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PARTE TERZA
L'Isabellina, prima ancora di compire i cinque anni, fu messa nel Collegio di Maria. Don Gesualdo adesso che aveva delle pietre al sole, e marciava da pari a pari coi meglio del paese, così voleva che marciasse la sua figliuola: imparare le belle maniere, leggere e scrivere, ricamare, il latino dell'uffizio anche, e ogni cosa come la figlia di un barone; tanto più che, grazie a Dio, la dote non le sarebbe mancata, perché Bianca non prometteva di dargli altri eredi. Essa dopo il parto non s'era più rifatta in salute; anzi deperiva sempre più di giorno in giorno, rosa dal baco che s'era mangiati tutti i Trao, e figliuoli era certo che non ne faceva più. Un vero gastigo di Dio. Un affare sbagliato, sebbene il galantuomo avesse la prudenza di non lagnarsene neppure col canonico Lupi che glielo aveva proposto. Quando uno ha fatto la minchioneria, è meglio starsi zitto e non parlarne più, per non darla vinta ai nemici. - Nulla, nulla gli aveva fruttato quel matrimonio; né la dote, né il figlio maschio, né l'aiuto del parentado, e neppure ciò che gli dava prima Diodata, un momento di svago un'ora di buonumore, come il bicchiere di vino a un pover'uomo che ha lavorato tutto il giorno, là! Neppur quello! - Una moglie che vi squagliava fra le mani, che vi faceva gelare le carezze, con quel viso, con quegli occhi, con quel fare spaventato, come se volessero farla cascare in peccato mortale ogni volta e il prete non ci avesse messo su tanto di croce prima quand'ella aveva detto di sì... Bianca non ci aveva colpa. Era il sangue della razza che si rifiutava. Le pesche non si innestano sull'olivo. Ella, poveretta, chinava il viso, arrivava ad offrirlo anzi, tutto rosso, per ubbidire al comandamento di Dio, come fosse pagata per farlo... Ma egli non si lasciava illudere, no. Era villano, ma aveva il naso fino di villano pure! E aveva il suo orgoglio anche lui. L'orgoglio di quello che aveva saputo guadagnarsi, colle sue mani, tutto opera sua, quei lenzuoli di tela fine in cui dormivano voltandosi le spalle, e quei bocconi buoni che doveva mangiare in punta di forchetta, sotto gli occhi della Trao... Almeno in casa sua voleva comandar le feste. E se Domeneddio l'aveva gastigato giusto nei figliuoli che voleva mettere al mondo secondo la sua legge, dandogli una bambina invece dell'erede legittimo che aspettava, Isabella almeno doveva possedere tutto ciò che mancava a lui, essere signora di nome e di fatto. Bianca, quasi indovinasse d'aver poco da vivere, non avrebbe voluto separarsi dalla sua figliuoletta. Ma il padrone era lui, don Gesualdo. Egli era buono, amorevole, a modo suo; non le faceva mancare nulla, medici, speziali, tale e quale come se gli avesse portato una grossa dote. - Bianca non aveva parole per ringraziare Iddio quando paragonava la casa in cui il Signore l'aveva fatta entrare con quella in cui era nata. Lì suo fratello stesso desiderava di giorno il pane e di notte le coperte... Sarebbe morto di stenti se i suoi parenti non l'avessero aiutato con bella maniera, senza farglielo capire. Soltanto da lei don Ferdinando non voleva accettare checchessia, mentre don Gesualdo non gli avrebbe fatto mancar nulla, col cuore largo quanto un mare, quell'uomo! Gli stessi parenti di lei glielo dicevano: - Tu non hai parole per ringraziare Dio e tuo marito. Lascia fare a lui ch'è il padrone, e cerca il meglio della tua figliuola. Poi considerava ch'era il Signore che la puniva, che non voleva quella povera innocente nella casa di suo marito, e la notte inzuppava di lagrime il guanciale. Pregava Iddio di darle forza, e si consolava alla meglio pensando che soffriva in penitenza dei suoi peccati. Don Gesualdo, che aveva tante altre cose per la testa, tanti interessi grossi sulle spalle, ed era abituato a vederla sempre così, con quel viso, non ci badava neppure. Qualche volta che la vedeva alzarsi più smorta, più disfatta del solito, le diceva per farle animo: - Vedrai che quando avrai messo in collegio la tua bambina sarai contenta tu pure. E' come strapparsi un dente. Tu non puoi badare alla tua figliuola, colla poca salute che hai. E bisogna che quando sarà grande ella sappia tutto ciò che sanno tante altre che sono meno ricche di lei. I figliuoli bisogna avvezzarli al giogo da piccoli, ciascuno secondo il suo stato... Lo so io!... E non ho avuto chi mi aiutasse, io! Quella piccina è nata vestita. Nondimeno, all'ultimo momento vi furono lagrime e piagnistei, quando accompagnarono l'Isabellina al parlatorio del monastero. Bianca s'era confessata e comunicata. Ascoltò la messa ginocchioni, sentendosi mancare, sentendosi strappare un'altra volta dalle viscere la sua creatura che le si aggrappava al collo e non voleva lasciarla. Don Gesualdo non guardò a spesa per far stare contenta Isabellina in collegio: dolci, libri colle figure, immagini di santi, noci col bambino Gesù di cera dentro, un presepio del Bongiovanni che pigliava un'intera tavola: tutto ciò che avevano le figlie dei primi signori, la sua figliuola l'aveva; e i meglio bocconi, le primizie che offriva il paese, le ciriegie e le albicocche venute apposta da lontano. Le altre ragazzette guardavano con tanto d'occhi, e soffocavano dei sospiri grossi così. La minore delle Zacco, e le Mèndola di seconda mano, le quali dovevano contentarsi delle cipolle e delle olive nere che passava il convento a merenda, si rifacevano parlando delle ricchezze che possedevano a casa e nei loro poderi. Quelle che non avevano né casa né poderi, tiravano in ballo il parentado nobile, il Capitano Giustiziere ch'era fratello della mamma, la zia baronessa che aveva il cacciatore colle penne, i cugini del babbo che possedevano cinque feudi l'uno attaccato all'altro, nello stato di Caltagirone. Ogni festa, ogni Capo d'anno, come la piccola Isabella riceveva altri regali più costosi, un crocifisso d'argento, un rosario coi gloriapatri d'oro, un libro da messa rilegato in tartaruga per imparare a leggere, nascevano altre guerricciuole, altri dispettucci, delle alleanze fatte e disfatte a seconda di un dolce e di un'immagine data o rifiutata. Si vedevano degli occhietti già lucenti d'alterigia e di gelosia, dei visetti accesi, dei piagnistei, che andavano poi a sfogarsi nell'orecchio delle mamme, in parlatorio. Fra tutte quelle piccine, in tutte le famiglie, succedeva lo stesso diavoleto che mastro-don Gesualdo aveva fatto nascere nei grandi e nel paese. Non si sapeva più chi poteva spendere e chi no. Una gara fra i parenti a buttare il denaro in frascherie, e una confusione generale fra chi era stato sempre in prima fila, e chi veniva dopo. Quelli che non potevano, proprio, o si seccavano a spendere l'osso del collo pel buon piacere di mastro-don Gesualdo, si lasciavano scappare contro di lui certe allusioni e certi motteggi che fermentavano nelle piccole teste delle educande. Alla guerra intestina pigliavano parte anche le monache, secondo le relazioni, le simpatie, il partito che sosteneva oppure voleva rovesciare la superiora. Ci si accaloravano fin la portinaia, fin le converse che si sentivano umiliate di dover servire senz'altro guadagno anche la figliuola di mastro-don Gesualdo, uno venuto su dal nulla, come loro, arricchito di ieri. Le nimicizie di fuori, le discordie, le lotte d'interessi e di vanità, passavano la clausura, occupavano le ore d'ozio, si sfogavano fin là dentro in pettegolezzi, in rappresaglie, in parole grosse. - Sai come si chiama tuo padre? mastro-don Gesualdo. - Sai cosa succede a casa tua? che hanno dovuto vendere una coppia di buoi per seminare le terre. - Tua zia Speranza fila stoppa per conto di chi la paga, e i suoi figliuoli vanno scalzi. - A casa tua c'è stato l'usciere per fare il pignoramento. - La piccola Alimena arrivò a nascondersi nella scala del campanile, una domenica, per vedere se era vero che il padre d'Isabella portasse la berretta. Egli trovava la sua figliuoletta ancora rossa, col petto gonfio di singhiozzi, volgendo il capo timorosa di veder luccicare dietro ogni grata gli occhietti maliziosi delle altre piccine, guardandogli le mani per vedere se davvero erano sporche di calcina, tirandosi indietro istintivamente quando nel baciarla la pungeva colla barba ispida. Tale e quale sua madre. - Così il pesco non s'innesta all'ulivo. - Tante punture di spillo; la stessa cattiva sorte che gli aveva attossicato sempre ogni cosa giorno per giorno; la stessa guerra implacabile ch'era stato obbligato a combattere sempre contro tutto e contro tutti; e lo feriva sin lì, nell'amore della sua creatura. Stava zitto, non lagnavasi, perché non era un minchione e non voleva far ridere i nemici; ma intanto gli tornavano in mente le parole di suo padre, gli stessi rancori, le stesse gelosie. Poi rifletteva che ciascuno al mondo cerca il suo interesse, e va per la sua via. Così aveva fatto lui con suo padre, così faceva sua figlia. Così dev'essere. Si metteva il cuore in pace, ma gli restava sempre una spina in cuore. Tutto ciò che aveva fatto e faceva per la sua figliuola l'allontanava appunto da lui: i denari che aveva speso per farla educare come una signora, le compagne in mezzo alle quali aveva voluto farla crescere, le larghezze e il lusso che seminavano la superbia nel cuore della ragazzina, il nome stesso che le aveva dato maritandosi a una Trao - bel guadagno che ci aveva fatto! - La piccina diceva sempre: - Io son figlia della Trao. Io mi chiamo Isabella Trao. La guerra si riaccese più viva fra le ragazze quando si maritò don Ninì Rubiera: - S'è vero che siete parenti, perché tuo zio non ti ha mandato i confetti? Vuol dire che voialtri non vi vogliono per parenti. - L'Isabellina, che rispondeva già come una grande, ribatté: - Mio padre me li comprerà lui i confetti. Ci siamo guastati coi Rubiera perché ci devono tanti denari. - La figlia della ceraiuola, ch'era del suo partito, aggiunse tante altre storie: - Il baronello era uno spiantato. La Margarone non aveva più voluto saperne. Sposava donna Giuseppina Alòsi più vecchia di lui, perché non aveva trovato altro, per amor dei denari: tutto ciò che narravasi nella bottega di sua madre, in ogni caffè, in ogni spezieria, di porta in porta. Nel paese non si parlava d'altro che del matrimonio di don Ninì Rubiera. - Un matrimonio di convenienza! - diceva la signora Capitana che parlava sempre in punta di forchetta. Cogli anni, la Capitana aveva preso anche i vizii del paese; occupavasi dei fatti altrui ora che non aveva da nasconderne dei propri. Allorchè incontrava il cavalier Peperito gli faceva un certo visetto malizioso che la ringiovaniva di vent'anni, dei sorrisi che volevano indovinare molte cose, scrollando il capo, offrendosi graziosamente ad ascoltare le confidenze e gli sfoghi gelosi, minacciando il cavaliere col ventaglio, come a dirgli ch'era stato un gran discolaccio lui, e se si lasciava adesso portar via l'amante era segno che ci dovevano essere state le sue buone ragioni... prima o poi... - No! - ribatteva Peperito fuori della grazia di Dio. - Né prima né poi! Questo potete andare a dirglielo a donna Giuseppina! Se non ho potuto comandare da padrone non voglio servire nemmeno da comodino, capite?... fare il gallo di razza... capite? Su di ciò donna Giuseppina potrà mettersi il cuore in pace! Adesso sciorinava in piazza tutte le porcherie dell'Alòsi, che se vi mandava a regalare per miracolo un paniere d'uva voleva restituito il paniere; e vendeva sottomano le calze che faceva, delle calze da serva grosse un dito, - essa gliele aveva fatte anche vedere sulla forma per stuzzicarlo... per strappargli ciò che faceva comodo a lei... Ma lui, no!... Insomma, andava raccontandone di cotte e di crude. Corsero anche delle sante legnate al Caffè dei Nobili. Ciolla gli stava alle calcagna per raccogliere i pettegolezzi e portarli in giro alla sua volta. Un giorno poi fu una vera festa per lui, quando si vide arrivare in paese la signora Aglae che veniva insieme al signor Pallante a fare uno scandalo contro il barone Rubiera, a riscuotere ciò che le spettava, se il seduttore non voleva vedersela comparire dinanzi all'altare. Essa giungeva apposta da Modica, sputando fiele, incerettata, dipinta, carica di piume di gallo e di pezzi di vetro, tirandosi dietro la prova innocente della birbonata di don Ninì, una bambinella ch'era un amore. Così la gente diceva che don Ninì era sempre stato un donnaiuolo, e se sposava l'Alòsi, che avrebbe potuto essergli madre, ci dovevano essere interessi gravi. Chi spiegava la cosa in un modo e chi in un altro. Il baronello, quelli che s'affrettarono a fargli i mirallegro onde tirargli di bocca la verità vera, se li levò dai piedi in poche parole. La Sganci che aveva combinato il negozio stava zitta colle amiche le quali andavano apposta a farle visita. Don Gesualdo ne sapeva forse più degli altri, ma stringevasi nelle spalle e se la cavava con simili risposte: - Che volete? Ciascuno fa il suo interesse. Vuol dire che il barone Rubiera ci ha trovato il suo vantaggio a sposare la signora Alòsi. La verità era che don Ninì aveva dovuto pigliarsi l'Alòsi per salvare quel po' di casa che don Gesualdo voleva espropriargli. E' vero che adesso era diventato giudizioso, tutto dedito agli affari; ma sua madre, sepolta viva nel seggiolone non lo lasciava padrone di un baiocco; si faceva dar conto di tutto; voleva che ogni cosa passasse sotto i suoi occhi; senza poter parlare, senza potersi muovere, si faceva ubbidire dalla sua gente meglio di prima. E attaccata alla sua roba come un'ostrica, ostinandosi a vivere per non pagare. Il debito intanto ingrossava d'anno in anno: una cosa che il povero don Ninì ci perdeva delle nottate intere, senza poter chiudere occhio, alle volte: e alla scadenza, capitale e usura, rappresentavano una bella somma. Il canonico Lupi, che andò in nome del baronello a chiedere dilazione al pagamento, trovò don Gesualdo peggio di un muro: - A che giuoco giochiamo canonico mio? Sono più di nove anni che non vedo né frutti né capitale. Ora mi serve il mio denaro, e voglio esser pagato. Don Ninì pel bisogno scese anche all'umiliazione d'andare a pregare la cugina Bianca, dopo tanto tempo. La prese appunto da lontano. - Tanto tempo che non s'erano visti! Lui non aveva faccia di comparirle dinanzi, in parola d'onore! Non cercava di scolparsi. Era stato un ragazzaccio. Ora aveva aperto gli occhi, troppo tardi, quando non c'era più rimedio, quando si trovava sulle spalle il peso dei suoi errori. Ma proprio non poteva pagare in quel momento. - Son galantuomo. Ho di che pagare infine. Tuo marito sarà pagato sino all'ultimo baiocco. Ma in questo momento proprio non posso! Tu sai com'è fatta tua zia! che testa dura! Ne abbiamo avuti dei dispiaceri per quella testa dura! Ma infine non può campare eternamente, poveretta, com'è ridotta... Bianca era rimasta senza fiato al primo vederlo, senza parole, facendosi ora pallida e ora rossa. Non sapeva che dire, balbettava, sudava freddo, aveva una convulsione nelle mani che cercava di dissimulare, stirando