PARTE SECONDA
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I
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- Tre onze e quindici!... Uno!... due!...
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- Quattr'onze! - replicò don Gesualdo impassibile.
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Il barone Zacco si alzò, rosso come se gli pigliasse un accidente.
Annaspò alquanto per cercare il cappello, e fece per andarsene. Ma giunto sulla soglia
tornò indietro a precipizio, colla schiuma alla bocca, quasi fuori di sé, gridando:
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- Quattro e quindici!...
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E si fermò ansante dinanzi alla scrivania dei giurati, fulminando il
suo contradittore cogli occhi accesi. Don Filippo Margarone, Peperito e gli altri del
Municipio che presiedevano all'asta delle terre comunali, si parlarono all'orecchio fra di
loro. Don Gesualdo tirò su una presa, seguitando a fare tranquillamente i suoi conti nel
taccuino che teneva aperto sulle ginocchia. Indi alzò il capo, e ribatté con voce calma:
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- Cinque onze!
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Il barone diventò a un tratto come un cencio lavato. Si soffiò il
naso; calcò il cappello in testa, e poi infilò l'uscio, sbraitando:
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- Ah!... quand'è così!... giacch'è un puntiglio!... una
personalità!... Buon giorno a chi resta!
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I giurati si agitavano sulle loro sedie quasi avessero la colica. Il
canonico Lupi si alzò di botto, e corse a dire una parola all'orecchio di don Gesualdo,
passandogli un braccio al collo.
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- Nossignore, - rispose ad alta voce costui. - Non ho di queste
sciocchezze... Fo i miei interessi, e nulla più.
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Nel pubblico che assisteva all'asta corse un mormorìo. Tutti gli altri
concorrenti si erano tirati indietro, sgomenti, cacciando fuori tanto di lingua. Allora si
alzò in piedi il baronello Rubiera, pettoruto, lisciandosi la barba scarsa, senza badare
ai segni che gli faceva da lontano don Filippo, e lasciò cadere la sua offerta,
coll'aria
addormentata di uno che non gliene importa nulla del denaro:
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- Cinque onze e sei!... Dico io!...
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- Per l'amor di Dio, - gli soffiò nelle orecchie il notaro Neri
tirandolo per la falda. - Signor barone, non facciamo pazzie!...
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- Cinque onze e sei! - replicò il baronello senza dar retta, guardando
in giro trionfante.
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- Cinque e quindici.
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Don Ninì si fece rosso, e aprì la bocca per replicare; ma il notaro
gliela chiuse con la mano. Margarone stimò giunto il momento di assumere l'aria
presidenziale.
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- Don Gesualdo!... Qui non stiamo per scherzare!... Avrete denari... non
dico di no... ma è una bella somma... per uno che sino a ieri l'altro portava i sassi
sulle spalle... sia detto senza offendervi... Onestamente... "Guardami quel che sono,
e non quello che fui" dice il proverbio... Ma il comune vuole la sua garanzia.
Pensateci bene!... Sono circa cinquecento salme... Fanno... fanno... - E si mise gli
occhiali, scrivendo cifre sopra cifre.
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- So quello che fanno, - rispose ridendo mastro-don Gesualdo. - Ci ho
pensato portando i sassi sulle spalle... Ah! signor don Filippo, non sapete che
soddisfazione, essere arrivato sin qui, faccia a faccia con vossignoria e con tutti questi
altri padroni miei, a dire ciascuno le sue ragioni, e fare il suo interesse!
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Don Filippo posò gli occhiali sullo scartafaccio; volse un'occhiata
stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sinistra, e tacque
rimminchionito. Nella folla
che pigiavasi all'uscio nacque un tafferuglio. Mastro Nunzio Motta voleva entrare a ogni
costo, e andare a mettere le mani addosso al suo figliuolo che buttava così i denari.
Burgio stentava a frenarlo. Margarone suonò il campanello per intimar silenzio.
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- Va bene!... va benissimo!... Ma intanto la legge dice...
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Come seguitava a tartagliare, quella faccia gialla di Canali gli
suggerì la risposta, fingendo di soffiarsi il naso.
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- Sicuro!... Chi garantisce per voi?... La legge dice...
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- Mi garantisco da me, - rispose don Gesualdo posando sulla scrivania un
sacco di doppie che cavò fuori dalla cacciatora.
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A quel suono tutti spalancarono gli occhi. Don Filippo ammutolì.
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- Signori miei!... - strillò il barone Zacco rientrando infuriato. -
Signori miei!... guardate un po'! a che siam giunti!...
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- Cinque e quindici! - replicò don Gesualdo tirando un'altra presa. -
Offro cinque onze e quindici tarì a salma per la gabella delle terre comunali. Continuate
l'asta, signor don Filippo.
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Il baronello Rubiera scattò su come una molla, con tutto il sangue al
viso. Non l'avrebbero tenuto neppure le catene.
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- A sei onze! - balbettò fuori di sé. - Fo l'offerta di sei onze a
salma.
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- Portatelo fuori! Portatelo via! - strillò don Filippo alzandosi a
metà. Alcuni battevano le mani. Ma don Ninì ostinavasi, pallido come la sua camicia
adesso.
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- Sissignore! a sei onze la salma! Scrivete la mia offerta, segretario!
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- Alto! - gridò il notaro levando tutte e due le mani in aria. - Per la
legalità dell'offerta!... fo le mie riserve!...
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E si precipitò sul baronello, come s'accapigliassero. Lì, nel vano del
balcone, faccia a faccia, cogli occhi fuori dell'orbita, soffiandogli in viso l'alito
infuocato:
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- Signor barone!... quando volete buttare il denaro dalla finestra!...
andate a giuocare a carte!... giuocatevi il denaro di tasca vostra soltanto!...
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Don Ninì sbuffava peggio di un toro infuriato. Peperito aveva chiamato
con un cenno il canonico Lupi, e s'erano messi a confabulare sottovoce, chinati sulla
scrivania, agitando il capo come due galline che beccano nello stesso tegame. Era tanta la
commozione che le mani del canonico tremavano sugli scartafacci. Il cavaliere lo prese per
un braccio e andarono a raggiungere il notaro e il baronello che disputavano animatissimi
in un canto della sala. Don Ninì cominciava a cedere, col viso floscio e le gambe molli.
Il canonico allora fece segno a don Gesualdo d'accostarsi lui pure.
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- No, - ammiccò questi senza muoversi.
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- Sentite!... C'è quell'affare della cauzione... Il ponte se n'è
andato, salute a noi!... C'è modo d'accomodare quell'affare della cauzione adesso...
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- No, - ripigliò don Gesualdo. Sembrava una pietra murata. - L'affare
del ponte... una miseria in confronto.
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- Villano! mulo! testa di corno! - ricominciò ad inveire il barone
sottovoce.
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Don Filippo, dopo il primo momento d'agitazione, era tornato a sedere,
asciugandosi il sudore gravemente. Intanto che il canonico parlava sottovoce a mastro-don
Gesualdo, il notaro da lontano cominciò a far dei segni. Don Filippo si chinò
all'orecchio di Canali. Sottomano, in voce di falsetto, il banditore replicò:
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- L'ultima offerta per le terre del comune! A sei onze la salma!...
Uno!... due!...
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- Un momento, signori miei! - interruppe don Gesualdo - Chi garantisce
quest'ultima offerta?
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A quell'uscita rimasero tutti a bocca aperta Don Filippo apriva e
chiudeva la sua senza trovar parola. Infine rispose:
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- L'offerta del barone Rubiera!... Eh? eh?
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- Sissignore. Chi garantisce pel barone Rubiera?
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Il notaro si gettò su don Ninì che sembrava volesse fare un massacro.
Peperito dimenavasi come l'avessero schiaffeggiato. Lo stesso canonico allibì. Margarone
balbettava stralunato.
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- Chi garantisce pel barone Rubiera?... chi garantisce?... -
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A un tratto mutò tono, volgendola in burla: - Chi garantisce pel barone
Rubiera!... Ah! ah!... Oh bella! questa è grossa! - E molti, al pari di lui, si tenevano
i fianchi dalle risate.
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- Sissignore, - replicò don Gesualdo imperturbabile. - Chi garantisce
per lui? La roba è di sua madre.
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A quelle parole cessarono le risate, e don Filippo ricominciò a
tartagliare. La gente si affollava sull'uscio come ad un teatro. Il canonico, che sembrava
più pallido sotto la barba di quattro giorni, tirava il suo compagno pel vestito. Il
notaro era riuscito a cacciare il baronello contro il muro, mentre costui, in mezzo al
baccano, vomitava:
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- Becco!... cuor contento!... redentore!
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- La parola del barone! - disse infine don Filippo. - La parola del
barone Rubiera val più delle vostre doppie!... don... don...
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- Don Filippo! - interruppe l'altro senza perdere la sua bella calma. -
Ho qui dei testimoni per metter tutto nel verbale.
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- Va bene! Si metterà tutto nel verbale!... Scrivete che il baronello
Rubiera ha fatto l'offerta per incarico di sua madre!...
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- Benone! - aggiunse don Gesualdo. - Quand'è così scrivete pure che
offro sei onze e quindici a salma.
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- Pazzo! assassino! nemico di Dio! - si udì gridare mastro Nunzio nella
folla dell'altra sala.
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Successe un parapiglia. Il notaro e Peperito spinsero fuori dell'uscio
il baronello che strepitava, agitando le braccia in aria. Dall'altro canto il canonico,
convulso, si gettò su don Gesualdo, stringendoglisi addosso, sedendogli quasi sulle
ginocchia, colle braccia al collo, scongiurandolo sottovoce, in aria disperata, con parole
di fuoco, ficcandoglisi nell'orecchio, scuotendolo pei petti della giacca, quasi volesse
strapazzarlo, per fargli sentir ragione.
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- Una pazzia!... Dove andiamo, caro don Gesualdo?...
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- Non temete, canonico. Ho fatto i miei conti. Non mi scaldo la testa,
io.
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Don Filippo Margarone suonava il campanello da cinque minuti per avere
un bicchier d'acqua. I suoi colleghi s'asciugavano il sudore anch'essi, trafelati. Solo
don Gesualdo rimaneva seduto al suo posto come un sasso, accanto al sacchetto di doppie. A
un certo punto, dalla baraonda ch'era nell'altra stanza, irruppe nella sala mastro Nunzio
Motta, stralunato, tremante di collera, coi capelli bianchi irti sul capo, rimorchiandosi
dietro il genero Burgio che tentava di trattenerlo per la manica della giacca, come un
pazzo.
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- Signor don Filippo!... sono il padre, sì o no?... comando io, sì o
no?... Se mio figlio Gesualdo è matto!... se vuol rovinarci tutti!... c'è la forza,
signor don Filippo!... Mandate a chiamare don Liccio Papa!... - Speranza, dall'uscio, col
lattante al petto, che si strappava i capelli e urlava quasi l'accoppassero. - Per l'amor
di Dio! per l'amor di Dio! - supplicava il canonico, correndo dall'uno all'altro. - I
denari del ponte!... Vuole la mia rovina!... Nemico di suo padre stesso! - urlava mastro
Nunzio. - Erano forse denari vostri? - scappò infine a gridare il canonico; - non era
sangue del figlio vostro? non li ha guadagnati lui, col suo lavoro? - Tutti quanti erano
in piedi, vociando. Si udiva Canali strillare più forte degli altri per chetare don Ninì
Rubiera. Il barone Zacco avvilito, se ne stava colle spalle al muro, e il cappello sulla
nuca. Il notaro era sceso a precipizio, facendo gli scalini a quattro a quattro, onde
correre dalla baronessa. Per le scale era un via vai di curiosi: gente che arrivava ogni
momento attratta dal baccano che udivasi nel Palazzo di Città. Santo Motta dalla piazza
additava il balcone, vociando a chi non voleva saperle le prodezze del fratello. S'era
affacciata perfino donna Marianna Sganci, coll'ombrellino, mettendosi la mano dinanzi agli
occhi.
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- Com'è vero Dio!... Io l'ho fatto e io lo disfo!... - urlava il
vecchio Motta inferocito. - Largo! largo! - si udì in mezzo alla folla.
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Giungeva don Giuseppe Barabba, agitando un biglietto in aria. -
Canonico! canonico Lupi!... - Questi si spinse avanti a gomitate. - Va bene - disse, dopo
di aver letto. - Dite alla signora Sganci che va bene, e la servo subito.
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Barabba corse a fare la stessa imbasciata nell'altra sala.
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Quasi lo soffocavano dalla ressa. Il canonico si buscò uno strappo alla
zimarra, mentre il barone stendeva le braccia per leggere il biglietto. Canali, Barabba e
don Ninì litigavano fra di loro. Poscia Canali ricominciò a gridare: - Largo! largo! - E
s'avanzò verso don Gesualdo sorridente:
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- C'è qui il baronello Rubiera che vuole stringervi la mano!
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- Padrone! padronissimo! Io non sono in collera con nessuno.
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- Dico bene!... Che diavolo!... Oramai siete parenti!...
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E tirando pel vestito il baronello li strinse entrambi in un amplesso,
costringendoli quasi a baciarsi. Il barone Zacco corse a gettarsi lui pure nelle loro
braccia, coi lucciconi agli occhi.
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- Maledetto il diavolo!... Non sono di bronzo!... Che sciocchezza!...
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Il notaro sopraggiunse in quel punto. Andò prima a dare un'occhiata
allo scartafaccio del segretario, e poi si mise a battere le mani.
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- Viva la pace! Viva la concordia!... Se ve l'ho sempre detto!...
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- Guardate cosa mi scrive vostra zia donna Marianna Sganci!... - disse
il canonico commosso, porgendo la lettera aperta a don Gesualdo. E fattosi al balcone
agitò il foglio in aria, come una bandiera bianca; mentre la signora Sganci dal balcone
rispondeva coi cenni del capo.
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- Pace! pace!... Siete tutti una famiglia!...
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Canali corse a prendere per forza mastro Nunzio,
Burgio, perfino Santo Motta, scamiciato, e li spinse nelle braccia dei nuovi parenti. Il canonico abbracciava
anche comare Speranza e il suo bambino. Avrebbero pianto gli stessi sassi. - Per parte di
moglie... siete cugini...
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- E' vero, - aggiunse don Ninì tuttora un po' rosso in viso. - Siamo
cresciuti insieme con Bianca... come fratello e sorella.
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- Caro don Nunzio!... vi rammentate la fornace del gesso... vicino
Fontanarossa?...
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Il vecchio burbero fece una spallata, per levarsi d'addosso la manaccia
del barone Zacco, e rispose sgarbatamente.
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- Io mi chiamo mastro Nunzio, signor barone. Non ho i fumi di mio
figlio.
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- E perché poi? A vantaggio di chi vi fate la guerra?... Chi ne gode di
tanto denaro buttato via?... - conchiuse Canali infervorato.
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- Pazzie! ragazzate!... Un po' di sangue alla testa!... La giornata
calda!... Un puntiglio sciocco... un malinteso... Ora tutto è finito! Andiamo via! Non
facciamo ridere il paese!... - E il notaro cercava di condurli a spasso tutti quanti.
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- Un momento! - interruppe don Gesualdo. - La candela è ancora accesa.
Vediamo prima se hanno scritto l'ultima mia offerta.
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- Come, come? Che discorsi!... Cosa vuol dire?... Torniamo da capo?... -
Di nuovo s'era levato un putiferio. - Non siamo più amici? Non siamo parenti?
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Ma don Gesualdo s'ostinava, peggio di un mulo:
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- Sissignore, siamo parenti. Ma qui siamo venuti per la gabella delle
terre comunali. Io ho fatta l'offerta di sei onze e quindici tarì a salma.
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- Villano! testa di corno!
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Don Filippo, in mezzo a quel trambusto, fu costretto a sedere di nuovo
sul seggiolone, sbuffando. Vuotò di un fiato il bicchiere d'acqua, e suonò il
campanello. - Signori miei! - vociava il segretario, - l'ultima offerta... a sei onze e
quindici! - Tutti se n'erano andati a discutere strepitando nell'altra sala, lasciando
solo don Gesualdo dinanzi alla scrivania. Invano il canonico, inquieto, gli soffiava
all'orecchio:
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- Non la spuntate, no!... Si son dati l'intesa fra di loro!... - A sei
onze e quindici la salma!... ultima offerta!...
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- Don Gesualdo! don Gesualdo! - gridò il notaro quasi stesse per
crollare la sala.
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Rientrarono nuovamente in processione: il barone Zacco facendosi vento
col cappello; il canonico e Canali ragionando fra loro due a bassa voce; don
Ninì, più restìo, in coda agli altri. Il notaro con le braccia fece un gesto circolare per
radunarli tutti intorno a sé:
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- Don Gesualdo!... sentite qua!
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Volse in giro un'occhiata da cospiratore e abbassò la voce:
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- Una proposta seria! - e fece un'altra pausa significativa. - Prima di
tutto, i denari della cauzione... una bella somma!... La disgrazia volle così... ma voi
non ci avete colpa, don Gesualdo... e neppure voi, mastro Nunzio... E' giusto che non li
perdiate!... Accomoderemo la cosa!... Voi, signor barone Zacco, vi rincresce di lasciare
le terre che sono da quarant'anni nella vostra famiglia?... E va bene!... La baronessa
Rubiera adesso vuole la sua parte anche lei?... ha più di tremila capi di bestiame sulle
spalle... E va bene anche questa! Don Gesualdo, qui, ha denari da spendere lui pure; vuol
fare le sue speculazioni sugli affitti... Benissimo! Dividete le terre, fra voi tre...
senza liti, senza puntigli senza farvi la guerra a vantaggio altrui... A vantaggio di chi,
poi?... del comune! Vuol dire di nessuno! Mandiamo a monte l'asta... Il pretesto lo trovo
io!... Fra otto giorni si riapre sul prezzo di prima; si fa un'offerta sola... Io
no... e
nemmeno loro!... Il canonico Lupi!... in nome vostro, don Gesualdo... Ci fidiamo... Siamo
galantuomini! Un'offerta sola sul prezzo di prima; e vi rimangono aggiudicate le terre
senza un baiocco d'aumento. Solamente una piccola senseria per me e il canonico... E il
rimanente lo dividete fra voi tre, alla buona... d'amore e d'accordo. Vi piace? Siamo
intesi?
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- Nossignore, - rispose don Gesualdo, - le terre le piglio tutte io.
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Mentre gli altri erano contenti e approvavano coi cenni del capo
l'occhiata trionfante che il notaro tornava a volgere intorno, quella risposta cadde come
una secchia d'acqua. Il notaro per primo rimase sbalordito; indi fece una giravolta e
s'allontanò canterellando. Don Ninì scappò via senza dir nulla. Il barone stavolta
finse di calcarsi il cappello in capo per davvero. Lo stesso canonico saltò su
inviperito:
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- Allora vi pianto anch'io!... Se volete rompervi le corna, il balcone
è lì, bell'e aperto!... Vi offrono dei buoni patti!... vi stendono le mani!... Io vi
lascio solo, com'è vero Dio!
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Ma don Gesualdo si ostinava, col suo risolino sciocco, il solo che non
perdesse la testa in quella baraonda.
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- Siete una bestia! - gli disse sempre ridendo. Il canonico spalancò
gli occhi e tornò docile a vedere quel che stava macchinando quel diavolo di mastro-don
Gesualdo.
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Il notaro, prudente, seppe dominarsi prima degli altri, e tornò
indietro col sorriso sulle labbra e le tabacchiera in mano lui pure.
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- Dunque?... le volete tutte?
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- Eh... eh... Cosa stiamo a farci qui dunque! - rispose l'altro.
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Neri gli offrì la tabacchiera aperta, e riprese a voce bassa, in tono
di confidenza cordiale:
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- Che diavolo volete farne?... circa cinquecento salme di terre!...
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Don Gesualdo si strinse nelle spalle.
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- Caro notaro, forse che voglio ficcare il naso nei vostri libracci, io?
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- Quand'è così, don Gesualdo, state a sentire... discorriamola fra di
noi... Il puntiglio non conta... e nemmeno l'amicizia... Badiamo agli interessi...
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A ogni frase piegava il capo ora a destra e ora a sinistra, con un fare
cadenzato che doveva essere molto persuasivo.
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- Se le volete tutte, ve le faremo pagare il doppio, ed ecco sfumato
subito metà del guadagno... senza contare i rischi... le malannate!... Lasciateci l'osso,
caro don Gesualdo! tappateci la bocca... Abbiamo denti, e sappiamo mordere! Andremo a
rotta di collo noialtri e voi pure!...
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Don Gesualdo scrollava il capo, sogghignando, come a dire: - Nossignore!
Andrete a rotta di collo voialtri soltanto! - Seguitava a ripetere:
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- Forse che io voglio cacciare il naso nei vostri scartafacci?
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Poi, vedendo che il notaro diventava verde dalla bile, volle offrirgli
una presa lui.
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- Vi spiego il mistero in due parole, giacché vedo che mi parlate col
cuore in mano. Piglierò in affitto le terre del comune... e quelle della Contea pure...
tutte quante, capite, signor notaro? Allora comando ai prezzi e all'annata, capite?... Ve
lo dico perchè siete un amico, e perché a far quel che dico io ci vogliono molti
capitali in mano, e un cuore grande quanto il piano di Santamargherita, caro
notaro.
