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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

FOSCA

Di: Iginio Ugo Tarchetti

[XLI] [XLII] [XLIII] [XLIV] [XLV]

XLI

Pochi minuti prima che io partissi, il medico venne infatti a trovarmi.

Entrò nella stanza sorridente con aria di voler fare le beffe della mia sconfitta; e mi sarei offeso di questo contegno, se non l’avessi saputo sinceramente interessato ai miei casi, e non fossi stato certo che egli era appunto venuto da me per suggerirmi qualche altro rimedio.

— E cosí, — mi diss’egli sedendosi — eccovi già di ritorno. Non avrei creduto di rivedervi sí presto. Avete avuto paura? Vi siete lasciato ricondurre come un agnello.

— Voi conoscete quella donna, — risposi io — non crederete certo che avrei potuto contenermi diversamente.

— Lo so, ma la cosa per se stessa è assai singolare; non vi offendete se ne ho sorriso mio malgrado. Immagino almeno che questo vostro recarvi a Milano per due giorni non sia che un pretesto, e che la vostra partenza sarà decisiva.

— No, ho promesso di ritornare.

— Bisogna dimenticarsene.

— Ne ho impegnato la mia parola d’onore.

— Male. Bisognerebbe dimenticarsi anche di questa.

— Non è possibile.

— Come volete. Non voglio esporvi qui le mie teorie sull’onore, ma mi limito a farvi una domanda: "Che cosa intendete di fare?".

— Ciò che è oramai inevitabile. Ritornare, giustificare con un pretesto qualunque la mia rinuncia alla licenza, e rimanere presso di lei fino a che non vedrò la possibilità di fare diversamente.

— Datemi il vostro polso — diss’egli; e corrugò la fronte tastandolo. — La vostra tosse è diminuita?

— Accresciuta.

— Dormite?

— Poco.

— Agitato?

— Estremamente.

— Fate cattivi sogni?

— Orribili.

— Fra due giorni sarete traslocato a Milano, — diss’egli tranquillamente. — State assai male; avete bisogno di cambiar aria; questa atmosfera vi uccide.

— A Milano! Fra due giorni.

— Sí, me ne incarico io. L’aria di quel paese vi farà bene. Farò revocare la vostra licenza, e vi farò invece avere una traslocazione che renderà la vostra partenza inevitabile. Ella lo comprenderà, non potrà opporsi. Le dirò che fui io a provocarla vostro malgrado.

— Ma pensate…

— A che cosa? — interruppe egli con impazienza. — Io penso al vostro bene, giacché voi non avete un’oncia di giudizio, e lasciate volentieri che vi pensino i vostri amici. Dopo tutte le follie che ha fatte per voi, dopo quella colossale di ieri, la salute di quella donna è peggiorata a tal segno, che ella non ha piú due mesi di vita; e due altri mesi di soggiorno vicino a lei basterebbero a dare a questa lenta infiammazione che vi divora uno sviluppo che renderebbe impossibile arrestarla. Fate quell’apprezzamento che volete di questa mia mediazione, che vi costringo a subire; io ho coscienza di compiere un dovere. Me ne ringrazierete piú tardi.

E uscí prima che nella mia titubanza avessi trovato parole per eccitarlo e per distoglierlo da questo disegno.

XLII

Io vorrei tacere qui di quegli ultimi giorni che passai con Clara a Milano; non vorrei evocare dalle oscure profondità delle mie memorie che i soli dolori — giacché l’evocarne le gioie è compito assai piú triste e difficile — il mio cuore non conosce piú la via delle gioie, esso ne ha dimenticato il linguaggio! — ma come non ricordare quegli ultimi baleni di felicità che hanno rallegrato la nostra esistenza? I primi piaceri non sono meno dolci degli ultimi, ma non si rammentano con la stessa trepidazione. Allora se ne speravano altri, e piú frequenti, e piú grandi; la gioventú, la fortuna erano per noi; v’era ancora tempo a saziarsene, ma adesso!… sono le ultime gioie quelle che si rammentano per tutta la vita, quelle che il cuore ha legato a sé colla stessa superstiziosa religione con cui vi ha legato la memoria di un estinto. Non sono i piaceri che incominciano quelli che si rimpiangono, sono quelli che finiscono.

In una natura dove tutto muore, dove tutto ci sfugge, le cose piú dilette sono quelle che abbiamo perduto. La fortuna ci fa parere piú cari gli oggetti che ci toglie, di quelli che ci dona, ed è forse cosí che ci riconcilia lentamente con l’idea della distruzione e della morte; nondimeno tristi quelle cose di cui esclamiamo: sono le ultime! Ho veduto spesso sorgere il sole con gioia; ma talora mi sono sentito stringere il cuore, e ho stese le braccia verso di lui nell’ora melanconica del tramonto.