macchinalmente le due cocche del grembiule. A un tratto ebbe uno sbocco di sangue. - Cos'è? cos'è? Qualcosa alle gengive? Ti sei morsicata la lingua? - No, - rispose lei. - Mi viene di tanto in tanto. L'aveva anche don Diego, ti rammenti? Non è nulla. - Bene, bene. Intanto fammi questo piacere; parlane a tuo marito. In questo momento proprio non posso... Ma son galantuomo, mi pare!... Mia madre, da qui a cent'anni, non ha a chi lasciare tutto il suo. Bianca cercava di scusarsi. - Suo marito era il padrone. Faceva tutto di testa propria, lui. Non voleva che gli mettessero il naso nelle sue cose. - Allora perché sei sua moglie? - ribatté il cugino. - Bella ragione! Uno che non era degno di alzarti gli occhi in viso!... Deve ringraziare Iddio e l'ostinazione di mia madre se gli è toccata questa fortuna!... Dunque farai il possibile per indurlo ad accordarmi questa dilazione? - E tu cosa gli hai detto? - domandò don Gesualdo trovando la moglie ancora agitata dopo quella visita. - Nulla... Non so... Mi son sentita male... - Bene. Hai fatto bene. Sta tranquilla che agli affari ci penso io. Serpi nella manica sono i parenti... Hai visto? Cercano di te, solo quando ne hanno bisogno; ma del resto non gli importa di sapere se sei morta o viva. Lascia fare a me che la risposta gliela mando coll'usciere, a tuo cugino... Così era venuto quel matrimonio, ché il barone Rubiera prima aveva messo sottosopra cielo e terra per trovare i denari da pagare don Gesualdo; e infine donna Giuseppina Alòsi, la quale aveva delle belle terre al sole, aveva dato l'ipoteca. Don Gesualdo, ottenuta la sua brava iscrizione sulle terre, non parlò più di aver bisogno del denaro. - Col tempo... - confidò alla moglie. - Lasciali tranquilli. Loro non pagano né frutti né capitali, e col tempo quelle terre serviranno per la dote d'Isabella. Che te ne pare? Non è da ridere? Lo zio Rubiera che pensa a mettere insieme la dote della tua figliuola!... Egli aveva di queste uscite buffe alle volte, da solo a solo con sua moglie, quando era contento della sua giornata, prima di coricarsi, mettendosi il berretto da notte, in maniche di camicia. A quattr'occhi con lei mostravasi proprio quel che era, bonaccione, colla risata larga che mostrava i denti grossi e bianchi, passandosi anche la lingua sulle labbra, quasi gustasse già il dolce del boccone buono, da uomo ghiotto della roba. Isabella fatta più grandicella passò dal Collegio di Maria al primo educatorio di Palermo. Un altro strappo per la povera mamma che temeva di non doverla più rivedere. Il marito, onde confortarla, in quello stato, le disse: - Vedi noi ci ammazziamo per fare il suo meglio, ciascuno come può, ed essa un giorno non penserà neppure a noi. Così va il mondo. Anzi devi metterti in testa che tua figlia non puoi averla sempre vicina. Quando si marita anderà via dal paese. Qui non ce n'è uno che possa sposarla, colla dote che le darò. Se ho fatto tanto per lei, voglio almeno sapere a chi lo dò il sangue mio. Adesso che ti parlo è già nato chi deve godersi il frutto delle mie fatiche, senza dirmi neppure grazie. Aveva il cuore grosso anche lui, poveraccio, e se sfogavasi a quattr'occhi colla moglie alle volte, per discorrere non si rifiutava però a fare ciò ch'era debito suo. Andava a trovare la sua ragazza a Palermo, quando poteva, quando i suoi affari lo permettevano, anche una volta all'anno. Isabella s'era fatta una bella fanciulla, un po' gracile ancora, pallidina, ma con una grazia naturale in tutta la personcina gentile, la carnagione delicata e il profilo aquilino dei Trao; un fiore di un'altra pianta, in poche parole; roba fine di signori che suo padre stesso quando andava a trovarla provava una certa suggezione dinanzi alla ragazza la quale aveva preso l'aria delle compagne in mezzo a cui era stata educata, tutte delle prime famiglie, ciascuna che portava nell'educandato l'alterigia baronale da ogni angolo della Sicilia. Al parlatorio lo chiamavano il signor Trao. Quando volle saperne il perché, Isabella si fece rossa. La stessa storia del Collegio di Maria anche lì. E la sua figliuola aveva dovuto soffrire le stesse umiliazioni a motivo del parentado. Per fortuna la signorina di Leyra, che Isabella s'era affezionata coi regalucci, aveva preso a difenderla a spada tratta. Essa conosceva di nome la famiglia dei Trao, una delle prime laggiù, ove il duca suo fratello possedeva dei feudi. La duchessina aveva il nome e il parlare alto, sebbene stesse in collegio senza pagare, talché le compagne lasciarono passare il Trao. Ma don Gesualdo dovette lasciarlo passare anche lui, e farsi chiamare così, per amore della figliuola, quando andava a trovarla. - Vedrai come si è fatta bella la tua figliuola! - tornava poi a dire alla moglie che era sempre malaticcia. Essa la rivide finalmente all'uscire del collegio, nel 1837, quando in Palermo cominciavano già a correre le prime voci di colèra, e don Gesualdo era corso subito a prenderla. Fu come un urto al petto per la povera madre, dopo tanto tempo, quando udì fermarsi la lettiga dinanzi al portone. - Figlia mia! figlia mia! - colle braccia stese, le gambe malferme, precipitandosi per la scala. Isabella saliva correndo, colle braccia aperte anche lei. - Mamma! mamma! - E poi avvinghiate l'una al collo dell'altra, la madre sballottando ancora a destra e a sinistra la sua creatura come quand'era piccina. Indi vennero le visite ai parenti. Bianca era tornata in forze per portare in trionfo la sua figliuola, in casa Sganci in casa Limòli, da per tutto dove era stata bambinetta, prima d'entrare in collegio, ora già fatta grande, col cappellino di paglia, le belle treccie bionde - un fiore. Tutti si affacciavano per vederla passare. La zia Sganci, divenuta sorda e cieca, le tastò il viso per riconoscerla: - Una Trao! Non c'è che dire. - Lo zio marchese ne lodò gli occhi, degli occhi blù che erano due stelle. "Degli occhi che vedevano il peccato", disse il marchese, il quale aveva sempre pronta la barzelletta. Allorché la condussero dallo zio don Ferdinando, Isabella che soleva spesso rammentare colle compagne la casa materna, negli sfoghi ingenui d'ambizione, provò un senso di sorpresa, di tristezza, di delusione al rivederla. Entrava chi voleva dal portone sconquassato. La corte era angusta, ingombra di sassi e di macerie. Si arrivava per un sentieruolo fra le ortiche allo scalone sdentato, barcollante, soffocato anch'esso dalle erbacce. In cima l'uscio cadente era appena chiuso da un saliscendi arrugginito; e subito nell'entrare colpiva una zaffata d'aria umida e greve, un tanfo di muffa e di cantina che saliva dal pavimento istoriato col blasone, seminato di cocci e di rottami, pioveva dalla vòlta scalcinata, veniva densa dal corridoio nero al pari di un sotterraneo, dalle sale buie che s'intravedevano in lunga fila, abbandonate e nude, per le strisce di luce che trapelavano dalle finestre sgangherate. In fondo era la cameretta dello zio, sordida, affumicata, col soffitto sconnesso e cadente, e l'ombra di don Ferdinando che andava e veniva silenzioso, simile a un fantasma. - Chi è?... Grazia... entra... Don Ferdinando apparve sulla soglia, in maniche di camicia, giallo ed allampanato, guardando stupefatto attraverso gli occhiali la sorella e la nipote. Sul lettuccio disfatto c'era ancora la vecchia palandrana di don Diego che stava rattoppando. L'avvolse in fretta, insieme a un fagotto d'altri cenci, e la cacciò nel cassettone. - Ah!... sei tu, Bianca?... che vuoi?... Indi accorgendosi che teneva ancora l'ago in mano, se lo mise in tasca, vergognoso, sempre con quel gesto che sembrava meccanico. - Ecco vostra nipote... - balbettò la sorella con un tremito nella voce. - Isabella... vi rammentate?... E' stata in collegio a Palermo... Egli fissò sulla ragazza quegli occhi azzurri e stralunati che fuggivano, di qua e di là, e mormorò: - Ah!... Isabella?... mia nipote?... Guardava inquieto per la stanza, e di tanto in tanto, come vedeva un oggetto dimenticato sul tavolino o sulla seggiola zoppa, del refe sudicio, un fazzoletto di cotone posto ad asciugare al sole, correva subito a nasconderli. Poi si mise a sedere sulla sponda del lettuccio, fissando l'uscio. Mentre Bianca parlava, col cuore stretto, egli seguitava a volgere intorno gli occhi sospettosi, pensando a tutt'altro. A un tratto andò a chiudere a chiave il cassetto della scrivania. - Ah!... mia nipote, dici?... Fissò di nuovo sulla giovinetta lo stesso sguardo esitante, e chinò gli occhi a terra. - Somiglia a te... tale e quale... quand'eri qui... Sembrava che cercasse le parole, cogli occhi erranti evitando quelli della sorella e della nipote, con un tremito leggiero nelle mani, il viso smorto e istupidito. Un istante, mentre Bianca gli parlava all'orecchio, supplichevole, quasi le spuntassero le lagrime, egli di curvo che era si raddrizzò così che parve altissimo, con un'ombra negli occhi chiari un rimasuglio del sangue dei Trao che gli colorava il viso scialbo. - No... no... Non voglio nulla... Non ho bisogno di nulla... Vattene ora, vattene... Vedi... ho tanto da fare... Una cosa che stringeva il cuore. Una rovina ed un'angustia che umiliavano le memorie ambiziose, le fantasie romantiche nate nelle confidenze immaginarie colle amiche del collegio, le illusioni di cui era piena la bizzarra testolina della fanciulla, tornata in paese coll'idea di rappresentarvi la prima parte. Il lusso meschino della zia Sganci, la sua casa medesima fredda e malinconica, il palazzo cadente dei Trao che aveva spesso rammentato laggiù con infantile orgoglio, tutto adesso impicciolivasi, diventava nero, povero, triste. Lì, dirimpetto, era la terrazza dei Margarone, che tante volte aveva rammentato vasta, inondata di sole, tutta fiorita, piena di ragazze allegre che la sbalordivano allora, bambina, collo sfoggio dei loro abiti vistosi. Com'era stretta e squallida invece, con quell'alto muro lebbroso che l'aduggiava! e come era divenuta vecchia donna Giovannina, che rivedeva seduta in mezzo ai vasi di fiori polverosi, facendo la calza, vestita di nero, enorme! In fondo al vicoletto rannicchiavasi la casuccia del nonno Motta. Allorché il babbo ve la condusse trovarono la zia Speranza che filava, canuta, colle grinze arcigne. C'erano dei mattoni smossi dove inciampavasi, un ragazzaccio scamiciato il quale levò il capo da un basto che stava accomodando, senza salutarli. Mastro Nunzio gemeva in letto coi reumatismi, sotto una coperta sudicia: - Ah, sei venuto a vedermi? Credevi che fossi morto? No, no, non son morto. E' questa la tua ragazza? Me l'hai portata qui per farmela vedere?... E' una signorina, non c'è che dire! Gli hai messo anche un bel nome! Tua madre però si chiamava Rosaria! Lo sai? Scusatemi, nipote mia, se vi ricevo in questo tugurio... Ci son nato, che volete... Spero di morirci... Non ho voluto cambiarlo col palazzo dove pretendeva chiudermi vostro padre... Io sono avvezzo ad uscir subito in istrada appena alzato... No, no, è meglio pensarci prima. Ciascuno com'è nato. - Speranza grugniva delle altre parole che non si udivano bene. Il ragazzaccio li accompagnò cogli occhi sino all'uscio, quando se ne andarono. Intanto incalzavano le voci di colèra. A Catania c'era stata una sommossa. Giunse da Lentini don Bastiano Stangafame insieme a donna Fifì la quale pareva avesse già il male addosso, verde, impresciuttita, narrando cose che dovevano averle fatto incanutire i capelli in ventiquattr'ore. A Siracusa una giovinetta bella come la Madonna, la quale ballava sui cavalli ammaestrati in teatro, e andava spargendo il colèra con quel pretesto, era stata uccisa a furor di popolo. La gente insospettita stava a vedere, facendo le provviste per svignarsela dal paese, al primo allarme, e spiando ogni viso nuovo che passasse. In quel tempo erano capitati due merciai che portavano nastri e fazzoletti di seta. Andavano di casa in casa a vendere la roba, e guardavano dentro gli usci e nei cortili. Le Margarone che spendevano allegramente per azzimarsi, quasi fossero ancora di primo pelo, fecero molte compere; anzi non trovandosi denari spiccioli, quei galantuomini dissero che sarebbero ripassati a prenderli il giorno dopo. Invece spuntò il giorno del Giudizio Universale. Ciolla era andato a ricorrere dal giudice che gli avevano avvelenate le galline: le portava a prova in mano, ancora calde. Tornò in casa don Nicolino scalmanato, ordinando alle sorelle di sprangare usci e finestre e non aprire ad anima viva. Il dottor Tavuso fece chiudere anche lo sportello della cisterna. I galantuomini, rammentandosi il bel soggetto ch'era il Ciolla, quello ch'era stato in Castello colle manette, sedici anni prima, si armarono sino ai denti, e si misero a perlustrare il paese, se mai gli tornava il ghiribizzo di voler pescare nel torbido. La parola d'ordine era, sparargli addosso senza misericordia al primo allarme. I due merciai non si videro più. Prima di sera cominciarono a sfilare le vetture cariche che scappavano dal paese. Dopo l'avemaria non andava anima viva per le strade. Giunse tardi una lettiga, che portava don Corrado La Gurna, vestito di nero, col fazzoletto agli occhi. I cani abbaiarono tutta la notte. Il panico poi non ebbe limiti allorché si vide scappare la baronessa Rubiera, paralitica, su di una sedia a bracciuoli, poiché nella portantina non entrava neppure, tanto era enorme, portata a fatica da quattr'uomini, colla testa pendente da un lato, il faccione livido, la lingua pavonazza che usciva a metà dalle labbra bavose, gli occhi soltanto vivi e inquieti, le mani da morta agitate da un tremito continuo. E dietro, il baronello invecchiato di vent'anni, curvo, grigio, carico di figliuoli, colla moglie incinta ancora, e gli altri figli del primo letto. Empivano la strada dove passavano: uno sgomento. La povera gente che era costretta a rimanere in paese stava a guardare atterrita. Nelle chiese avevano esposto il Sacramento. Tacquero allora vecchi rancori, e si videro fattori restituire il mal tolto ai loro padroni. Don Gesualdo aprì le braccia e i magazzini ai poveri e ai parenti; tutte le sue case di campagna alla Canziria e alla Salonia. A Mangalavite, dove aveva pure dei casamenti vastissimi, parlò di riunire tutta la famiglia. - Ora corro da mio padre per cercare d'indurlo a venire con noi. Tu intanto va da tuo fratello, - disse a Bianca. - Fagli capire che adesso son tempi da mettere una pietra sul passato, gli avessi fatto anche un tradimento... Abbiamo il colèra sulle spalle... Il sangue non è acqua infine! Non possiamo lasciare quel povero vecchio solo in mezzo al colèra... Mi pare che la gente avrebbe motivo di sparlare dei fatti nostri, eh?... - Voi avete il cuore buono! - balbettò la moglie sentendosi intenerire. - Voi avete il cuore buono! Ma don Ferdinando non si lasciò persuadere. Era occupatissimo ad incollare delle striscie di carta a tutte le fessure delle imposte, con un pentolino appeso al collo, arrampicato su di una scala a piuoli. - Non posso lasciar la casa, - rispose. - Ho tanto da fare!... Vedi quanti buchi?... Se viene il