Perciò spingerò l'asta sin dove voialtri non potrete arrivare. Ma badate! a un certo
punto, se non mi conviene, mi tiro indietro, e vi lascio addosso il peso che vi rompe la
schiena...
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- E questa è la conclusione?...
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- Eh? eh? Vi piace?
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Il notaro si volse di qua e di là, come cercasse per terra, si calcò
il cappello in capo definitivamente, e volse le spalle:
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- Salute a chi rimane!... Ce ne andiamo... Non abbiamo più nulla da
fare.
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Il canonico, ch'era stato ad ascoltare a bocca aperta, si strinse al
socio con entusiasmo, appena rimasero soli.
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- Che botta, eh? don Gesualdo! Che tomo siete voi!... La mia mezzeria ci
sarà sempre?
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Don Gesualdo rassicurò il canonico con un cenno del capo, e disse a
Margarone:
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- Signor don Filippo, andiamo avanti...
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- Io non vo niente affatto! - rispose finalmente Margarone adirato. - La
legge dice... Non c'è più concorrenza!... Non trovo garanzia!... Devo consultare i miei
colleghi. - E si mise a raccogliere gli scartafacci in fretta e in furia.
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- Ah! così si tratta?... è questa la maniera?... Va bene! va
benone!
Ne discorreremo poi, signor don Filippo... Un memoriale a Sua Maestà!... - Il canonico
col mantello sul braccio come un oratore romano, perorava la causa dell'amico minaccioso.
Don Gesualdo invece, più calmo, riprese il suo denaro e il taccuino zeppo di cifre: - Io
sarò sempre qua signor don Filippo, quando aprite di nuovo l'asta.
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- Signori miei!... guardate un po'... a che siam giunti! - brontolava
Margarone. Per la scala del Palazzo di Città e per tutto il paese era un subbuglio, al
sentire la lotta che c'era stata per levare di mano al barone Zacco le terre del comune
che da quarant'anni erano nella sua famiglia e il prezzo a cui erano salite. La gente si
affacciava sugli usci per veder passare mastro-don Gesualdo.
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- Guardate un po', signori miei, a che s'era arrivati!... - Fresco come
un bicchier d'acqua, quel mastro-don Gesualdo che se ne andava a casa, colle mani in
tasca... In tasca aveva più denari che capelli in testa! e dava da fare ai primi signori
del paese! Nell'anticamera aspettava don Giuseppe Barabba, in livrea: - Signor don
Gesualdo, c'è di là la mia padrona a farvi visita... sissignore! - Donna Mariannina in
gala era seduta sul canapè di seta, sotto lo specchio grande, nella bella sala gialla.
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- Nipote mio, l'avete fatta grossa! Avete suscitato l'inferno in tutto
il parentado!... Sicuro! La moglie del cugino Zacco è venuta a farmi vedere i
lividori!... Sembra ammattito il barone!... Prende a sfogarsi con chi gli capita... Ed
anche la cugina Rubiera... dice ch'è un proditorio! che il canonico Lupi vi aveva messi
d'amore e d'accordo, e poi tutt'a un tratto... E' vero, nipote mio? Son venuta apposta a
discorrerne con Bianca... Vediamo, Bianca, aiutami tu. cerchiamo d'accomodarla. Voi, don
Gesualdo, le farete questo regalo, a vostra moglie. Eh? che ne dite?
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Bianca guardava timidamente ora lei ed ora il marito, rannicchiata in un
cantuccio del canapè, colle braccia sul ventre e il fazzoletto di seta in testa, che
s'era messo in fretta onde ricevere la zia. Aprì la bocca per rispondere qualche cosa,
messa in soggezione da donna Mariannina, la quale continuava a sollecitarla:
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- Eh? che ne dici? Adesso sono anche affari tuoi.
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Bianca tornò a guardare il marito, e tacque imbarazzata. Ma egli la
tolse d'impiccio.
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- Io dico di no, - rispose semplicemente.
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- Ah? ah? Dite così?...
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Donna Mariannina rimase a bocca aperta lei pure un istante.
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Poscia divenne rossa come un gallo: - Ah! dite di no?... Scusatemi... Io
non c'entro. Ero venuta a parlarne con mia nipote, perché non vorrei liti e questioni fra
parenti... Anche coi tuoi fratelli, Bianca... quel che non ho fatto per indurli... don
Diego specialmente ch'è così ostinato!... Una disgrazia... un gastigo di Dio!
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- Che volete farci? - rispose don Gesualdo. - Non tutti i negozi
riescono bene. Anch'io, se avessi saputo... Non parlo per la moglie che ho presa, no! Non
me ne pento!... Buona, interessata, ubbidiente... Glielo dico qui, in faccia a lei... Ma
quanto al resto... lasciamo andare!
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- Dite bene, lasciamo andare. Apposta son venuta a parlare con Bianca,
perché so che le volete bene. Adesso siete marito e moglie, come vuol Dio. Anch'essa è
la padrona...
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- Sissignore, è la padrona. Ma io sono il marito...
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- Vuol dire che ho sbagliato, - disse la Sganci punta al vivo.
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- No, non avete sbagliato vossignoria. E' che Bianca non se ne intende,
poveretta. E' vero, Bianca, che non te ne intendi, di'?
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Bianca disse di sì, chinando il capo ubbidiente.
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- Sia per non detto. Non ne parliamo più. Ho fatto il mio dovere da
buona zia, per cercare di mettervi d'accordo... Anche oggi, laggiù, al Municipio, avete
visto?... quello che vi feci dire dal canonico Lupi?...
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- Lupus in fabula! - esclamò costui entrando come in casa propria, col
cappello in testa, il mantello ondeggiante dietro, fregandosi le mani. - Sparlavate di me,
eh? Mi sussurravano le orecchie...
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- Voi piuttosto, buonalana! Avete la cera di chi ha preso il terno al
lotto!
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- Il terno al lotto? Mi fate il contrappelo anche? Un povero diavolo che
s'arrabatta da mattina a sera!...
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- Si discorreva della gabella delle terre... - disse don Gesualdo
tranquillamente, tirando su una presa, - così, per discorrere...
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- Ah! ah! - rispose il canonico; e si mise a guardare in aria. La zia
Sganci osservava lei pure i mobili nuovi, voltando la testa di qua e di là.
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- Belli! belli! Me l'aveva detto la cugina Cirmena. Peccato che non mi
sentissi bene la sera del matrimonio...
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- E gli altri pure, signora donna Mariannina! - rispose il canonico con
una risatina. - Fu un'epidemia!...
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- No! no! Posso assicurarvelo! in fede mia!... La
Rubiera, poveretta!...
E anche suo figlio... Lo sento sempre che si lagna... - Zia, come potrei?... - Donna
Mariannina s'interruppe. - Ma abbiamo detto di non parlarne più. Lui però si duole di
non poter venire a fare il suo dovere... Dissidi ce n'è sempre, dico io, anche tra
fratelli e sorelle... Ma passeranno, coll'aiuto di Dio... Sai, Bianca? tuo cugino si
marita. Ora non c'è bisogno di far misteri perché tutto è combinato. Don Filippo dà la
tenuta alla Salonia, trenta salme di terra! Una bella dote.
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Bianca ebbe un'ondata di sangue al viso, indi divenne smorta come un
cencio; ma non si mosse né disse verbo.
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Il canonico rispose lui invece, masticando ancora l'amaro.
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- Lo sappiamo! lo sappiamo! L'abbiamo capita oggi, al Municipio!... -
Infine non seppe più frenarsi, quasi bruciasse a lui la ferita.
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- La baronessa Rubiera ha cercato di dare il gambetto a me pure!... a me
che le avevo proposto l'affare!... Si è messa d'accordo cogli avversari! Tutti
contrari!... I parenti della moglie schierati contro il marito!... Uno scandalo che non
s'è mai visto... Hanno bandito un nuovo appalto per il ponte onde fargli perdere la
cauzione a questo disgraziato! Tutte le angherie!... Per la costruzione delle nuove strade
fanno venire i concorrenti sin da Caltagirone e da Lentini!... - Di là almeno non ci
capita addosso qualche altro parente!...- ha detto il barone Mèndola, colla sua stessa
bocca nella farmacia.
|
Donna Marianna diventava di cento colori e si mordeva le labbra per non
spifferare il fatto suo. Don Gesualdo invece se la rideva tranquillamente, sdraiato sul
suo bel canapè soffice, e a un certo punto gli chiuse anche la bocca colla mano al
canonico.
|
- Lasciate stare!... Queste son chiacchiere che non vanno al mulino.
Ciascuno fa il suo interesse.
|
- Dico per rispondere a donna Mariannina. Volete sentirne un'altra, eh?
la più bella? Si sono pure messi d'accordo per vendere il grano a rotta di collo, e far
cascare i prezzi. Una camorra! Il baronello Rubiera ha detto che non gliene importa di
perdervi cent'onze, pur di farne perdere mille a don Gesualdo che ha i magazzini pieni...
Al marito di sua cugina! Vergogna! Ce n'ho venti salme anch'io, capite, vossignoria! Una
birbonata!
|
Il canonico andava scaldandosi maggiormente di mano in mano, rivolto a
mastro-don Gesualdo: - Bel guadagno avete fatto a imparentarvi con loro. Chi l'avrebbe
detto... eh? L'avete sbagliata!... Scusate, donna Bianca! non parlo per voi che siete un
tesoro!... Allora, cara donna Mariannina!... allora, quand'è così, muoia Sansone con
tutti i Filistei.
|
- E lasciamoli morire, - disse la signora Sganci alzandosi. - Già il
mondo non finirà per questo. - Come la nipote s'era alzata anch'essa dal canapè,
mortificata da tutti quei discorsi, colle braccia incrociate sul ventre, donna Mariannina
continuò ridendo e fissandole gli occhi addosso: - E' vero, Bianca che il mondo non lo
lascerai finire, tu? - Bianca tornò a farsi rossa. - Evviva! Mi congratulo. Ora che avete
questa bella casa dovete fare un bel battesimo... con tutti i parenti... d'amore e
d'accordo. Se no, perché li avrete spesi tanti denari?
|
Don Gesualdo non voleva darla vinta ai suoi nemici, ma dentro si rodeva,
perché davvero non gli servivano gran cosa tutti quei denari spesi. - Eh, eh, - rispose
con quel certo buon umore che voleva sfoggiare allora. - Pazienza! Serviranno per chi
verrà dopo di noi, se Dio vuole! - E batteva affettuosamente sulla spalla della moglie,
amorevole e sorridente, mentre pensava pure che se i suoi figliuoli avessero avuto la
stessa sorte, erano proprio denari buttati via, tante fatiche, i guadagni stessi, sempre
con quel bel risultato! Poi, quando la zia Sganci se ne fu andata, prese a brontolare
contro di Bianca, che non si era messo il vestito buono per ricevere la zia: - Allora a
che serve aver la roba? Diranno che ti tengo come una serva. Bel gusto spendere i denari,
per non goderne né noi né gli altri!
|
- Lasciamo stare queste sciocchezze, e parliamo di cose serie! -
interruppe il canonico che s'era riannuvolato in viso. - C'è un casa del diavolo. Cercano
di aizzarvi contro tutto il paese, dicendo che avete le mani lunghe, e volete acchiappare
quanta terra si vede cogli occhi, per affamare la gente... Quella bestia di Ciolla va
predicando per conto loro... Vogliono scatenarci contro anche i villani... a voi e a me,
caro mio! Dicono che io tengo il sacco... Non posso uscir di casa...
|
Don Gesualdo scrollava le spalle. - Ah, i villani? Ne riparleremo poi,
quando verrà l'inverno. Voi che paura avete?
|
- Che paura ho, per... mio!... Non sapete che a Palermo hanno fatto la
rivoluzione.
|
Andò a chiudere l'uscio in punta di piedi, e tornò cupo, nero in viso.
|
- La Carboneria, capite!... Anche qui hanno portato questa bella
novità! Posso parlare giacché non l'ho avuta sotto il suggello della confessione.
Abbiamo la sètta anche qui!
|
E spiegò cos'era la faccenda: far legge nuova e buttar giù coloro che
avevano comandato sino a quel giorno.
|
- Una setta, capite? Tavuso, mettiamo, al posto di
Margarone; e tutti
quanti colle mani in pasta! Ogni villano che vuole il suo pezzo di terra! pesci grossi e
minutaglia, tutti insieme. Dicono che vi è pure il figlio del Re, nientemeno! il Duca di
Calabria.
|
Don Gesualdo, ch'era stato ad ascoltare con tanto d'occhi aperti,
scappò a dire:
|
- S'è così... ci sto anch'io! non cerco altro!... E me lo dite con
quella faccia? Mi avete fatto una bella paura, santo Dio!
|
L'altro rimase a bocca aperta: - Che scherzate? O non sapete che voglia
dire rivoluzione? Quel che hanno fatto in Francia, capite? Ma voi non leggete la storia...
|
- No, no, - disse don Gesualdo. - Non me ne importa.
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- Me ne importa a me: Rivoluzione vuol dire rivoltare il cesto, e quelli
ch'erano sotto salire a galla: gli affamati, i nullatenenti!...
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- Ebbene? Cos'ero io vent'anni fa?
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- Ma adesso no! Adesso avete da perdere, cristiano santo! Sapete com'è?
Oggi vogliono le terre del comune; e domani poi vorranno anche le vostre e le mie! Grazie!
grazie tante! Non ho dato l'anima al diavolo tanti anni per...
|
- Appunto! Bisogna aiutarsi per non andare in fondo al cesto, caro
canonico! Bisogna tenersi a galla, se non vogliamo che i villani si servano colle sue
mani. Li conosco... so fare, non dubitate.
|
E spiegò meglio la sua idea: cavar le castagne dal fuoco con le zampe
del gatto; tirar l'acqua al suo mulino, e se capitava d'acchiappare anche il mestolo un
quarto d'ora, e di dare il gambetto a tutti quei pezzi grossi che non era riescito ad
ingraziarsi neppure sposando una di loro, senza dote e senza nulla, tanto meglio...
|
Gli andarono in quel momento gli occhi su Bianca che stava
rincantucciata sul canapè, smorta in viso dalla paura, guardando or questo e or quello, e
non osava aprir bocca.
|
- Non parlo per te, sai. Non me ne pento di quel che ho fatto. Non è
stata colpa tua. Tutti i negozi non riescono a un modo. Poi se capita di fare il bene, nel
tempo stesso...
|
Il canonico cominciava a capacitarsi, cogli occhi e la bocca di
traverso, pensieroso, e appoggiava anche lui il discorso del socio: - Non si voleva
torcere un pelo a nessuno... se si arrivava ad afferrare il mestolo un po' di tempo...
quante cose si farebbero...
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- Voi dovreste farne una!... - interruppe don Gesualdo. - Parlare con
chi ha le mani in questa faccenda, e dire che vogliamo esserci anche noi.
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- Eh? Che dite?... un sacerdote!
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- Lasciate stare, canonico!... Poi se vi è il figlio del Re, potete
esserci anche voi!
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- Caspita! Al figlio del Re non gliela tagliano la testa, se mai!
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- Non temete, che non ve la tagliano la testa! Già, se è come avete
detto, dovrebbero tagliarla a un paese intero. Credete che non abbia fatto i miei conti,
in questo tempo?... Quando saremo lì, a veder quel che bolle in pentola... Bisogna
mettersi vicino al mestolo... con un po' di giudizio... col denaro... So io quello che
dico.
|
Bianca cominciò allora a balbettare: - Oh Signore Iddio!... Cosa
pensate di fare?... Un padre di famiglia!... - Il canonico, indeciso, la guardava turbato,
quasi sentisse il laccio al collo. Don Gesualdo per rassicurarlo soggiunse:
|
- No, no. Mia moglie non sa cosa dice... Parla per soverchia affezione,
poveretta. - Poscia, mentre accompagnava il suo socio in anticamera, soggiunse:
|
- Lo vedete? Comincia ad affezionarmisi. Già i figliuoli sono un gran
legame. Speriamo almeno che abbiano ad esser felici e contenti loro; giacché io... Volete
che ve la dica, eh, canonico, come in punto di morte? Mi sono ammazzato a lavorare... Mi
sono ammazzato a far la roba... Ora arrischio anche la pelle, a sentir voi!... E che ne ho
avuto, eh? ditelo voi!...
|
|
II
|
|
C'era un gran fermento in paese. S'aspettavano le notizie di Palermo.
Bomma che teneva cattedra nella farmacia, e Ciolla che sbraitava di qua e di là. Degli
arruffapopolo stuzzicavano anche i villani con certi discorsi che facevano spalancare loro
gli occhi: Le terre del comune che uscivano di casa Zacco dopo quarant'anni... un prezzo
che non s'era mai visto l'eguale!... Quel mastro-don Gesualdo aveva le mani troppo
lunghe... Se avevano fatto salire le terre a quel prezzo voleva dire che c'era ancora da
guadagnarci su!... Tutto sangue della povera gente! Roba del comune... Voleva dire che
ciascuno ci aveva diritto!... Allora tanto valeva che ciascuno si pigliasse il suo
pezzetto!
|
Fu una domenica, la festa dell'Assunta. La sera innanzi era arrivata una
lettera da Palermo che mise fuoco alla polvere, quasi tutti l'avessero letta. Dallo
spuntare del giorno si vide la Piazza Grande piena zeppa di villani: un brulichìo di
berrette bianche; un brontolìo minaccioso. Fra Girolamo dei Mercenari, che era seduto
all'ombra, insieme ad altri malintenzionati, sugli scalini dinanzi allo studio del notaro
Neri, come vide passare il barone Zacco colla coda fra le gambe, gli mostrò la pistola
che portava nel manicone.
|
- La vedete, signor barone?... Adesso è finito il tempo delle
prepotenze!... D'ora innanzi siam tutti eguali!... - Correva pure la voce dei disegni che
aveva fatto fra Girolamo: lasciar la tonaca nella cella, e pigliarsi una tenuta a
Passaneto, e la figliuola di Margarone in moglie, la più giovane.
|
Il notaro ch'era venuto a levar dallo studio certe carte interessanti,
dovette far di cappello a fra Girolamo per entrare: - Con permesso!... signori miei!... -
Poi andò a raggiungere don Filippo Margarone nella piazzetta di Santa Teresa: - Sentite
qua; ho da dirvi una parola!... - E lo prese per un braccio, avviandosi verso casa,
seguitando a discorrere sottovoce. Don Filippo allibbiva ad ogni gesto che il notaro
trinciava in aria; ma si ostinava a dir di no, giallo dalla paura. L'altro gli strinse
forte il braccio, attraversando la viuzza della Masera per salire verso Sant'Antonio. - Li
vedete? li sentite? Volete che ci piglino la mano, i villani, e ci facciano la festa? - La
piazza, in fondo alla stradicciuola, sembrava un alveare di vespe in collera. Nanni
l'Orbo, Pelagatti, altri mestatori, eccitatissimi, passavano da un crocchio all'altro,
vociferando, gesticolando, sputando fiele. Gli avventori di mastro Titta si affacciavano
ogni momento sull'uscio della bottega, colla saponata al mento. Nella farmacia di Bomma
disputavasi colle mani negli occhi. Dirimpetto, sul marciapiede del Caffè dei Nobili, don
Anselmo il cameriere aveva schierate al solito le seggiole al fresco; ma non c'era altri
che il marchese Limòli, col bastone fra le gambe, il quale guardava tranquillamente la
folla minacciosa.
|
- Cosa vogliono, don Anselmo? Che diavolo li piglia oggi? Lo sapete?
|
- Vogliono le terre del comune, signor marchese. Dicono che sinora ve le
siete godute voialtri signori, e che adesso tocca a noi, perchè siamo tutti eguali.
|
- Padroni! padronissimi! Quanto a me non dico di no! Tutti eguali!...