XLIII

Ecco soltanto ciò che ne scrissi allora nel mio diario:

"23 dicembre 1863. — Registro questa data e queste memorie due ore prima di ripartire da Milano. Clara mi ha lasciato in questo momento; ho il cuore gonfio di lacrime, e vorrei piangere come un fanciullo. Perché? Non lo so dire. Forse è un bisogno puramente fisico. Dopo i vent’anni le lacrime ricadono nel cuore e vi si accumulano. Credo che spesso si muoia di queste lacrime che non possono trovare una via. Perché non si piange piú dopo i vent’anni?

Sono giunto ieri, ho passato tutto il giorno con lei, qui, soli, contenti, ma non piú contento come un tempo… Mi amerebbe ella meno? No, ella sembra amarmi soltanto piú seriamente. Temo d’aver indovinato il segreto terribile che ella si strugge di nascondermi. Clara non è felice.

Perché ha pianto ieri sera nel lasciarmi? ella che non ha pianto mai? Ella sapeva pure che mi avrebbe riabbracciato oggi. Non aveva mai assaporato delle lacrime; ne ho bevuta una delle sue. Come sono amare!

Penso quasi con dispetto, quasi con ira alla strana conformità che la fortuna ha posto tra alcune scene di questi miei due amori cosí diversi. Che raffronti! che analogia in queste antitesi! Oggi abbiamo passato quattro ore in campagna, sulla neve, in mezzo al fango, come le passai ieri l’altro con Fosca. Clara ha voluto rivedere il nostro tabernacolo, i nostri prati, i nostri alberi, i nostri ruscelli. Ho tentato inutilmente di distorgliela da questo progetto, ho dovuto accompagnarvela. In questa stagione! Non mi dimenticherò mai, mai, di questa passeggiata!

Perché ella ha detto che voleva tentare di ritrovarvi se stessa? Mi ritorna ora in mente questa frase oscura e angosciosa.

Siamo saliti in una carrozza ove eravamo già stati assieme una volta nei primi tempi del nostro amore. Clara l’ha riconosciuta. V’era ancora nella tappezzeria della vettura un G che ella vi aveva inciso allora con tanti trafori di spillo. Siamo discesi fuori della città dalla parte di Morivione. Siamo stati fino a Vaiano, abbiamo attraversato i prati correndo. Clara ha voluto entrare nella chiesa, e si è inginocchiata un momento per pregarvi. Non vi era dentro anima viva. Che solennità nelle chiese deserte!

Abbiamo bevuto latte in una di quelle catapecchie miserabili che si trovano allo svolto del canale. Siamo entrati nella stalla; alcuni bambini giuocavano in un angolo della mangiatoia, e ci guardavano attoniti e quasi spaventati; non sapevano levarci gli occhi d’addosso. Che quiete là dentro! che caldo! Ho chiesto a Clara:

— Vorresti vivere qui con me?

— No, — rispose ella tristamente — ho orrore della povertà.

Quella contadina ci ha detto:

— Loro signori sono già stati qui a San Giorgio, me ne ricordo.

— Quando? — chiese Clara.

— A San Giorgio, nel giorno in cui si usa andare a bere il latte in campagna.

Allorché fummo usciti, Clara mi disse:

— Ho voluto farle ripetere due volte il tuo nome.

Ritornammo attraversando quell’argine lungo e sottile che divide i due canali. Bisognava camminare l’uno dietro l’altro. Clara mi disse:

— Va’ d’innanzi tu, voglio vederti.

Mi rivolsi a un tratto improvvisamente, e la sorpresi con le lacrime agli occhi.

— Tu piangi — le diss’io con ansietà. — Che hai? Perché piangi?

M’interruppe con un sorriso, e mi disse:

— È effetto del guardare la neve. Come sei poco esperto di lacrime!

Risalimmo nella vettura che ci attendeva. Il vetturino ci guardò quasi stordito. Eravamo tutti immollati. Ci facemmo condurre a Porta Magenta, e ripigliammo le nostre scorrerie a piedi. La nebbia si era sollevata, e il sole splendeva di tutta la sua luce. La neve pareva fatta di tante pagliuzze d’argento, e abbagliava. Gli alberi erano pieni di gazze e di merli, il torrente era gelato da un lato e dall’altro della riva, e scorreva nel mezzo con lentezza; non si vedeva né un insetto, né un filo d’erba.