colèra... Bisogna tapparli tutti... Inutilmente la sorella tornava a pregare e scongiurare - Non mi lasciate questo rimorso, don Ferdinando!... Come volete che chiuda occhio la notte, sapendovi solo in casa?... - Ah! ah!... - rispose lui con un sorriso ebete. - La notte non me lo soffiano il colèra!... Chiuderò tutte le fessure... guarda! E tornava a ribattere: - Non posso lasciar la casa sola... Ho da custodire le carte di famiglia... La moglie del sagrestano, che vide uscire donna Bianca desolata dal portone, le corse dietro piangendo: - Non ci vedremo più!... Tutti se ne vanno... Non avremo per chi sonare messa e mattutino! Anche mastro Nunzio s'era rifiutato ad andare col figliuolo. - Io mangio colle mani, figliuol mio. Arrossiresti di tuo padre a tavola... Sono uno zotico... Non sono da mettermi insieme ai signori!... No, no! è meglio pensarci prima! Meglio crepar di colèra che di bile!... Poi, sai? io sono avvezzo ad esser padrone in casa mia... Sono un villano... Non so starci sotto le scarpe della moglie, no! Speranza mostrò Burgio allettato anche lui dalla malaria. - Noi non usiamo abbandonare i nostri nel pericolo!... Mio marito non può muoversi, e noi non ci muoviamo!... Ecco come siam noi!... Lo sapete quello che ci vuole a mantenere una famiglia intera, col marito confinato in letto!... - Ma non t'ho sempre detto che sarai la padrona!... Tutto quello che vuoi!... - esclamò infine Gesualdo. - No!... Non vi ho chiesto l'elemosina!... Non accetteremmo nulla, se non fosse pel bisogno... grazie a Dio!... Poiché ci fate la carità, andremo alla Canziria... Non temete! Così la gente non potrà dire che avete abbandonato vostro padre in mezzo al colèra!... Voi pensate a mandarci le provviste... Non possiamo pascerci d'erba come le bestie!... sentite... Se avete pure qualche vestito smesso di vostra figlia, di quelli proprio che non possono più servirle... Già lei è una signora, ma saranno sempre buoni per noi poveretti!... I Margarone partirono subito per Pietraperzia; tutti ancora in lutto per don Filippo, morto dai crepacuori che gli dava il genero don Bastiano Stangafame, ogni volta che gli bastonava Fifì se non mandava denari. Annebbiavano una strada. Il barone Mèndola, che faceva la corte alla zia Sganci, se la condusse a Passaneto, e ci prese le febbri, povera vecchia. Zacco e il notaro Neri partirono per Donferrante. Era uno squallore pel paese. A ventitré ore non si vedeva altri lungo la via di San Sebastiano che il marchese Limòli, per la sua solita passeggiatina del dopopranzo. E gli fecero sapere anzi che destava dei sospetti con quelle gite, e volevano fargli la festa al primo caso di colèra. - Eh? - disse lui. - La festa? Ci avete a pensar voialtri, che vi tocca pagar le spese. Io fo quello che ho fatto sempre, se no crepo egualmente. E alla nipote che lo scongiurava di andar con lei a Mangalavite: - Hai paura di non trovarmi più?... No, no, non temere; il colèra non sa che farsene di me. Mentre Bianca e la figliuola stavano per montare in lettiga, giunse la zia Cirmena, disperata. - Avete visto? Tutti se ne vanno! I parenti mi voltano le spalle!... E m'è cascato addosso anche quel povero orfanello di Corrado La Gurna... Una tragedia a casa sua!... Padre e madre in una notte... fulminati dal colèra!... Nessuno ha il mio cuore, no!... Una povera donna senza aiuto e che non sa dove andare!... Se mi date la chiave delle due camerette che avete laggiù a Mangalavite, vicino alla vostra casina!... le camere del palmento... Siete il solo parente a cui ricorrere, voi, don Gesualdo!... - Sì, sì, - rispose lui - ma non lo dite agli altri... - Glielo dirò anzi!... Voglio rinfacciarlo a tutti quanti, se campo!
Quella che chiamavano la casina, a Mangalavite, era un gran casamento annidato in fondo alla valletta. Isabella dalla sua finestra vedeva il largo viale alpestre fiancheggiato d'ulivi, la folta macchia verde che segnava la grotta dove scorreva l'acqua, le balze in cui serpeggiava il sentiero, e più in su l'erta chiazzata di sommacchi, Budarturo brullo e sassoso nel cielo che sembrava di smalto. La sola pennellata gaia era una siepe di rose canine sempre in fiore all'ingresso del viale, dimenticate per incuria. Pei dirupi, ogni grotta, le capannuccie nascoste nel folto dei fichidindia, erano popolate di povera gente scappata dal paese per timore del colèra. Tutt'intorno udivasi cantare i galli e strillare dei bambini; vedevansi dei cenci sciorinati al sole, e delle sottili colonne di fumo che salivano qua e là attraverso gli alberi. Verso l'avemaria tornavano gli armenti negli ovili addossati al casamento, branchi interi di puledri e di buoi che si raccoglievano nei cortili immensi. Tutta la notte poi era un calpestìo irrequieto, un destarsi improvviso di muggiti e di belati, uno scrollare di campanacci, un sito di stalla e di salvatico che non faceva chiudere occhio ad Isabella. Di tanto in tanto correva una fucilata pazza per le tenebre, lontano; giungevano sin laggiù delle grida selvagge d'allarme; dei contadini venivano a raccontare il giorno dopo di aver sorpreso delle ombre che s'aggiravano furtive sui precipizi; la zia Cirmena giurava di aver visto dei razzi solitarii e luminosi verso Donferrante. E subito spedivano gente ad informarsi se c'erano stati casi di colèra. Il barone Zacco ch'era da quelle parti, rispondeva invece che i fuochi si vedevano verso Mangalavite. Don Gesualdo, meno la paura dei razzi che si vedevano la notte, e il sospetto di ogni viso nuovo che passasse pei sentieri arrampicati lassù sui greppi, ci stava come un papa fra i suoi armenti, i suoi campi, i suoi contadini, le sue faccende, sempre in moto dalla mattina alla sera, sempre gridando e facendo vedere la sua faccia da padrone da per tutto. La sera poi si riposava, seduto in mezzo alla sua gente, sullo scalino della gradinata che saliva al viale, dinanzi al cancello, in maniche di camicia, godendosi il fresco e la libertà della campagna, ascoltando i lamenti interminabili e i discorsi sconclusionati dei suoi mezzaiuoli. Alla moglie, che l'aria della campagna faceva star peggio, soleva dire per consolarla: - Qui almeno non hai paura d'acchiappare il colèra. Finché non si tratta di colèra il resto è nulla. - Lì egli era al sicuro dal colèra, come un re nel suo regno, guardato di notte e di giorno - a ogni contadino aveva procurato il suo bravo schioppo, dei vecchi fucili a pietra nascosti sotto terra fin dal 12 o dal 21 e teneva dei mastini capaci di divorare un uomo. Faceva del bene a tutti; tutti che si sarebbero fatti ammazzare per guardargli la pelle in quella circostanza. Grano, fave, una botte di vino guastatosi da poco. Ognuno che avesse bisogno correva da lui per domandargli in prestito quel che gli occorreva. Lui colle mani aperte come la Provvidenza. Aveva dato ricovero a mezzo paese, nei fienili, nelle stalle, nelle capanne dei guardiani, nelle grotte lassù a Budarturo. Un giorno era arrivato persino Nanni l'Orbo con tutta la sua masnada, strizzando l'occhio, tirandolo in disparte per dirgli il fatto suo: - Don Gesualdo... qui c'è anche roba vostra. Guardate Nunzio e Gesualdo come vi somigliano! Quattro tumoli di pane al mese si mangiano, prosit a loro! Non potete chiudere loro la porta in faccia... Ne avete fatta tanta della carità? E fate anche questa, che così vuol Dio. - Guarda cosa diavolo t'è venuto in mente!... Qui c'è mia moglie e mia figlia adesso!... Almeno andatevene nel palmento, e non vi fate vedere da queste parti... Ma tutto quel bene e quella carità gli tornavano in veleno per l'ostinazione dei parenti che non avevano voluto mettersi sotto le sue ali. Se ne sfogava spesso con Bianca la sera, quando chiudeva usci e finestre e si vedeva al sicuro: - Salviamo tanta gente dal colèra... Abbiamo tanta gente sotto le ali, e soltanto il sangue nostro è disperso di qua e di là... Lo fanno apposta... per farci stare in angustie... per lasciarci la spina dentro!... Non parlo di tuo fratello poveraccio quello non capisce... Ma mio padre... Non me la doveva lasciare questa spina, lui!... Non sapeva di quell'altro dispiacere che doveva procuragli la figliuola, il pover'uomo! Isabella ch'era venuta dal collegio con tante belle cose in testa, che s'era immaginata di trovare a Mangalavite tante belle cose come alla Favorita di Palermo, sedili di marmo, statue, fiori da per tutto, dei grandi alberi dei viali tenuti come tante sale da ballo, aveva provata qui un'altra delusione. Aveva trovato dei sentieri alpestri, dei sassi che facevano vacillare le sue scarpette, delle vigne polverose, delle stoppie riarse che l'accecavano, delle rocce a picco sparse di sommacchi che sembravano della ruggine a quell'altezza, e dove il tramonto intristiva rapidamente la sera. Poi dei giorni sempre uguali, in quella tebaide; un sospetto continuo, una diffidenza d'ogni cosa, dell'acqua che bevevasi, della gente che passava, dei cani che abbaiavano, delle lettere che giungevano - un mucchio di paglia umida in permanenza dinanzi al cancello per affumicare tutto ciò che veniva di fuori, - le rare lettere ricevute in cima a una canna, attraverso il fumo - e per solo svago, il chiacchierìo della zia Cirmena, la quale arrivava ogni sera colla lanterna in mano e il panierino della calza infilato al braccio. Suo nipote l'accompagnava raramente; preferiva rimanersene in casa, a far l'orso e a pensare ai casi suoi o ai suoi morti, chissà... La zia Cirmena per scusarlo parlava del gran talento che aveva quel ragazzo, tutto il santo giorno chiuso nella sua stanzetta, col capo in mano, a riempire degli scartafacci, più grossi di un basto, di poesie che avrebbero fatto piangere i sassi. Don Gesualdo ci s'addormentava sopra a quei discorsi. La mamma parlava poco anche lei, sempre senza fiato, sempre fra letto e lettuccio. La sola che dovesse dar retta alla zia era lei, Isabella, soffocando gli sbadigli, dopo quelle giornate vuote. Alle sue amiche di collegio, disseminate anch'esse di qua e di là, non sapeva proprio cosa scrivere. Marina di Leyra le mandava ogni settimana delle paginette stemmate piene zeppe di avventure, di confidenze interessanti. La stuzzicava, la interrogava, chiedeva in ricambio le sue confidenze, sembrava a ogni lettera che le capitasse lì dinanzi, coi suoi occhioni superbi, colle belle labbra carnose, a dirle in un orecchio delle cose che le facevano avvampare il viso, che le facevano battere il cuore, quasi ci avesse nascosto il suo segreto da confidarle anche lei. S'erano regalato a vicenda un libriccino di memorie, colla promessa di scrivervi sopra tutti i loro pensieri più intimi, tutto, tutto, senza nascondere nulla! I begli occhi azzurri d'Isabella, gli occhi che diceva lo zio Limòli, senza volerlo, senza guardare neppure, sembrava che cercassero quei pensieri. In quella testolina che portava ancora le trecce sulle spalle, nasceva un brulichìo, quasi uno sciame di api vi recasse tutte le voci e tutti i profumi della campagna, di là dalle roccie, di là da Budarturo, di lontano. Sembrava che l'aria libera, lo stormire delle frondi, il sole caldo, le accendessero il sangue, penetrassero nelle sottili vene azzurrognole, le fiorissero nei colori del viso, le gonfiassero di sospiri il seno nascente sotto il pettino del grembiule. - Vedi quanto ti giova la campagna? - diceva il babbo. - Vedi come ti fai bella? Ma essa non era contenta. Sentiva un'inquietezza un'uggia, che la facevano rimanere colle mani inerti sul ricamo, che la facevano cercare certi posti per leggere i pochi libri, quei volumetti tenuti nascosti sotto la biancheria, in collegio. All'ombra dei noci, vicino alla sorgente, in fondo al viale che saliva dalla casina, c'era almeno una gran pace, un gran silenzio, s'udiva lo sgocciolare dell'acqua nella grotta, lo stormire delle frondi come un mare, lo squittire improvviso di qualche nibbio che appariva come un punto nell'azzurro immenso. Tante piccole cose che l'attraevano a poco a poco, e la facevano guardare attenta per delle ore intere una fila di formiche che si seguivano, una lucertolina che affacciavasi timida a un crepaccio, una rosa canina che dondolava al disopra del muricciuolo, la luce e le ombre che si alternavano e si confondevano sul terreno. La vinceva una specie di dormiveglia, una serenità che le veniva da ogni cosa, e si impadroniva di lei, e l'attaccava lì, col libro sulle ginocchia, cogli occhi spalancati e fissi, la mente che correva lontano. Le cadeva addosso una malinconia dolce come una carezza lieve, che le stringeva il cuore a volte, un desiderio vago di cose ignote. Di giorno in giorno era un senso nuovo che sorgeva in lei, dai versi che leggeva, dai tramonti che la facevano sospirare, un'esaltazione vaga, un'ebbrezza sottile, un turbamento misterioso e pudibondo che provava il bisogno di nascondere a tutti. Spesso, la sera, scendeva adagio adagio dal lettuccio perché la mamma non udisse, senza accendere la candela, e si metteva alla finestra, fantasticando, guardando il cielo che formicolava di stelle. La sua anima errava vagamente dietro i rumori della campagna, il pianto del chiù, l'uggiolare lontano, le forme confuse che viaggiavano nella notte, tutte quelle cose che le facevano una paura deliziosa. Sentiva quasi piovere dalla luna sul suo viso, sulle sue mani una gran dolcezza, una gran prostrazione, una gran voglia di piangere. Le sembrava confusamente di vedere nel gran chiarore bianco, oltre Budarturo, lontano, viaggiare immagini note, memorie care, fantasie che avevano intermittenze luminose come la luce di certe stelle: le sue amiche, Marina di Leyra, un altro viso sconosciuto che Marina le faceva sempre vedere nelle sue lettere, un viso che ondeggiava e mutava forma, ora biondo, ora bruno, alle volte colle occhiaie appassite e la piega malinconica che avevano le labbra del cugino La Gurna. Penetrava in lei il senso delle cose, la tristezza della sorgente, che stillava a goccia a goccia attraverso le foglie del capelvenere, lo sgomento delle solitudini perdute lontano per la campagna, la desolazione delle forre dove non poteva giungere il raggio della luna, la festa delle rocce che s'orlavano d'argento, lassù a Budarturo, disegnandosi nettamente nel gran chiarore, come castelli incantati. Lassù, lassù, nella luce d'argento, le pareva di sollevarsi in quei pensieri quasi avesse le ali, e le tornavano sulle labbra delle parole soavi, delle voci armoniose, dei versi che facevano piangere, come quelli che fiorivano in cuore al cugino La Gurna. Allora ripensava a quel giovinetto che non si vedeva quasi mai, che stava chiuso nella sua stanzetta, a fantasticare, a sognare come lei. Laggiù, dietro quel monticello, la stessa luna doveva scintillare sui vetri della sua finestra, la stessa dolcezza insinuarsi in lui. Che faceva? che pensava? Un brivido di freddo la sorprendeva di tratto in tratto come gli alberi stormivano e le portavano tante voci da lontano - Luna bianca, luna bella!... Che fai, luna? dove vai? che pensi anche tu? - Si guardava le mani esili e delicate, candide anch'esse come la luna, con una gran