, urlava di dolore e di collera. E poi ricadeva sfinito, minaccioso, colla schiuma
alla bocca, sospettando di tutto, spiando prima le mani del cameriere se beveva un
bicchiere d'acqua, guardando ciascuno negli occhi per scoprire la verità, per leggervi la
sua sentenza, costretto a ricorrere agli artifizii per sapere qualcosa di quel che gli
premeva.
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- Chiamatemi quell'uomo dell'altra volta... Portatemi le carte da
firmare... E' giusto, ci ho pensato su. Bisogna incaricare qualcuno dei miei interessi,
finchè guarisco...
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Ma adesso coloro non avevano fretta; gli promettevano sempre, dall'oggi
al domani. Lo stesso duca si strinse nelle spalle: come a dire che non serviva più. Un
terrore più grande, più vicino, della morte lo colse a quell'indifferenza. Insisteva,
voleva disporre della sua roba, come per attaccarsi alla vita, per far atto d'energia e di
volontà. Voleva far testamento, per dimostrare a sè stesso ch'era tuttora il padrone. Il
duca finalmente, per chetarlo, gli disse che non occorreva, poiché non c'erano altri
eredi... Isabella era figlia unica...
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- Ah?... - rispose lui. - Non occorre... è figlia unica?...
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E tornò a ricoricarsi, lugubre. Avrebbe voluto rispondergli che ce
n'erano ancora, degli eredi nati prima di lei, sangue suo stesso. Gli nascevano dei
rimorsi, colla bile. Faceva dei brutti sogni, delle brutte facce pallide e irose gli
apparivano la notte; delle voci, degli scossoni lo facevano svegliare di soprassalto, in
un mare di sudore, col cuore che martellava forte. Tanti pensieri gli venivano adesso,
tanti ricordi, tante persone gli sfilavano dinanzi: Bianca, Diodata, degli altri ancora:
quelli non l'avrebbero lasciato morire senza aiuto! Volle un altro consulto, i migliori
medici. Ci dovevano essere dei medici pel suo male, a saperli trovare, a pagarli bene. Il
denaro l'aveva guadagnato apposta, lui! Al suo paese gli avevano fatto credere che
rassegnandosi a lasciarsi aprire il ventre... Ebbene, sì, sì!
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Aspettava il consulto, il giorno fissato, sin dalla mattina, raso e
pettinato, seduto nel letto, colla faccia color di terra, ma fermo e risoluto. Ora voleva
vederci chiaro nei fatti suoi. - Parlate liberamente, signori miei. Tutto ciò che si deve
fare si farà!
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Gli batteva un po' il cuore. Sentiva un formicolìo come di spasimo
anticipato tra i capelli. Ma era pronto a tutto; quasi scoprivasi il ventre, perchè si
servissero pure. Se un albero ha la cancrena addosso, cos'è infine? Si taglia il ramo!
Adesso invece i medici non volevano neppure operarlo. Avevano degli scrupoli, dei ma e dei
se. Si guardavano fra di loro e biasciavano mezze parole. Uno temeva la responsabilità;
un altro osservò che non era più il caso... oramai... Il più vecchio, una faccia di
malaugurio che vi faceva morire prima del tempo, com'è vero Dio, s'era messo già a
confortare la famiglia, dicendo che sarebbe stato inutile anche prima, con un male di
quella sorta...
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- Ah... - rispose don Gesualdo, fattosi rauco a un tratto. - Ah... Ho
inteso...
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E si lasciò scivolare pian piano giù disteso nel letto, trafelato. Non
aggiunse altro, per allora. Stette zitto a lasciarli finire di discorrere. Soltanto voleva
sapere s'era venuto il momento di pensare ai casi suoi. Non c'era più da scherzare
adesso! Aveva tanti interessi gravi da lasciare sistemati... - Taci! taci! - borbottò
rivolto alla figliuola che gli piangeva allato. Colla faccia cadaverica, cogli occhi
simili a due chiodi in fondo alle orbite livide, aspettava la risposta che gli dovevano,
infine. Non c'era da scherzare!
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- No, no... C'è tempo. Simili malattie durano anni e anni... Però...
certo... premunirsi... sistemare gli affari a tempo... non sarebbe male...
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- Ho inteso, - ripetè don Gesualdo col naso fra le coperte. - Vi
ringrazio, signori miei.