Clara scorse la prima la nostra capanna, — il nostro tabernacolo, — e fu sollecita a raggiungerla, ma l’uscio ne era chiuso, e non ci fu possibile entrarvi.

Ella fu sí afflitta di questa contrarietà, che per poco non ne pianse. Riattraversò il ponte di tavole su cui la neve gelata rendeva facile lo sdrucciolare, e abbracciò un albero sotto il quale eravamo soliti ripararci dal sole. Si sedette sulla neve in un punto in cui solevamo sederci e passare lunghe ore sull’erba. Trovammo in una siepe alcune di quella bacche vermiglie che producono le rose selvatiche e che hanno un sapore acre, benché quasi dolce, e un nido ripieno di foglie secche e di neve. Quante memorie in quei luoghi, quante memorie!

Clara esclamava tra se stessa: "Pensare che tutto sarà rifiorito a primavera, che questi luoghi ritorneranno cosí belli come lo erano nei primi giorni del nostro amore!".

— Ebbene, — le dissi io — questo pensiero non ti conforta?

— Ma saremo noi ancora cosí giovani, ancora cosí felici?

Non seppi risponderle. Perché ha ella concepito questo dubbio?

Nel ritornare raccolse presso la siepe di un giardino un fiore di semprevivo, di quelli di cui si intessono le corone mortuarie.

— Gettalo via, — io le dissi — è un fiore da morto.

— Perché? — rispose ella con tristezza — se è l’unico fiore che non avvizzisce? l’unico che non muore mai? Il fiore delle memorie è caduco, ma questo sopravvive alla memoria. Quello è per gli affetti vivi, questo per gli affetti sepolti.

E volle che lo accettassi, e promettessi di conservarlo per memoria di quel giorno.

— Ritorniamo nella tua stanza, — mi diss’ella — voglio passare tutto il giorno con te, sono pazza oggi. Ho freddo, sono irrigidita, accenderemo il fuoco.

Durante il tragitto della carrozza incominciò a tremare e rabbrividire dal freddo. Volle che facessi passare anch’io le mani nel suo manicotto. Vi sentii dentro alcuni oggetti che aveva raccolto per memoria di quella passeggiata, una foglia di ellera, un ramoscello d’albero. Percorremmo quel lungo tratto di strada senza parlare, vicini, coperti dalla sua pelliccia, guardandoci, colle mani cosí strette e riunite nel manicotto.

Accendemmo nella mia stanza un gran fuoco.

Non aveva mai veduto Clara sí pallida. Come era bella cosí, come era bella!

Ella aveva i piedi tutti bagnati.

— Levati i tuoi stivalini — io le dissi.

Non voleva.

— Ti ammalerai. Ubbidiscimi, te li leverò io.

Mi lasciò fare, benché quasi con dispiacere. Le sue belle calze erano anch’esse bagnate; glie le slegai, glie le tolsi; ho veduto i suoi piedini nudi, piccoli, torniti, rosati; li ho riscaldati tra le mie mani.

La sera ci ha raggiunti lí, vicini al fuoco. Avevamo passato tre ore nelle braccia l’una dell’altro. Ella non aveva mai posto tanta dolcezza ne’ suoi abbandoni. Perché era cosí mesta? Perché non sapeva dividersi da me? Perché è tornata indietro per baciare l’uscio della nostra camera? Io torturo inutilmente il mio cuore con queste domande.

Ha dimenticato qui la sua crocetta di brillanti: la porterò con me, glie la restituirò ritornando.

Scrivo un istante dopo che ella è partita; guardo con tristezza la sedia su cui si è seduta, e guardo gli ultimi tizzi del focolare che si spengono. Non l’ho amata mai tanto come oggi. Oh! che sarebbe di me senza quella donna!"

XLIV

L'indomani era la vigilia di Natale: avevo detto a Fosca che per quel giorno sarei ritornato, e tenni la promessa. Un biglietto del dottore che trovai nella mia stanza mi diceva:

"So che ella vi aspetta a pranzo qui. Se vi verrete (e non farete male a venirvi) direte al colonnello e agli altri che non siete ancora partito, che una lieve indisposizione vi ha obbligato a rimanere. Io sarò là a farne fede. Immagino che non avrete paura di aggravare la vostra coscienza con questa menzogna inevitabile".