tenerezza, con un vago senso di gratitudine e quasi di orgoglio. Poscia ricadeva stanca da quell'altezza, con la mente inerte, scossa dal russare del babbo che riempiva la casa. La mamma vicino a lui non osava neppure fare udire il suo respiro; come non osava quasi mostrare tutta la sua tenerezza alla figliuola dinanzi al marito, timida, con quegli occhi tristi e quel sorriso pallido che voleva dire tante cose nelle più umili parole: - Figlia! figlia mia!... - Soltanto la stretta delle braccia esili, e l'espressione degli sguardi che correvano inquieti all'uscio dicevano il resto. Quasi dovesse nascondere le carezze che faceva alla sua creatura, le mani tremanti che le cercavano il viso, gli occhi turbati che l'osservavano attentamente. - Che hai? Sei pallida!... Non ti senti bene? La zia Cirmena che vedeva la ragazza così gracile, così pallidina, con quelle pesche sotto gli occhi, cercava di distrarla, le insegnava dei lavori nuovi, delle cornicette intessute di fili di paglia, delle arance e dei canarini di lana. Le contava delle storielle, le portava da leggere le poesie che scriveva suo nipote Corrado, di nascosto, nel panierino della calza. - Son fresche fresche di ieri. Gliele ho prese dal tavolino ora che è uscito a passeggiare. E' ritroso, quel benedetto figliuolo. Così timido! uno che ha bisogno d'aiuto, col talento che ha, peccato! - E le suggeriva anche dei rimedi per la salute delicata, lo sciroppo marziale, delle teste di chiodi in una bottiglia d'acqua. Si sbracciava ad aiutare in cucina, col vestito rimboccato alla cintola, a far cuocere un buon brodo di ossa per sua nipote Bianca, a preparare qualche intingolo per Isabella che non mangiava nulla. - Lasciate fare a me. So quel che ci vuole per lei. Voialtri Trao siete tanti pulcini colla luna. - Un braccio di mare quella zia Cirmena. Una donna che se le si faceva del bene, non ci si perdeva interamente. Spesso costringeva Corrado a venire anche lui la sera per tenere allegra la brigata. - Tu che sai fare tante cose, coi tuoi libri, colle tue chiacchiere, porterai un po' di svago. Santo Dio! se stai sempre rintanato coi tuoi libri, come vuoi far conoscere i tuoi meriti? - Poi, quando lui non era presente, cantava anche più chiaro: - Alla sua età!... Non è più un bambino... Bisogna che s'aiuti... Non può vivere sempre alle spalle dei parenti!... - E superbo come Lucifero per giunta, ricalcitrando e inalberandosi se alcuno cercava di aiutarlo, di fargli fare buona figura, se la zia s'ingegnava lei di aprir gli occhi alla gente sul valore del suo nipote Corrado e gli rubava gli scartafacci, e andava a sciorinarli lei stessa in mezzo al crocchio dei cugini Motta, compitando, accalorandosi come un sensale che fa valere la merce, mentre don Gesualdo andava appisolandosi a poco a poco, e diceva di sì col capo, sbadigliando, e Bianca guardava Isabella la quale teneva i grand'occhi sbarrati nell'ombra, assorta, e le si mutava a ogni momento l'espressione del viso delicato, quasi delle ondate di sangue la illuminassero tratto tratto. Donna Sarina tutta intenta alla lettura non si accorgeva di nulla, badava ad accomodarsi gli occhiali di tanto in tanto, chinavasi verso il lume, oppure se la pigliava col nipote che scriveva così sottile. - Ma che talento, eh! Come amministratore... che so io... per soprintendere ai lavori di campagna... dirigere una fattoria, quel ragazzo varrebbe tant'oro. Il cuore mi dice che se voi, don Gesualdo, trovaste di collocarlo in alcuno dei vostri negozi, fareste un affare d'oro!... E... ora che non ci sente... per poco salario anche! Il giovane ha gli occhi chiusi, come si dice... ancora senza malizia... e si contenterebbe di poco! Fareste anche un'opera di carità, fareste! Don Gesualdo non diceva né sì né no, prudente, da uomo avvezzo a muovere sette volte la lingua in bocca prima di lasciarsi scappare una minchioneria. Ci pensava su, badava alle conseguenze, badava alla sua figliuola, anche russando, con un occhio aperto. Non voleva che la ragazza così giovane, così inesperta, senza sapere ancora cosa volesse dire esser povero o ricco, s'avesse a scaldare il capo per tutte quelle frascherie. Lui era ignorante, uno che non sapeva nulla, ma capiva che quelle belle cose erano trappole per acchiappare i gonzi. Gli stessi arnesi di cui si servono coloro che sanno di lettere per legarvi le mani o tirarvi fuori dei cavilli in un negozio. Aveva voluto che la sua figliuola imparasse tutto ciò che insegnavano a scuola, perché era ricca, e un giorno o l'altro avrebbe fatto un matrimonio vantaggioso. Ma appunto perch'era ricca tanta gente ci avrebbe fatti su dei disegni. Insomma a lui non piacevano quei discorsi della zia e il fare del nipote che le teneva il sacco con quell'aria ritrosa di chi si fa pregare per mettersi a tavola, di chi vuol vender cara la sua mercanzia. E le occhiate lunghe della cuginetta, i silenzi ostinati, quel mento inchiodato sul petto, quella smania di cacciarsi coi suoi libri in certi posti solitari, per far la letterata anche lei, una ragazza che avrebbe dovuto pensare a ridere e a divertirsi piuttosto... Finora erano ragazzate; sciocchezze da riderci sopra, o prenderli a scappellotti tutt'e due, la signorina che mettevasi alla finestra per veder volare le mosche, e il ragazzo che stava a strologare da lontano, di cui vedevasi il cappello di paglia al disopra del muricciuolo o della siepe, ronzando intorno alla casina, nascondendosi fra le piante. - Don Gesualdo aveva dei buoni occhi. Non poteva indovinare tutte le stramberie che fermentavano in quelle teste matte, - i baci mandati all'aria, e il sole e le nuvole che pigliavano parte al duetto - a un miglio di distanza, - ma sapeva leggere nelle pedate fresche, nelle rose canine che trovava sfogliate sul sentiero, nell'aria ingenua di Isabella che scendeva a cercare le forbici o il ditale quando per combinazione c'era in sala il cugino, nella furberia di lui che fingeva di non guardarla, come chi passa e ripassa in una fiera dinanzi alla giovenca che vuol comprare senza darle neppure un'occhiata. Vedeva anche nella faccia ladra di Nanni l'Orbo, nel fare sospettoso di lui, nell'aria sciocca che pigliava, quando rizzavasi fra i sommacchi, mettendosi la mano sugli occhi, per guardar laggiù, nel viale, o si cacciava carponi fra i fichi d'India, o veniva a portargli dei pezzi di carta che aveva trovato vicino alla fontana, dei calcinacci scrostati dal sedile, facendo il nesci: - Don Gesualdo, che c'è stato vossignoria, lassù?... Alle volte... per far quattro passi... L'erba sulla spianata è tutta pesta, come ci si fosse sdraiato un asino. Ladri, no, eh?... Ho paura di quelli del colèra piuttosto. - No... di giorno?... che diavolo!... bestia che sei!... Non temere, qui stiamo cogli occhi aperti. E ci stava davvero, con prudenza, per evitar gli scandali, aspettando che terminasse il colèra per scopare la casa, e finirla pulitamente con donna Sarina e tutti i suoi senza dar campo di parlare alle male lingue, rimbeccando la zia Cirmena che s'era messa a far la sapiente anche lei, a parlare col squinci e linci, tagliando corto a quelle chiacchiere sconclusionate che vi tiravano gli sbadigli dalle calcagna. Un giorno, presenti tutti quanti, sputò fuori il fatto suo. - Ah... le canzonette? Roba che non empie pancia, cari miei! - La zia Cirmena si risentì alfine: - Voi pigliate tutto a peso e a misura, don Gesualdo! Non sapete quel che vuol dire... Vorrei vedervici!... - Egli allora, col suo fare canzonatorio, raccolse in mucchio libri e giornali ch'erano sul tavolino e glieli cacciò in grembo, a donna Sarina, ridendo ad alta voce, spingendola per le spalle quasi volesse mandarla via come fa il sensale nel conchiudere il negozio, vociando così forte che sembrava in collera, fra le risate: - Be'... pigliateli, se vi piacciono... Potrete camparci su!... Tutti si guardarono negli occhi. Isabella si alzò senza dire una parola, ed uscì dalla stanza. - Ah!... - borbottò don Gesualdo. - Ah!... Ma visto che non era il momento, cacciò indietro la bile e voltò la cosa in scherzo: - Anche a lei... le piacciono le canzonette. Come passatempo... colla chitarra... adesso che siamo in villeggiatura non dico di no. Ma per lei c'è chi ha lavorato al sole e al vento, capite?... E se ha la testa dura dei Trao, anche i Motta non scherzano, quanto a ciò... - Bene, - interruppe la zia, - questo è un altro discorso. - Ah, vi sembra un altro discorso? - Ecco! - saltò su donna Sarina, pigliandosela a un tratto col nipote. - Tuo zio parla pel tuo bene. Non lo trovi, un parente affezionato come lui, senti! - Certo, certo... Voi siete una donna di giudizio, donna Sarina, e cogliete le parole al volo. La Cirmena allora si mise a dimostrare che un ragazzo di talento poteva arrivare dove voleva, segretario, fattore, amministratore di una gran casa. Le protezioni già non gli mancavano. - Certo, certo, - continuava a ripetere don Gesualdo. Ma non si impegnava più oltre. Si dava da fare a rimettere le seggiole a posto, a chiudere le finestre, come a dire: - Adesso andate via. - Però siccome il giovane voltava le spalle senza rispondere, con la superbia che avevano tutti quei parenti spiantati, donna Sarina non seppe più frenarsi, raccattando in furia i ferri da calza e gli occhiali, infilando il paniere al braccio senza salutar nessuno. - Guardate s'è questa la maniera! Così si ringraziano i parenti della premura? Io me ne lavo le mani... come Pilato... Ciascuno a casa sua... - Ecco la parola giusta, donna Sarina. Ciascuno a casa sua. Aspettate, che vi accompagno... Eh? eh? che c'è? Da un pezzo, mentre discorreva, tendeva l'orecchio all'abbaiare dei cani, al diavolìo che facevano oche e tacchini nella corte, a un correre a precipizio. Poi si udì una voce sconosciuta in mezzo al chiacchierìo della sua gente. Dal cancello s'affacciò il camparo, stralunato, facendogli dei segni. - Vengo, vengo, aspettate un momento. Tornò poco dopo che sembrava un altro, stravolto, col cappello di paglia buttato all'indietro, asciugandosi il sudore. Donna Sarina voleva sapere a ogni costo cosa fosse avvenuto, fingendo d'aver paura. - Nulla... Le stoppie lassù avran preso fuoco... V'accompagno. E' cosa da nulla. Nell'aia erano tutti in subbuglio. Mastro Nardo, sotto la tettoia, insellava in fretta e in furia la mula baia di don Gesualdo. Dinanzi al rastrello del giardino Nanni l'Orbo e parecchi altri ascoltavano a bocca aperta un contadino di fuorivia che narrava gran cose, accalorato, gesticolando mostrando il vestito ridotto in brandelli. - Nulla, nulla, - ripetè don Gesualdo. - V'accompagno a casa vostra. Non c'è premura. - Si vedeva però ch'era turbato, balbettava, grossi goccioloni gli colavano dalla fronte. Donna Sarina s'ostinava ad aver paura, piantandosi su due piedi, frugando di qua e di là cogli occhi curiosi, fissandoli in viso a lui per scovar quel che c'era sotto: - Un caso di colèra, eh? Ce l'han portato sin qui? Qualche briccone? L'han colto sul fatto? - Infine don Gesualdo le mise le mani sulle spalle, guardandola fissamente nel bianco degli occhi: - Donna Sarina, a che giuoco giochiamo? Lasciatemi badare agli affari di casa mia! santo e santissimo! - E la mise bel bello sulla sua strada, di là dal ponticello. Tornando indietro se la prese con tutta quella gente che sembrava ammutinata, comare Lia che aveva lasciato d'impastare il pane, sua figlia accorsa anche lei colle mani intrise di farina. - Che c'è? che c'è? Voi, mastro Nardo, andate avanti colla mula. Vi raggiungerò per via. Lì, da quella parte, pel sentiero. Non c'è bisogno di far sapere a tutto il vicinato se vo o se rimango. E voialtri badate alle vostre faccende. E cucitevi la bocca, ehi!... senza suonar la tromba e andar narrando quel che mi succede, di qua e di là!... Poi salì di sopra colle gambe rotte. Bianca appena lo vide con quella faccia si impaurì. Ma egli però non le disse nulla. Temeva che i sorci ballassero mentre non c'era il gatto. Mentre la moglie l'aiutava a infilarsi gli stivali, andava facendole certe raccomandazioni: - Bada alla casa. Bada alla ragazza. Io vo e torno. Il tempo d'arrivare alla Salonia per mio padre che sta poco bene. Gli occhi aperti finché non ci son io, intendi? - Bianca da ginocchioni com'era alzò il viso attonito. - Svegliati! Come diavolo sei diventata? Tale e quale tuo fratello don Ferdinando sei! Tua figlia ha la testa sopra il cappello, te ne sei accorta? Abbiamo fatto un bel negozio a metterle in capo tanti grilli! Chissà cosa s'immagina? E gli altri pure... Donna Sarina e tutti gli altri! Serpi nella manica!... Dunque, niente visite, finché torno... e gli occhi aperti sulla tua figliuola. Sai come sono le ragazze quando si mettono in testa qualcosa!... Sei stata giovane anche tu... Ma io non mi lascio menare pel naso come i tuoi fratelli, sai!... No, no, chetati! Non è per rimproverarti... L'hai fatto per me, allora. Sei stata una buona moglie, docile e obbediente, tutta per la casa... Non me ne pento. Dico solo acciò ti serva d'ammaestramento, adesso. Le ragazze per maritarsi non guardano a nulla... Tu almeno non facevi una pazzia... Non te ne sei pentita neppur tu, è vero? Ma adesso è un altro par di maniche. Adesso si tratta di non lasciarsi rubare come in un bosco... Bianca, ritta accanto all'uscio, col viso scialbo, spalancò gli occhi, dove era in fondo un terror vago, uno sbalordimento accorato, l'intermittenza dolorosa della ragione annebbiata ch'era negli occhi di don Ferdinando. - Ah! Hai capito finalmente! Te ne sei accorta anche tu! E non mi dicevi nulla!... Tutte così voialtre donne... a tenervi il sacco l'una coll'altra!... congiurate contro chi s'arrovella pel vostro meglio! - No!... vi giuro!... Non so nulla!... Non ci ho colpa... Che volete da me?... Vedete come son ridotta!... - Non lo sapevi? Cosa fai dunque? Così tieni d'occhio tua figlia... E' questa una madre di famiglia?... Tutto sulle mie spalle! Ho le spalle grosse. Ho lo stomaco pieno di dispiaceri... E sto benone io!... Ho la pelle dura. E se ne andò col dorso curvo, sotto il gran sole, ruminando tutti i suoi guai. Il messo ch'era venuto a chiamarlo dalla Salonia l'aspettava in cima al sentiero, insieme a mastro Nardo che tirava la mula zoppicando. Come lo vide da lontano si mise a gridare: - Spicciatevi, vossignoria. Se arriviamo tardi, per disgrazia, la colpa è tutta mia. Cammin facendo raccontava cose da far drizzare i capelli in testa. A Marineo avevano assassinato un viandante che andava ronzando attorno all'abbeveratoio, nell'ora calda, lacero, scalzo, bianco di polvere, acceso in volto, con l'occhio bieco, cercando di farla in barba ai cristiani che stavano a guardia da lontano, sospettosi. A Callari s'era trovato un cadavere dietro una siepe, gonfio come un otre: l'aveva scoperto il puzzo. La sera, dovunque, si vedevano dei fuochi d'artifizio, una pioggia di razzi, tale e quale la notte di San Lorenzo, Dio liberi! Una donna incinta, che s'era lasciata aiutare da uno sconosciuto, mentre portava un carico di legna al Trimmillito, era morta la stessa notte all'improvviso, senza neanche dire - Cristo aiutami - colla pancia piena di fichi d'India. - Vostro padre l'ha voluto lui stesso il colèra, sissignore. Tutti gli dicevano: Non aprite se prima il sole non è alto! Ma sapete che testa dura! Il colèra ce l'ha portato alla Salonia un viandante che andava intorno colla bisaccia in spalla. Di questi tempi, figuratevi! C'è chi l'ha visto a sedere, stanco morto, sul muricciuolo vicino alla fattoria. Poi tutta la notte rumori sul tetto e dietro gli usci... E le macchie d'unto che si son trovate qua e là a giorno fatto!... Come della bava di lumaca... Sissignore!... Quella bestia dello speziale continua a predicare di scopar le case, di pigliarsela coi maiali e colle galline, per tener lontano il colèra! Adesso il veleno ce lo portano le bestie del Signore, che non hanno malizia! avete inteso, vossignoria?... Roba da accopparli tutti quanti sono, medici, preti e speziali, perché loro ogni cristiano che mandano al mondo della verità si pigliano dodici tarì dal re! E l'arciprete Bugno ha avuto il coraggio di predicarlo dall'altare: - Figliuoli miei, so che ce l'avete con me, a causa del colèra. Ma io sono innocente. Ve lo giuro su quest'ostia consacrata! - Io non so s'era innocente o no. So che ha acchiappato il colèra anche lui, perché teneva in casa quelle bottiglie che mandano da Napoli per far morire i cristiani. Io non so niente. Il fatto è che i morti fioccano come le mosche: Donna Marianna Sganci, Peperito...