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Un nuvolo gli calò sulla faccia e vi rimase. Una specie di rancore,
qualcosa che gli faceva tremare le mani e la voce, e trapelava dagli occhi socchiusi. Fece
segno al genero di fermarsi; lo chiamò dinanzi al letto, a quattr'occhi, da solo a solo.
|
- Finalmente... questo notaro... verrà, sì o no? Devo far
testamento... Ho degli scrupoli di coscienza... Sissignore!... Sono il padrone, sì o
no?... Ah... ah... stai ad ascoltare anche tu?...
|
Isabella andò a buttarsi ginocchioni ai piedi del letto, col viso fra
le materasse, singhiozzando e disperandosi. Il genero lo chetava dall'altra parte. - Ma
sì, ma sì, quando vorrete, come vorrete. Non c'è bisogno di far delle scene... Ecco in
che stato avete messo la vostra figliuola!...
|
- Va bene! - seguitò a borbottare lui. - Va bene! Ho capito!
|
E volse le spalle, tal quale suo padre, buon'anima. Appena fu solo
cominciò a muggire come un bue, col naso al muro. Ma poi se veniva gente, stava zitto.
Covava dentro di sé il male e l'amarezza. Lasciava passare i giorni. Pensava ad
allungarseli piuttosto, a guadagnare almeno quelli, uno dopo l'altro, così come venivano,
pazienza! Finché c'è fiato c'è vita. A misura che il fiato gli andava mancando, a poco
a poco, acconciavasi pure ai suoi guai; ci faceva il callo. Lui aveva le spalle grosse, e
avrebbe tirato in lungo, mercé la sua pelle dura. Alle volte provava anche una certa
soddisfazione, fra sé e sé, sotto il lenzuolo, pensando al viso che avrebbero fatto il
signor duca e tutti quanti, al vedere che lui aveva la pelle dura. Era arrivato ad
affezionarsi ai suoi malanni, li ascoltava, li accarezzava, voleva sentirseli lì, con
lui, per tirare innanzi. I parenti ci avevano fatto il callo anch'essi; avevano saputo che
quella malattia durava anni ed anni, e s'erano acchetati. Così va il mondo, pur troppo,
che passato il primo bollore, ciascuno tira innanzi per la sua via e bada agli affari
propri. Non si lamentava neppure; non diceva nulla, da villano malizioso, per non sprecare
il fiato, per non lasciarsi sfuggire quel che non voleva dire; solamente gli scappavano di
tanto in tanto delle occhiate che significavano assai, al veder la figliuola che gli
veniva dinanzi con quella faccia desolata, e poi teneva il sacco al marito, e lo
incarcerava lì, sotto i suoi occhi, col pretesto dell'affezione, per covarselo, pel
timore che non gli giuocasse qualche tiro nel testamento. Indovinava che teneva degli
altri guai nascosti, lei, e alle volte aveva la testa altrove, mentre suo padre stava
colla morte sul capo. Si rodeva dentro, a misura che peggiorava; il sangue era diventato
tutto un veleno; ostinavasi sempre più, taciturno, implacabile, col viso al muro,
rispondendo solo coi grugniti, come una bestia.
|
Finalmente si persuase ch'era giunta l'ora, e s'apparecchiò a morire da
buon cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi
gomiti, e si rizzò a sedere sul letto. - Senti, - le disse, - ascolta...
|
Era turbato in viso, ma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla
figliuola, e accennava col capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare.
|
- Taci, - riprese, - finiscila. Se cominciamo così non si fa nulla.
|
Ansimava perchè aveva il fiato corto, ed anche per l'emozione. Guardava
intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro
affannato. Ella pure volse verso l'uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la
mano scarna, e trinciò una croce in aria, per significare ch'era finita, e perdonava a
tutti, prima d'andarsene.
|
- Senti... Ho da parlarti... intanto che siamo soli...
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Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no,
di no, colle mani erranti che l'accarezzavano. L'accarezzò anche lui sui capelli,
lentamente, senza dire una parola. Di lì a un po' riprese:
|
- Ti dico di sì. Non sono un ragazzo... Non perdiamo tempo inutilmente.