Vi andai. Tanto non avrei potuto evitare di veder Fosca, e il minor male che mi fosse possibile sperare era appunto quello di non vederci da soli. La certezza della mia traslocazione imminente mi infondeva una specie di coraggio che non aveva avuto prima. Per poco non era divenuto anche audace. Affrontava questi pericoli con calma, perché sapeva che erano gli ultimi. La mia apparizione non produsse alcuna sorpresa nei miei commensali, giacché il dottore ne li aveva prevenuti. Il colonnello mi strinse la mano fino a farmi sentire un po’ troppo la pressione delle sue dita secche e nervose, e mi disse con schiettezza:

— Sono veramente contento che non siate ancora partito; me ne dispiace per voi, ma per me ne sono lieto. È una puerilità, un’abitudine come le altre, lo capisco, ma in questo giorno sento anch’io il bisogno di vedermi circondato da’ miei amici. Il Natale è la piú bella festa dell’anno. Io non sono né turco, né cattolico — sono semplicemente un galantuomo — ma alcune delle feste cristiane mi piacciono, mi vanno a sangue, armonizzano colle mie convinzioni; io ci vedo dentro un significato profondo, che le apparenze ci nascondono. La religione ne è un pretesto. Che credete? Non è già la nascita di Cristo che noi festeggiamo oggi; noi festeggiamo la famiglia, le gioie della vita domestica, il focolare. Se questa festa si celebrasse in agosto non avrebbe piú una metà della sua importanza; è in questa stagione che sentiamo il bisogno di vederci riuniti. Ecco la casa, il camino, il ceppo tradizionale, la tavola apparecchiata. Peccato che non nevichi! Tempo fa, ho passato questo giorno sulle montagne, in una casetta sepolta tra le valanghe, coi lupi alla porta. Quello fu un vero Natale! E stasera rimarrete con noi? Faremo una piccola cena.

— Volontieri, — io dissi — è una festa a cui ho legato anch’io delle memorie.

— Ah! — continuò il colonnello mentre ci mettevamo a tavola — chi è che non vi ha legato delle memorie? Le piú belle rimembranze della famiglia fanno capo a questo giorno. Volete ricordarvi delle ore piú gioconde della vostra fanciullezza, delle persone che avete amato di piú, dei vostri genitori, dei vostri fratelli? Bisogna che pensiate al Natale, alla casa dove siete nati, alla stanza dove potevate raccogliervi, alla fiamma del caminetto, alla notte vegliata cicalando…

— E alle gozzoviglie… — interruppe uno dei commensali.

— Sia come volete, — continuò il colonnello — anche alle gozzoviglie. Male per voi se in questo tacchino coi tartufi, non vedete altro che un tacchino coi tartufi. Io ci vedo la ragione di un legame piú stretto fra noi. Dov’è che gli uomini si trovano meglio riuniti che a tavola? È là che essi dividono il pane ed il vino, che si dimostrano piú efficacemente il loro affetto, offrendosi a vicenda le cose piú necessarie alla vita. A voi. Eccovi qui un petto di pernice; permettete che ve lo offra. Crederete forse che un uomo che vi offre un petto di pernice possa essere un vostro nemico?

Questa offerta era stata fatta a me.

— Tolga il cielo che io abbia a cadere in tale errore, — io dissi — io considero la vostra offerta come la piú eloquente testimonianza della vostra amicizia.

— Via, — esclamò egli — voi credete di aver proferito una facezia, avete detto invece una grande verità. Io ho imparato a non dare alcun valore a quei doni che sogliono farsi i ricchi, a quei piccoli sacrifici fatti e retribuiti per convenzione. Quando io era ragazzo era molto povero, non mi vergogno certo di confessarlo. Ebbene, la camera migliore della casa era la mia, quei piccoli agi che poteva permetterci la nostra situazione erano per me; a tavola mi si davano le cose piú squisite; mia madre era instancabile nell’occuparsi di tutti questi piccoli nonnulla che potevano recarmi piacere; quello era il vero affetto — tutto il resto è convenzionale, falso — è apparente. Se un uomo affamato — mettiamo anche semplicemente un uomo goloso — desse a me affamato l’unica costoletta che gli rimanesse per colazione, sento che dovrei essergliene piú tenuto, che se m’avesse dato venti napoleoni dei quaranta che aveva nella sua saccoccia.

— È vero, — disse Fosca — io credo…

— Chiedo scusa, — interruppe suo cugino — tu non puoi credere nulla, non puoi essere in ciò un giudice competente; tu non puoi conoscere il valore di una costoletta, giacché non ne hai mai mangiata una intiera in tua vita.