Allorché giunsero alla Salonia trovarono che tutti gli altri inquilini della fattoria caricavano muli ed asinelli per fuggirsene. Inutilmente Bomma, che era venuto dalla vigna, lì vicino, si sgolava a gridare: - Bestie! s'è una perniciosa!... se ha una febbre da cavallo! Non si muore di colèra con la febbre! - Non me ne importa s'è una perniciosa! - borbottò infine Giacalone. - I medici già son pagati per questo!... Mastro Nunzio stava male davvero: la morte gli aveva pizzicato il naso e gli aveva lasciato il segno delle dita sotto gli occhi, un'ombra di filiggine che gli tingeva le narici assottigliate, gli sprofondava gli occhi e la bocca sdentata in fondo a dei buchi neri, gli velava la faccia terrea e sporca di peli grigi. Aprì quegli occhi a stento, udendo suo figlio Gesualdo che gli stava dinanzi al letto, e disse colla voce cavernosa: - Ah! sei venuto a vedere la festa, finalmente? Santo, come un allocco, stava seduto sullo scalino dell'uscio, senza dir nulla, coi lucciconi agli occhi. Burgio e sua moglie si affrettavano a insaccare un po' di grano, per non morir di fame dove andavano, appena avrebbe chiusi gli occhi il vecchio. Nel cortile c'erano anche le mule cariche di roba. Don Gesualdo afferrò pel vestito Bomma, il quale stava per andarsene anche lui. - Che si può fare, don Arcangelo? Comandate! Tutto quello che si può fare, per mio padre... tutto quello che ho!... Non guardate a spesa... - Eh! avrete poco da spendere... Non c'è nulla da fare... Sono venuto tardi. La china non giova più!... una perniciosa coi fiocchi, caro voi! Ma però non muore di colèra, e non c'è motivo di spaventare tutto il vicinato, come fanno costoro! Il vecchio stava a sentire, cogli occhi inquieti e sospettosi in fondo alle orbite nere. Guardava Gesualdo che si affannava intorno al farmacista, Speranza la quale strillava e singhiozzava aiutando il marito ne' preparativi della partenza, Santo che non si muoveva, istupidito, i nipoti qua e là per la casa e nel cortile, e Bomma che gli voltava le spalle, scrollando il capo, facendo gesti d'impazienza. Speranza infine andò a consegnare le chiavi a suo fratello, seguitando a brontolare: - Ecco! Mi piace che siete venuto... Così non direte che vogliamo fare man bassa sulla roba, io e mio marito, appena chiude gli occhi nostro padre... - Non sono ancora morto, no! - si lamentò il vecchio dal suo cantuccio. Allora si alzò come una furia l'altro figliuolo, Santo, con la faccia sudicia di lagrime, vociando e pigliandosela con tutti quanti: - Il viatico che non glielo date, razza di porci?... Che lo fate morire peggio di un cane?... - Non sono ancora morto! - piagnucolò di nuovo il moribondo. - Lasciatemi morire in pace, prima!... - Non è per la roba, no! - gli rispose il genero Burgio accostandosi al letto e chinandosi sul malato come parlasse a un bambino: - Anzi è per vostro amore che vogliamo farvi confessare e comunicare prima di chiudere gli occhi. - Ah!... ah!... Non vi par l'ora!... Lasciatemi in pace... lasciatemi!... Giunse la sera e passò la notte a quel modo. Mastro Nunzio nell'ombra stava zitto e immobile, come un pezzo di legno; soltanto ogni volta che gli facevano inghiottire a forza la medicina, gemeva, sputava, e lamentavasi ch'era amara come il veleno, ch'era morto, che non vedevano l'ora di levarselo dinanzi. Infine, perché non lo seccassero, voltò il naso contro il muro, e non si mosse più. - Poteva essere mezzanotte, sebbene nessuno s'arrischiasse ad aprire la finestra per guardar le stelle. - Speranza ogni tanto s'accostava al malato in punta di piedi, lo toccava, lo chiamava adagio adagio; ma lui zitto. Poi tornava a discorrere sottovoce col marito che aspettava tranquillamente, accoccolato sullo scalino, dormicchiando. Gesualdo stava seduto dall'altra parte col mento fra le mani. In fondo allo stanzone si udiva il russare di Santo. I nipoti erano già partiti colla roba, insieme agli altri inquilini e un gatto abbandonato s'aggirava miagolando per la fattoria, come un'anima di Purgatorio: una cosa che tutti alzavano il capo trasalendo, e si facevano la croce al vedere quegli occhi che luccicavano nel buio, fra le travi del tetto e i buchi del muro; e sulla parete sudicia vedevasi sempre l'ombra del berretto del vecchio, gigantesca, che non dava segno di vita. Poi, tre volte, si udì cantare la civetta. Quando Dio volle, a giorno fatto, dopo un pezzo che il giorno trapelava dalle fessure delle imposte e faceva impallidire il lume posato sulla botte, Burgio si decise ad aprire l'uscio. Era una giornata fosca, il cielo coperto, un gran silenzio per la pianura smorta e sassosa. Dei casolari nerastri qua e là, l'estremità del paese sulla collina in fondo, sembravano sorgere lentamente dalla caligine, deserti e silenziosi. Non un uccello, non un ronzìo, non un alito di vento. Solo un fruscìo fuggì spaventato fra le stoppie all'affacciarsi che fece Burgio, sbadigliando e stirandosi le braccia. - Massaro Fortunato!... venite qua, venite! - chiamò in quel punto la moglie colla voce alterata. Gesualdo chino sul lettuccio del genitore, lo chiamava, scuotendolo. La sorella, arruffata, discinta, che sembrava più gialla in quella luce scialba, preparavasi a strillare. Infine Burgio, dopo un momento, azzardò la sua opinione: - Signori miei, a me sembra morto di cent'anni. Scoppiò allora la tragedia. Speranza cominciò a urlare e a graffiarsi la faccia. Santo, svegliato di soprassalto, si dava dei pugni in testa, fregandosi gli occhi, piangendo come un ragazzo. Il più turbato di tutti però era don Gesualdo, sebbene non dicesse nulla, guardando il morto che guardava lui colla coda dell'occhio appannato. Poi gli baciò la mano, e gli coprì la faccia col lenzuolo. Speranza, inconsolabile, minacciava di correre al paese per buttarsi nella cisterna, di lasciarsi morir di fame: - Cosa ci fo più al mondo adesso? Ho perso il mio sostegno! la colonna della casa! - Quel piagnisteo durò la giornata intera. Inutilmente il marito per consolarla le diceva che don Gesualdo non li avrebbe abbandonati. Erano tutti figli suoi, orfanelli bisognosi. Santo col viso sudicio guardava or questo e or quello come aprivano bocca. - No! - s'ostinava Speranza. - E' morto, ora, mio padre! Non c'è nessuno che pensi a noi! Gesualdo che l'aveva lasciata sfogare un pezzo tentennando il capo, cogli occhi gonfi, le disse infine: - Hai ragione!... Non ho fatto mai nulla per voialtri!... Hai ragione di lagnarti della buona misura!... - No, - interruppe Burgio. - No! Parole che scappano nel brucio, cognato. Intanto bisognava pensare a seppellire il morto, senza un cane che aiutasse, a pagarlo tant'oro! Un falegname, lì al Camemi, mise insieme alla meglio quattro asserelle a mo' di bara, e mastro Nardo scavò la buca dietro la casa. Poi Santo e don Gesualdo dovettero fare il resto colle loro mani. Burgio però stava a vedere da lontano, timoroso del contagio, e sua moglie piagnucolava che non le bastava l'animo di toccare il morto. Le faceva male al cuore, sì! Dopo, asciugatisi gli occhi, rifatto il letto, rassettata la casa, nel tempo che mastro Nardo preparava le cavalcature, e aspettavano seduti in crocchio, ella attaccò il discorso serio. - E ora, come restiamo intesi? Tutti quanti si guardarono in faccia a quell'esordio. Massaro Fortunato tormentava la nappa della berretta, e Santo sgranò gli occhi. Don Gesualdo però non aveva capito l'antifona, col viso in aria, cercava il verbo. - Come restiamo intesi? Perché? Di che cosa? - Per discorrere dei nostri interessi, eh? Per dividerci l'eredità che ha lasciato quella buon'anima, tanto paradiso! Siamo tre figliuoli... Ciascuno la sua parte... secondo vi dice la coscienza... Voi siete il maggiore, voi fate le parti... e ciascuno di noi piglia la sua... Però se ci avete il testamento... Non dico... Allora tiratelo fuori, e si vedrà. Don Gesualdo, che era don Gesualdo, rimase a bocca aperta a quel discorso. Stupefatto, cercava le parole, balbettava: - L'eredità?... Il testamento?... La parte di che cosa?... Allora Speranza infuriò. - Come? Di questo si parlava. Non erano tutti figli dello stesso padre? E il capo della casa chi era stato? Sinora aveva avuto le mani in pasta don Gesualdo, vendere, comprare... Ora, ciascuno doveva avere la sua parte. Tutto quel ben di Dio, quelle belle terre, la Canziria, la Salonia stessa dove avevano i piedi, erano forse piovuti dal cielo? - Burgio, più calmo, metteva buone parole; diceva che non era quello il momento, col morto ancora caldo. Tappava la bocca alla moglie; cacciava indietro il cognato Santo, il quale aveva aperto tanto d'orecchi e vociava: - No, no, lasciatela dire! - Infine volle che si abbracciassero, lì, nella stanza dove erano rimasti poveri orfanelli. Don Gesualdo era un galantuomo, un buon cuore. Non l'avrebbe fatta una porcheria. - Non scappate! Sentite qua! Non è vero? Non siete un galantuomo? - No! no! Lasciatemi sentire quello che pretendono. E' meglio spiegarsi chiaro. Ma la sorella non gli dava più retta, seduta su di un sasso, fuori dell'uscio, borbottando fra di sè. Massaro Fortunato toccò pure degli altri tasti: il gastigo di Dio che avevano sulle spalle, l'ora che si faceva tarda. Intanto mastro Nardo tirò fuori la mula dalla stalla. Rimasero ancora un pezzetto lì fuori a tenersi il broncio. Poi don Gesualdo propose di condurseli tutti a Mangalavite. Il cognato Burgio serrava l'uscio a chiave, e caricava sul basto i pochi panni, che aveva raccolti in un fagottino. Speranza non rispose subito all'invito del fratello, sciorinando lo scialle per accingersi alla partenza, guardando di qua e di là, cogli occhi torvi. Infine spiattellò quel che aveva sullo stomaco: - A Mangalavite?... No, grazie tante!... Cosa ci verrei a fare... se dite che è roba vostra?... Sarebbe anche un disturbo per vostra moglie e la figliuola... due signore avvezze a stare coi loro comodi... Noi poveretti ci accomodiamo alla meglio... Andremo alla Canziria. Andremo piuttosto alla fornace del gesso che ha lasciato mio padre, buon'anima... Quella sì!... Colà almeno saremo a casa nostra. Non direte d'averla comperata coi vostri guadagni la fornace del gesso!... No, no, sto zitta, massaro Fortunato! Se ne parlerà poi, chi campa. Chi campa tutto l'anno vede ogni festa. Vi saluto, don Gesualdo. Sarà quel che vuol Dio. Beato quel poveretto che adesso è tranquillo, sottoterra!... Brontolava ancora ch'era già in viaggio, sballottata dall'ambio della cavalcatura, colla schiena curva, e il vento che le gonfiava lo scialle dietro. Don Gesualdo montò a cavallo lui pure, e se ne andò dall'altra parte, col cuore grosso dell'ingratitudine che raccoglieva sempre, voltandosi indietro, di tanto in tanto, a guardare la fattoria rimasta chiusa e deserta, accanto alla buca ancora fresca, e la cavalcata dei suoi che si allontanavano in fila, uno dopo l'altro, di già come punti neri nella campagna brulla che s'andava oscurando. Dopo un pezzetto, mastro Nardo che ci aveva pensato su, fece l'orazione del morto: - Poveretto! Ha lavorato tanto... per tirare su i figliuoli... per lasciarli ricchi... Ora è sotto terra! Vi rammentate, vossignoria, quando è rovinato il ponte, a Fiumegrande, e voleva annegarsi?... Ecco cos'è il mondo! Oggi a te, domani a me. Il padrone gli rivolse un'occhiata brusca, e tagliò corto: - Zitto, bestia!... Anche tu!... Potevano essere due ore di notte quando arrivarono alla Fontana di don Cosimo, con una bella sera stellata, il cielo tutto che sembrava formicolare attorno a Budarturo, sulla distesa dei piani e dei monti che s'accennava confusamente. La mula, sentendo la stalla vicina, si mise a ragliare. Allora abbaiarono dei cani; laggiù in fondo comparvero dei lumi in mezzo all'ombra più fitta degli alberi che circondavano la casina, e s'udirono delle voci, un calpestìo precipitoso come di gente che corresse; lungo il sentiero che saliva dalla valle si udì un fruscìo di foglie secche, dei sassi che precipitarono rimbalzando, quasi alcuno s'inerpicasse cautamente. Poi silenzio. A un tratto, dal buio, sul limite del boschetto, partì una voce: - Ehi, don Gesualdo? - Ehi, Nanni, che c'è? Compare Nanni non rispose, mettendosi a camminare accanto alla mula. Dopo un momento masticò sottovoce, quasi a malincuore: - C'è che son qui per guardarvi le spalle! Don Gesualdo non chiese altro. Scendevano per la viottola in fila. Nanni l'Orbo aggiunse soltanto, di lì a un po': - Si fece la festa, eh? - E come il padrone continuava a tacere, conchiuse: - L'ho capito alla cera che avete, vossignoria. Mondo di guai!... L'uno dopo l'altro! - Giunti alla fontana infine disse: - Smontiamo qui, eh? Mastro Nardo se ne andrà pel viale colle cavalcature, e noi da questa parte, per far più presto. Don Gesualdo capì subito, e non se lo fece dire due volte. Andavano in silenzio, lungo il muro, quasi ci vedessero al buio. A un certo punto l'Orbo accennò delle pietre sparse per terra, una specie di breccia fra le spine che coronavano il muro, e disse piano: - Vedete, vossignoria? - L'altro affermò col capo, e scavalcò il chiuso. Nanni l'Orbo coll'acciarino accese un zolfanello e andarono seguendo le pedate passo passo, sino alla casina. Sotto la finestra di donna Isabella l'Orbo additò in silenzio l'erba ch'era tutta pesta, quasi ci si fossero davvero sdraiati degli asini. - I cani poi come fossero alloppiati! - osservò compare Nanni con quel fare misterioso. - Se non ero io, che ho l'orecchio fino... Dicevo a Diodata: Finché manca il padrone bisogna stare coll'orecchio teso, per guardargli le spalle... Allora ho mandato Nunzio sul ponticello, mentre io con