Portatemi un bicchier d'acqua, don Anselmo.
|
Di tanto in tanto dal Rosario o dalla via di San Giovanni partiva come
un'ondata di gente, e un brontolìo più minaccioso, che si propagava in un baleno. Santo
Motta allora usciva dall'osteria di Pecu-Pecu, e si metteva a vociare, colla mano sulla
guancia:
|
- Le terre del comune!... Chi vuole le terre del comune!... Uno!...
due!... tre!... - E terminava con una sghignazzata.
|
- Largo!... largo!... - La gente correva verso la
Masera. Al disopra
della folla si vide il baronello Rubiera colla frusta in aria, e la testa del suo cavallo
che sbuffava spaventato. Il campiere che gli stava alle costole, armato sino ai denti,
gridava come un ossesso: - Signor barone!... Questa non è giornata!... Oggi ci vuol
prudenza!... - Dalla parte di Sant'Agata comparve un momento anche il signor Capitano, per
intimorire la folla ammutinata colla sua presenza. Si piantò in cima alla scalinata,
appoggiato alla canna d'India, don Liccio Papa dietro, che ammiccava al sole, con tanto di
tracolla bianca attraverso la pancia. Ma vedendo quel mare di teste se la svignarono
subito tutti e due. Alle finestre facevano capolino dei visi inquieti, dietro le
invetriate, quasi piovesse. Il palazzo Sganci chiuso ermeticamente, e don Giuseppe Barabba
appollaiato sull'abbaino. Lo stesso Bomma aveva sfrattato gli amici prima del solito, per
timore dei vetri. Di tanto in tanto, nel terrazzo dei Margarone, al disopra dei tetti che
si accavallavano verso il Castello, compariva la papalina e la faccia gialla di don
Filippo. A mezzogiorno, appena suonò la messa grande, ciascuno se ne andò pei fatti
suoi; e rimase solo a vociare Santo Motta, nella piazza deserta.
|
- Avete visto com'è andata a finire? - Ciolla corse a desinare lui
pure. Don Liccio Papa, adesso che non c'era più nessuno, si fece vedere di nuovo per le
vie, con la mano sulla sciaboletta, guardando fieramente gli usci chiusi. Infine entrò da
Pecu-Pecu, e si posero a tavola con compare Santo.
|
- Avete visto com'è andata a finire? - Ciolla soleva desinare in fretta
e in furia col cappello in testa e il bastone fra le gambe, per tornar subito in piazza a
mangiar l'ultimo boccone, portandosi in tasca una manciata di lupini o di ceci
abbrustoliti, d'inverno anche con lo scaldino sotto il tabarro, bighellonando, dicendo a
ciascuno la sua, sputacchiando di qua e di là, seminando il terreno di bucce. - Avete
visto com'è andata a finire? - Faceva la prima tappa dal calzolaio, poi dal caffettiere,
appena apriva, senza prendere mai nulla, girava a seconda dell'ombra, d'inverno in senso
inverso, cercando il sole. E le cose tornarono ad andare pel suo verso, al pari di
Ciolla.
Giacinto mise fuori i tavolini pei sorbetti, don Anselmo schierò le seggiole sul
marciapiede del Caffè dei Nobili. Rimanevano le ultime nuvole del temporale: dei
capannelli qua e là, dinanzi alla bottega di Pecu-Pecu e al Palazzo di Città; gente che
guardava inquieta, curiosi che correvano e si affollavano al più piccolo rumore. Ma del
resto ogni cosa aveva ripreso l'aspetto solito delle domeniche. L'arciprete Bugno che
stava un'ora a leccare il sorbetto col cucchiarino; il marchese e gli altri nobili seduti
in fila dinanzi al Caffè; Bomma predicando in mezzo al solito circolo, sull'uscio della
farmacia; uno sciame di contadini un po' più in là, alla debita distanza; e ogni dieci
minuti la vecchia berlina del barone Mèndola che scarrozzava la madre di lui, sorda come
una talpa, dal Rosario a Santa Maria di Gesù: le orecchie pelose e stracche delle mule
che ciondolavano fra la folla, il cocchiere rannicchiato a cassetta, colla frusta fra le
gambe, accanto al cacciatore gallonato, colle calze di bucato che sembravano imbottite di
noci, e le piume gialle del cappellone della baronessa che passavano e ripassavano su
quell'ondeggiare di berrette bianche.
|
Tutt'a un tratto accadde un fuggi fuggi: una specie di rissa dinanzi
all'osteria. Don Liccio Papa cercava d'arrestare Santo Motta, perché aveva gridato la
mattina; e il capitano l'incitava da lontano, brandendo la canna d'India: - Ferma!
ferma!... la giustizia!
|
Ma Santo si liberò con uno spintone, e prese a correre verso
Sant'Agata. La folla fischiava ed urlava dietro allo sbirro che tentava d'inseguirlo. -
Ahi! ahi! - disse Bomma ch'era salito su di una sedia per vedere. - Se non rispettano più
l'autorità!... - Tavuso gli fece segno di tacere, mettendosi l'indice attraverso la
bocca. - Sentite qua, don Bastiano! - E si misero a discorrere sottovoce, tirandosi in
disparte. Dalla Maddalena scendeva lemme lemme il notaro, col bastone dietro la schiena.
Bomma cominciò a fargli dei segni da lontano; ma il notaro finse di non accorgersene;
accennò al Capitano che s'avviava verso il Collegio, ed entrò in chiesa anche lui dalla
porta piccola. Il Capitano passando dinanzi alla farmacia fulminò i libertini di
un'occhiataccia, e borbottò, rivolto al principale:
|
- Badate che avete moglie e figliuoli!...
|
- Sangue di!... corpo di!... - voleva mettersi a sbraitare il
farmacista. In quel momento suonava la campanella della benedizione, e quanti erano in
piazza s'inginocchiarono. Poco dopo, Ciolla, che ingannava il tempo sgretolando delle fave
abbrustolite, seduto dinanzi alla bottega del sorbettiere vide una cosa che gli fece
drizzar le orecchie: il notaro Neri che usciva di chiesa insieme al canonico Lupi, e
risalivano verso la Maddalena, passo passo, discorrendo sottovoce. Il notaro scrollava le
spalle, guardando sottecchi di qua e di là. Ciolla tentò di unirsi a loro, ma essi lo
piantarono lì. Bomma, da lontano, non li perdeva di vista dimenando il capo.
|
- Badate a quel che fate!... Pensate alla vostra pelle! - gli disse il
Capitano passandogli di nuovo accanto.
|
- Becco!... - voleva gridargli dietro il farmacista. - Badate a voi
piuttosto!... - Ma il dottore lo spinse dentro a forza. Ciolla era corso dietro al
canonico e al notaro Neri per la via di San Sebastiano, e li vide ancora fermi sotto il
voltone del Condotto, malgrado il gran puzzo, quasi al buio, che discorrevano sottovoce,
gesticolando. Appena s'accorsero del Ciolla se la svignarono in fretta, l'uno di qua e
l'altro di là. Il notaro continuò a salire per la stradicciuola sassosa, e il canonico
scese apposta a rompicollo verso San Sebastiano, fermando il Ciolla come a caso.
|
- Quel notaro... me ne ha fatta una!... Aveva il consenso di massaro
Sbrendola... un contratto bell'e buono... e ora dice che non si rammenta!
|
- Va là, va là, che non me la dai a bere! - mormorò Ciolla fra di
sè, appena il canonico ebbe voltate le spalle. E corse subito alla farmacia:
|
- Gran cose c'è per aria! Cani e gatti vanno insieme! Gran cose si
preparano! - Tavuso gonfiò le gote e non rispose. Lo speziale invece si lasciò scappare:
- Lo so! lo so!
|
E si picchiò la mano aperta sulla bocca, fulminato dall'occhiata severa
che gli saettò il dottore.
|
Verso due ore di notte, don Gesualdo stava per mettersi a cenare, quando
venne a cercarlo in gran mistero il canonico, travestito da pecoraio. Bianca fu lì lì
per abortire dallo spavento.
|
- Don Gesualdo siamo pronti, se volete venire; gli amici vi aspettano.
|
Ma gli tremava la voce al poveraccio. Lo stesso don Gesualdo, al momento
di buttarsi proprio in quella faccenda, gli vennero in mente tante brutte idee; si fece
pallido, e gli cadde la forchetta di mano. Bianca poi si alzò convulsa, incespicando qua
e là, pigliandosela col canonico, che metteva in quell'impiccio un padre di famiglia.
|
- Se fate così!... - balbettò il canonico; - se mi fate anche la
jettatura... allora, buona notte!
|
Don Gesualdo cercava di volgerla in ridere, colle labbra smorte - Bravo
canonico! Adesso si vedrà se siete un uomo!... Sono contento, vedi, Bianca! Sono contento
d'andare magari verso il precipizio, per vedere che cominci ad affezionarti a me e alla
casa...
|
Tutto sudato, colle mani un po' tremanti, si imbacuccò ben bene in uno
scapolare, per prudenza, e scesero in istrada. Non c'era anima viva. Sul terrazzo del
Collegio una mano ignota aveva spento finanche il lampione dinanzi alla statua
dell'Immacolata: una cosa da fare accapponar la pelle, quella sera! Egli allora si sentì
stringere il cuore da una tenerezza insolita, pensando alla casa e ai parenti.
|
- Povera Bianca! Avete visto? E' buona, sì, in fondo... Non lo credevo,
davvero!...
|
- Zitto! - interruppe il canonico. - Se vi fate conoscere alla voce, è
inutile nascondersi e sudare come bestie!
|
Ogni momento andava voltandosi, temendo di essere spiati. Arrivati nella
via di San Giovanni videro un'ombra che andava in su verso la piazza, e il canonico disse
piano:
|
- Vedete?... E' uno dei nostri!... Va dove andiamo noi.
|
Era in un magazzino di Grancore, giù nelle stradicciuole tortuose verso
San Francesco, che sembravano fatte apposta. Una casetta bassa che aveva una finestra
illuminata per segnale. Si bussavano tre colpi in un certo modo alla porticina dove si
giungeva scendendo tre scalini; si attraversava un gran cortile oscuro e scosceso, e in
fondo c'era uno stanzone buio dove si capiva che stava molta gente a confabulare insieme
dal sussurrìo che si udiva dietro l'uscio. Il canonico disse: - E' qui! - e fece il
segnale convenuto.
|
Tutti e due col cuore che saltava alla gola. Per fortuna in quel momento
giunse un altro congiurato, imbacuccato come loro, camminando in punta di piedi sui sassi
del cortile, e ripeté il segnale istesso.
|
- Don Gesualdo, - disse il notaro Neri cavando il naso da una gran
sciarpa. - Siete voi? Vi ho riconosciuto al canonico che sembra un cucco, poveraccio!
|
Il notaro la pigliava allegramente. Narrava che a Palermo avevano fatto
il pasticcio; avevano ammazzato il principe di Aci e s'erano impadroniti di Castellammare:
- Chi comanda adesso è un prete, certo Ascenso!
|
- Ah? - rispose il canonico che si sentiva in causa. - Ah?
|
- Silenzio per ora!... Andiamo adagio! Sapete com'è?... a chi deve
prima attaccare il campanello al gatto! E ogni galantuomo non vorrebbe mettere il piede in
trappola. Ma se siamo in tanti... C'è anche il barone Zacco stasera.
|
- Che aspettiamo ad entrare, signori miei? - interruppe don Gesualdo a
quella notizia, coraggioso come un leone.
|
Quando tornarono ad uscire, dopo un gran pezzo, erano tutti più morti
che vivi. Bomma sforzavasi di fare il gradasso; Tavuso non diceva una parola; e il notaro
stava soprapensieri anche lui. Zacco corse ad attaccarsi al braccio di don Gesualdo, quasi
fossero divenuti fratelli davvero. - Sentite, cugino, ho da parlarvi. - E seguitarono ad
andare a braccetto in silenzio.
|
- Ssst!... un fischio!... verso i Cappuccini!... - Il barone mise mano
alla pistola: tutti con un gran batticuore. Si udirono abbaiare dei cani. - Fermo!... -
esclamò il canonico sottovoce, afferrando il braccio armato del barone che mirava al
buio, - è fra Girolamo, che non vuol esser visto da queste parti! - Appena si udì
richiudere l'uscio, nel vano del quale era balenata una sottana bianca, il farmacista
borbottò col fiato ai denti: - L'abbiamo scappata bella, parola d'onore! - Il barone
invece strinse forte il braccio di don Gesualdo senza dir nulla. Poi lasciò andare
ciascuno per la sua strada, Bomma in su, verso la Piazza Grande, il canonico a piè della
scalinata che saliva a San Sebastiano. - Da questa parte, don Gesualdo... venite con me. -
E gli fece fare il giro lungo pei Cappuccini, risalendo poi verso Santa Maria di Gesù per
certe stradicciuole buie che non si sapeva dove mettere i piedi. A un tratto si fermò
guardando faccia a faccia il suo amico novello con certi occhi che luccicavano al buio.
|
- Don Gesualdo, avete sentito quante belle chiacchiere? Adesso siamo
tutti fratelli. Nuoteremo nel latte e nel miele, d'ora in poi... Voi che ci credete, eh?
|
L'altro non disse né sì né no, prudente, aspettando il seguito.
|
- Io no... Io non mi fido di tutti questi fratelli che non mi ha
partorito mia madre.
|
- Allora perché siete venuto, vossignoria?
|
- Per non farci venire voi, caspita! Io non fo misteri. Giuochiamo a
tagliarci l'erba sotto i piedi fra di noi che abbiamo qualcosa da perdere, ed ecco il bel
risultato! Far la minestra per i gatti, e arrischiare la roba e la testa!... Io bado ai
miei interessi, come voi... Non ho i fumi che hanno tanti altri... Parenti!
parentissimi!
quanto a me volentieri... Allora mettiamoci d'accordo piuttosto fra di noi...
|
- Ebbene? che volete fare?
|
- Ah? che voglio fare? La pigliate su quel verso? Mi fate lo gnorri?...
Allora sia per non detto... Ciascuno il suo interesse! Fratelli! Carbonari! Faremo la
rivoluzione! metteremo il mondo a soqquadro anche!... Io non ho paura!... - Nel calore
della disputa il barone si era addossato all'uscio di un cortile. Un cane si mise a
latrare furiosamente. Zacco spaventato se la diede a gambe colla pistola in pugno, e don
Gesualdo dietro di lui, ansante. Prima di giungere in piazza di Santa Maria di
Gesù, uno
che andava correndo lo fermò mettendogli la mano sul petto.
|
- Signor don Gesualdo!... dove andate?... c'è la giustizia a casa
vostra!
|
Quello che temeva il canonico! quello che temeva Bianca! Egli correva al
buio, senza saper dove, con una gran confusione in testa, e il cuore che voleva uscirgli
dal petto. Poi, udendo colui che gli arrancava dietro, con un certo rumore quasi
picchiasse in terra col bastone, gli disse: - E tu chi sei?
|
- Nardo, il manovale, quello che ci lasciò la gamba sul ponte. Non mi
riconoscete più, vossignoria? Donna Bianca mi ha mandato a svegliare di notte.
|
E narrava com'era arrivata la Compagnia d'Arme, all'improvviso, a
quattr'ore di notte. Il Capitano e altri Compagni d'Arme erano in casa di don Gesualdo.
Lassù, verso il Castello, vedevansi luccicare dei lumi; c'era pure una lanterna appesa
dinanzi alla porta dello stallatico, al Poggio, e dei soldati che strigliavano. Più in
là, nelle vicinanze della Piazza Grande, si udivano di tanto in tanto delle voci: un
mormorìo confuso, dei passi che risuonavano nella notte, dei cani che abbaiavano per
tutto il paese.
|
Don Gesualdo si fermò a riflettere: - Dove andiamo, vossignoria? -
chiese Nardo. - Ci ho pensato. Non far rumore. Ah! Madonna Santissima del Pericolo! Va a
chiamare Nanni l'Orbo. Lo conosci? il marito di Diodata?
|
Cominciava ad albeggiare. Ma nelle viottole fuori mano che avevano preso
non s'incontrava ancora anima viva. La casuccia di Diodata era nascosta fra un mucchio di
casupole nerastre e macchie di fichi d'India, dove il fango durava anche l'estate. C'era
un pergolato sul ballatoio, e un lume che trapelava dalle imposte logore.
|
- Bussa tu, se mai... - disse don Gesualdo.
|
Diodata al vedersi comparire dinanzi il suo antico padrone ansante e
trafelato si mise a tremare come una foglia.
|
- Che volete da me a quest'ora?... Per l'amor di Dio! lasciatemi in
pace, don Gesualdo!... Se torna mio marito!... E' uscito or ora, per cogliere quattro
fichi d'India!... qui accanto.
|
- Bestia! - disse lui. - Ho altro pel capo! Ci ho la giustizia alle
calcagna!...
|
- Che c'è? - chiese Diodata spaventata.
|
Egli colla mano le fece segno di star zitta. In quel momento tornò
correndo compare Nardo; la gamba di legno si udiva da lontano sull'acciottolato.
|
- Eccolo!... eccolo che viene!...
|
Entrò Nanni l'Orbo, torvo, colla canna da cogliere i fichi d'India in
spalla, e gli occhi biechi che fulminavano di qua e di là. Invano Diodata, colle braccia
in croce giurava e spergiurava.
|
- Padron mio! - esclamò Nanni - a che giuoco
giuochiamo? Questa non è
la maniera!...
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- Bestia! - gridò infine don Gesualdo, scappandogli la pazienza. - Ho
la forca dinanzi agli occhi, e tu vieni a parlarmi di gelosia!
|
Allo strepito accorsero i vicini - Lo vedete? - ripigliò Nanni
infuriato. - Che figura fo dinanzi a loro padron mio? In coscienza, quel po' che avete
dato a costei per maritarla è una miseria, in confronto della figura che mi fate fare!
|
- Taci! Farai correre gli sbirri con quel chiasso! Che vuoi? Ti darò
quello che vuoi!...
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- Voglio l'onor mio, don Gesualdo! L'onor mio che non si compra a
denari!
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Cominciarono ad abbaiare anche i cani del vicinato.- Vuoi la chiusa del
Carmine?... un pezzo che ti fa gola!
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Infine compare Nardo riuscì a metterli d'accordo sulla chiusa del
Carmine. - Corpo di Giuda! La roba serve per queste occasioni... carceri, malattie e
persecuzioni... Voi l'avete fatta, don Gesualdo, e serve per salvare la vostra pelle...
|
Don Gesualdo con una faccia da funerale brontolò:
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- Parla! Sbraita! Hai ragione! Adesso hai ragione tu!
|
- Considerate dunque il vostro prossimo, vossignoria! La moglie da
mantenere... I figli che nasceranno... Se mi tornano a casa anche gli altri... quelli che
son venuti prima, bisogna mantenerli come fossero miei... perché sono il marito di
Diodata... La gente dirà magari che li ho messi al mondo io!...
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- Basta! basta! Se t'ho detto di sì per la chiusa!
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- Parola di galantuomo? Davanti a questi testimoni? Quand'è così...
giacchè mi dite che siete venuto soltanto per salvare la pelle, potete rimanere tutto il
tempo che vi piace. Sono un buon diavolaccio, lo sapete!...
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S'era fatto tardi. Compare Nanni, completamente rabbonito, propose anche
di andare a vedere quel che accadeva fuori:
|
- Voi fate liberamente come se foste in casa vostra, don Gesualdo...
Compare Nardo verrà con me. Al ritorno, per segnale, busserò tre colpi all'uscio. Ma se
no, non aprite neanche al diavolo.
|
Era un terrore pel paese: porte e finestre ancora chiuse, Compagni
d'Arme per le vie, rumore di sciabole e di speroni. Le signorine
Margarone, in fronzoli e
colla testa irta di ciambelle come un fuoco d'artificio, correvano ogni momento al
balcone. Don Filippo, tronfio e pettoruto, se ne stava adesso seduto nel Caffè dei
Nobili, insieme al Capitano Giustiziere e l'Avvocato Fiscale, facendo tremare chi passava
colla sola guardatura. Nella stalla di don Gesualdo dei trabanti governavano i cavalli, e
il Comandante fumava al balcone, in pantofole, come in casa sua.
|
Nanni l'Orbo tornò ridendo a crepapelle. Prima di entrare però bussò
al modo che aveva detto, tossì, si soffiò il naso, pure si trattenne un po' a discorrere
ad alta voce con una vicina che si pettinava sul ballatoio. Don Gesualdo stava mangiando
una insalata di cipolle, onde prevenire qualche malattia causata dallo spavento. -
Prosit! prosit, don Gesualdo! A casa vostra ci ho trovato dei forestieri, tale e quale come voi
qui da me. Il barone Zacco corre ancora!... L'hanno visto prima dell'alba più in là di
Passaneto, figuratevi! a casa del diavolo!... dietro una siepe, più morto che vivo!...
Sua moglie fa come una pazza... Sono stato anche a cercare del notaro Neri, se s'ha a
scrivere due parole della chiusa del Carmine che date a mia moglie pei servizi prestati...
Non che non mi fidi... sapete bene... per la vita e per la morte. Nessuno l'ha più visto,
il notaro! Dicono ch'è nascosto nel monastero di San Sebastiano... vestito da donna...
sissignore! Gli sbirri cercano da per tutto! Ma qui non avete da temere, vossignoria!...
Udite? udite?
|
Sembrava che si divertisse a fare agghiacciare il sangue nelle vene al
prossimo suo, quel briccone! Udivasi infatti un vocìo di comari, un correre di scarponi
grossi strilli di ragazzi. Diodata s'arrampicò sino all'abbaino del granaio per vedere.
Poi Nanni venne a dire:
|
- E' il viatico, Dio liberi!... Va in su verso sant'Agata. Ho visto il
canonico Lupi che portava il Signore... cogli occhi a terra!... una faccia da santo,
com'è vero Iddio!
|
- Stasera, appena è scuro, mi farai trovare una cavalcatura laggiù
alla Masera, e mi darai qualche cosa da travestirmi; - disse don Gesualdo, che sembrava
più smorto alla luce dell'abbaino.
|
- Perché? Non vi piace più lo stare in casa mia? Diodata vi avrebbe
fatto qualche mancanza?
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- No, no... Mi pare mill'anni d'esser lontano...