— Oh, oh, — esclamò il dottore — questa argomentazione è falsa. Converrebbe indagare se un piacere debba essere misurato dalla sua entità, piuttosto che dalla sua durata.

— Dall’una e dall’altra — diss’io,

— Sta bene, — disse il colonnello — ma piú assai dalla durata. Farò uno sforzo di logica. Argomentiamo da un caso opposto. Supponiamo a mo’ d’esempio, che abbiate a ricevere un colpo di bastone; voi ne sentirete dolore per uno, va bene, ma ricevetene invece dieci, ricevetene venti… Che ve ne pare? Persisterete a credere che il dolore dei dieci, dei venti, sia uguale a quello dell’uno? Singolarmente sí, ma molti dolori riuniti costituiscono un dolore piú grande. Cosí è dei piaceri. Addizioniamo i piaceri, e ne avremo uno piú vivo e piú durevole. Forse che se noi rimanessimo qui, seduti a questa tavola fino alla mezzanotte, e riuscissimo a riunire con una catena di piccoli piaceri intermedi questi due grandi poli del piacere che sono il pranzo e la cena, non avremmo sciolto con onore questa questione?

Questa proposta trovò un eco in tutti i commensali.

— Chi avremo a cena con noi? — chiese il dottore.

— Un mondo di persone, tutte le onorevoli metà dei nostri colleghi.

— Compresa la baronessa, la moglie di…

— Suo marito.

— O dell’amico di suo marito!

— Bando alla maldicenza — disse il colonnello. — In verità che se io credo di avere una virtú, la è questa, di non veder mai ciò che non dev’esser veduto e, vedendolo, di persuadere me stesso di non aver visto. Vi è un beneficio grandissimo che ogni uomo è in grado di rendere ad un altro, e che è tuttavia quello che vien reso piú raramente, l’astenersi dal dirne male.

— Ma io non aveva in animo di dirne male — disse quello tra noi che aveva provocato questa osservazione. — Voleva far constare di un fatto. Vi sono certe cose che saltano agli occhi. I mariti…

— Può essere — interruppe il colonnello — che i mariti vedano poco; ma gli altri vedono troppo. Io apprezzo piú la cecità dei primi, che l’accortezza dei secondi. La fiducia di un marito, di un padre, di un fratello è cosa che mi commuove, doppiamente poi se tradita. Io non ho riso mai della semplicità; la credo la piú nobile delle virtú, invece ho sempre temuto della doppiezza. La natura ha donato all’uomo questa cecità, per dare alla colpa della donna un rilievo ancora piú appariscente.

Io guardai Fosca il cui volto aveva incominciato ad impallidire. Il pranzo era finito, e, se avessi potuto, le avrei suggerito volontieri di ritirarsi nella sua camera.

— E se non fosse… — aveva ripreso il colonnello. Ma fu interrotto dall’arrivo del sergente di posta che ci recava un fascio di lettere. Io n’ebbi una, che conobbi tosto essere di Clara, e mi affrettai a nasconderla nel mio portafogli, impaziente di trovarmi solo per leggerla. Dopo le follie di quel nostro ultimo ritrovo, che cosa mi avrebbe ella detto?

Il colonnello fece atto di riconsegnare le sue al sergente perché le riportasse in ufficio, ma avendone veduta una col suggello del Ministero, la riprese e l’aperse. La lesse in un baleno, si rivolse a me con aria di meraviglia e di dispiacere, mi guardò un poco come per interrogarmi, poi mi disse:

— Siete voi, o sono quei signori del Ministero che hanno voluto farci questa sorpresa? Siete destinato al dipartimento di Milano, e dovete raggiungere immediatamente la vostra destinazione. Che diavolo!…

— A Milano!… — io balbettai tutto confuso — traslocato!… Veramente… non capisco…

E alzai gli occhi verso Fosca. Vidi il suo volto impallidire, trasfigurarsi, affilarsi. Ella stese le braccia verso di me, tentò sollevarsi, e ricadde sulla sedia. Suo cugino, i medici, le furono tosto dintorno; guardavano ora me, ora lei, e parevano sospettare le cause di quella sua crisi improvvisa. Successe un istante di silenzio. Gli occhi di Fosca, spalancati, immobili, vitrei, non cessavano di affissarmi. Ella si alzò ad un tratto agitata da una contrazione spaventevole, corse verso di me, si afferrò a’ miei abiti e proruppe in un grido straziante:

— O Giorgio, non mi abbandonare, o mio Giorgio! mio adorato!