Gesualdo arrivavo dalla parte del palmento... Sissignore dov'è alloggiata donna Sarina col nipote... Se i cani sono stati zitti, dicevo fra di me... - Va bene. Adesso taci. Di lassù potrebbero udirti. Il giorno dopo, ricevendo le visite di condoglianza, vestito di nero, colla barba lunga, appena donna Sarina ebbe fatto l'elogio del morto e del vivo, asciugandosi gli occhi, rimboccandosi le maniche per correre in cucina ad aiutare in quello scompiglio, don Gesualdo la fermò nell'andito, senza tanti complimenti. - Sapete, donna Sarina?... il servizio che dovreste farmi sarebbe d'andarvene. Patti chiari e amici cari, non è vero? Ho bisogno di quelle due stanze... pei miei motivi. Sinora non vi ho detto nulla. Ma voi avrete ammirato la mia prudenza, eh? La Cirmena diventò verde. S'aggiustò il vestito, sorridendo, pigliandola con disinvoltura: - Bene, bene. Ho capito. Una volta che vi servono quelle due stanzuccie... Se avete i vostri motivi... Anche subito, su due piedi... colèra o no!... La gente non ha da dire se me ne mandate via in mezzo al colèra!... Siete il padrone. Ciascuno sa i fatti di casa sua. Soltanto, se permettete, vado prima a salutare mia nipote. Non so cosa potrebbero pensare se me ne andassi zitta zitta... Le male lingue, sapete!... Bianca non arrivava a capacitarsi: - Come? andarsene via? nel fitto del colèra? Perché? Cos'era stato? - La zia Cirmena adduceva diversi pretesti strambi: forza maggiore; ciascuno ha i suoi motivi; interessi gravi di casa; Corrado aveva ricevuto una lettera urgentissima. - Gli rincresce anche a lui, poveretto. Gli è arrivata fra capo e collo. S'era tanto affezionato a questi luoghi... Anche poco fa mi diceva: - Zia, oggi è l'ultima passeggiata che andrò a fare alla sorgente... - Don Gesualdo, fuori dei gangheri, tagliò corto a quei discorsi sciocchi. - Scusate, donna Sarina. Mia moglie non capisce più niente... Diventano tutti così nella sua famiglia... Doveva toccare a me!... Isabella invece s'era fatta pallida come un cadavere. Ma non si mosse, non disse nulla, una vera Trao, col viso fermo e impenetrabile. Ricambiava anche gli abbracci e i saluti affettuosi della zia, sforzandosi di sorridere, con una ruga sottile fra le ciglia. Poi, quando fu sola, a un tratto, con un gesto disperato, si strappò la gorgierina che la soffocava, con un'onda di sangue al volto, un abbarbagliamento improvviso dinanzi agli occhi, una fitta, uno spasimo acuto che la fece vacillare, annaspando, fuori di sé. Voleva vederlo, l'ultima volta, a qualunque costo, quando tutti sarebbero stati a riposare, dopo mezzogiorno, e che alla casina non si moveva anima viva. La Madonna l'avrebbe aiutata: - La Madonna!... la Madonna!... - Non diceva altro, con una confusione dolorosa nelle idee, la testa in fiamme, il sole che le ardeva sul capo, gli occhi che le abbruciavano, una vampa nel cuore che la mordeva, che le saliva alla testa, che l'accecava, che la faceva delirare: - Vederlo! a qualunque costo!... Domani non lo vedrò più!... più!... più!... - Non sentiva le spine; non sentiva i sassi del sentiero fuori mano che aveva preso per arrivare di nascosto sino a lui. Ansante, premendosi il petto colle mani, trasalendo a ogni passo, spiando il cammino con l'occhio ansioso. Un uccelletto spaventato fuggì con uno strido acuto. La spianata era deserta, in un'ombra cupa. C'era un muricciuolo coperto d'edera triste, una piccola vasca abbandonata nella quale imputridivano delle piante acquatiche, e dei quadrati d'ortaggi polverosi al di là del muro, tagliati dai viali abbandonati che affogavano nel bosco irto di seccumi gialli. Da per tutto quel senso di abbandono, di desolazione, nella catasta di legna che marciva in un angolo, nelle foglie fradicie ammucchiate sotto i noci, nell'acqua della sorgente la quale sembrava gemere stillando dai grappoli di capelvenere che tappezzavano la grotta, come tante lagrime. Soltanto fra le erbacce del sentiero pel quale lui doveva venire, dei fiori umili di cardo che luccicavano al sole, delle bacche verdi che si piegavano ondeggiando mollemente, e dicevano: Vieni! vieni! vieni! Attraversò guardinga il viale che scendeva alla casina, col cuore che le balzava alla gola, le batteva nelle tempie, le toglieva il respiro. C'erano lì, fra le foglie secche, accanto al muricciuolo dove lui s'era messo a sedere tante volte, dei brani di carta abbruciacchiati, umidicci, che s'agitavano ancora quasi fossero cose vive; dei fiammiferi spenti, delle foglie d'edera strappate, dei virgulti fatti in pezzettini minuti dalle mani febbrili di lui, nelle lunghe ore d'attesa, nel lavorìo macchinale delle fantasticherie. S'udiva il martellare di una scure in lontananza; poi una canzone malinconica che si perdeva lassù, nella viottola. Che agonìa lunga! Il sole abbandonava lentamente il sentiero; moriva pallido sulla rupe brulla di cui le forre sembravano più tristi, ed ella aspettava ancora, aspettava sempre. - Signor don Gesualdo... Venite qua, se permettete... Ho da parlarvi. - Nanni l'Orbo, continuando a chiamarlo, dall'aia, affettava di non poter mettere il piede nel cortile, coll'aria misteriosa, finchè il padrone andò a sentire quel che diavolo volesse, dandogli una buona strapazzata, per cominciare: - T'ho detto tante volte di non lasciarti vedere da queste parti! Che diavolo!... Se lo fai apposta... - Nossignore. Appunto, vi ho chiamato qui fuori. Dobbiamo parlare da solo a solo, per quel che ho da dirvi... Qui nel giardino. Siamo aspettati. C'erano infatti Nunzio e Gesualdo di Diodata, vestiti da festa, colle mani in tasca, e un fazzolettino nero al collo. Compare Nanni lo fece notare al padrone. - Il sangue è sangue. Avete da ridirci? Tutti e due... hanno voluto portare il lutto alla buon'anima di vostro padre... per rispetto, senza secondi fini... Soltanto, vossignoria potete aiutarli senza mettere mano alla tasca... Ecco, loro vorrebbero a mezzadria quel pezzo di terra ch'è sotto la fontana. Sono due bravi ragazzi, laboriosi. Vi somigliano, don Gesualdo... Se date loro qualche agevolazione, pensate infine che non lo fate per degli estranei!... Don Gesualdo tentennava, insospettito da una parte d'esser preso così alla sprovvista, e cedendo nel tempo istesso, suo malgrado, a quella certa voce interna che gli andava ripicchiando dentro tutti gli argomenti messi fuori da compare Nanni per persuaderlo. - Infine cosa domandavano?... del lavoro... Lui che poteva tanto!... Un affare di coscienza!... Avrebbe fatto un buon negozio anche... - A un certo punto l'Orbo propose di mandare a chiamare Diodata perché dicesse la sua. Don Gesualdo allora, per levarsi quella noia, per sgravio di coscienza, come diceva quell'altro fissando i due ragazzoni, che seguivano passo passo colle mani in tasca, senza aprir bocca, si lasciò scappare: - Be'... be', se si parla soltanto del pezzo di terra ch'è sotto la fontana... Se non fate come il riccio che poi allarga le spine... - Sissignore! Che vuol dire! - saltò su compare Nanni pigliandolo subito in parola. - Quello solo! Mezza salma di terra in tutto. Possiamo andare a vedere. E' qui vicino. Vi metteremo i segnali sotto i vostri occhi, giacché siete qui, perchè non temiate che vi si rubi... Giusto!... ci abbiamo anche dei testimoni, vedete... La signorina, lassù, sotto il gran noce... Don Gesualdo guardò dove diceva l'Orbo, e si sbiancò subito in viso. A un tratto, mutò cera e maniera, e congedò tutti bruscamente: - Va bene, ne parleremo... C'è tempo. Non si piglia così la gente pel collo, santo e santissimo! Ho detto di sì; ora andatevene! I due giovani sgattaiolarono mogi mogi a quella sfuriata, mentre Nanni si cacciava fra le macchie per godersi la scena da lontano. Don Gesualdo saliva già in fretta pel viale, come avesse vent'anni, sottosopra. Isabella se lo vide comparire dinanzi all'improvviso con una faccia che quasi la fece tramortire dallo spavento. Egli non le disse nulla. Se la prese per mano, come una bambina, e se la portò a casa. Lei si lasciava condurre, come una morta, col cuore morto, senza vedere, inciampando nei sassi. Solo di tanto in tanto si cacciava la mano nei capelli, quasi sentisse lì un gran smarrimento, un gran dolore. Bianca al vederli arrivare a quel modo si mise a tremare come una foglia. Il marito le consegnò la figliuola con un'occhiata terribile, tentennando il capo. Ma non disse nulla. Si mise a passeggiare per la stanza, asciugandosi tratto tratto col fazzoletto il fiele che ci aveva in bocca. Poi aprì l'uscio di colpo e se ne andò. Girava da per tutto come un bue infuriato, sbattendo gli usci, pigliandosela con chi gli capitava. Udivasi ovunque la sua voce che faceva tremare la casa: - Nardo, dove sei stato sino ad ora? T'avevo detto di portarmi quelle forbici alla vigna? - Non sono rientrati ancora i puledri? Me li farà storpiare quell'animale di Brasi! Gli darò ora il fatto suo, appena torna! - Di', Santoro? avete terminato di mietere i sommacchi lassù?... Cosa diavolo avete fatto dunque tutta la giornata?... Appena manca un momento il padrone!... Assassini! nemici salariati!... - Martino! il lume accendi, Martino, per mungere le pecore! Mi verserai per terra tutto il latte, così al buio, bestia!... - Ancora non hanno acceso il lume lassù! Che fanno? Recitano il rosario?... Concetta! Concetta! Siamo ancora al buio! Cosa diavolo fate? Che casa, appena volto le spalle io!... Che succederà se io chiudo gli occhi?... Dopo un po' di tempo tornò a bussare all'uscio delle donne, e siccome non aprivano subito lo sfondò con un calcio. Bianca allora si rivoltò inferocita, simile a una chioccia che difende i pulcini, con un viso che nessuno le aveva mai visto; il viso stralunato dei Trao, in cui gli occhi luccicavano come quelli di una pazza sul pallore e la magrezza spaventosa, coprendo col suo il corpo della figliuola ch'era stesa bocconi sul letto, col viso nel guanciale, scossa da sussulti nervosi. - Ah! me la volete uccidere dunque? Non vi basta? Non vi basta? Me la volete uccidere? Non si riconosceva più, tanto che lo stesso don Gesualdo rimase sconcertato. Ora cercava di pigliarla colle buone, vinto da uno sconforto immenso, dall'amarezza di tanta ingratitudine che gli saliva alla gola, colle ossa rotte, il cuore nero come la pece. - Avete ragione!... Io sono il tiranno! Ho il cuore e la pelle dura, io! Sono il bue da lavoro... Se m'ammazzo a lavorare è per voialtri, capite? A me basterebbe un pezzo di pane e formaggio... Vuol dire che ho lavorato per buttare ogni cosa in bocca al lupo... il mio sangue e la mia roba!... Avete ragione!... Bianca volle balbettare qualche parola. Allora egli si voltò infuriato contro di lei, con le mani in aria, la bocca spalancata. Ma non disse nulla. Guardò la figliuola che si era appoggiata tutta tremante alla sponda del lettuccio, col viso gonfio, le trecce allentate; allora lasciò cadere le braccia e si mise a passeggiare innanzi e indietro per la camera, picchiando le mani una sull'altra, soffiando e sbuffando, cogli occhi a terra, quasi cercasse le parole, cercando le maniere che ci volevano per far capire la ragione a quelle teste dure. - Via via, Isabella!... E' una sciocchezza, capisci!... E' una sciocchezza guastarsi il sangue... Non voglio guastarmi il sangue... Ho tanti altri guai! Ci ho il cuore grosso!... Vorrei che tu vedessi un po' quanti guai ci ho in testa!... Ti metteresti a ridere, com'è vero Dio!... Vedresti che sciocchezza è tutto il resto!... Ancora sei giovane... Certe cose non le capisci... Il mondo, vedi, è una manica di ladri... Tutti che fanno: levati di lì e dammi il fatto tuo... Ognuno cerca il suo guadagno... Vedi, vedi... te lo dico?... Se tu non avessi nulla, nessuno ti seccherebbe... E' un negozio, capisci?... Il modo d'assicurarsi il pane per tutta la vita. Uno che è povero, uomo o donna, sia detto senza offendere nessuno, s'industria come può... Gira l'occhio intorno; vede quello che farebbe al caso suo... e allora mette in opera tutti i mezzi per arrivarci, ciascuno come può... Uno, poniamo, ci mette il casato, e un altro quello che sa fare di meglio... le belle parole, le occhiate tenere... Ma chi ha giudizio, dall'altra parte, deve badare ai suoi interessi... Vedi come son sciocchi quelli che piangono e si disperano?... Il discorso gli morì in bocca dinanzi al viso pallido e agli occhi stralunati coi quali lo guardava la figliuola. Anche la moglie non sapeva dir altro: - Lasciatela stare!... Non vedete com'è?... - Come una sciocca è!... - gridò mastro-don Gesualdo uscendo finalmente fuori dai gangheri. - Come una che non sa e non vuol sapere!... Ma io non sarò sciocco, no!... Io lo so quello che vuol dire!... E se ne andò infuriato.
Cessata la paura del colèra, appena ritornato in paese, don Gesualdo s'era vista arrivare la citazione della sorella, autorizzata dal marito Burgio, che voleva la sua parte dell'eredità paterna - di tutto ciò che egli possedeva - una bricconata; adducendo che quei beni erano stati acquistati coi guadagni della società, di cui era a capo mastro Nunzio; e che adesso voleva appropriarsi tutto lui, Gesualdo, - lui che li aveva avuti tutti quanti sulle spalle, sino a quel giorno! che aveva dovuto chinare il capo alle speculazioni sbagliate del padre! ch'era stato la provvidenza del cognato Burgio nelle malannate! che pagava i debiti del fratello Santo all'osteria di Pecu-Pecu! - anche Santo lo citava per avere la sua quota, aveva fatto parte della società anche lui, quel fannullone! - Ora lo svillaneggiavano per mezzo d'usciere; gli davano del ladro; volevano mettere i sigilli; sequestrargli la roba. Lo trascinavano fra le liti, gli avvocati, i procuratori - un sacco di spese, tanti bocconi amari, tanta perdita di tempo, tanti altri affari che ne andavano di mezzo, i suoi nemici che c'ingrassavano - nei caffè e nelle spezierie non si parlava d'altro - tutti addosso a lui perch'era ricco, e pigliando le difese dei suoi parenti che non avevano nulla! Il notaro Neri gli faceva anche l'avvocato contrario, gratis et amore, per le questioni vecchie e nuove che erano state fra di loro. Speranza l'aspettava sulle scale del pretorio per vomitargli addosso degli improperii, aizzandogli contro i figliuoli grandi e grossi inutilmente, aizzandogli contro Santo che non aveva faccia veramente di pigliarsela con don Gesualdo e cercava di sfuggirlo. - Siete tutti quanti dei capponi! tale e quale mio marito!... Io sola dovrei portare i calzoni qui! Non mi tengo se non lo mando in galera, quel ladro! Venderò la camicia che ho indosso. Voglio il fatto mio, il sangue di mio padre... - Fu peggio ancora la prima volta che il giudice le diede causa persa: - Signori miei, guardate un po'!... Tutto si compra coi denari al giorno d'oggi!... Ma ricorrerò sino a Palermo, sino al re, se c'è giustizia a questo mondo!... - Il barone Zacco, siccome allora aveva in testa di combinare certo negozio con don Gesualdo, s'intromise a farla da paciere. Una domenica riunì in casa sua tutti i Motta, compreso il marito di comare Speranza ch'era una bestia, e non sapeva dire le sue ragioni. Santo, costretto