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- Qui però non avete da temere... Gli sbirri non vengono a cercarvi
qui! A casa vostra piuttosto! Guardatevi!...
|
Infatti Bianca la sera innanzi s'era visto capitare a tre ore di notte
il Capitan d'Arme, un bell'uomo colla barba a collana e i baffi alla militare, che recava
il biglietto d'alloggio. Bianca, già inquieta per suo marito, non sapendo che fare, aveva
mandato a chiamare lo zio Limòli, il quale giunse sbadigliando e di cattivo umore. Invano
il Capitan d'Arme accarezzandosi i baffi che aveva lasciato crescere da poco, le diceva
colla voce grossa:
|
- Non temete!... Calmatevi, bella signora!... Noi militari siamo galanti
col bel sesso!...
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- Poi - aggiunse il marchese - questi qua sono militari per modo di
dire; come io ho fatto il voto di castità perché sono cavaliere di Malta.
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Il Capitano si accigliò, ma l'altro, senza accorgersene continuò,
battendogli familiarmente sulla spalla:
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- Vi conosco, don Bastiano!... Eravate piccolo così, colle brache
aperte, quando si faceva delle scappatelle insieme a vostro padre... Allora il voto mi
dava noia come vi dà noia adesso quella stadera che portate appesa al fianco... Bei
tempi!... Bell'uomo vostro padre! Il cuore e la borsa sempre aperti!... Don Marcantonio
Stangafame!... dei Stangafame di Ragusa!... una delle prime famiglie della Contea! Peccato
che siate in tanti! L'avete indovinata a farvi nominare Capitan d'Arme!...
Quattrocent'onze all'anno, per rispondere dei furti campestri... E' una bella somma... Vi
rimane in tasca tale e quale... poiché il territorio è tranquillo!... Una bagattella
soltanto pei dodici soldati che vi tocca mantenere... due tarì al giorno per ciascuno,
eh?...
|
- Basta, corpo di... bacco!... - gridò il Capitan d'Arme battendo in
terra la sciabola. - Sembrami che vogliate burlarvi di me, corpo di... bacco!
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- Ehi, ehi! Adagio, signor capitano! Sono il marchese
Limòli, e ho
ancora degli amici a Napoli per farvi scapitanare e tagliare i baffi novelli, sapete!
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Capitò in quel momento il ragazzetto del sagrestano che veniva a fare
un'imbasciata di gran premura, balbettando, imbrogliandosi, tornando sempre a ripetere la
stessa cosa rosso dalla suggezione. Il marchese, che cominciava a farsi un po' sordo,
tendeva l'orecchio, gli faceva dei versacci lo intimidiva maggiormente strillando: - Eh?
che diavolo vuoi?
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Ma Bianca mise un grido straziante un grido che fece rimanere lo zio a
bocca aperta, e scappò per la casa cercando il manto, cercando qualcosa da buttarsi in
capo per uscire di casa, per correre subito.
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|
III
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Da gran tempo, ogni giorno, alla stessa ora, donna Giuseppina Alòsi che
stava al balcone facendo la calza per aspettare la passata di Peperito, don Filippo
Margarone mentre rivoltava la conserva di pomidoro posta ad asciugare sul terrazzo,
l'arciprete Bugno nell'appendere al fresco la gabbia del canarino, fin coloro che stavano
a sbadigliare nella farmacia di Bomma, se volgevano gli occhi in su, verso il Castello, al
di sopra de' tetti, solevano vedere don Diego e don Ferdinando Trao, uno dopo l'altro, che
facevano capolino a una finestra, guardinghi, volgevano poi un'occhiata a destra, un'altra
a sinistra, guardavano in aria, e ritiravano il capo come la lumaca. Dopo qualche minuto
infine aprivasi il balcone grande, stridendo, tentennando, a spinte e a riprese, e
compariva don Diego, curvo, macilento, col berretto di cotone calcato sino alle orecchie,
tossendo, sputando, tenendosi all'inferriata con una mano; e dietro di lui don Ferdinando
che portava l'annaffiatoio, giallo, allampanato, un vero fantasma. Don Diego annaffiava,
nettava, rimondava i fiori di Bianca; si chinava a raccattare i seccumi e le foglie vizze;
rimescolava la terra con un coccio; passava in rivista i bocciuoli nuovi, e li covava
cogli occhi. Don Ferdinando lo seguiva passo passo, attentissimo; accostava anche lui il
viso scialbo a ciascuna pianta, aguzzando il muso, aggrottando le sopracciglia. Poscia
appoggiavano i gomiti alla ringhiera, e rimanevano come due galline appollaiate sul
medesimo bastone, voltando il capo ora di qua e ora di là, a seconda che giungeva la mula
di massaro Fortunato Burgio carica di grano, o saliva dal Rosario la ragazza che vendeva
ova, oppure la moglie del sagrestano attraversava la piazzetta per andare a suonare
l'avemaria. Don Ferdinando stava intento a contare quante persone si vedevano passare
attraverso quel pezzetto di strada che intravvedevasi laggiù, fra i tetti delle case che
scendevano a frotte per la china del poggio; don Diego dal canto suo seguiva cogli occhi
gli ultimi raggi di sole che salivano lentamente verso le alture del Paradiso e di Monte
Lauro, e rallegravasi al vederlo scintillare improvvisamente sulle finestre delle casipole
che si perdevano già fra i campi, simili a macchie biancastre. Allora sorrideva e
appuntava il dito scarno e tremante, spingendo col gomito il fratello, il quale accennava
di sì col capo e sorrideva lui pure come un fanciullo. Poi raccontava quello che aveva
visto lui: - Oggi ventisette!... ne sono passati ventisette... L'arciprete Bugno era
insieme col cugino Limòli!...
|
Per un po' di giorni, verso i primi d'agosto, era venuto soltanto don
Ferdinando ad annaffiare i fiori, strascinandosi a stento, coi capelli grigi svolazzanti,
sbrodolandosi tutto a ogni passo. Allorché ricomparve anche don Diego, parve di vedere
Lazzaro risuscitato: tutto naso, colle occhiaie nere, seppellito vivo in una vecchia
palandrana, tossendo l'anima a ogni passo: una tosse fioca che non si udiva quasi più, e
scuoteva dalla testa ai piedi lui e il fratello che gli dava il braccio, come andasse
facendo la riverenza a ogni vaso di fiori. E fu l'ultima volta. D'allora in poi s'erano
viste raramente insieme le teste canute dei due fratelli, dietro i vetri rattoppati colla
carta, cercando il sole, don Diego sputando e guardando in terra ogni momento. Il giorno
in cui avvenne quel parapiglia nel Palazzo di Città, che le voci si udivano sin nella
piazzetta di Sant'Agata, apparve per un istante alla finestra la cima di un berretto
bianco tremolante. Ma allorquando la processione di San Giuseppe si fermò dinanzi al
portone dei Trao, per l'omaggio tradizionale alla famiglia, le finestre rimasero chiuse,
malgrado il vocìo della folla. Don Ferdinando scese per comprare l'immagine del santo
gonfio d'asma, cogli occhi arsi di sonno piegato in due le mani nerastre tremanti così
che non trovavano quasi nel taschino i due baiocchi per l'immagine. Il procuratore di San
Giuseppe, che dirigeva la processione, gli disse:
|
- Vedrete quant'è miracolosa quell'immagine! Tanta salute e provvidenza
a tutti, in casa vostra!
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E gli affidò anche il bastone d'argento del santo, da metterlo al
capezzale del malato: un tocca e sana. Eppure non giovò neanche quello.
|
Compare Cosimo e Pelagatti, partendo per la campagna due ore prima
dell'alba, o tornando a notte fatta, vedevano sempre il lume alla finestra di don Diego. E
il cane nero dei Motta uggiolava per la piazza, come un lamento. Poi, verso nona, bussava
al portone il ragazzo di don Luca, portando un bicchiere di latte. Di tanto in tanto
veniva don Giuseppe Barabba, con un piatto coperto dal tovagliuolo, o il servitore del
Fiscale che recava un fiasco di vino. A poco a poco diradarono anche quelle visite.
L'ultima volta il dottor Tavuso se n'era andato scrollando le spalle. I ragazzi del
vicinato giuocavano tutto il giorno dietro quel portone che non si apriva più. Una sera,
tardi, i vicini, che stavano cenando, udirono la voce chioccia di don Ferdinando chiamare
il sagrestano, lì dirimpetto: una voce da far cascare il pan di bocca. E subito dopo un
gran colpo al portone sconquassato, e dei passi che si allontanarono frettolosi.
|
Fu giusto quella notte che arrivava la Compagnia d'Arme. Una baraonda
per tutto il paese. Al rumore insolito anche Don Diego aprì un istante gli occhi. Burgio
che era sul ballatoio di casa sua, coll'orecchio teso verso la Piazza Grande dove udivasi
quel parapiglia, vedendo gente nel balcone dei Trao, domandò inquieto:
|
- Che c'è?... Cosa succede?
|
- Don Diego!... - rispose il sagrestano; e fece il segno della croce,
quasi massaro Fortunato avesse potuto vederlo al buio. - Solo come un cane!... me lo
lasciano sulle spalle!... Ho mandato Grazia pel dottore... a quest'ora!...
|
- Sentite, laggiù, verso la piazza?... sentite?... Che giornata
spunterà domattina, Dio liberi!...
|
- Basta avere la coscienza netta, massaro Fortunato. Sono stato sempre
un povero diavolo!... Bacio la mano di chi mi dà pane...
|
- Il dottore!... quello sì!... deve avere la tremarella addosso a
quest'ora!... E anche il canonico Lupi, dicono!... Buona sera!... I muri hanno orecchie al
buio!
|
Infatti il dottor Tavuso, ch'era il capo di tutti i giacobini del paese,
e stava nascosto nella legnaia, tremando come una foglia, vide giunta l'ultima sua ora
all'udir bussare all'uscio con tanta furia.
|
- Li sbirri!... la Compagnia d'Arme!...
|
Quando gli dissero che era la moglie del sagrestano, invece, la quale
veniva a cercarlo per don Diego moribondo, montò in furia come una bestia.
|
- E' ancora vivo?... Mandatelo al diavolo!... Vengono a spaventarmi!...
a quest'ora!... di questi tempi!... Un padre di famiglia!... Andate a chiamare i suoi
parenti piuttosto... o il viatico, ch'è meglio!...
|
La zia Sganci non volle neppure aprire. Barabba rispose dietro il
portone, chiuso con tanto di catenaccio:
|
- Buona donna, questi non son tempi di correre di notte per le strade.
Domattina, se Dio vuole, chi campa si rivede.
|
Per fortuna, Grazia non aveva di che temere; e suo marito l'avrebbe
mandata senza sospetto in mezzo a un reggimento di soldati. L'andare attorno così tardi,
in quella tal notte, era proprio uno sgomento. Lo stesso baronello
Rubiera, che era uscito
di buon'ora dalla casa dei Margarone, s'era fatto accompagnare col lampione.
|
- Ninì! Ninì! - strillò dal balcone donna Fifì con la vocina
sottile, quasi il suo fidanzato corresse a buttarsi in un precipizio.
|
- Non temere... no! - rispose lui con la voce grossa.
|
All'udir gente nella piazzetta, dal portone dei Trao, che rimbombò come
una cannonata, uscì correndo don Luca:
|
- Signor barone!... sta per morire vostro cugino don Diego!... solo come
un cane!... Non c'è nessuno in casa!...
|
Rimpetto al palazzo nero e triste dei Trao splendeva il balcone lucente
dei Margarone, e in quella luce disegnavasi l'ombra di donna Fifì, rammentandogli
un'altra ombra che soleva aspettarlo altra volta alla finestra del palazzo smantellato.
Don Ninì se ne andò frettoloso, a capo chino, portandosi seco negli occhi i ricordi di
quella finestra chiusa e senza lume.
|
- Bella porcheria!... Me lo lasciano sulle spalle!... a me solo! -
brontolò don Luca tornando nella camera del moribondo.
|
Don Ferdinando stava seduto a piè del letto, senza dir nulla, simile a
una mummia. Di tanto in tanto andava a guardare in viso suo fratello; guardava poi don
Luca, stralunato, e tornava a chinare il capo sul petto. Alla sfuriata del sagrestano
però si rizzò all'improvviso, quasi gli avessero dato uno scossone, e domandò piano,
con la voce assonnata di uno che parli in sogno:
|
- Dorme?
|
- Sì, dorme!... Andate a dormire voi pure, se volete!...
|
Ma l'altro non si mosse. Il malato da prima voleva sapere ogni momento
che ora fosse; poi, verso mezzanotte, non domandò più nulla. Stava cheto, col naso
contro il muro, e la coperta sino alle orecchie. Grazia, di ritorno, aveva accostato
l'uscio, messo il lume accanto, sul tavolino, ed era andata a dare un'occhiata a casa sua.
Il marito si accomodò alla meglio su due sedie. Don Ferdinando, di tratto in tratto, si
alzava di nuovo, in punta di piedi, si chinava sul letto, simile a un uccello di
malaugurio, e tornava a domandare piano, all'orecchio di don Luca:
|
- Che fa? dorme?
|
- Sì! sì!... Andate a dormire voi pure!... andate!
|
E l'accompagnò lui stesso in camera sua, per liberarsi almeno da quella
noia. Don Ferdinando sognava che il cane nero dei vicini Motta gli si era accovacciato sul
petto, e non voleva andarsene, per quanto egli cercasse di svincolarsi e di gridare. La
coda del cane, lunga, lunga che non finiva più, gli si era attorcigliata al collo e alle
braccia, al pari di un serpente, e lo stringeva, soffocandolo, gli strozzava la voce in
gola, quando udì un'altra voce che lo fece balzare dal letto, con una gran palpitazione
di cuore.
|
- Alzatevi, don Ferdinando! Questa non è ora di dormire!...
|
Don Diego pareva che russasse forte, si udiva dall'altra stanza; supino,
cogli occhi aperti e spenti, le narici filigginose: un viso che non si riconosceva più.
Come don Ferdinando lo chiamò prima pian piano, e tornò a chiamarlo e a scuoterlo
inutilmente, gli si rizzarono quei pochi capelli in capo, e si rivolse al sagrestano,
smarrito, supplichevole:
|
- Che fa ora?... che fa?...
|
- Che fa?... Lo vedete che fa!... Grazia! Grazia!
|
- No!... Fermatevi!... Non aprite adesso!...
|
Era giorno chiaro. Donna Bellonia in sottana stava a spiare dalla
terrazza verso la Piazza Grande per incarico del marito, spaventata dal tramestìo che
s'era udito tutta la notte nel paese; e Burgio strigliava la mula legata al portone dei
Trao. Alle grida di don Luca, levò il capo verso il balcone, e domandò cosa c'era con un
cenno del capo. Il sagrestano rispose anche lui con un gesto della mano, facendo segno di
uno che se ne va.
|
- Chi? - domandò la Margarone che se ne accorse. - Chi? don Diego o don
Ferdinando?
|
- Sissignora, don Diego! Lo lasciano sulle spalle a me solo!... Corro
dal dottore... almeno per la ricetta del viatico, che diavolo!... Signori miei! deve
andarsene così un cristiano, senza medico né speziale?...
|
Speranza cominciò dallo sgridare suo marito che aveva legata la mula
alla casa del moribondo: - Porta disgrazia! Ci vorrebbe quest'altra!... - Poi si diedero a
strologare i numeri del lotto insieme a donna Bellonia, ch'era corsa a prendere il libro
di Rutilio Benincasa. Donna Giovannina s'affacciò asciugandosi il viso; ma non si vide
altro che il sagrestano il quale correva a chiamare Tavuso, lì a due passi una porticina
verde, colla fune del campanello legata alta perché non andassero a seccarlo di notte.
Picchia e ripicchia infine la serva di Tavuso gli soffiò attraverso il buco della
serratura:
|
- O chetatevi che il dottore non esce di casa, se casca il mondo! E'
più malato degli altri, lui!
|
Bomma, giallo al par del zafferano, stava pestando cremor di tartaro in
fondo alla farmacia, solo come un appestato. Don Luca entrò a precipizio, col fiato ai
denti:
|
- Signor don Arcangelo!... don Diego Trao è in punto di morte. Il
dottore non vuol venire... Cosa fo?
|
- Cosa fate?... La cassa da morto fategli, accidenti a voi! M'avete
spaventato! Non è questa la maniera... oggi che ogni galantuomo sta
coll'anima sulle
labbra!... Andate a chiamargli il prete piuttosto... lì, al Collegio, c'è il canonico
Lupi che s'arrabatta a dir messe e mattutino fin dall'alba, per farsi vedere in chiesa!...
Cade sempre in piedi colui! Se ne ride degli sbirri!... Io fo lo speziale! Pesto cremor di
tartaro, giacché non posso pestar altro... non posso!
|
Ma, vedendo passare Ciolla ammanettato come un ladro, si morse la
lingua, e chinò il capo sul mortaio. - Signori miei! - sbraitava Ciolla, - guardate un
po'!... un galantuomo che se ne sta in piazza pei fatti suoi!... - I Compagni d'Arme,
senza dargli retta, lo cacciavano innanzi a spintoni; don Liccio Papa di scorta colla
sciabola sguainata, gridando: - Largo! largo alla giustizia!... - Il Capitano Giustiziere,
dall'alto del marciapiede del Caffè dei Nobili, sentenziò:
|
- Bisogna dare un esempio! Ci pigliavano a calci dove sapete, un altro
po'!... manica di birbanti!... Un paese come il nostro, che prima era un convento di
frati!... Al castello! al castello! Don Liccio, eccovi le chiavi!...
|
Grazie a Dio si tornava a respirare. I ben pensanti sul tardi
cominciarono a farsi vedere di nuovo per le strade; l'arciprete dinanzi al caffè;
Peperito su e giù pel Rosario; Canali a braccetto con don Filippo verso la casa della
ceraiuola; don Giuseppe Barabba portando a spasso un'altra volta il cagnolino di donna
Marianna Sganci; la signora Capitana poi in gala, quasi fosse la sua festa, adesso che ci
erano tanti militari, colla borsa ricamata al braccio, il cappellino carico di piume,
scutrettolando, ridendo, cinguettando, rimorchiandosi dietro don Bastiano
Stangafame, il
tenente, tutti i colleghi di suo marito, il quale se ne stava a guardare da vero babbèo,
colla canna d'India dietro la schiena, mentre i suoi colleghi passeggiavano con sua
moglie, spaccandosi come compassi, ridendo a voce alta, guardando fieramente le donne che
osavano mostrarsi alle finestre, facendo risuonare da per tutto il rumore delle sciabole e
il tintinnìo degli speroni, quasi ci avessero le campanelle alle calcagna. Le ragazze
Margarone, stipate sul terrazzo, si rodevano d'invidia. - Specie il tenente ci aveva dei
baffoni come code di cavallo, e due file di bottoni lungo il ventre che luccicavano da
lontano.
|
Talché in quell'aria di festa suonò più malinconico il campanello del
viatico. Correvano anche delle voci sinistre: - Una battaglia c'è stata!... dei
condannati a morte!... - Uno di quelli che portavano il lanternone dietro il baldacchino
disse che il viatico andava dai Trao. - Un'altra grande famiglia che si estingue! -
osservò gravemente l'Avvocato Fiscale scoprendosi il capo. La signora Capitana,
saltellando sulla punta delle scarpette per mostrare le calze di seta stava rimbeccando
don Bastiano con un sorriso da far dannare l'anima:
|
- Lo so! lo so! giuramenti da marinaio!...
|
Il Capitan d'Arme ammiccò a donna Bianca la quale passava in quel
momento, con un'aria che voleva dire: - Anche costei!... che colpa ci ho? - scappellandosi
con soverchio ossequio. Ma quella poveretta non gli rispose. Andava quasi correndo,
trafelata, col manto giù per le spalle, il viso ansioso e pallido. Donna Fifì Margarone
si tirò indietro dal balcone con una smorfia, appena la vide sboccare nella piazzetta
dalla salita di Sant'Agata.
|
- Ah!... finalmente!... la buona sorella!... quanta degnazione!...
|
- Bianca! Bianca! - gridava lo zio Limòli che non poteva tenerle
dietro.
|
Dinanzi al portone, spalancato a due battenti, si affollavano i ragazzi
di Burgio e di don Luca. La moglie del sagrestano ne usciva in quel momento, arruffata,
gialla, senza ventre, e si mise a distribuire scappellotti a diritta e a manca:
|
- Via! via di qua!... Che aspettate? la festa? - Poscia entrò in chiesa
frettolosa. Delle comari stavano alle finestre, curiose. In cima alla scala don Giuseppe
Barabba spolverava delle bandiere nere, bucate e rose dai topi, collo stemma dei
Trao: una
macchia rossa tutta intignata. Era corsa subito la zia Macrì colla figliuola, e il barone
Mèndola che stava lì vicino; una va e vieni per la casa, un odor d'incenso e di
moccolaia, una confusione. In fondo, attraverso un uscio socchiuso, scorgevasi
l'estremità di un lettuccio basso, e un formicolìo di ceri accesi, funebri, nel giorno
chiaro. Bianca non vide altro, in mezzo a tutti quei parenti che le si affollavano
intorno, sbarrandole il passo: - No!... lasciatemi entrare!
|
Apparve un momento la faccia stralunata di don Ferdinando, come un
fantasma; poi l'uscio si chiuse. Delle braccia amiche la sorreggevano, affettuosamente, e
la zia Macrì ripeteva: - Aspetta!... aspetta!...
|
Tornò la moglie del sagrestano, ansante, portando dei candelieri sotto
il grembiule. Suo marito, che si affacciò di nuovo all'uscio, venne a dire:
|
- C'è il viatico... l'estrema unzione... Ma non sente...
|
- Voglio vederlo!... Lasciatemi andare!
|
- Bianca!... in questo momento!... Bianca!...
|
- Vuoi ammazzarlo?... Una commozione!... Se ti sente!... Non far così,
via, Bianca!... Un bicchier d'acqua!... presto!...
|
Donna Agrippina corse in cucina. S'aprì l'uscio un'altra volta su di un
luccichìo di processione. Il prete, il baldacchino, i lanternoni del viatico passarono
come una visione. Il marchese, inchinandosi sino a terra, borbottò:
|
- Domine, salva me...
|
- Amen! - rispose il sagrestano. - Ho fatto quel che ho potuto... solo
come un cane!... due volte dal medico!... di notte!... Anche dal farmacista!... dice che
il conto è lungo... e non ci ha l'erba di Lazzaro risuscitato, poi!...
|
- Perché?... perchè non mi lasciate entrare?... Che ho fatto?... -
Essa tremava così che i denti facevano tintinnare il bicchiere, quasi fuori di
sè,
fissando addosso alla gente gli occhi spaventati.
|
- Lasciatemi! lasciatemi entrare!
|
Lo zio marchese si affrettò a cavare il fazzoletto per asciugarle tutta
l'acqua che si era versata addosso. Il barone Mèndola e la zia Macrì stavano discorrendo
nel vano del finestrone: - Una malattia lunga!... Tutti così quei Trao!... non c'è che
fare!...
|
- Guarda! - esclamò il barone che stava da un po' attento. - Hanno
aperto un finestrino sul mio tetto... laggiù!... quel ladro di Canali!... Fortuna che me
ne sia accorto! Lo citerò in giudizio!... una citazione nera come la pece!...
|
- Don Luca! don Luca! - si udì gridare. L'uscio si spalancò a un
tratto, e comparve don Ferdinando agitando le braccia in aria. Don Luca corse a
precipizio. Successe un momento di confusione: delle strida, delle voci concitate, un
correre all'impazzata, donna Agrippina che cercava l'aceto dei sette ladri, gli altri che
stentavano a trattenere Bianca, la quale faceva come una pazza, con la schiuma alla bocca,
gli occhi che mandavano lampi, e non si riconoscevano più.
|
- Perchè?... perchè non volete? Lasciatemi! lasciatemi!... lasciatemi
entrare!...
|
- Sì! sì! - disse lo zio marchese. - E' giusto che lo veda!...