Quelle parole, quell’atto erano una confessione troppo eloquente. Suo cugino impallidí, arrossí, tornò ad impallidire; stette un istante immobile come istupidito, paralizzato, fulminato da quella rivelazione, poi si avventò verso Fosca guardandomi con occhi terribili, la strappò con violenza dalle mie braccia, la trascinò verso il suo appartamento; e nel varcare la soglia dell’uscio si rivolse, e mi disse:

— Uscite, signore; uscite di questa casa. Ci rivedremo assai presto.

Gettai gli occhi smarriti d’intorno a me; il sergente di posta, le cameriere erano spariti; i miei commensali si erano alzati, e facevano mostra di frugare qua e là tra i mobili per cercare i loro berretti e le loro sciabole. Io uscii, mi cacciai giú per le scale colla disperazione nel cuore.

XLV

Non so perché fuggissi. Credo che sia istinto: si fugge da un dolore come da un pericolo. In un attimo mi trovai fuori della città, nell’aperta campagna; era già buio, e le strade erano deserte. Mi arrestai al crocicchio di una via, e percossi col fodero della sciabola alcuni ramoscelli di sanguine, che sporgevano da una siepe, per farne cadere la neve. Guardai un lume che un contadino portava in lontananza attraverso i campi, e che pareva andar solo; lo seguii coll’occhio finché lo perdetti di vista. Un cane magro, brutto, patito, mi si avvicinò annusando e agitando con lentezza, quasi con fatica, la sua coda aggomitolata; lo chiamai e mi curvai ad accarezzarlo, poi lo respinsi percuotendolo col piede. I suoi guaiti mi riscossero da quella specie di astrazione simile al sonnambulismo, riacquistai la coscienza di me, mi ricordai di ciò che era successo, e mi portai le mani alle tempie, perché mi pareva che qualche cosa stesse per spezzarmisi nella testa.

Oramai tutto era scoperto, e in che modo crudele e impreveduto! Fra poco il nostro segreto sarebbe stato sulle bocche di tutti. Fosca, suo cugino, io piú di ogni altro, saremmo stati fatti oggetti di scherno e di ridicolo. Lui, quell'uomo onesto, quell’uomo eccellente, colpito della stessa pena che una società ingiusta, fatua, goffamente crudele, avrebbe gettato sopra di me. Piú ancora: avrei dovuto battermi con esso, forse ferirlo, forse ucciderlo; o io stesso rimanere ferito od ucciso. Tale il premio che egli avrebbe ricevuto della sua fiducia, io del mio sacrificio. Una fatalità inesorabile aveva posto a legge delle nostre esistenze questo dilemma terribile.

Perché, sarei io stato sí vile da gettare sopra di lei la responsabilità di quell’avvenimento, da dirgli come ella mi aveva imposto il suo amore? E quando pure egli ne fosse stato convinto, avrebbe potuto sottrarsi alle esigenze di quei pregiudizi che lo costringevano a pretendere da me una riparazione palese come l’offesa? No, non v’era a questo riguardo alcuna via di transizione; un duello era inevitabile.

Poiché m’ebbi definita la mia situazione in questi termini, mi sentii un poco piú tranquillo. Il timore, l’aspettazione di un male, sono un male maggiore di quello che si teme e si aspetta. Mi sarebbe importato poco il morire; mi era avvezzato a questa idea fino da fanciullo, e la mia gioventú non era stata che una lotta continua tra l’istinto tenace della vita, e la mania assidua del suicidio; ma uccidere lui, quell’uomo che sapeva accomodarsi sí bene cogli uomini e coll’esistenza, che era cosí onestamente felice!… quello era un pensiero che mi lacerava il cuore.

Di Fosca non mi dava gran pena. Io non l’amava; i mali che ella aveva cagionato parevano disgiungerci ancora di piú. La mia pietà era sí poco viva, che il minimo de’ suoi torti bastava a farla tacere.

Le mie idee si rischiararono a poco a poco.

Non si può durare lungamente sotto l’oppressione di un gran dolore. Il cuore, prostrato per un istante, si risolleva subito; la speranza ritorna a sorridere, precorre gli avvenimenti, e ci addita le gioie che devono compensarci di quegli affanni.

Rientrai nella città. Mi pareva d’essermi dimenticato di qualche cosa, aveva nella testa l’idea confusa di un piacere vicino, di una gioia certa, ma non sapeva quale fosse. Ad un tratto me ne sovvenni; fu un baleno: non aveva letto ancora la lettera di Clara.