a trovarsi faccia a faccia con suo fratello don Gesualdo, cominciò dallo scusarsi: - Che vuoi?... Io non ci ho colpa. Mi condussero dall'avvocato... Cosa dovevo fare?... Perché l'abbiamo chiesto il consiglio dell'avvocato?... Quello che mi dice l'avvocato io fo... Don Gesualdo si mostrava arrendevole. Non che ci fosse obbligato, no! - la legge lui la conosceva. - Ma per buon cuore. Il bene che aveva potuto fare ai suoi parenti l'aveva sempre fatto, e voleva continuare a farlo. Lì un battibecco di prove e controprove che non finivano più. Speranza, che vedeva sfumare la sua parte dell'eredità se si parlava di buon cuore, se la pigliava col marito e coi figliuoli i quali non sapevano difendersi. Anche Santo stava zitto, come un ragazzo che ne ha fatta una grossa. Fortuna che c'era lei, a dire il fatto suo: - Che volete darci, la limosina? Qualche salma di grano a comodo vostro, di tanto in tanto? qualche salma di vino, quello che non potete vendere? - Cosa vuoi che ti dia, l'Alìa o Donninga? Vuoi che mi spogli io per empire il gozzo a voialtri che non avete fatto nulla? Ho figli. La roba non posso toccarla... - La roba tua?... sentite quest'altra! Allora vuol dire che nostro padre buon'anima non ha lasciato nulla? E il negozio del gesso che avevate in comune? E quando avete preso insieme l'appalto del ponte? Nulla è rimasto alla buon'anima? I guadagni sono stati di voi solo? per comprare delle belle tenute? quelle che volete appropriarvi perché avete dei figliuoli?... C'è un Dio lassù, sentite!... Ciò che volete togliere di bocca a questi innocenti, c'è già chi se lo mangia alla vostra barba! Andate a vedere, la sera, sotto le vostre finestre, che passeggio!... Finì in parapiglia. Il barone dovette mettersi a gridare e a fare il diavolo perché non si accapigliassero seduta stante, invece di rappacificarsi. Speranza se ne andò da una parte ancora sbraitando, e don Gesualdo dall'altra, colla bocca amara, tormentato anche da quell'altra pulce che la sorella gli aveva messo nell'orecchio. Adesso, in mezzo a tanti guai e grattacapi, gli toccava pure dover sorvegliare la figliuola e quell'assassino di Corrado La Gurna che la Cirmena per dispetto gli metteva fra i piedi, lì in paese, a spese sue. Doveva tenere gli occhi aperti su ciascuno che andava e veniva, sulle serve, sui fogli di carta che mancavano, sulla figliuola la quale aveva l'aria di chi ne cova una grossa, pallida allampanata... Ci si struggeva l'anima, la disgraziata! E lui doveva rodersi il fegato e mandar giù la bile, per non far di peggio. Una sera finalmente la sorprese alla finestra, con un tempo da lupi. - Ah!... Continua la musica!... Che fai qui... a quest'ora?... A prendere il fresco per l'estate? T'insegno io a contar le stelle! Non m'hai visto ancora uscir dai gangheri! Gliel'insegno io a passeggiar di sera sotto le mie finestre, a certi cavalieri! Un fracco di legnate, se l'incontro! M'hai visto finora colla bocca dolce; ma adesso ti fo vedere anche l'amaro! Ti faccio arar diritto, come tiro l'aratro io! Da quel giorno ci fu un casa del diavolo, mattina e sera. Don Gesualdo prese Isabella colle buone, colle cattive, per levarle dalla testa quella follìa; ma essa l'aveva sempre lì nella ruga sempre fissa fra le ciglia, nella faccia pallida, nelle labbra strette che non dicevano una parola, negli occhi grigi e ostinati dei Trao che dicevano invece - Sì, sì, a costo di morirne! - Non osava ribellarsi apertamente. Non si lagnava. Ci perdeva la giovinezza e la salute. Non mangiava più; ma non chinava il capo, testarda, una vera Trao, colla testa dura dei Motta per giunta. - Il pover'uomo era ridotto a farsi da sè l'esame di coscienza. - Dei genitori quella ragazza aveva preso i soli difetti. Ma l'amore alla roba no! Il giudizio di capire chi le voleva bene e chi le voleva male, il giudizio di badare ai suoi interessi, no! Non era neppure docile e ubbidiente come sua madre. Gli aveva guastata anche Bianca! Anche costei, al vedere la sua creatura che diventava pelle e ossa, era diventata come una gatta che gli si vogliano rubare i figliuoli, col pelo irto, tale e quale - la schiena incurvata dalla malattia e gli occhi luccicanti di febbre. Gli sfoderava contro le unghie e la lingua. - Volete farla morire di mal sottile, la mia creatura? Non vedete com'è ridotta? Non vedete che vi manca di giorno in giorno? - L'avrebbe aiutata, sottomano, anche a fare uno sproposito, anche a rompersi il collo. Avrebbe tradito il marito per la sua creatura. Gli diceva: - Me ne vo a stare da mio fratello! Io e la mia figliuola! Che vi pare? - Cogli occhi di brace. Non l'aveva mai vista a quella maniera. Una volta, dietro al medico il quale veniva per la ragazza, egli vide capitare una faccia che non gli piacque: una vecchia del vicinato che portava la medicina del farmacista, come don Luca il sagrestano e sua moglie Grazia portavano in casa Trao le sue imbasciate amorose. Era ridotto a passare in rivista le ricette del medico e la carta delle pillole che mandava Bomma. In un mese mutarono cinque donne di servizio. Era un tanghero lui, ma non era un minchione come i fratelli Trao. Teneva ogni cosa sotto chiave; non lasciava passare un baiocco che potesse aiutare a fargli il tradimento. Era un cane alla catena anche lui, pover'uomo. Infine per togliersi da quell'inferno si decise a mettere Isabella in convento, lì al Collegio di Maria, come quando era bambina, carcerata! Sua moglie ebbe un bel piangere e disperarsi. Il padrone era lui! - Sentite, - gli disse Bianca colle mani giunte, - io ho poco da penare. Ma lasciatemi la mia figliuola, fino a quando avrò chiuso gli occhi. - No! - rispose il marito. - Non ha neppure compassione di te quell'ingrata! Ci siamo ammazzati tutti per farne un'ingrata! Ha perso l'amore ai parenti... lontana di casa sua! Il tradimento glielo fecero lì, al Collegio: dell'altra gente beneficata da lui, la sorella di Gerbido che faceva la portinaia, Giacalone che veniva a portare i regali della zia Cirmena e faceva passare i bigliettini dalla ruota, Bomma che teneva conversazione aperta nella spezieria per far comodo a don Corrado La Gurna, il quale mettevasi subito a telegrafare, appena la ragazza saliva apposta sul campanile. Lo facevano per pochi baiocchi, per piacere, per niente, per inimicizia. Congiuravano tutti quanti contro di lui, per rubargli la figliuola e la roba, come se lui l'avesse rubata agli altri. Un bel giorno infine, mentre le monache erano salite in coro, che c'erano le quarant'ore, la ragazza si fece aprir la porta dai suoi complici, e spiccò il volo. Fu il due febbraio, giorno di Maria Vergine. C'era un gran concorso di devoti quell'anno alla festa, perché non pioveva dall'ottobre. Don Gesualdo era andato in chiesa anche lui, a pregare Iddio che gli togliesse quella croce d'addosso. Invece il Signore doveva aver voltati gli occhi dall'altra parte quella mattina. Appena tornò dalla santa Messa, quel giorno segnalato, trovò la casa sottosopra; sua moglie colle mani nei capelli, le serve che correvano di qua e di là. Infine gli narrarono l'accaduto. Fu come un colpo d'accidente. Dovettero mandare in fretta e in furia pel barbiere e cavargli sangue. La gnà Lia si buscò uno schiaffo tale da fracassarle i denti. Bianca più morta che viva scendeva le scale ruzzoloni, quasi per fuggirsene anche lei, dalla paura. Lui, paonazzo dalla collera, colla schiuma alla bocca, non ci vedeva dagli occhi. Non vedeva lo stato in cui era la poveretta. Voleva correre dal giudice, dal sindaco, mettere sottosopra tutto il paese; far venire la Compagnia d'Arme da Caltagirone; farli arrestare tutti e due, figliuola e complice; farlo impiccare nella pubblica piazza, quel birbante! farlo squartare dal boia! fargli lasciare le ossa in fondo a un carcere! - Quell'assassino! quel briccone! In galera voglio farlo morire!... tutti e due!... In mezzo a quelle furie capitò la zia Cirmena, col libro da messa in mano, il sorriso placido, vestita di seta. - Chetatevi, don Gesualdo. Vostra figlia è in luogo sicuro. Pura come Maria Immacolata! Chetatevi! Non fate scandali, ch'è peggio! Vedete vostra moglie, che pare stia per rendere l'anima a Dio, poveretta! Lei è madre! Non possiamo sapere quello che ci ha nel cuore in questo momento! Sono venuta apposta per accomodar la frittata. Io non ci ho il pelo nello stomaco, come tanti altri. Non so tener rancore. Sapete che mi sono sbracciata sempre pei parenti. Mi avete messo sulla strada... col colèra... con un orfanello sulle spalle... Ma non importa. Eccomi qua ad accomodare la faccenda. Ho il cuore buono, tanto peggio! mio danno! Ma non so che farci! Ora bisogna pensare al riparo. Bisogna maritar quei due ragazzi, ora che il male è fatto. Non ci è più rimedio. Del resto sul giovane non avete che dire... di buona famiglia. Don Gesualdo stavolta le perse il rispetto addirittura, con tanto di bocca aperta, quasi volesse mangiarsela: - Con quel pezzente?... Dargli la mia figliuola?... Piuttosto la faccio morire tisica come sua madre!... In campagna! in un convento! Bel negozio che mi portate!... da pari vostra!... Ci vuole una bella faccia tosta!... Mi fate ridere con questa bella nobiltà... So quanto vale!... tutti quanti siete!.... Successe un parapiglia. Donna Sarina sfoderò anche lei la sua lingua tagliente, rossa al pari di un gallo: - Parlate da quello che siete! Almeno dovevate tacere per riguardo a vostra moglie, villano! mastro-don Gesualdo! Siete la vergogna di tutto il parentado!... - Ah! ah! la vergogna. Andate là che avete ragione a parlare di vergogna, voi!... mezzana! Ci avete tenuto mano anche voi! Siete la complice di quel ladro!... Bel mestiere alla vostra età! Vi farò arrestare insieme a lui, donna Sarina dei miei stivali! donna... cosa, dovrebbero chiamarvi! Sopraggiunse lo zio Limòli, nonostante i suoi acciacchi, pel decoro della famiglia, per cercare di metter pace anche lui, colle buone e colle cattive. - Non fate scandali! Non strillate tanto, ch'è peggio! I panni sporchi si lavano in casa. Vediamo piuttosto d'accomodare questo pasticcio. Il pasticcio è fatto, caro mio, e bisogna digerirselo in santa pace. Bianca! Bianca, non far così che ti rovini la salute... Non giova a nulla... Don Gesualdo partì subito a rompicollo per Caltagirone. Voleva l'ordine d'arresto, voleva la Compagnia d'Arme. Lo zio marchese dal canto suo provvide a quello che c'era di meglio da fare, con prudenza ed accorgimento. Prima di tutto andò a prendere subito la nipote, e l'accompagnò al monastero di Santa Teresa, raccomandandola a una sua parente. La gente di casa, un po' colle minacce, un po' col denaro, furono messi a tacere. Poco dopo giunse come un fulmine da Caltagirone l'ordine d'arresto per Corrado La Gurna. Donna Sarina Cirmena, impaurita, tenne la lingua a casa anche lei. Intanto il marchese lavorava sottomano a cercare un marito per Isabella. Era figlia unica; don Gesualdo per amore o per forza, avrebbe dovuto darle una bella dote; e colle sue numerose relazioni era certo di procurarle un bel partito. Ne scrisse ai suoi amici; ne parlò alle persone che potevano aiutarlo in simili faccende, il canonico Lupi, il notaro Neri. Quest'ultimo gli scovò finalmente colui che faceva al caso: un gran signore di cui il notaro amministrava i possessi, alquanto dissestato è vero nei suoi affari, ingarbugliato fra liti e debiti, ma di gran famiglia, che avrebbe dato un bel nome alla discendenza di mastro-don Gesualdo. Quando si venne poi a discorrere della dote con quest'ultimo fu un altro par di maniche. Lui non voleva lasciarsi mangiar vivo. Neanche un baiocco! Il suo denaro se l'era guadagnato col sudore della fronte, la vita intera. Non gli piaceva di lasciarsi aprir le vene per uno che doveva venire da Palermo a bersi il sangue suo. - Di dove volete che venga dunque, dalla luna? Caro mio, queste son parole al vento. Sapete com'è? Vi porto un paragone a modo vostro, per farvi intendere ragione: La grandine che vi casca nella vigna... Una disgrazia che vi capita nell'armento... Bisogna mandare alla fiera la giovenca che si è rotte le corna, e chiudere gli occhi sul prezzo. Bisogna chinare il capo, per amore o per forza. Del resto non avete altri figliuoli... Almeno sapete di farla una signorona!... Il marchese nel tempo istesso andava a far visita alla nipotina. La pigliava colle buone, col giudizio che ci vuole per toccare certi tasti: - Hai ragione! Piangi pure che hai ragione! Sfogati con me che capisco queste cose... Un brucio, una cosa che sembra di morire! Tuo padre non ne capisce nulla, poveretto. E' stato sempre in mezzo ai suoi negozi, ai suoi villani... un po' rozzo anche, se vogliamo... Ma ha lavorato per te, per farti ricca. Tu, col nome di tua madre, e coi quattrini di lui, puoi rappresentare la prima parte anche in una grande città, quando vorrai... Non qui, in questo buco... Qui mi sembra di soffocare anche a me. Sono stato giovane; me li son goduti anch'io i begli anni... Appunto ti dicevo... Capisco quello che devi averci adesso nel tuo cuoricino. Quando si è giovani pare che al mondo non ci debba essere altro che quello... Tuo padre ha preso la via storta... Ma se lui si ostina a non darti nulla, neanche quel giovane, poveretto, ne ha... E allora... se ti tocca scopar la casa... se lui deve tirare il diavolo per la coda... Sarà un affar serio, intendi? Vengono le quistioni, i pentimenti, i musi lunghi. I musi lunghi imbruttiscono te e lui, mia cara. Perché poi? con qual costrutto? Se tuo padre ha detto di no, sarà di no, che non lo sposerai. Morirai qui, in questa specie d'ergastolo; ci consumerai i tuoi begli anni. Corrado rimarrà in esilio, ad arbitrio della polizia, finché vorrà tuo padre; egli ha le braccia lunghe adesso... Nemmeno a chi vuoi bene gioveresti, se ti ostini. Tuo cugino ha bisogno d'aver la testa quieta, di lavorare in pace, per guadagnarsi da vivere onestamente... Invece potresti sposare un gran signore, e s'è vero che quel giovane ti vuol tanto bene dovrebbe esser contento lui pel primo. Quello si chiama amore... Un gran signore, capisci! Per ora non dirne nulla colle tue compagne... qui nel monastero sai creperebbero d'invidia... Ma so che c'è per aria il progetto di farti sposare un gran signore. Saresti principessa o duchessa! Altro che donna tal di tali! Carrozze, cavalli, palco a teatro tutte le sere, gioielli e vestiti quanti ne vuoi...Con quel bel visetto so io quante teste farai girare in una gran città! Quando si entra in una sala di ballo, scollacciata, coperta di brillanti, tutti che domandano: - Chi è quella bella signora?... - E si sente rispondere: la duchessa tale o la principessa tal'altra!... - Via, vieni a veder tua madre ch'è ancora ammalata, poveretta! L'ha finita quel colpo! Sai ch'è di poca salute!... Anche tuo padre t'aspetta a braccia aperte. E' un buon uomo, poveraccio! Un cuor d'oro, uno che s'è ammazzato a lavorare per farti ricca!... Adesso torna a casa... Poi si vedrà... Quando finalmente lo zio marchese condusse dai genitori la pecorella smarrita, fu una scena da far piangere i sassi. Isabella