Lasciatela entrare.
|
Ella scorse un corpo lungo e stecchito nel lettuccio basso, un mento
aguzzo, ispido di barba grigiastra, rivolto in su, e due occhi glauchi, spalancati.
|
- Diego!... Diego!... fratello mio!...
|
- Non fate a quel modo, donna Bianca! - disse piano don Luca. - Se ci
sente ancora, il poveretto, figuratevi che spavento!...
|
Essa si arrestò tutta tremante, atterrita, colle mani nei capelli,
guardandosi intorno trasognata. A un tratto fissò gli occhi asciutti ed arsi su don
Ferdinando che annaspava stralunato, quasi volesse allontanarla dal letto.
|
- Nulla!... nulla m'avete fatto sapere!... Non son più nulla...
un'estranea!... Fuori, dalla casa e dal cuore!... fuori!... da per tutto!
|
- Zitta!... - balbettò don Ferdinando mettendo il dito tremante sulla
bocca. - Poi!... poi!... Adesso taci!... Tanta gente, vedi!...
|
- Bianca! Bianca!... - supplicavano gli altri abbracciandola,
spingendola, tirandola per le vesti.
|
- Portatela via!... - gridò la zia Macrì dall'uscio. - Nello stato in
cui è, la poveretta... succederà qualche altra tragedia!...
|
Frattanto giunse donna Sarina Cirmena, scalmanata, in un bagno di
sudore.
|
- L'ho saputo or ora! - balbettò lasciandosi cadere sul seggiolone di
cuoio in mezzo ai parenti riuniti nella gran sala. - Che volete? con quel parapiglia che
c'è stato nel paese! Se non era pel viatico che vidi venire da queste parti...
|
Il marchese indicò l'uscio dell'altra stanza con un cenno del capo. La
zia Cirmena, accasciata sul seggiolone, col fazzoletto agli occhi, piagnucolò:
|
- Io non ci reggo a queste scene!... Sono tutta sottosopra!... - E
siccome continuava a interrogare cogli occhi or questo e or quello, donna Agrippina
rispose sottovoce, compunta, facendo il segno della croce:
|
- Or ora!... cinque minuti fa!
|
Don Giuseppe venne recando in fascio le bandiere:
|
- Ecco!... Il falegname è avvertito.
|
Il barone Mèndola s'alzò per andare a sentire cosa volesse.
|
- Va bene, va bene, - disse Mèndola. - Or ora si pensa a tutto. Don
Luca? ehi? don Luca?
|
Appena il sagrestano affacciò il capo all'uscio, si udirono delle
strida che laceravano il cuore.
|
- Povera Bianca!... sentite?
|
- Fa come una pazza! - confermò don Luca. - Si strappa i capelli!...
|
Il barone Mèndola lo interrogò dinanzi a tutti quanti:
|
- Avete pensato a ogni cosa, eh, don Luca?
|
- Sissignore. Il catafalco, le bandiere, tante messe quanti preti ci
sono. Ma chi paga?
|
- Andate! andate! - interruppe vivamente la Cirmena spingendo per le
spalle il sagrestano verso la camera del morto, dove cresceva il trambusto.
|
- Mi dispiace! - osservò la zia Macrì alzandosi per vedere dov'era
arrivato il sole. - Mi dispiace che si fa tardi e a casa mia non c'è nessuno per
preparare un boccone.
|
Uscì don Luca dalla camera del morto, turbato in viso.
|
- E' un affar serio... Bisognerà portarla via per amore o per forza!...
Vi dico ch'è un affar serio!
|
- E' permesso? Si può?
|
Era il vocione del cacciatore che accompagnava la baronessa
Mèndola,
col cappello piumato, le calze imbottite di noci. La vecchia, senza bisogno di udir altro,
diritta e stecchita come un fuso, andò a prendere il suo posto fra i parenti che al suo
apparire s'erano taciuti, seduti intorno sui seggioloni antichi, col viso lungo e le mani
sul ventre. La baronessa guardava intorno, gridando a voce alta:
|
- E la Rubiera? e la cugina Sganci? Ora che si fa? Bisogna avvertire il
parentado per le esequie...
|
- Eccola lì! - disse donna Sarina all'orecchio della
Macrì. - Cascasse
il mondo... non manca mai!... Avete visto il subbuglio che c'è per le strade?
|
La cugina rispose con un sorriso pallido, facendo segno che la vecchia
non aveva paura di nulla perché era sorda.
|
- Il fatto è... - cominciò il barone.
|
Ma in quel momento portavano Bianca svenuta, le braccia penzoloni, donna
Agrippina e il sagrestano rossi, ansanti, e col fiato ai denti. - Quasi fosse morta! -
sbuffò il sagrestano.
|
- Gli pesano le ossa!... - La zia Macrì consigliò: - Lì, lì, nella
sua camera!...
|
- Il fatto è... - riprese il barone Mèndola sottovoce, tirando in
disparte il cugino Limòli e donna Sarina Cirmena, - il fatto è che bisogna concertarsi
pel funerale. Adesso vedrete che spuntano fuori i parenti del cognato
Motta... Faremo un
bel vedere!... al fianco di Burgio e di mastro Nunzio Motta!... Ma il marito non si può
lasciarlo fuori... E' una disgrazia, non dico di no... ma bisogna sorbirsi mastro-don
Gesualdo, eh?...
|
- Sicuro! sicuro! - rispose la zia Cirmena.
|
Essa voleva fare qualche altra obiezione. Ma il marchese Limòli disse
il fatto suo:
|
- Lasciate correre, cugina cara!... Tanto!... il morto è morto, e non
parla più.
|
- Allora!... - ribatté la Cirmena diventando rossa, - è una bella
porcheria che mastro-don Gesualdo non si sia fatto neppur vedere!
|
Mèndola uscì sul pianerottolo per dire a Barabba di correre a casa
Sganci.
|
- Ci vogliono denari, - disse piano tornando indietro. - Avete sentito
il sagrestano? Le spese chi le fa?
|
La zia Macrì finse di non udire, discorrendo sottovoce colla
Cirmena:
|
- Povera Bianca!... in quello stato! Quanti mesi sono? lo sapete?...
|
- Sette... devono esser sette... Insomma un affar serio!...
|
Il marchese Limòli, che discuteva insieme a Mèndola e a Barabba sui
preparativi del funerale conchiuse:
|
- Io inviterei l'Arciconfraternita dei Bianchi trattandosi di una
persona di riguardo...
|
- Sicuro... Bisogna far le cose con decoro... senza risparmio!...
|
Ma ciascuno vogava al largo quando si parlava di anticipare un baiocco.
Nella camera del morto durava intanto il contrasto fra la moglie del sagrestano, che
voleva farne uscire don Ferdinando, e lui che si ostinava a rimanere: come un guaiolare di
cagnuolo, e la voce aspra della zia Grazia, la quale strillava:
|
- Madonna santa! non capite proprio nulla?... Siete un ragazzo tale e
quale! Il mio ragazzo avrebbe più giudizio di voi, guardate!
|
E tutt'a un tratto, in mezzo al crocchio dei parenti che discorrevano
sottovoce, si vide capitare don Ferdinando strascicando le gambe, coi capelli arruffati,
la camicia aperta, il viso di un cadavere anch'esso, recando uno scartafaccio che andava
mostrando a tutti quanti:
|
- Ecco il privilegio!... Il diploma del Re Martino... Bisogna metterlo
nell'iscrizione mortuaria... Bisogna far sapere che noi abbiamo diritto di esser
seppelliti nelle tombe reali... una cum regibus! Ci avete pensato alle bandiere collo
stemma? Ci avete pensato al funerale?
|
- Sì, sì, non dubitate...
|
Come ciascuno evitava di impegnarsi direttamente, voltandogli le spalle,
don Ferdinando andava dall'uno all'altro biascicando, colle lagrime agli occhi:
|
- Una cum regibus!... Il mio povero fratello!... Una cum
regibus!...
|
- Va bene, va bene, - gli rispose il marchese Limòli. - Non ci pensate.
|
Il barone Mèndola, che era stato a confabulare con della gente, fuori
sul pianerottolo, rientrò gesticolando:
|
- Signori miei!... se sapeste!... Casco dalle nuvole!...
|
- Zitto! - gli fece segno il marchese, - zitto! Che cos'è adesso?...
|
Nella camera di Bianca udivasi un gran trambusto; delle voci affannose e
supplichevoli; un tramenìo come di gente in lotta; grida deliranti di dolore e di
collera; poscia un urlo che fece trasalire tutti quanti. L'uscio fu sbatacchiato con
impeto, e ne uscì all'improvviso il marchese stravolto. Un momento dopo si affacciò la
zia Macrì gridando:
|
- Un medico! Presto! presto!
|
Giungevano allora altri parenti in processione, compunti coi guanti
neri. In mezzo al rumore delle seggiole smosse la zia Macrì tornò a gridare:
|
- Presto! un medico! presto!
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|
IV
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"Se agglomerate cerimonie tema non forman delle mie verghe non ne
traligna l'ossequio. Sì che sorgenti men fallaci e più stabili le sole preci ne reputo.
Il favor di un vostro sguardo è quel che anelo, e lo ambisco mercé delle melenzose mie
riga.
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L'ore 7 del 17.
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" Barone Antonino Rubiera."
|
- Sicuro! - aggiunse mastro Titta che stava sull'uscio del palchetto,
mentre donna Fifì compitava la letterina. - Me l'ha data lui stesso, il
baronello, per
consegnarla di nascosto alla prima donna. Ma, per carità! Son padre di famiglia!... Non
mi fate perdere il pane.
|
Donna Fifì, gialla dalla bile, non rispose neppure. Di nascosto, dietro
il parapetto, spiegazzava la lettera con mano febbrile. Indi la passò alla mamma che
balbettava.
|
- Ma sentiamo... Cosa dice?...
|
- Me ne vo, - riprese il barbiere umilmente. - Torno sul palcoscenico
perché adesso lei ammazza il primo amoroso, e devo pettinarla coi capelli giù per le
spalle... Mi raccomando, donna Fifì!... Non mi tradite!...
|
- Ma che dice? - ripeté la mamma.
|
Nicolino cacciò il capo fra di loro, e si buscò una pedata. Agli
strilli accorse don Filippo, che stava passeggiando nel corridoio, perché il palco era
pieno zeppo.
|
- Che c'è?... Al solito! Facciamo ribellare tutto il teatro... soltanto
noi!...
|
Canali cacciò anche lui il capo dentro il palchetto.
|
- State attenti! Ora c'è la scena in cui s'ammazzano!...
|
- Magari! - borbottò fra i denti Fifì.
|
- Eh? Che cosa?
|
- Nulla. Fifì ha mal di capo, - rispose don Filippo. Quindi piano alla
moglie: - Si può sapere che cosa c'è?
|
- Si soffoca! - aggiunse Canali. - Mi fate un po' di posto?... Guardate
lassù!... quanta gente! Quasi quasi mi metto in maniche di camicia.
|
C'era una siepe di teste. Dei contadini ritti in piedi sulle panche
della piccionaia, che si tenevano alle travi del soffitto per guardar giù in platea; dei
ragazzi che si spenzolavano quasi fuori della ringhiera, come stessero a rimondar degli
ulivi; una folla tale che la signora Capitana, nel palco dirimpetto, minacciava di
svenirsi ogni momento, colla boccetta d'acqua d'odore sotto il naso.
|
- Perché non si fa slacciare dal Capitan d'Arme? - disse Canali che
aveva di tali uscite.
|
Il barone Mèndola, il quale stava facendo visita a donna Giuseppina
Alòsi nel palco accanto, si voltò colla sua risata sciocca che si udiva per tutta la
sala. Donna Giovannina si fece rossa. Mita sgranò tanto d'occhi, e la mamma spinse Canali
fuori dell'uscio. Poi disse a Fifì:
|
- Bada! La Capitana ti guarda col cannocchiale!...
|
- No! Non guarda me! - rispose lei facendo una spallata.
|
- Ne volete sentire una nuova? - seguitò il barone ostinandosi a
cacciare il capo nel vano dell'uscio. - C'è un casa del diavolo, dalla Capitana!... Fa
sorvegliare la locanda dov'è alloggiata la prima donna!... Suo marito stesso,
poveretto!... Pare che ne abbia scoperto delle belle!... - Il Capitan d'Arme, seccato, fu
costretto a rimbeccargli: - Perché non badate a quel che succede in casa vostra, caro
collega?
|
- Ehm! ehm! - tossì don Filippo gravemente. Dalla platea intimarono
pure silenzio, giacché s'alzava il sipario. Donna Bellonia allora cavò fuori gli
occhiali per leggere il biglietto, dietro le spalle di Fifì.
|
- Ma che dice? Io non ci capisco niente!...
|
- Ah, non capite?... Non me ne ha scritta mai una così bella!...
l'infame! il traditore!...
|
Il fatto è che Ciolla, il quale si piccava di letteratura, ci s'era
stillata la quintessenza del cervello, chiusi tutti e due a quattr'occhi col baronello
nella retrobottega di Giacinto. Don Filippo tornò a domandare:
|
- Ma che c'è? Si può sapere?
|
- Ssst!!! - zittirono dalla platea.
|
Si sarebbe udita volare una mosca. La prima donna, tutta bianca fuorché
i capelli, sciolti giù per le spalle, come l'aveva pettinata mastro Titta, faceva
accapponar la pelle a quanti stavano a sentirla. Alcuni, dall'ansia, s'erano anche alzati
in piedi, malgrado le proteste di quelli ch'erano seduti dietro e non vedevano niente. Lo
stesso Canali, commosso, si soffiava il naso come una tromba.
|
- Guardate! guardate!... adesso!...
|
"Io!... io stessa!... con questa destra che tu impalmasti,
giurandomi eterna fé!..."
|
L'amoroso, un mingherlino che lei si sarebbe messo in tasca,
indietreggiava a passi misurati, con una mano sul giustacuore di velluto, e l'altra, in
atto di orrore, fra i capelli arricciati.
|
- Non ci reggo, no! - borbottò Canali. E scappò via, giusto nel
momento che risuonavano gli applausi.
|
- Che comica, eh? Che talento? - esclamò don Filippo smanacciando lui
pure. - Peste!... maleducato!...
|
Nicolino impaurito sgambettava e cacciavasi verso l'uscio a testa in
giù, strillando che voleva andarsene. Un terremoto giù in platea. Tutti in piedi,
vociando e strepitando. La prima donna ringraziava di qua e di là, dimenando i fianchi,
saettando il collo a destra e a sinistra al pari di una testuggine, mandando baci e
sorrisi a tutti quanti sulla punta delle dita, colle labbra cucite dal rossetto, il seno
che le scappava fuori tremolante ad ogni inchino.
|
- Sangue di!... corpo di!... - esclamò Canali che era tornato ad
applaudire. - Son maritato!... son padre di famiglia!... Ma farei uno sproposito!...
|
- Papà mio! papà mio! - proruppe allora donna Fifì, scoppiando a
piangere addosso al genitore. - Se mi volete bene, papà mio, fatemi bastonare a dovere
quella sgualdrina!...
|
- Eh?... - balbettò don Filippo rimasto a bocca aperta e con le mani in
aria. - Che ti piglia adesso?
|
Donna Bellonia, Mita, Giovannina, tutte insieme si alzarono per calmare
Fifì, circondandola, spingendola in fondo, verso l'uscio, per nasconderla. Nei palchi
dirimpetto, giù in platea, vi fu un ondeggiare di teste, delle risate, dei curiosi che
appuntavano il cannocchiale verso il palchetto dei Margarone. Don Filippo, onde far
cessare lo scandalo, si mise in prima fila, insieme a Nicolino, appoggiandosi al
parapetto, salutando le signore col sorriso a fior di labbra, mentre borbottava sottovoce:
|
- Stupida!... Tuo fratello, così piccolo, ha più giudizio di te,
guarda!...
|
Anche nel palco accanto si udiva un tramenìo. La signora Alòsi tutta
affaccendata, con la boccettina d'acqua d'odore in mano, e il barone Mèndola voltando la
schiena al teatro, scuotendo per le braccia un ragazzetto bianco al par della camicia,
abbandonato sulla seggiola.
|
- Gli è venuto male al piccolo La Gurna... - disse il barone Mèndola
dal palco di donna Giuseppina. - Capisce come uno grande!... Una seccatura!
|
- Come la mia Fifì... or ora!... Benedetti ragazzi! Pigliano tutto sul
serio!...
|
Il fanciullo, pallido, con grandi occhi intelligenti e timidi, guardava
ancora la scena a sipario calato. Donna Giuseppina, dopo che il nipotino si fu riavuto
alquanto, offrì per cortesia la sua boccetta d'odore ai Margarone. Don Filippo seguitò a
brontolare sottovoce:
|
- Tale e quale come il ragazzo La Gurna che ha sett'anni!...
Vergogna!... Non mi ci pescate più, parola d'onore!
|
Ma tacque vedendo entrare Mèndola che veniva a far visita, vestito in
gala, colla giamberga verde bottiglia, i calzoni fior di pomo, soltanto il corvattone nero
pel lutto del cugino Trao. Andava così facendo visite da un palco all'altro, per non
pagare il posto.
|
- Non vi scomodate... un posticino... in un cantuccio... Voi, Canali,
potete andare da donna Giuseppina, qui accanto, che non c'è nessuno!... No, no, in
verità, nessuno!... Sarino, il suo figliuoletto, quello alto quanto il ventaglio, sapete
la canzone?... e Corradino La Gurna, il ragazzo della zia Trao... Donna Giuseppina lo
conduce dove va per servirle di paravento... quando aspetta certe visite... capite?