Sorrisi tra me stesso, e mi affrettai verso casa. Quella lettera mi avrebbe compensato di tutto. E poi, la mia felicità era adesso ben certa, fra poche ore sarei partito per Milano, sarei vissuto sempre vicino a lei, non l’avrei abbandonata mai piú. Ora ne era ben sicuro. Come poteva io dolermi di una sventura sí lieve, d’innanzi alle attrattive di una gioia sí grande e sí durevole? Io sorrideva di quel dolore miserabile.

Non so se gli altri amanti sieno stati nei loro affetti tanto sublimamente puerili quanto lo fui io. Vorrei pur leggere nel cuore degli altri uomini per conoscere se io ho realmente amato di piú, se fui in ciò, come ho creduto e temuto sempre, un’eccezione mostruosa e sventurata.

Non lessi mai una lettera di Clara se non alcune ore dopo averla ricevuta, per prolungarmi coll’aspettazione il piacere di quella lettura. Spesso, appena apertele, incominciava a leggere a rovescio, o alla trasparenza della fiamma della candela, e guardava qua e colà in fretta alcune parole, e richiudeva tosto quei fogli per costruire con esse qualche frase a mio talento, e fantasticare su ciò che avrebbe potuto dirmi. Non comprendeva nulla, se non dopo averle lette dieci o venti volte; le ritenevo a memoria, e le recitavo a me stesso prima di addormentarmi; talora le ricopiavo imitando i suoi caratteri, per provare in qualche modo le sensazioni che ella doveva aver provato nello scriverle.

E aveva allora venticinque anni!

Ma in quella sera era troppo afflitto, aveva troppo bisogno di conforti, per potermi protrarre questo piacere. L’apersi con avida impazienza; ed ecco ciò che conteneva quella lettera terribile:

"Procura di ascoltare con calma ciò che sto per dirti. Abbi tu almeno quella forza che io non ho, e possa non conoscere l’amarezza di quelle lacrime disperate che io verso nello scriverti. Mio buon amico, mio Giorgio, mio angelo, noi non dobbiamo vederci piú, noi dobbiamo lasciarci per sempre. La mia mano vacilla, e il mio cuore s’infrange nello scrivere queste parole.

Ascolta. Sarò breve, ti dirò tutto piú concisamente che posso, giacché ogni parola che devo dirti mi trapassa l’anima come una lama. Rovesci di fortuna gravi e improvvisi hanno rovinato la mia famiglia. Mio marito è quasi povero. È necessario che tutto sia mutato nel nostro sistema di vita; che io attenda colla mia vigilanza, colla mia assiduità, forse anche col mio lavoro, a quelle economie che mi impone il mio dovere di moglie e di madre. Mio marito ebbe forse dei torti verso di me; io ne l’ho ben punito. Ad ogni modo, ora che egli è infelice, sento il bisogno di riavvicinarmi a lui, e di proteggerlo col mio affetto. La fortuna ha riunito le nostre esistenze, non posso abbandonarlo. Tu stesso, tu mi disprezzeresti. Sono ora otto mesi che ci amiamo. La mia colpa fu lunga, la mia dimenticanza profonda, la mia felicità immensa.

Tutta una vita non basterebbe a scontare questa felicità (poiché la felicità è cosa che si sconta). Come potrei pretendere di essere ancora felice? Come oserei di essere ancora colpevole? Lasciandoci ora, noi ci lasciamo in tutta la pienezza delle nostre illusioni e della nostra fede; noi porteremo intatte alla tomba queste illusioni che una intimità piú durevole avrebbe scolorite o distrutte. La tua memoria riempirà tutta la mia esistenza.

Non è il caso che ci ha separati, è una predestinazione, è una volontà superiore e imperscrutabile. La sventura che mi colpisce ha punito me di una colpa che non potrò mai lavare abbastanza colle mie lacrime; ha tolto dalla tua via un ostacolo che avrebbe certo attraversato a te, giovane, un avvenire che il tuo coraggio e il tuo ingegno ti additano lusinghiero e felice.

Quando pure il mio cuore avesse potuto ribellarsi al sentimento di un dovere che m’impone di dividermi da te, io non avrei mai potuto sottrarmi al disprezzo di coloro che avrebbero penetrato il nostro segreto, alla condanna disonorante di cui la società avrebbe colpito la mia condotta. Mio figlio, l’unico scopo, l’unico affetto legittimo della mia vita, non avrebbe potuto redimersi mai dal disonore ingiusto e crudele che gli sarebbe provenuto dalla mia colpa; egli non avrebbe potuto arricchire il suo cuore di quel dolce sentimento che a voi uomini già esperti della nostra fatuità, dei nostri errori, spesso anche delle nostre bassezze, fa parere ancora nobile e cara la donna: la pura e santa memoria di una madre.