- Poi gli venne una tenerezza. - Ti dispiace, eh?... ti dispiace a te pure?...
|
La voce gli si era intenerita anch'essa, gli occhi, tristi, s'erano
fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. - Ti ho voluto bene... anch'io...
quanto ho potuto... come ho potuto... Quando uno fa quello che può...
|
Allora l'attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per
vedere se voleva lei pure, e l'abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su
quei bei capelli fini.
|
- Non ti fo male, di'?... come quand'eri bambina?...
|
Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di
amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni
d'interessi, avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per
ricacciarli indietro, e cambiò discorso.
|
- Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso...
|
Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei
capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre
stesse per chiudere gli occhi.
|
- Ma no, parliamone! - insisteva lui. - Sono discorsi
serii. Non ho
tempo da perdere adesso. - Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli
corruscava negli occhi. - Allora vuol dire che non te ne importa nulla... come a tuo
marito...
|
Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al
letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito,
con tutti quei debiti... Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: -
Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!... quando tuo marito torna a proporti di firmare
delle carte!... Lui non sa cosa vuol dire! - Spiegava quel che gli erano costati, quei
poderi, l'Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come
erano venuti a lui, uno dopo l'altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le
vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli
tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli
spuntavano le lagrime agli occhi: - Mangalavite, sai... la conosci anche tu... ci sei
stata con tua madre... Quaranta salme di terreni, tutti alberati!... ti rammenti... i
belli aranci?... anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi
giorni!... 300 migliaia l'anno, ne davano! Circa 300 onze! E la Salonia... dei seminati
d'oro... della terra che fa miracoli... benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!...
|
Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.
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- Basta, - disse poi. - Ho da dirti un'altra cosa... Senti...
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La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l'effetto
che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui
supino che esitava e cercava le parole.
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- Senti!... Ho degli scrupoli di coscienza... Vorrei lasciare qualche
legato a delle persone verso cui ho degli obblighi... Poca cosa... Non sarà molto per te
che sei ricca... Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda... in punto
di morte... se ho fatto qualcosa anch'io per te...
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- Ah, babbo, babbo!... che parole! - singhiozzò Isabella.
|
- Lo farai, eh? lo farai?... anche se tuo marito non volesse...
|
Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli
occhi se l'avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva
quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui
quell'altro segreto, quell'altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E
voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore
come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato,
colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in
sè,
superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare
Motta, com'essa
era Trao, diffidente, ostile, di un'altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse
altro.
|
- Ora fammi chiamare un prete, - terminò con un altro tono di voce. -
Voglio fare i miei conti con Domeneddio.
|
Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di
peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte,
peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto
l'udì agitarsi e smaniare prima dell'alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si
voltò dall'altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non
finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c'era.
|
- Mia figlia! - borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava
più la sua. - Chiamatemi mia figlia!
|
- Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla, - rispose il domestico, e tornò
a coricarsi.
|
Ma non lo lasciava dormire quell'accidente! Un po' erano sibili, e un
po' faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi
udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno
che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle.
Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle
parolacce.
|
- Cos'è? Gli è venuto l'uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?
|
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore
tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di
tornare a dormire gli andò via a un tratto.
|
- Ohi! ohi! Che facciamo adesso? - balbettò grattandosi il capo.
|
Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era
meglio aspettare un po', o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa
sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un
tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e
spalancati. A un tratto s'irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a
imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e
picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a
rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s'affacciò a
prendere una boccata d'aria, fumando.
|
Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo
verso la finestra.
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- Mattinata, eh, don Leopoldo?
|
- E nottata pure! - rispose il cameriere sbadigliando. - M'è toccato a
me questo regalo!
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L'altro scosse il capo, come a chiedere che c'era di nuovo, e don
Leopoldo fece segno che il vecchio se n'era andato, grazie a Dio.
|
- Ah... così... alla chetichella?... - osservò il portinaio che
strascicava la scopa e le ciabatte per l'androne.
|
Degli altri domestici s'erano affacciati intanto, e vollero andare a
vedere. Di lì a un po' la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e
colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto
venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
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- Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica... E
neanche lui... non vi mette più le mani addosso di sicuro...
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- Zitto, scomunicato!... No, ho paura, poveretto... - Ha cessato di
penare.
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- Ed io pure, - soggiunse don Leopoldo.
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Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano -
uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai.
- Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi... Basta, dei morti non si
parla.
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- Si vede com'era nato... - osservò gravemente il cocchiere maggiore. -
Guardate che mani!
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- Già, son le mani che hanno fatto la pappa!... Vedete cos'è nascer
fortunati... Intanto vi muore nella battista come un principe!...
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- Allora, - disse il portinaio, - devo andare a chiudere il portone?
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- Sicuro, eh! E' roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera
della signora duchessa.
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- Fine -
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