L'hanno mandato apposta da Siracusa per romperci le tasche!... - Poscia, appena Canali se
ne fu andato: - Ora arriva anche Peperito!... Non mi piace giuocare a
tressetti!... - E
ammiccò chiudendo un occhio. Nessuno gli rispose. Allora vedendo quei musi lunghi,
ripigliò, cambiando tono:
|
- Che produzione, eh? La donna specialmente!... M'ha fatto piangere come
un bambino!
|
- Anche qui! anche qui! - rispose don Filippo, fingendo di volgerla in
burletta.
|
- Ah, donna Fifì?... Allegramente, ché adesso, al terz'atto, fanno
pace fra di loro. Lui è ferito soltanto. Lo salva una ragazza che l'ama di nascosto, e
viceversa poi si scopre esser sua sorella di latte... Una produzione che fu replicata due
sere di seguito a Caltagirone... Ohi! ohi!... cos'è adesso?
|
Il Capitan d'Arme, dal palco dirimpetto, credendo di non esser visto,
dietro le spalle della Capitana, faceva segno verso di loro col fazzoletto bianco,
fingendo di soffiarsi il naso. Mèndola nel voltarsi sorprese pure donna Giovannina col
fazzoletto al viso. Ella abbassò subito gli occhi e si fece rossa come un peperone.
|
- Ah! ah!... Sicuro! Una bella compagnia! Fortuna che sia capitata da
queste parti! La prima donna specialmente!... Sta lì, di faccia a casa mia, nella locanda
di Nanni Ninnarò. Bisogna vedere ogni sera, dopo la recita!... - E terminò la frase
all'orecchio di don Filippo, il quale rispose: - Ehm!... ehm!...
|
- Ti dò uno sgrugno, - minacciò intanto la mamma sottovoce,
mangiandosi cogli occhi Giovannina. - Ti fo venire adesso il raffreddore!...
|
- Sicuro! - riprese il barone ad alta voce perché non capissero le
ragazze. - Padrone del campo veramente è il padre nobile, quello che avete visto col
barbone bianco. Finta che litigano ogni sera sul palcoscenico... Ma poi, a casa, bisogna
vedere!... Non vi dico altro! Ho fatto un buco apposta nell'impannata del granaio che
guarda appunto in camera sua. Però ci sono gli avventizî, i devoti spiccioli, capite?
quelli che vanno a portare la loro offerta... Il figlio del notaro Neri ha saccheggiato la
dispensa, nel tempo che suo padre era fuggiasco... salsicciotti, reste di fichi secchi,
pezze intere di cacio... Portava ogni giorno qualcosa in tasca... Ohi! ohi!...
|
La signora Capitana si disponeva ad andarsene prima del tempo. In piedi,
sul davanti del palchetto, aveva tolto con mal garbo il guardaspalle al Capitan d'Arme, e
l'aveva dato al tenente, il quale glielo accomodava sugli omeri nudi in barba al suo
superiore, adagio adagio, facendo il comodo suo, senza curarsi di tutti quegli occhi che
avevano addosso. Don Bastiano Stangafame dall'altro lato, col ventaglio in mano, e il
marito, pacifico, che guardava e taceva. Mèndola diede una gomitata a
Margarone, e tutti
e due si misero a guardare in aria, grattandosi il mento. Canali osservò dal palco
accanto:
|
- Un po' per uno, non fa male a nessuno!...
|
- Badate a voi piuttosto!... badate!...
|
- Sì, sì, l'ho visto venire... Adesso scappo, prima che giunga il
cavaliere...
|
S'imbatté col Peperito giusto sull'uscio del corridoio.
|
- Oh, cavaliere!... Beato chi vi vede! S'era inquieti da queste parti...
parola d'onore!...
|
- Perché? - balbettò Peperito facendosi rosso.
|
- Così... Una produzione come questa che fa correre tutto il paese...
Si diceva... come va che il cavaliere?...
|
Peperito esitò alquanto, cercando la risposta, non sapendo se dovesse
mettersi in collera, e poi gli sbatté l'uscio sul muso.
|
- Ora fanno il quadro degli innocenti! - soggiunse Canali ridendo. -
Vado in platea per vederlo di laggiù.
|
- Allegramente, donna Fifì! - disse poi Mèndola. - Non vi sono né
morti né feriti!... Se non arriviamo a farvi ridere in nessun modo, vuol dire...
|
In quella si udì nel corridoio un fruscìo di seta, e un rumore di
sciabole e di speroni. Donna Giovannina si fece di brace in volto, sentendosi addosso gli
occhi della mamma. La signora Capitana spinse l'uscio del palchetto, e mise dentro la sua
testolina riccioluta e sorridente.
|
- No, no, non vi scomodate. Son passata un momento a salutarvi.
Un'indecenza questa produzione... Io me ne vo per non sentir altro... E il vestito della
donna!... avete visto, nel chinarsi?...
|
- Eh! eh!... - rispose don Filippo accennando alle sue ragazze.
|
- Precisamente! Una mamma non potrà condurre in teatro le figliuole.
|
- E' giusto! - osservò allora don Filippo. - Dovrebbe interessarsene
l'autorità...
|
Il tenente, che le cortesie della signora Capitana avevano messo in
vena, aggiunse:
|
- Io sono l'autorità. Ora corro sul palcoscenico per vedere s'è quel
che dico io... Voglio toccare con mano come san Tommaso!
|
Ma nessuno rise. Solo la Capitana, dandogli un colpetto sul braccio, si
chinò sorridendo all'orecchio di donna Bellonia per confidarle ciò che affermava il
tenente: - Io dico di no, invece. Guardate donna Giovannina... E' grassa quasi quanto la
prima donna, eppure non si vede... Un po'... sì... da vicino... forse pel busto che
stringe troppo...
|
- Graziosissimo!... - borbottò il Capitan d'Arme dal corridoio. -
Elegantissimo!...
|
Zacco, che giungeva allora, al vedere gli uniformi stava per tornare
indietro, tanta la paura che gli era rimasta da quell'affare della Carboneria. Ma poi si
fece animo, per non destar sospetti, e andò a stringere la mano a tutti quanti,
sorridendo, giallo come un morto.
|
- Vengo dalla cugina Trao. E' ancora in casa del fratello, poverina! Non
si può muovere!... Ha voluto partorire proprio a casa sua!... Io non ne sapevo nulla,
giacché sono stato in campagna per badare ai miei interessi.
|
- Ma che aspettano a battezzare cotesta bambina! - chiese
Margarone. -
L'arciprete Bugno fa un casa del diavolo per quell'anima innocente che corre rischio
d'andare al limbo.
|
Allora prese la parola il Capitano Giustiziere.
|
- Aspettano il rescritto di Sua Maestà, Dio guardi... Un'idea del
marchese Limòli, per far passare il nome dei Trao ai collaterali, ora che sta per
estinguersi la linea mascolina... Le carte furono nelle mie mani...
|
- Sì, una gran famiglia... una gran casa, - aggiunse la signora
Capitana. - Ci andai per far visita a donna Bianca. Ho visto anche la bambina... un bel
visetto.
|
- Benissimo! - conchiuse Zacco. - Così mastro-don Gesualdo ci ha
guadagnato che neppur la sua figliuola è roba sua.
|
La barzelletta fece ridere. Canali che tornava colle tasche piene di
bruciate, volle che gliela ripetessero.
|
- Buona sera! buona sera! Non voglio stare a sentire altro! - esclamò
la Capitana tutta sorridente, tappandosi le orecchie con le manine inguantate. - No... me
ne vo... davvero!...
|
Erano tutti nel corridoio: donna Fifì masticando un sorriso fra i denti
gialli; Nicolino dietro a Canali il quale distribuiva delle bruciate; anche donna
Giuseppina Alòsi aveva aperto l'uscio del suo palco, per non dar campo alle male lingue.
Solo donna Giovannina era rimasta al suo posto inchiodata dal viso arcigno della mamma.
Don Ninì che veniva di nascosto per non destar i sospetti della fidanzata vestito di
nero, con un mazzolino di rose in mano, rimase un po' interdetto trovando tanta gente nel
corridoio. Donna Fifì gli rivolse un'occhiataccia, e tirò sgarbatamente per un braccio
il fratellino che gli si arrampicava addosso onde frugargli nelle tasche. Il Capitano
d'Arme accarezzò il ragazzo, e disse guardando nel palco dei Margarone con certi occhi
arditi:
|
- Che bel fanciullo!... tanto simpatico!... Una bella famiglia!...
|
Donna Fifì gli rispose con un sorriso civettuolo, proprio sotto gli
occhi del fidanzato. La Capitana rise agro anche lei; guardò donna Giovannina che aveva
gli occhi lucenti, e siccome Peperito stava accarezzando Corradino La Gurna per far la
corte a donna Giuseppina, dicendo che aveva un'aria distinta, tutta l'aria dei
Trao, la
Capitana aggiunse, colla vocina melata:
|
- E' sorprendente l'aria di famiglia che c'è fra di loro. Avete visto
come somiglia a don Ninì la bambina di donna Bianca?
|
- Che diavolo! - le borbottò all'orecchio Canali. - Che storie andate
pescando!...
|
Successero alcuni istanti di silenzio imbarazzante. Zacco se ne andò
canterellando. Canali annunziò che stava per cominciare l'ultimo atto. Ci fu uno scambio
di baci e di sorrisi pungenti fra le signore; e donna Fifì si lasciò andare anche a
stringere la mano che il Capitano le stendeva alla moda forestiera, con un molle
abbandono.
|
- Via, entrate un momento, - disse donna Bellonia al
baronello. - Vi
metterete in fondo al palco, insieme a Fifì, giacché siete in lutto. Nessuno vi vedrà.
Levati di lì, Giovannina.
|
- Sempre così! - borbottò costei ch'era furiosa contro la sorella. -
Mi tocca sempre cedere il posto, a me!...
|
- Mamma... lascialo andare... s'è in lutto!... La commedia potrà
vederla dal palcoscenico!... - sogghignò Fifì.
|
- Io?...
|
Ma essa gli volse le spalle. Mèndola s'era ficcato nel palco prima di
tutti gli altri, per veder la scena che aveva detto lui, e faceva la spiegazione a ogni
parola. - State attenti!... Ora si scopre che la sorella di latte è figlia di un altro...
|
- Son cose che succedono! - osservò Canali dall'uscio.
|
- Zitto! zitto! cattiva lingua!
|
Tutti gli occhi, anche quelli delle ragazze, si rivolsero al
baronello,
il quale finse di non capire. - Se vi seccate!... - borbottò donna
Fifì, - giacchè
state lì come un grullo... volete andarvene?...
|
- Io?...
|
- Ecco!... - Interruppe Mèndola trionfante. - Ecco!... capite?
|
- Son maritato!... - tornò a dire Canali. - Son padre di famiglia... Ma
farei volentieri uno sproposito per la prima donna!... Anche il nome ha bello!... Aglae...
|
- Agli... porri!... che nome!... - sogghignò il barone
Mèndola. - Io
non saprei come fare... a tu per tu!...
|
Don Filippo tagliò corto.
|
- E' un'artistona... una prima donna di cartello... Allora si capisce...
|
- Sicuro, - si lasciò scappare incautamente don Ninì per dire qualche
cosa.
|
- Ah!... Piace anche a voi?...
|
- Certamente... cioè... voglio dire...
|
- Dite, dite pure!... Già lo sappiamo!...
|
Mèndola fiutò la burrasca e si alzò per svignarsela: - Il resto lo
so. Buona sera. Con permesso, don Filippo. Sentite, Canali...
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Per disgrazia la prima donna che doveva tenere gli occhi rivolti al
cielo nel declamare: "S'è scritto lassù... dal Fato..." si trovò a guardare
nel palco dei Margarone. Donna Fifì allora non seppe più frenarsi:
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- Già, lo sappiamo! Le agglomerate cerimonie!... le melenzose riga!...
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- Io?... le melenzose?...
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Ma lei scattò inferocita, quasi volesse piantargli i denti in volto:
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- Ci vuole una faccia tosta!... Sissignore! la lettera con le
melenzose!... eccola qua!... - e gliela fregò sotto il naso, scoppiando a piangere di
rabbia. Don Ninì da prima rimase sbalordito. Indi scattò su come una furia, cercando il
cappello. Sull'uscio s'imbatté in don Filippo, che accorreva al rumore.
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- Siete uno stupido!... un imbecille!... La bella educazione che avete
saputo dare a vostra figlia!... Grazie a Dio, non ci metterò più i piedi a casa vostra!
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E partì infuriato sbatacchiando l'uscio. Don Filippo che era rimasto a
bocca aperta, appena il baronello se ne fu andato, si cacciò nel palchetto, sbraitando
contro la moglie alla sua volta:
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- Siete una stupida!... Non avete saputo educare le figliuole!... Vedete
cosa mi tocca sentirmi dire!... Non dovevate portarmelo in casa quel facchino!...
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La rottura fece chiasso. Dopo cinque minuti non si parlava d'altro in
tutto il teatro. Poco mancò che la produzione non terminasse a fischi. Il capocomico se
la prese colla prima donna, che lo guastava con le prime famiglie del paese. Ma lei
giurava e spergiurava di non conoscerlo neanche di vista, quel barone, e gliene importava
assai di lui. L'udirono mastro Cosimo il falegname e quanti erano sul palcoscenico. Don
Ninì furibondo andò subito il giorno dopo a cercare Ciolla, il quale se ne stava pei
fatti suoi, dopo quelle ventiquattr'ore passate in Castello sottochiave.
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- Bella figura m'avete fatto fare colle vostre
melenzose!... La sa a
memoria tutto il paese la vostra lettera!...
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- Ebbene? cosa vuol dire? Segno ch'è piaciuta, se la sanno tutti a
memoria!
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- E' piaciuta un corno! Lei dice che gliene importa assai di me!
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- Oh! oh!... E' impossibile!... La lettera avrebbe sfondato un muro!
Vuol dire che la colpa è vostra, don Ninì... Non parlo del vostro fisico... Bisognava
accompagnarla con qualche regaluccio, caro barone! La polvere spinge la palla! Credevate
di far colpo per la vostra bella faccia?... con due baiocchi di carta rasata?... Giacché
a me non mi avete dato nulla, veh!...
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Invano gli amici e i parenti tentarono d'intromettersi onde rappattumare
i fidanzati. La mamma ripeteva: - Che vuoi farci?... Gli uomini!... Anche tuo padre!... -
Don Filippo la pigliava su un altro tono: - Sciocchezze... scappatelle di gioventù!... Fu
l'occasione... la novità... Le prime donne non vengono mica ogni anno... Sei una
Margarone alla fin fine! Lui non cambia certo una Margarone con una comica! Poi, se
perdono io che sono offeso maggiormente!...
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Ma donna Fifì non si placava. Diceva che non voleva saperne più di
colui, uno sciocco, un avaraccio, il barone Melenzose!... Se mai, non le sarebbe mancato
un pretendente cento volte meglio di lui... Andava scorbacchiandolo con tutti, amiche e
parenti. Don Ninì dalla rabbia avrebbe fatto non so che cosa. Giurava che voleva
spuntarla ad ogni costo, ed avere la prima donna, non fosse altro per dispetto.
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- Ah! gliela farò vedere a quella strega! La polvere spinge la
palla!...
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E mandò a regalare salsicciotti, caciocavallo, un bottiglione di vino.
Empirono la tavola della locanda. Non si parlava d'altro in tutto il paese. Il barone
Mèndola narrava che ogni sera si vedevano le Nozze di Cana dal suo buco. Regali sopra
regali, tanto che la baronessa dovette nascondere la chiave della dispensa. Mastro Titta
venne a dire infine a don Ninì:
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- Non resiste più, vossignoria! Ha perso la testa, la prima donna. Ogni
sera, mentre sto a pettinarla, non mi parla d'altro.
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- Se mi fa avere la soddisfazione che dico io!... Sotto gli occhi
medesimi di donna Fifì voglio avere la soddisfazione! Voglio farla morir tisica!
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Fu una delusione il primo incontro. La signora Aglae faceva una parte di
povera cieca, e aveva il viso dipinto al pari di una maschera. Nondimeno lo accolse come
una regina nel bugigattolo dove c'era un gran puzzo di moccolaia e lo presentò a un
omaccione, il quale stava frugando dentro il cassone, in maniche di camicia, e non si
voltò neppure.
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- Il barone Rubiera, distinto cultore... Il signor Pallante celebre
artista.
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Poi volse un'occhiata alla schiena del celebre artista che continuava a
rovistare brontolando, un'altra più lunga a don Ninì, e soggiunse a mezza voce:
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- Lo conoscevo di già!... Lo vedo ogni sera... in platea!
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Egli invece stava per scusarsi che in teatro non era venuto a causa del
lutto; ma in quella si voltò il signor Pallante colle mani sporche di polvere, il viso
impiastricciato anche lui, e una vescica in testa dalla quale pendevano dei capelli
sudici.
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- Non c'è, - disse con un vocione che sembrava venire di sotterra. - Te
l'avevo detto!... accidenti! - E se ne andò brontolando.
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Ella guardò intorno in aria di mistero, colle pupille stralunate in
mezzo alle occhiaie nere; andò a chiudere l'uscio in punta di piedi, e poscia si voltò
verso il giovane, con una mano sul petto, un sorriso pallido all'angolo della bocca.
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- E' strano come mi batte il cuore!... No... non è nulla... sedete.
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Don Ninì cercò una sedia, colla testa in fiamme, il cuore che gli
batteva davvero. Infine si appollaiò sul baule, cercando qualche frase appropriata, che
facesse effetto, mentre lei bruciava un pezzettino di sughero alla fiamma del lume a olio
che fumava.
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Sopraggiunse un'altra visita, Mommino Neri, il quale trovando lì
Rubiera diventò subito di cattivo umore, e non aprì bocca, appoggiato allo stipite,
succhiando il pomo del bastoncino. La signora Aglae teneva sola la conversazione: un bel
paese... un pubblico colto e intelligente... bella gioventù anche...
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- Buona sera, - disse Mommino.
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- Ve ne andate, di già?...
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- Sì... Non potrete muovervi qui dentro... Siamo in troppi...
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Don Ninì lo accompagnò con un sogghigno, continuando a suonare la gran
cassa sul baule colle calcagna. Ella se ne avvide e alzò le spalle, con un sorriso
affascinante, sospirando quasi si fosse levato un peso dallo stomaco.
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Il baronello gongolante incominciò. - Se sono d'incomodo anch'io... - E
cercò il cappello che aveva in mano.
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- Oh no!... voi, no! - rispose lei con premura, chinando il capo.
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- Si può? - chiese la vocetta fessa del tirascene dietro l'uscio.
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- No! no! - ripeté la signora Aglae con tal vivacità quasi fosse stata
sorpresa in fallo.
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- Si va in scena! - aggiunse il vocione del signor
Pallante. -
Spicciati!
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Allora essa, levando verso don Ninì il viso rassegnato, con un sorriso
triste:
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- Lo vedete!... Non ho un minuto di libertà!... Sono schiava
dell'arte!...
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Don Ninì colse la palla al balzo: L'arte... una bella cosa!... Era il
suo regno... il suo altare!... Tutti l'ammiravano!... dei cuori che faceva battere!...
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- Ah! sì!... Le ho data tutta me stessa... Me le son data tutta!...
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E aprì le braccia, voltandosi verso di lui, con tale abbandono, come
offrendosi all'arte, lì su due piedi, che don Ninì balzò giù dal cassone.
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- Badate! - esclamò lei a bassa voce, rapidamente. - Badate!...
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Aveva le mani tremanti, che stese istintivamente verso di lui, quasi a
farsene schermo. Poi si fregò gli occhi, reprimendo un sospiro, e balbettò come
svegliandosi:
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- Scusate... Un momento... Devo vestirmi...
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E un sorriso malizioso le balenò negli occhi.
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Quel seccatore di Mommino Neri era ancor lì, appoggiato a una quinta,
che discorreva col signor Pallante, già vestito da re, colla zimarra di pelliccia e la
corona di carta in testa. Stavolta toccò a don Ninì di farsi scuro in viso. Ella, come
lo sapesse, socchiuse di nuovo l'uscio, sporgendo il braccio e l'omero nudi:
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- Barone, se aspettate alla fine dell'atto... quei versi che desiderate
leggere li ho lì, in fondo al baule.
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No! nessuna donna gli aveva data una gioia simile, una vampata così
calda al cuore e alla testa: né la prima volta che Bianca gli s'era abbandonata fra le
braccia, trepidante; né quando una Margarone aveva chinato il capo superbo, mostrandosi
insieme a lui, in mezzo al mormorìo che suscitavano nella folla. Fu un vero accesso di
pazzia. Buccinavasi persino che onde farle dei regali si fosse fatto prestare dei denari
da questo e da quello. La baronessa, disperata, fece avvertire gli inquilini di non
anticipare un baiocco al suo figliuolo se no l'avevano a far con lei. - Ah!... ah!...
vedranno! Mio figlio non ha nulla. Io non pago di certo!...
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C'erano state scene violente fra madre e figlio. Lui ostinato peggio
d'un mulo, tanto più che la signora Aglae non gli aveva lasciato neppur salire la scala
della locanda. Infine gli aveva detto il perché, una sera, al buio lì sulla soglia
mentre Pallante era salito avanti ad accendere il lume:
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- E' geloso!... Son sua!... sono stata sua!...