cadde ginocchioni dinanzi al letto della mamma, che trovava così mutata, singhiozzando e domandandole perdono; mentre sua madre, poveretta, passava da uno svenimento all'altro, tanta era la consolazione. Poi arrivò don Gesualdo, e stettero zitti tutti quanti. Egli infine prese la parola, un po' turbato anche lui, cogli occhi gonfi, ché il sangue infine non è acqua, e il cuore non l'aveva di sasso. - Me l'hai fatta grossa! Questa non me la meritavo. Ci siamo tolto il pan di bocca, io e tua madre, per farti ricca!... Vedi com'è ridotta, poveraccia?... Se chiude gli occhi è un cadavere addirittura!... Ma sei il sangue nostro, la nostra creatura, e ti abbiamo perdonato. Ora non se ne parli più. Però Isabella ne parlava sempre collo zio marchese, colla zia Mèndola, colla zia Macrì, con tutti i parenti; da tutti cercava aiuto, fin dal suo confessore, come una pazza, desolata, lavando dal piangere le pietre del confessionario. Tutti le dicevano: - Che possiamo farci, se tuo padre non vuole? Lui è il padrone. Lui deve mettere fuori i denari della dote. Lo fa pel tuo meglio; cerca il tuo vantaggio. Tutte quante si maritano come vogliono i genitori! - Il confessore stesso tirava fuori la volontà di Dio. Anche la zia Cirmena, quando aveva visto che non era bastata nemmeno la fuga a cavare i denari della dote dalle mani di don Gesualdo, s'era stretta nelle spalle: - Che vuoi, mia cara? Io ho fatto il possibile. Ma senza denari non si canta Messa. Corrado non ha nulla - tu non hai nulla neppure, se tuo padre si ostina a dir di no... Fareste un bel matrimonio! Vedi com'è andata a finire? Che quel povero giovane ci ha rimesso anche la libertà, pel capriccio di tuo padre! Lascialo stare in pace almeno, perché adesso alle lettere che scrive ai parenti ogni giorno tutte che piangono guai e vorrebbero denari, in conclusione, è un affare serio!... Il marchese Limòli poi gliela cantava su un altro tono: - Figliuola mia, quando uno non è ricco, non può darsi il gusto di innamorarsi come vuole. Voialtri siete giovani tutti e due, e avete gli occhi chiusi. Non vedete altro che una cosa sola! Bisogna vedere anche quello che verrà poi, la pentola da mettere al fuoco, le camice da rattoppare... Sarà un bel divertimento! Tu sei nata bene, per parte di madre, lo so anch'io. Ma vedi tua madre, cos'ha dovuto fare, e tuo zio don Ferdinando, e io stesso!... Siamo tutti nati dalla costola di Adamo, figliuola mia!... Anche Corrado è della costola d'Adamo. Ma i baiocchi li tiene tuo padre! Se non vuol darvene, andrete a scopar le strade tutti e due, e dopo un mese vi piglierete pei capelli. Invece puoi fare un gran matrimonio sfoggiarla da gran signora, in una gran città!... Dopo, quando avrai il cuoco in cucina, la carrozza che t'aspetta e le tue buone rendite garantite nell'atto dotale, potrai darti il lusso di pensare alle altre cose... Verso la Pasqua giunse in paese il duca di Leyra, col pretesto di dar sesto ai suoi affari da quelle parti, chè ne avevano tanto di bisogno. Era un bell'uomo, magro, elegante un po' calvo, gentilissimo. Si cavava il cappello anche per rispondere al saluto dei contadini. Aveva lo stesso sorriso e le medesime maniere cortesi per tutti i seccatori dai quali fu tosto assediato, fin dal primo giorno. Nel paese fu l'argomento di tutti i discorsi: Quel che aveva detto; quel che era venuto a fare; quanto tempo si sarebbe fermato lì; quanti anni aveva. Le signore asserivano che non dimostrava più di quarant'anni. Il giorno della processione del Cristo risuscitato ci fu il Caffè dei Nobili pieno zeppo di signore. Le Zacco con certi cappellini che facevano male agli occhi; la signora Capitana stecchita nel suo eterno lutto che la ringiovaniva, e la faceva chiamare ancora la bella vedovella - da dieci anni, dacché era morto suo marito. - Le Margarone in gran gala, verdi, rosse, gialle, svolazzanti di piume, di nastri, di ricciolini diventati neri col tempo, grasse da scoppiare, color di mattone in viso. Tutte che cicalavano, e si davano un gran da fare per dar nell'occhio ai signori forestieri. Il duca s'era tirato dietro lo zio balì, onde sembrar più giovane - dicevano le male lingue: un vecchietto grasso e rubicondo che doveva lasciargli l'eredità, e intanto faceva la corte alle signore - come non sanno farla più al giorno d'oggi! - osservò la Capitana. Sul più bello, mentre la statua dell'Evangelista correva balzelloni da Gesù a Maria, e il popolo gridava: viva Dio resuscitato! capitò la carrozza nuova di don Gesualdo Motta. Lui con la giamberga dai bottoni d'oro e il solitario al petto della camicia, la moglie in gala anche lei, poveretta, che la veste nuova le piangeva addosso, allampanata, ridotta uno scheletro, e la figliuola con un vestito nuovo, fatto venire apposta da Palermo. La folla si apriva per lasciarli passare, senza bisogno di spintoni. Dei curiosi guardavano a bocca aperta. Lo stesso duca domandò chi fossero: - Ah, una Trao! Si vede subito, quantunque abbia l'aria un po' sofferente, povera signora. - Il marchese Limòli ringraziava lui, con un cenno del capo, e lo presentò alla nipote. Il duca e il balì di Leyra fecero un gruppo a parte, sul marciapiede del Caffè dei Nobili, colla famiglia di don Gesualdo e il marchese Limòli. Tutt'intorno c'era un cerchio di sfaccendati. Il barone Zacco attaccò discorso col cocchiere per scavare cosa c'era sotto. Mèndola fingeva d'accarezzare i cavalli. Canali ammiccava di qua e di là: - Guardate un po', signori miei, che ruota è il mondo! - Nessuno badava più alla processione. C'era un bisbiglio in tutto il Caffè. Don Ninì Rubiera, da lontano, col cappello in cima al bastone appoggiato alla spalla, si morsicava le labbra dal dispetto, pensando a quel che era toccato a lui invece, donna Giuseppina Alòsi in moglie, una mandra di figliuoli, la lite per la casa che mastro-don Gesualdo voleva acchiapparsi col pretesto del debito, dopo tanto tempo... La moglie al vederlo così stralunato, cogli occhi fissi addosso a sua cugina, gli piantò una gomitata aguzza nelle costole. - Quando volete finirla?... E' uno scandalo!... I vostri figliuoli stessi che vi osservano! Vergogna! - Ma sei pazza? - rispose lui. - Diavolo! Ho altro pel capo adesso! Non vedi che ha già i capelli bianchi? ch'è una mummia?... Sei pazza? Egli pure era invecchiato, floscio, calvo, panciuto, acceso in viso, colle gote ed il naso ricamati di filamenti sanguigni che lo minacciavano della stessa malattia di sua madre. Ora si guardavano come due estranei, lui e Bianca, indifferenti, ciascuno coi suoi guai e i suoi interessi pel capo. Anche le male lingue, dopo tanto tempo, avevano dimenticato le chiacchiere corse sui due cugini. Però invidiavano mastro-don Gesualdo il quale era arrivato a quel posto, e donna Bianca che aveva fatto quel gran matrimonione. La sua figliuola sarebbe arrivata chissà dove! Donna Agrippina Macrì e le cugine Zacco saettavano occhiate di fuoco sul cappellino elegante d'Isabella, e sui salamelecchi che le faceva il duca di Leyra, inguantato, con un cravattone di raso che gli reggeva il bel capo signorile, giocherellando con un bastoncino sottile che aveva il pomo d'oro. La signora Capitana fece osservare a don Mommino Neri, il quale era diventato un rompicollo, dopo la storia della prima donna: - E' inutile! Basta guardarlo un momento, per saper con chi avete da fare. Dirà magari delle sciocchezze adesso... Ma è il modo in cui le dice!... Ogni parola come se ve la mettesse in un vassoio... Il signor duca andò poi a presentare i suoi omaggi in casa Motta. Don Gesualdo si fece trovare nel salotto buono. Avevano lavorato tutto il giorno a dar aria e spolverare, le serve, lui, mastro Nardo. Il signor duca, colla parlantina sciolta, discorreva un po' di tutto, di agricoltura col padrone di casa, di mode con le signore, di famiglie antiche col marchese Limòli. Egli aveva sulla punta delle dita tutto l'almanacco delle famiglie nobili dell'isola. Arrivò anche a confidare che la sua era originaria del paese. Desiderava fare il suo dovere con don Ferdinando Trao, e visitare il palazzo, che doveva essere interessantissimo. Con la ragazza, di sfuggita, lasciò cadere il discorso sulle opere allora in voga; raccontò qualche fatterello della società; narrò aneddoti del tempo in cui era a Palermo la corte, la regina Carolina, gli inglesi: un mondo di chiacchiere, come una lanterna magica nella quale passavano delle gran dame, del lusso e delle feste. Nell'andarsene baciò la mano a donna Bianca. Per le scale, dal pollaio, sull'uscio della legnaia, tutta la gente di casa s'affollava per vederlo passare. Dopo, la sera non si fece altro che parlare di lui, in cucina, fin le serve, e mastro Nardo, il quale sgranava gli occhi. Il balì di Leyra e il marchese Limòli poi avevano intavolato un altro discorso, così, a fior di labbra, tenendosi sulle generali. Il giorno dopo intervenne anche il duca, il quale confessò prima di tutto ch'era innamorato della ragazza, un vero fiorellino dei campi, una violetta nascosta; e dichiarò sorridendo, che quanto al resto... d'affari voleva dire... non se n'era occupato mai, per sua disgrazia!... non era il suo forte, e aveva pregato il notaro Neri di far lui... Un vero usuraio, quel notaro, sottile, avido, insaziabile. Don Gesualdo avrebbe preferito mille volte trattare il negozio faccia a faccia col genero, da galantuomini. - No, no, caro suocero. Non è la mia partita. Non me ne intendo. Quello che farete voialtri sarà ben fatto. Quanto a me, il tesoro che vi domando è vostra figlia. Però le trattative tiravano in lungo. Mastro-don Gesualdo cercava difendere la sua roba, vederci chiaro in quella faccenda, toccar con mano che quanto ci metteva il signor genero nell'altro piatto della bilancia fosse tutto oro colato. Il duca aveva dei gran possessi, è vero, mezza contea; ma dicevasi pure che ci fossero dei gran pasticci, delle liti, delle ipoteche. Del notaro Neri non poteva fidarsi. L'altro sensale, il marchese Limòli, non aveva saputo badare nemmeno ai suoi interessi. Voleva intromettercisi il canonico Lupi, protestando l'amicizia antica. Ma lui rispose: - Vi ringrazio! Grazie tante, canonico! Mi è bastato una volta sola! Non voglio abusare... - Tutti miravano alla sua roba. Ci furono dei tira e molla, delle difficoltà che sorgevano a ogni passo, delle vecchie carte in cui ci si smarriva. Intanto la figliuola, dall'altra parte, aveva sempre quell'altro in testa. Scongiurava il babbo e la mamma che non volessero sacrificarla. Andava a piangere dai parenti, e a supplicare che l'aiutassero: - Non posso! non posso! - Ai piedi del confessore aprì il suo cuore, tutto! il peccato mortale in cui era!... - Quel servo di Dio non capiva nulla. Badava solo a raccomandarle di non cascarci più e le metteva il cuore in pace coll'assoluzione. La poveretta arrivò a scappare in casa dello zio Trao, onde buttarsi nelle sue braccia. - Zio, tenetemi qui! Salvatemi voi. Non ho altri al mondo! Sono sangue vostro. Non mi mandate via! Don Ferdinando era malato, coll'asma. Non poteva parlare, non capiva nulla, del resto. Faceva dei gesti vaghi colla mano scarna, e chiamava in aiuto Grazia, come un bambino, sbigottito da ogni viso nuovo che vedesse. - Sì, tenetemi qui in luogo di Grazia. Vi servirò colle mie mani. Non mi mandate via. Vogliono maritarmi per forza!... in peccato mortale!... Il vecchio allora ebbe come un ricordo negli occhi appannati, nel viso smorto e rugoso. Tutti i peli grigi della barba ispida parvero trasalire. - Anche tua madre s'è maritata per forza... Diego non voleva... Vattene, ora... se no viene tuo padre a condurti via di qua!... Vattene, vattene... Lo zio marchese, uomo di mondo, che ne sapeva più di tutti sulle chiacchiere raccolte a casaccio, prese a quattr'occhi don Gesualdo: - Insomma, volete capirla? Vostra figlia dovete maritarla subito. Datela a chi vi piace; ma non c'è tempo da perdere. Avete capito? - Eh?... Come?... - balbettò il povero padre sbiancandosi in viso. - Sicuro!... Avete trovato un galantuomo che se la piglia in buona fede... Ma non potete pretendere troppo infine da lui!... Talchè don Gesualdo, stretto da tutte le parti, tirato pei capelli, si lasciò aprir le vene, e mise il suo nome in lettere di scatola al contratto nuziale: Gesualdo Motta sotto la firma del genero che pigliava due righe: Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantas di Leyra. Da Palermo giunsero dei regali magnifici, dei gioielli e dei vestiti che asciugarono a poco a poco le lagrime della sposa, uno sfoggio di grandezze che la pigliava come una vertigine, che chiamava un pallido sorriso fin sulle labbra della mamma, e che lo zio marchese andava spampanando da per tutto. Solo don Gesualdo borbottava di nascosto. Si aspettavano gran cose per quello sposalizio. La Capitana mandò un espresso a Catania dal primo sarto. Le Zacco stettero otto giorni in casa a cucire. Però alle nozze non fu invitato nessuno: gli sposi vestiti da viaggio, i genitori, i testimoni, quattro candele e nessun altro, nella meschina chiesetta di Sant'Agata, dove s'era maritata Bianca. Quanti ricordi per la povera madre, la quale pregava inginocchiata dinanzi a quell'altare, coi gomiti sulla seggiola e il viso fra le mani! Fuori aspettava la lettiga che doveva portarsi via gli sposi. Fu una delusione e un malumore generale fra i parenti e in tutto il paese. Dei pettegolezzi e delle critiche che non finivano più intorno a quel matrimonio fatto come di nascosto. Della gente era andata a far visita ai Margarone e in casa Alòsi, per vedere se la sposa era rossa o pallida. La Capitana aveva un bel fare, un bel cercare di non darsi vinta, dicendo che quella era la moda di sposarsi adesso. Donna Agrippina rispose che a quel modo non le pareva nemmeno un sagramento, povera Isabella!... La Cirmena masticava altre cose fra i denti: - Come sua madre!... Vedrete che sarà fortunata perché è figlia di sua madre!... Ciolla che vide passare dalla piazza la lettiga si mise a gridare: - Gli sposi! Ecco la lettiga degli sposi che partono! - Poi andò a confidare di porta in porta, al Caffè, nella spezieria di Bomma: - E' partita anche una lettera per don Corradino La Gurna... Sicuro! Una lettera per fuori regno. Me l'ha fatta vedere il postino in segretezza. Non so che dicesse; ma non mi parve scrittura della Cirmena. Avrei pagato qualche cosa per vedere che c'era scritto... La lettera diceva tante belle cose, per mandare giù la pillola, lei e il cuginetto che si disperava e penava lontano. "Addio! addio! Se ti ricordi di me, se pensi ancora a me, dovunque sarai, eccoti l'ultima parola di Isabella che amasti tanto! Ho resistito, ho lottato a lungo, ho sofferto... Ho pianto tanto! ho pianto tanto!... Addio! Partirò, andrò lontano... Nelle feste, in mezzo alle pompe della capitale, dovunque sarò... nessuno vedrà il pallore sotto la mia corona di duchessa... Nessuno saprà quel che mi porto nel cuore... sempre, sempre!... Ricordati! ricordati!..." |
Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.57 |
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