Sí, Giorgio, io sono caduta con facilità, ma devo rialzarmi con coraggio. Mi sono data a te con franchezza, mi ti ritoglierò con pari franchezza; mi farò un’arma della tua stima, della tua ricordanza; adoprerò a nobilitarmi quella stessa forza che mi darà la memoria del nostro passato.

Nella mia vita di otto mesi, io fui assai felice… Non ho mai tanto guardato e pensato a questo tempo, come ora che i nostri cuori stanno per dividersi. Un’idea mi conforta e mi inorgoglisce. Nessuno può toglierci questo passato, nessuno può fare che io non t’abbia amato con tutta l’anima mia e che tu mi abbia riamata collo stesso ardore. Questo tesoro di memoria è indistruttibile. Io l’ho celato nelle profondità piú segrete della mia anima. È da esso che io attingerò qualche conforto per la mia vita avvenire, misera vita, piena di tristezza e di abbandono, ma abbellita dal sorriso de la tua rimembranza; senza questa certezza, dove avrei io trovato la forza di abbandonarti?

Né noi dobbiamo lasciarci solo come amanti, dobbiamo lasciarci anche come amici, ogni altra relazione tra noi sarebbe fatale; non ci potrebbe ricondurre all’amore perché nol dovremmo, non legherebbe di piú i nostri cuori perché ce ne mostrerebbe quei difetti che l’amore ci aveva nascosti. Quando due creature si sono amate come noi, non possono piú amarsi come gli altri; tu fosti tutto per me, non voglio che tu sia poco, preferisco che tu sia nulla. Le anime come le nostre non vivono che di piaceri grandi, o di grandi dolori. Prima di lasciarti ho voluto rivedere tutti quei luoghi che mi parlavano di te (forse io non li rivedrò mai piú), ho voluto dare un addio a tutto ciò che il tuo affetto mi aveva reso caro. Nell’immensità del mio dolore, io sono ora quasi tranquilla. Io non ti perdo; ho raccolto dal nostro passato tante memorie che una lunghissima vita non basterebbe ad esaurirle.

Ora addio. Tu lo vedi. Io ti scrivo piangendo, e non potrei scriverti di piú; le lacrime cancellano le parole, quasi avessero sentimento di pietà e volessero risparmiare a te il dolore di versarne altre nel leggerle. Io non poteva ingannarti. Poteva essere ancora fra le tue braccia, ma il mio pensiero, il mio cuore sarebbero stati lontani da te.

Il destino che ci separa è inesorabile. Se tu mi hai realmente amata, se ho meritato qualche cosa dal tuo affetto, fa che la tua rassegnazione e la tua virtú mi abbiano a rendere meno terribile il perderti.

Ho lasciato apposta nella tua stanza la mia crocetta di brillanti. Tienila per memoria mia. Sarò felice se mi prometterai di portarla sempre sul tuo cuore. Non ti avrei fatto un altro dono, non avrei osato, ma una croce è simbolo di sacrificio, di abnegazione, di dolore; mi parve che ella avrebbe potuto farti ricordare di me, nella sola maniera in cui desidero che tu abbia a ricordartene. Quel giorno in cui mi lasciasti la prima volta, tu la vedesti brillare sul mio petto, tu la baciasti; vi si vedono oggi ancora le traccie delle nostre lacrime: ho pensato che questa memoria sarebbe stata sacra per te.

Addio ancora. Sii forte, Giorgio, sii ragionevole, non maledirmi. Pensa che soltanto in questo modo io poteva riacquistare la stima di me medesima, non credermi interamente perduta, e tu sii pago di aver amata una donna non affatto indegna di te. Un abbandono piú lungo ci avrebbe disgiunti, questo sacrificio ci riunisce. Se io fossi stata libera, mi sarei uccisa per non sopravvivere al nostro amore; esso fu immenso, ma immenso e terribile ne fu il distacco; tu invece conosci i legami che mi impongono di vivere. Ma se io fossi stata libera ti avrei amato per tutta la vita.

Addio, mio adorato, mia anima, (ti chiamerò ancora una volta con questi nomi diletti), addio per l’ultima volta, addio per sempre. Mi dicesti un tempo che assomiglio a tua madre, amami in essa e come essa. Il mio affetto, la mia memoria ti seguiranno fino alla tomba. Sii felice, Giorgio, sii onesto; e che il cielo vegli sopra di te".

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Ultimo Aggiornamento: 14/07/05 00:05