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Ed aveva confessato tutto, a capo chino, con la bella voce sonora
soffocata dall'emozione. Egli, un gran signore diseredato dal genitore a causa di quella
passione sventurata, aveva amata a lungo, pazzamente, disperatamente: uno di quegli amori
che si leggono nei romanzi; si era dato all'arte per seguirla; aveva sofferto in silenzio;
aveva implorato, aveva pianto... Infine una sera... come allora... ancora tutta fremente e
palpitante delle emozioni che dà l'arte... la pietà... il sacrificio... non sapeva ella
stessa come... mentre il cuore volava lontano... sognando altri orizzonti... altro
ideale... Ma dopo, mai più!... mai più!... S'era ripresa!... vergognosa... pentita...
implacabile... Egli che l'amava sempre, come prima... più di prima... alla follia... era
geloso: geloso di tutto e di tutti, dell'aria, del sogno, del pensiero... di lui pure, don
Ninì!...
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- Ohè! - si udì il vocione di su la scala. - Li vuoi fritti o al
pomodoro?
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Sul viso di lei, dolcemente velato dalla semi-oscurità, errò un
sorriso angelico.
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- Vedete?... Sempre così!... Sempre la stessa devozione!...
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Ciolla che era il confidente di don Ninì gli disse poi:
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- Come siete sciocco! Quello lì è un... pentolaccia! Si pappano
insieme la roba che mandate voi e il figlio di Neri.
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Infatti aveva incontrato spesso Mommino sul palcoscenico, ed anche
dinanzi all'uscio della locanda, su e giù come una sentinella. Mommino adesso era tutto
gentilezze e sorrisi per lui. Quando gli parve proprio di farci una figura sciocca, montò
in collera.
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- Ah!... tu lo vuoi? - gli diss'ella infine con accento febbrile. -
Ebbene... ebbene... Se non c'è altro mezzo di provarti quanto io t'amo... Giacché
bisogna perdermi ad ogni costo... stasera... dopo la mezzanotte!...
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Un odore di stalla, in quella scaletta buia, cogli scalini unti e rotti
da tutti gli scarponi ferrati del contado. Lassù in cima, un fil di luce, e una figura
bianca, che gli si offrì intera, bruscamente, con le chiome sparse.
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- Tu mi vuoi... baiadera... odalisca?...
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C'erano dei piatti sudici sulla tavola, un manto di damasco rabescato
sul letto, dei garofani e un lume da notte acceso sul canterano, dinanzi a un quadrettino
della Vergine, e un profumo d'incenso che svolgevasi da un vasetto di pomata il quale
fumava per terra. All'uscio che metteva nell'altra stanza era inchiodato un bellissimo
sciallo turco, macchiato d'olio; e dietro lo sciallo turco udivasi il signor Pallante che
russava sulla sua gelosia.
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Essa, spalancando quegli occhi neri che illuminavano la stanza, mise un
dito sulle labbra, e fece segno a Rubiera d'accostarsi.
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"Insomma l'ha stregato!" scriveva il canonico Lupi a
mastro-don Gesualdo proponendogli di fare un grosso mutuo al baronello
Rubiera. "Don
Ninì è pieno di debiti sino al collo, e non sa più dove battere il capo... La baronessa
giura che sinchè campa lei non paga un baiocco. Ma non ha altri eredi, e un giorno o
l'altro deve lasciargli tutto il suo. Come vedete, un buon affare, se avete
coraggio..."
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"Quanto?" rispose mastro-don Gesualdo. "Quanto gli
occorre al baronello Rubiera? S'è una cosa che si può fare son qua io."
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Più tardi, come si seppe in paese della grossa somma che don Gesualdo
aveva anticipata al barone Rubiera, tutti gli davano del matto, e dicevano che ci avrebbe
persi i denari. Egli rispondeva con quel sorriso tutto suo:
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- State tranquilli. Non li perdo i denari. Il barone è un galantuomo...
e il tempo è più galantuomo di lui.
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Dice bene il proverbio che la donna è causa di tutti i mali!
Commediante poi!
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V
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Don Ninì aveva sperato di tenere segreto il negozio. Ma sua madre da un
po' di tempo non si dava pace, vedendolo così mutato, dispettoso, sopra pensieri, col
viso acceso e la barba rasa ogni mattina. La notte non chiudeva occhio almanaccando dove
il suo ragazzo potesse trovare i denari per tutti quei fazzoletti di seta e quelle
boccettine d'acqua d'odore. Gli aveva messi alle calcagna Rosaria ed
Alessi. Interrogava
il fattore e la gente di campagna. Teneva sotto il guanciale le chiavi del magazzino e
della dispensa. Come le parlasse il cuore, poveretta! Il cugino Limòli era arrivato a
indicarle la signora Aglae che scutrettolava tutta in fronzoli. - La vedete? è quella
lì. Che ve ne sembra, eh, di vostra nuora? Siete contenta? - Proprio, come le avesse
lasciata la jettatura don Diego Trao, morendo!
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Nei piccoli paesi c'è della gente che farebbe delle miglia per venire a
portarvi la cattiva nuova. Una mattina la baronessa stava seduta all'ombra della stoia sul
balcone, imbastendo alcuni sacchi di canovaccio che Rosaria poi le cuciva alla meglio,
accoccolata sullo scalino, aguzzando gli occhi e le labbra perché l'ago non le sfuggisse
dalle manacce ruvide voltandosi di tanto in tanto a guardare giù nella stradicciuola
deserta.
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- E tre! - si lasciò scappare Rosaria vedendo Ciolla che ripassava con
quella faccia da usciere, sbirciando la casa della baronessa da cima a fondo, fermandosi
ogni due passi, tornando a voltarsi quasi ad aspettare che lo chiamassero. La Rubiera che
seguiva da un pezzetto quel va e vieni, di sotto gli occhiali, si chinò infine a fissare
il Ciolla in certo modo che diceva chiaro: Che fate e che volete?
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- Benedicite. - Cominciò ad attaccar discorso lui. E si fermò su due
piedi, appoggiandosi al muro di rimpetto, col cappello sull'occipite e in mano il bastone
che sembrava la canna dell'agrimensore, aspettando. La baronessa per rispondere al saluto
gli domandò, facendo un sorrisetto agrodolce:
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- Che fate lì? Mi stimate la casa? Volete comprarla?
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- Io no!... Io no, signora mia!...
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- Io no! - Tornò a dire più forte, vedendo che lei s'era rimessa a
cucire. Allora la Rubiera si chinò di nuovo verso la stradicciuola, cogli occhiali
lucenti, ed entrambi rimasero a guardarsi un momento così, come due basilischi.
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- Se volete dirmi qualche cosa, salite pure.
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- Nulla, nulla, - rispose Ciolla; e intanto s'avviava verso il portone.
Rosaria tirò la funicella e si mise a borbottare;
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- Che vuole adesso quel cristiano? A momenti è ora d'accendere il
fuoco. Ma intanto si udiva lo schiamazzo degli animali nel cortile e i passi di Ciolla che
saliva adagio adagio. Egli entrò col cappello in testa, ossequioso, ripetendo: Deo
gratias! Deo gratias! lodando l'ordine che regnava da per tutto in quella casa.
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- Non ne nascono più delle padrone di casa come voi, signora baronessa!
Ecco! ecco! siete sempre lì, a sciuparvi la vista sul lavoro. Ne hanno fatta della roba
quelle mani!... Non ne hanno scialacquata, no!
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La baronessa che aspettava coll'orecchio teso cominciò ad essere
inquieta. Intanto Rosaria aveva sbarazzato una seggiola del canovaccio che vi era
ammucchiato sopra, e stava ad ascoltare, grattandosi il capo.
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- Va a vedere se la gallina ha fatto l'uovo, - disse la padrona. E
tornò a discorrere col Ciolla, più affabile del consueto, per cavargli di bocca quel che
aveva da dire. Ma Ciolla non si apriva ancora. Parlava del tempo, dell'annata, del
fermento che aveva lasciato in paese la Compagnia d'Arme, dei guai che erano toccati a
lui. - I cenci vanno all'aria, signora mia, e chi ha fatto il danno invece se la passa
liscia. Benedetta voi che ve ne state in casa, a badare ai vostri interessi. Fate bene!
Avete ragione! Tutto ciò che si vede qui è opera vostra. Non lo dico per lodarvi!
Benedette le vostre mani! Vostro marito, buon'anima!... via, non parliamo dei morti... le
mani le aveva bucate... come tutti i Rubiera... I fondi coperti di ipoteche... e la
casa... Infine cos'era il palazzetto dei Rubiera?... Quelle cinque stanze lì?...
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La baronessa fingeva d'abboccare alle lodi, dandogli le informazioni che
voleva, accompagnandolo di stanza in stanza, spiegandogli dove erano stati aperti gli usci
che mettevano in comunicazione il nuovo col vecchio.
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Ciolla seguitava a guardare intorno cogli occhi da usciere accennando
del capo, disegnando colla canna d'India: - Per l'appunto! quelle cinque stanze lì. Tutto
il resto è roba vostra. Nessuno può metterci le unghie nella roba vostra finché
campate... Dio ve la faccia godere cent'anni! una casa come questa... una vera reggia!
vasta quanto un convento! Sarebbe un peccato mortale, se riuscissero a smembrarvela i
vostri nemici... ché ne abbiamo tutti, nemici!...
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Essa, che si sentiva impallidire, finse di mettersi a ridere: una risata
da fargli montar la mosca al naso a quell'altro.
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- Cosa? Ho detto una minchioneria? Nemici ne abbiamo tutti. Mastro-don
Gesualdo, esempigrazia!...
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Quello non vorrei trovarmelo mischiato nei miei interessi...
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Fingeva anche lui di guardarsi intorno sospettoso, quasi vedesse da per
tutto le mani lunghe di mastro-don Gesualdo. - Quello, se si è messo in testa di
ficcarvisi in casa... a poco a poco... da qui a cent'anni... come fa il riccio...
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La baronessa era tornata sul balcone a prendere aria, senza dargli
retta, per cavargli di bocca il rimanente. Egli nicchiò ancora un poco, disponendosi ad
andarsene, cavandosi il cappello per darvi una lisciatina, cercando la canna d'India che
aveva in mano, scusandosi delle chiacchiere colle quali le aveva empito la testa sino a
quell'ora.
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- Che avete da fare, eh? Dovete vestirvi per andare al battesimo della
figliuola di don Gesualdo? Sarà un battesimo coi fiocchi... in casa
Trao!... Vedete dove
va a ficcarsi il diavolo, che la bambina di mastro-don Gesualdo va proprio a nascere in
casa Trao!... Ci saranno tutti i parenti... una pace generale... Siete parente anche
voi...
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La baronessa continuava a ridere, e Ciolla le teneva dietro, tutti e due
guardandosi in viso, cogli occhi soli rimasti serii.
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- No? Non ci andate? Avete ragione! Guardatevi da quell'uomo! Non vi
dico altro! Vostro figlio è una bestia!... Non vi dico altro!...
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- Mio figlio ha la sua roba ed io ho la mia... Se ha fatto delle
sciocchezze mio figlio pagherà, se può pagare... Io no però! Pagherà lui, col fatto
suo, con quelle cinque stanze che avete visto... Non ha altro, per disgrazia... Ma io la
mia roba me la tengo per me... Son contenta che mio figlio si diverta... E' giovane...
Bisogna che si diverta... Ma io non pago, no!
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- Quello che dicono tutti. Mastro-don Gesualdo crede d'essere furbo. Ma
stavolta, se mai, ha trovato uno più furbo di lui. Sarebbe bella che gli mantenesse
l'amante a don Ninì!... Gli parrebbe di fare le sue follie di gioventù anche lui!...
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La baronessa, dal gran ridere, andava tenendosi ai mobili per non
cadere. - Ah, ah!... questa è bella!... Questa l'avete detta giusta, don Roberto!... -
Ciolla le andava dietro fingendo di ridere anche lui, spiandola di sottecchi, indispettito
che se la prendesse così allegramente. Ma Rosaria, mentre veniva a pigliar la tela, vide
la sua padrona così pallida che stava per chiamare aiuto.
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- Bestia! Cosa fai? Perché rimani lì impalata? Accompagna don Roberto
piuttosto! - Così Ciolla si persuase ad andarsene finalmente, sfogandosi a brontolare
colla serva:
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- Com'è allegra la tua padrona! Ho piacere, sì! L'allegria fa buon
sangue e fa vivere lungamente. Meglio! meglio!
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Rosaria, tornando di sopra, vide la padrona in uno stato spaventevole,
frugando nei cassetti e negli armadi, colle mani che non trovavano nulla, gli occhi che
non ci vedevano, la schiuma alla bocca, vestendosi in tutta fretta per andare al battesimo
del cugino Motta. - Sì, ci andrò... Sentiremo cos'è... E' meglio sapere la verità. -
La gente che la vedeva passare per le strade, trafelata e col cappellino di traverso non
sapeva che pensare. Nella piazzetta di Sant'Agata c'era una gran curiosità, come
giungevano gli invitati al battesimo in casa Trao, e don Luca il sagrestano che andava e
veniva, coi candelieri e gli arnesi sacri sotto il braccio. Speranza ogni momento si
affacciava sul ballatoio, scuotendo le sottane, piantandosi i pugni sui fianchi, e si
metteva a sbraitare contro quella bambina che le rubava l'eredità del fratello:
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- Sarà un battesimo strepitoso! C'è la casa piena... tutta la
nobiltà... Noi soli, no! Non ci andremo... per non fare arrossire i parenti nobili... Non
ci abbiamo che vedere, noi!... Nessuno ci ha invitati al battesimo di mia nipote... Si
vede che non è sangue nostro...
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Anche il vecchio Motta s'era rifiutato, la mattina, allorché Gesualdo
era andato a pregarlo di mettere l'acquasanta alla nipotina. Seduto a tavola - stava
mangiando un boccone - gli disse di no, levando in su il fiasco che aveva alla bocca. Poi,
asciugandosi le labbra col dorso della mano, gli piantò addosso un'occhiataccia.
|
- Vacci tu al battesimo della tua figliuola. E' affar tuo! Io non son
nato per stare fra i signoroni... Voialtri venite a cercarmi soltanto quando avete bisogno
di me... per chiudere la bocca alla gente... No, no... quando c'è da guadagnare qualcosa
non vieni a cercarmi, tu!... Lo sai? L'appalto della strada... la gabella...
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Mastro Nunzio voleva snocciolare la litania dei rimproveri, intanto che
ci si trovava. Ma Gesualdo, il quale aveva già la casa piena di gente, e sapeva che non
gli avrebbe mai fatto chinare il capo se aveva detto di no, se ne andò colle spalle e il
cuore grossi. Non era allegro neppur lui, poveraccio, sebbene dovesse far la bocca ridente
ai mirallegro e ai salamelecchi. Però infine con Nanni l'Orbo, più sfacciato, che gli
rompeva le tasche chiedendogli i confetti a piè della scala, si sfogò:
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- Sì!... Va a vedere!... Va a vedere come s'è storta fin la trave del
tetto, ora ch'è nata una bambina in questa casa!
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Barabba e il cacciatore della baronessa Mèndola avevano dato una mano a
scopare, a spolverare, a rimettere in gambe l'altare sconquassato, chiuso da tant'anni
nell'armadio a muro della sala grande che serviva di cappella. La sala stessa era ancora
parata a lutto, qual'era rimasta dopo la morte di don Diego, coi ritratti velati e gli
alveari coperti di drappo nero torno torno per i parenti venuti al funerale, com'era l'uso
nelle famiglie antiche. Don Ferdinando, raso di fresco, con un vestito nero del cugino
Zacco che gli si arrampicava alla schiena andava ficcando il naso da per tutto, col viso
lungo, le braccia ciondoloni dalle maniche troppo corte, inquieto, sospettoso, domandando
a ciascuno:
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- Che c'è? Cosa volete fare?
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- Ecco vostro cognato, - gli disse la zia Sganci entrando nella sala
insieme a don Gesualdo Motta. - Ora dovete abbracciarvi fra di voi, e non tenere in corpo
il malumore, con quella creaturina che c'è di mezzo.
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- Vi saluto, vi saluto, - borbottò don Ferdinando; e gli voltò le
spalle.
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Ma gli altri parenti che avevano più giudizio, facevano buon viso a don
Gesualdo: Mèndola, i cugini Zacco, tutti quanti. Già i tempi erano mutati; il paese
intero era stato sottosopra ventiquattr'ore, e non si sapeva quel che poteva capitare un
giorno o l'altro. Oramai, per amore o per forza, mastro-don Gesualdo s'era ficcato nel
parentado, e bisognava fare i conti con lui. Tutti perciò volevano vedere la bambina - un
fiore, una rosa di maggio. - La zia Rubiera abbracciava Bianca, come una mamma che abbia
ritrovata la sua creatura, asciugandosi gli occhi col fazzoletto diventato una spugna.
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- No! Non ho peli sullo stomaco!... Non mi pareva vero, dopo d'averti
allevata come una figliuola!... Sono una bestia... Son rimasta una contadina... tale e
quale mia madre, buon'anima... col cuore in mano...
|
Bianca tutta adornata sotto il baldacchino del lettone, pallida che
sembrava di cera, sbalordita da tutta quella ressa, non sapeva che rispondere, guardava la
gente, stralunata, cercava di abbozzare qualche sorriso, balbettando. Suo marito invece
faceva la sua parte in mezzo a tutti quegli amici e parenti e mirallegro, col viso aperto
e giulivo, le spalle grosse e bonarie, l'orecchio teso a raccogliere i discorsi che si
tenevano intorno a lui e dietro le sue spalle. La zia Cirmena, infatuata, rispondeva a
coloro che auguravano la nascita di un bel maschiotto, più tardi, che già le femmine
sono come la gramigna, e vi scopano poi la casa del bello e del buono per andare a
maritarsi...
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- Eh... i figliuoli bisogna pigliarseli come Dio li manda, maschi o
femmine... Se si potesse andare a sceglierli al mercato... A don Gesualdo non gli
mancherebbero i denari per comprare il maschio.
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- Non me ne parlate! - interruppe alla fine la zia Rubiera - Non sapete
quel che costino i maschi!... Quanti dispiaceri! Lo so io!...
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E continuò a sfogarsi all'orecchio di Bianca, accesa sbirciando di
sottecchi don Gesualdo per vedere quel che ne dicesse. Don Gesualdo non diceva nulla.
Bianca invece, cogli occhi chini, si faceva di mille colori.
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- Non lo riconosco più, no!... nemmeno io che l'ho fatto!... Ti
rammenti, che figliuol d'oro?... docile, amoroso, ubbidiente... Adesso si rivolterebbe
anche a sua madre, per quella donnaccia forestiera... una commediante, la conosci? Dicono
che ha i denti e i capelli finti... Deve avergli fatta qualche malìa! Commediante e
forestiera, capisci!... lui non ci vede più dagli occhi... Spende l'osso del collo... La
gente cattiva... i birboni anche l'aiutano... Ma io non pago, no!... Oh, questo poi, no!
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- Zia! - balbettò Bianca con tutto il sangue al viso.
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- Che vuoi farci? E' la mia croce! Se sapevo tanto piuttosto...
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Don Gesualdo badava a chiacchierare col cugino Zacco, tutti e due col
cuore in mano, amiconi. La baronessa allora spiattellò la domanda che le bolliva dentro:
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- E' vero che tuo marito gli presta dei denari... sottomano?... L'hai
visto venire qui, da lui?... Di', che ne sai?
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- Certo, certo, - rispose in quel punto don Gesualdo. - I figliuoli
bisogna pigliarseli come vengono. - Zacco a conferma mostrò le sue ragazze, schierate in
fila come tante canne d'organo, modeste e prosperose. - Ecco! io ho cinque figliuole, e
voglio bene a tutte egualmente!
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- Sicuro! - rispose Limòli. - E' per questo che non volete maritarle.
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Donna Lavinia, la maggiore, volse indietro un'occhiata brutta. - Ah,
siete qui? - disse il barone. - Siete sempre presente come il diavolo nelle litanie, voi!
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Il marchese, che doveva essere il padrino, si era messa la croce di
Malta. Don Luca venne a dire che il canonico era pronto, e le signore passarono in sala,
con un gran fruscìo di seta, dietro donna Marianna la quale portava la bambina.
Dall'uscio aperto vedevasi un brulichìo di fiammelle. Don Ferdinando, in fondo al
corridoio, fece capolino, curioso. Bianca dalla tenerezza piangeva cheta cheta. Suo marito
ch'era rimasto ginocchioni, come gli aveva detto la Macrì, col naso contro il muro, si
alzò per calmarla.
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- Zitta... Non ti far scorgere!... Dinanzi a coloro bisogna far buon
viso...
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Tutt'a un tratto scoppiò giù in piazza un crepitìo indiavolato di
mortaletti. Don Ferdinando fuggì via spaventato. Gli altri che assistevano al battesimo
corsero al balcone coi ceri in mano. Persino il canonico in cotta e stola. Era Santo, il
fratello di don Gesualdo, il quale festeggiava a quel modo il battesimo della nipotina,
scamiciato, carponi per terra, colla miccia accesa. Don Gesualdo aprì la finestra per
dirgli un sacco di male parole:
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- Bestia!... Ne fai sempre delle tue!... Bestia!...
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Gli amici lo calmarono: - Poveraccio... lasciatelo fare. E' un modo
d'esprimere la sua allegria...
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La zia Sganci trionfante gli mise sulle braccia la figliuola:
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- Eccovi Isabella Trao!
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- Motta e Trao! Isabella Motta e Trao! - corresse il marchese. Zacco
soggiunse ch'era un innesto. Le due famiglie che diventavano una sola. Però don Gesualdo
tenendo la bambina sulle braccia rimaneva alquanto imbroncito. Intanto don Luca, aiutato
da Barabba e dal cacciatore, serviva le granite e i dolci. La zia
Cirmena, che aveva
portato seco apposta il nipotino La Gurna, gli riempiva le tasche e il fazzoletto. Le
Zacco invece, poiché la maggiore, contegnosa, non aveva preso nulla, dissero tutte di no,
una dopo l'altra, mangiandosi il vassoio cogli occhi. Don Luca incoraggiava a prendere
dicendo:
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- E' roba fresca. Sono stato io stesso ad ordinarla a Santa Maria e al
Collegio. Non s'è guardato a spesa.
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- Diavolo! - disse Zacco, che cercava l'occasione di mostrarsi amabile.
- Diavolo! Vorrei vedere anche questa!... - Gli altri facevano coro. - Ecco che risorgeva
casa Trao. Voleri di Dio. Quella bambina stessa che aveva voluto nascere nella casa
materna. Il canonico Lupi arrivò anche a congratularsi col marchese Limòli il quale
aveva pensato al mezzo di non lasciare estinguere il casato alla morte di don Ferdinando.
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- Sicuro, sicuro, - borbottò don Gesualdo. - Era già inteso... V'avevo
detto di sì allora... Quando ho detto una parola...
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E andò a deporre la figliuola fra le braccia della moglie che le zie si
rubavano a vicenda. La baronessa Mèndola voleva sapere cosa dicessero.
Zacco, premuroso,
venne a chiedere dei confetti per don Ferdinando a cui nessuno aveva pensato.
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- Sicuro, sicuro. E' il padrone di casa.
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- Vedete? - osservò la zia Rubiera. - A quest'ora c'è già pel mondo
chi deve portarvi via la figliuola e la roba.
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Scoppiarono delle risate. Donna Agrippina torse la bocca e chinò a
terra gli occhioni che dicevano tante cose, quasi avesse udito un'indecenza. Don Gesualdo
rideva anche lui, faceva buon viso a tutti. Alla fine arrischiò anche una barzelletta:
|
- E quando si marita vi lascia anche il nome dei Trao... La dote, no,
non ve la lascia!...
|
La Rubiera che stimò il momento propizio, e non voleva perdere
l'occasione, lo tirò a quattr'occhi vicino al letto, mentre si udivano in fondo al
corridoio Mèndola e don Ferdinando i quali litigavano ad alta voce, e tutti corsero a
vedere.
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- Sentite don Gesualdo; io non ho peli sulla lingua. Volevo parlarvi di
quello scapestrato di mio figlio. Aiutami tu, Bianca.
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- Io, zia?...
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- Scusatemi, io so parlare col cuore in mano... tale e quale come m'ha
fatta mia madre... Ora che siete padre anche voi, don Gesualdo capirete quel che devo
averci in cuore... che spina... che tormento!...
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Guardava ora la nipote ed ora suo marito cogli occhi acuti, col sorriso
semplice e buono che le avevano insegnato i genitori pei negozi spinosi. Don Gesualdo
stava a sentire tranquillamente. Bianca, imbarazzata da quell'esordio, colla figliuoletta
in grembo, sembrava una statua di cera.
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- Saprete le chiacchiere che corrono, di Ninì con quella comica? Bene.
Di ciò non mi darei pensiero. Non è la prima e l'ultima. Suo padre, buon'anima, era
fatto anch'esso così. Ma sinora gli ho impedito di commettere qualche sciocchezza. Adesso
però ci sono di mezzo i birboni, i cattivi compagni... Senti, Bianca, io, la mia
figliuola, non l'avrei data da battezzare a quel canonico lì!...
|
Bianca, sbigottita, muoveva le labbra smorte senza arrivare a trovar
parole. Don Gesualdo invece aveva fatto la bocca a riso, come la baronessa scappò in
quell'osservazione. Essa, udendo che tornava gente, gli domandò infine apertamente:
|
- Ditemi la verità. V'ha fatto chiedere del denaro in prestito, eh?...
Gliene avete dato?
|
Don Gesualdo rideva più forte. Poi vedendo che la baronessa diveniva
rossa come un peperone, rispose:
|
- Scusate... scusate... Se mai... Perché non lo domandate a lui?...
Questa è bella!... Io non sono il confessore di vostro figlio...
|
Mèndola irruppe nella camera narrando fra le risate la scena che aveva
avuta con quell'orso di don Ferdinando il quale non voleva venire a far la pace col
cognato. La Rubiera, senza dir altro, asciugavasi le labbra col fazzoletto ancora
appiccicoso di dolciume, mentre i parenti toglievano commiato. Nell'andarsene ciascuno
aveva una parola d'elogio sul modo in cui erano andate le cose. Donna Marianna diceva alla
Rubiera sottovoce che aveva fatto bene a venire anche lei, per non dar nell'occhio, per
far tacere le male lingue... L'altra rispose con un'occhiataccia che donna Agrippina colse
al volo:
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- M'è giovata assai! Serpi sono! Non vi dico altro. Ci siam messa la
vipera nella manica!... Vedrete poi...
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Don Gesualdo, rimasto solo colla moglie tracannò di un fiato un gran
bicchiere di acqua fresca, senza dir nulla. Bianca disfatta in viso, quasi fosse per
sentirsi male, seguiva ogni suo movimento con certi occhi che sembravano spaventati,
stringendo al seno la bambina.
|
- Te', vuoi bere? - disse lui. - Devi aver sete anche tu.
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Ella accennò di sì. Ma il bicchiere le tremava talmente nelle mani che
si versò tutta l'acqua addosso.
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- Non importa, non importa, - aggiunse il marito. - Adesso nessuno ci
vede.
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E si mise ad asciugare il lenzuolo col fazzoletto. Poi tolse in braccio
la bambina che vagiva, ballottandola per farla chetare, portandola in giro per la camera.
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- Hai visto, eh, che gente? che parenti affezionati? Ma tuo marito non
se lo mettono in tasca, no.
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Fuori, nella piazza, tutti i vicini erano affacciati per vedere uscire
gli invitati. Alla finestra dei Margarone, laggiù in fondo, al di sopra dei tetti, c'era
pure dell'altra gente che faceva capolino ogni momento. La Rubiera cominciò a salutare da
lontano, col ventaglio, col fazzoletto, mentre discorreva col marchese
Limòli, talmente
accesa che sembrava volessero accapigliarsi.
|
- Razze di serpi, sono! Cime di birbanti! Se lo mangiano in un boccone
quello scomunicato di mio figlio!... Ma prima l'ha da fare con me! Sentite, accompagnatemi
un momento dai Margarone... E' un pezzo che non ci vediamo... Infine non è un motivo per
romperla con dei vecchi amici... una ragazzata... Voi siete un uomo ammodo... e alle
volte... una parola a proposito...
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Venne ad aprire donna Giovannina con tanto di muso. Si vedeva in fondo
l'uscio del salotto buono spalancato; tolte le fodere ai mobili. Un'aria di cerimonia
insomma.
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- Che c'è? - chiese il marchese entrando. - Cosa accade?
|
- Io non so nulla! - esclamò donna Giovannina la quale sembrava sul
punto di scoppiare a piangere. - Ci sarà gente di là, credo; ma io non ne so nulla.
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- Povera bambina! povera bambina! - Il marchese indugiava in anticamera,
accarezzando la ragazza. Le aveva preso con due dita il ganascino da canonico, ammiccando
con malizia, guardandosi intorno per dirle sottovoce:
|
- Che vuoi farci? Pazienza! Chi primo nasce primo pasce. Ci sarà donna
Fifì, colla mamma, a ricevere le visite, eh? Don Bastiano, eh? il Capitan d'Arme?...
|
Don Bastiano infatti era lì, nel salotto, vestito in borghese, con
abiti nuovi fiammanti che gli rilucevano addosso, raso di fresco, seduto sul canapè
accanto alla mamma Margarone, come uno sposo, facendo scivolare di tanto in tanto
un'occhiata languida e sentimentale verso la ragazza, lisciandosi i baffoni novelli che
non volevano piegarsi. Donna Fifì, al vedere giungere la Rubiera, si ringalluzzì,
superbiosa, tubando sottomano col forestiero per farle dispetto.
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- Oh, oh, - disse il marchese, salutando don Bastiano ch'era rimasto un
po' grullo. - Siete ancora qui? Bene! bene!
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Ed incominciò a discorrere col capitano, intanto che le signore
chiacchieravano tutte in una volta, domandandogli perché la Compagnia d'Arme fosse
partita senza di lui, se aveva intenzione di fermarsi un pezzetto, se era contento del
paese e voleva lasciare le spalline. Don Bastiano si teneva sulle generali, lodando il
paesaggio, il clima, gli abitanti, sottolineando le parole con certi sguardi espressivi
rivolti a donna Fifì, la quale fingeva di guardare fuori dal balcone cogli occhi pieni di
poesia, e chinava il capo arrossendo a ciascuno di quei complimenti, quasi fossero a lei
dedicati. Il marchese domandò a un tratto che n'era di don Filippo, e gli risposero che
era uscito per condurre a spasso Nicolino.
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- Ah, bene! bene!
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La Rubiera si morsicava le labbra aspettando che il cugino Limòli
avviasse il discorso sul tema che sapeva. Ma intanto osservava di sottecchi le arie
languide di donna Fifì, la quale sembrava struggersi sotto le occhiate incendiarie di don
Bastiano Stangafame, e non poteva star ferma sulla seggiola, col seno piatto ansante come
un mantice, e i piedini irrequieti che dicevano tante cose affacciandosi ogni momento dal
lembo del vestito. La conversazione languiva. Si parlò del battesimo e della gente che
c'era stata. Ma ciascuno pensava intanto ai fatti suoi, chiacchierando del più e del
meno, cercando le parole, col sorriso distratto in bocca. Solo il marchese sembrava che
pigliasse un grande interesse ai discorsi del capitano, quasi non fosse fatto suo. Poi,
sbirciando il viso rosso di donna Giovannina che stava a spiare dall'uscio socchiuso, la
chiamò a voce alta.
|
- Avanti, avanti, bella figliuola. Vogliamo vedere quella bella faccia.
Siamo qui noi soli, in famiglia...
|
La mamma e la sorella maggiore fulminarono due occhiataccie addosso alla
ragazza, la quale rimaneva sull'uscio, nascondendo le mani di serva sotto il grembiule,
vergognosa di esser stata scoperta a quel modo, vestita di casa. Limòli, senza accorgersi
di nulla, domandava sottovoce a donna Bellonia:
|
- Quando la maritiamo quella bella figliuola? Prima tocca alla maggiore,
è naturale. Ma poi ricordatevi che ci son qua io per fare il sensale... gratis et amore,
ben inteso... Siamo amici vecchi!...
|
Donna Bellonia andava facendogli li occhiacci, sebbene il marchese
fingesse di non badarci. Poi gli disse sottovoce:
|
- Cosa dite!... che idee da metterle in testa!... Ancora è troppo
giovane... quasi quasi ha ancora il vestito corto...
|
- Vedo! vedo! - rispose il marchese sbirciando le calze bianche di donna
Giovannina. Donna Fifì aveva condotto il capitano ad ammirare i suoi fiori sul balcone.
Colse un bel garofano, l'odorò a lungo socchiudendo gli occhi, e glielo porse. - Vedo,
vedo, - ripeté il vecchietto.
|
La Rubiera allora volle accomiatarsi, masticando un sorriso, coi fiori
gialli che le fremevano sul cappellino. Intanto che le signore barattavano baci ed
abbracci, il marchese si rivolse al capitano.
|
- Mi congratulo!... Mi congratulo tanto... davvero... don Bastiano.
|
- Perché?... Di che cosa?... - Il capitano sorpreso e imbarazzato
cercava una botta di risposta. Ma l'altro gli aveva già voltato le spalle, salutava le
signore con una parola gentile per ciascuna; accarezzava paternamente donna Giovannina che
teneva ancora il broncio.
|
- Che c'è? che c'è? Cosa vuol dire? Le ragazze devono stare allegre.
Hai inteso tua madre? Dice che hai tempo di crescere. Su, dunque! allegra!
|
La Rubiera sentivasi scoppiare sotto la mantiglia; dopo che si fu
voltata indietro a salutare colla mano dalla strada tutti i Margarone schierati sul
terrazzino prese a borbottare:
|
- Avete capito, eh?
|
- Diamine! Non ci voleva molto. Anche per la Giovannina bisogna mettersi
il cuore in pace...
|
- Ma sì, ma sì! Con tanto piacere me lo metto il cuore in pace... Una
civetta!... Avete visto il giuochetto del garofano? Saremmo stati freschi mio figlio ed
io... Quasi quasi se lo meritava! Scomunicato! Nemico di sua madre stessa!...
|
Lì a due passi si imbatterono in Canali, che andava dai
Margarone, e
aveva visto da lontano i baciamani fra la strada e il terrazzo. Canali fece un certo viso,
e fermò la baronessa per salutarla, menando il discorso per le lunghe, sgranandole in
faccia due occhi curiosi.
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- Siete stata da donna Bellonia, eh? Avete fatto bene. Un'amicizia
antica come la vostra!... Peccato che don Ninì...
|
La baronessa cercava di scavar terreno anch'essa, in aria disinvolta,
facendosi vento e menando il can per l'aia. - Infine... delle sciocchezze... sciocchezze
di gioventù...
|
- No, no, perdonate! - ribatté Canali. - Vorrei veder voi stessa!... Un
padre deve aprire gli occhi per sapere a chi dà la sua creatura... Non dico per vostro
figlio... Un buon giovane... un cuor d'oro... Il male è che s'è lasciato abbindolare...
circondato da falsi amici... Di bricconi ce ne son sempre... Gli hanno carpito qualche
firma...
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La baronessa lo piantò lì senz'altro. - Sentite? Vedete? - andava
brontolando col cugino Limòli. Poscia piantò anche lui che non poteva più tenerle
dietro. - Vi saluto, vi saluto - E corse dal notaro Neri, pallida e trafelata, per
vedere... per sentire... Il notaro non sapeva nulla... nulla di positivo almeno.
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- Sapete, don Gesualdo è volpe fina... Son cose queste che si fanno
sottomano, se mai... Avranno fatto il contratto da qualche notaio forestiere... Il notaro
Sghembri di Militello dicono... Ma via... Non c'è motivo poi di mettersi in quello stato
per una cosa simile... Avete una faccia che non mi piace.
|
Rosaria, ch'era a ripulire il pollaio quando la sua padrona era tornata
a casa, udì a un tratto dal cortile un urlo spaventoso, come stessero sgozzando un
animale grosso di sopra, una cosa che le fece perdere le ciabatte correndo a precipizio.
La baronessa era ancora lì, dove aveva cominciato a spogliarsi, appoggiata al cassettone,
piegata in due quasi avesse la colica, gemendo e lamentandosi, mentre le usciva bava dalla
bocca, e gli occhi le schizzavano fuori:
|
- Assassino! Figlio snaturato!... No! non me la faccio mangiare la mia
roba!... Piuttosto la lascio ai poveri... ai conventi... Voglio far testamento!... Voglio
far donazione!... Chiamatemi il notaro... subito!...
|
Don Ninì stava bisticciandosi colla sua Aglae, in quella stanzaccia di
locanda che per lui era diventata un inferno dal momento in cui s'era messo sulle spalle
il debito e mastro-don Gesualdo. Il letto in disordine, i vestiti sudici, i capelli
spettinati, le carezze stesse di lei, i manicaretti cucinati dall'amico
Pallante, gli si
erano mutati in veleno, dacché gli costavano cari. Al veder giungere Alessi che veniva a
chiamarlo, parlando di notaro e di donazione, si fece pallido a un tratto. Invano la prima
donna gli si avvinghiò al collo, discinta, senza badare al Pallante che accorreva dalla
cucina né ad Alessi il quale spalancava gli occhi e si fregava le mani.
|
- Ninì! Ninì mio!... Non mi abbandonare in questo stato!...
|
- Malannaggia! Lasciatemi andare... tutti quanti siete!... Vi pare che
si scherzi!... Quella donna è capace di tutto!
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Don Ninì, ripreso interamente dall'amor della roba, non si lasciò
commuovere neppure dalla scena dello svenimento. Piantò lì dov'era la povera Aglae lunga
distesa sul pavimento come all'ultimo atto di una tragedia, e Pallante che le tirava giù
il vestito sulle calze, per correre a casa senza cappello. Colà ci fu una scena terribile
fra madre e figlio. Lui da prima cercava di negare; poi montò su tutte le furie, si
lagnò di esser tenuto come uno schiavo, peggio di un ragazzo, senza due tarì da
spendere; e la baronessa minacciava di andare lei in persona dal notaro, per disporre
della sua roba, così com'era, in sottana, a quell'ora stessa, se non volevano mandarlo a
chiamare. Don Ninì allora scese a dar tanto di chiavistello al portone, e si mise la
chiave in tasca, minacciando di rompere le ossa al garzone, se fiatava.
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- Ah! questa è la ricompensa! - borbottò Alessi. - Un'altra volta ci
vò davvero dal notaio.
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Finalmente, per amore o per forza, riescirono a mettere in letto la
baronessa, la quale si dibatteva e strillava che volevano farla morire di colpo per
scialacquare la sua roba: - Mastro-don Gesualdo!... sì!... Lui se lo mangia il fatto mio!
- Il figliuolo colle buone e colle cattive tentava di calmarla: - Non vedete che state
poco bene? Volete ammalarvi per farmi dar l'anima al diavolo? - Poi tutta la notte non
chiuse occhio, alzandosi ogni momento per correre ad origliare se sua madre strillava
ancora, spaventato all'idea che udissero i vicini e gli venissero in casa colla giustizia
e il notaro, maledicendo in cuor suo la prima donna e chi gliela aveva messa fra i piedi,
turbato, se si appisolava un momento, da tanti brutti sogni: mastro-don Gesualdo, il
debito, della gente che gli si accalcava addosso e gli empiva la casa, una gran folla.
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Rosaria venne a bussargli all'uscio di buon mattino:
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- Don Ninì! signor barone! venite a vedere... La padrona ha perso la
parola!... Io ho paura, se vedeste...
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La baronessa stava lunga distesa sul letto, simile a un bue colpito dal
macellaio, con tutto il sangue al viso e la lingua ciondoloni. La bile, i dispiaceri,
tutti quegli umori cattivi che doveva averci accumulati sullo stomaco, le gorgogliavano
dentro, le uscivano dalla bocca e dal naso, le colavano sul guanciale. E come volesse
aiutarsi, ancora in quello stato, come cercasse di annaspare colle mani gonfie e grevi,
come cercasse di chiamare aiuto, coi suoni inarticolati che s'impastavano nella bava
vischiosa.
|
- Mamma! mamma mia!
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Don Ninì atterrito, ancora gonfio dal sonno, andava strillando per le
stanze, dandosi dei pugni sulla testa, correndo al balcone e disperandosi mentre i vicini
bussavano e tempestavano che il portone era chiuso a chiave. Da lì a un po', medico,
barbiere, parenti, curiosi, la casa si riempì di gente. Proprio il sogno di quella notte.
Don Ninì narrava a tutti la stessa cosa, asciugandosi gli occhi e soffiandosi il naso
gonfio quasi suonasse la tromba. Appena vide giungere anche il notaro Neri non si mosse
più dal capezzale della mamma, domandando al medico ogni momento:
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- Che ve ne sembra, dottore? Riacquisterà la parola?
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- Col tempo, col tempo, - rispose infine il medico seccato. - Diamine,
credete che sia stato come fare uno starnuto?
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Don Ninì non si riconosceva più da un giorno all'altro; colla barba
lunga, i capelli arruffati, fisso al capezzale della madre, oppure arrabattandosi nelle
faccende di casa. Non usciva una fava dalla dispensa senza passare per le sue mani.
Tant'è vero che i guai insegnano a metter giudizio. Sua madre stessa glielo avrebbe
detto, se avesse potuto parlare. Si vedeva dal modo in cui gli guardava le mani, col
sangue agli occhi, ogni volta che veniva a prendere le chiavi appese allo stipite
dell'uscio. E anche lui, adesso che la roba passava per le sue mani, comprendeva
finalmente i dispiaceri che aveva dato alla povera donna; se ne pentiva, cercava di
farseli perdonare, colla pazienza, colle cure amorevoli standole sempre intorno,
sorvegliando l'inferma e la gente che veniva a farle visita, impallidendo ogni volta che
la mamma tentava di snodare lo scilinguagnolo dinanzi agli estranei. Sentiva una gran
tenerezza al pensare che la povera paralitica non poteva muoversi né parlare per
togliergli la roba siccome aveva minacciato.
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- No, no, non lo farà! Son cose che si dicono in un momento di
collera... Vorrei vederla!... Sono infine il sangue suo... Morirebbe d'accidente lei per
la prima, se dovesse lasciare la sua roba a questo e a quello...
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