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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

FOSCA

Di: Iginio Ugo Tarchetti

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XXXVI

Eravamo nel mese di novembre. Fosca mi disse un giorno: — Domani andremo a passare una giornata intiera in campagna, andremo a piangere sulle foglie che cadono.

Il luogo dove dovevamo recarci era una fattoria a dieci miglia della città, situata in una posizione incantevole, a piedi degli Appennini. V'era già stato con essa altre volte, e vi andava volontieri, benché la compagnia di Fosca mi amareggiasse di tanto quella gioia, da rendermivi quasi indifferente. Ella invece ne era pazza; quelli erano i giorni piú lieti della sua vita. Se io fossi stato poco piú forte, poco piú generoso, avrei potuto e dovuto essere felice di quella felicità sí piena e sí grande di cui godeva ella stessa. Ma io non possedeva che la virtú della tolleranza, non sapeva che rassegnarmi, e non poteva pretendere di piú dal mio cuore.

In quel giorno ero mesto e scorato piú che mai. Mi ero avveduto che la mia salute si alterava spaventevolmente, e che il mio coraggio, la mia forza, la mia gaiezza svanivano a poco a poco con essa.

L'ultima volta che Clara mi aveva visto ne era rimasta atterrita, e mi aveva detto: — Povero Giorgio, mi pare di vederti ancora quale ti vidi la prima volta che venisti a battere all'uscio della mia casa; sei molto triste, molto dimagrato, che hai? — E non so se fosse per pietà che le inspirasse di nuovo il mio stato, o per affanni suoi intimi, ella era assai pensierosa e assai mesta.

Dacché Fosca era guarita, m'era recato a vederla due altre volte, e l'aveva sempre trovata cosí; non mi pareva piú quella. Non che mi amasse di meno, ma non era piú lieta come prima, non mi sembrava piú felice. E perché si affannava adesso ad accertarmi del suo amore, a giurarmi che mi amava, a chiedermi se il suo affetto era tutta la mia vita e la mia felicità?

Ohimè! Io dubitavo. Io conosceva assai bene il cuore degli uomini. Quando l'amore se ne va, allora si sente il bisogno di affermarlo. Noi siamo piú costanti della natura, piú fedeli, piú coscienziosi; noi vorremmo trattenere questo amore che la natura ci invola, ma è indarno. Come, come amare ancora quando l'amore se n'è andato, quando il nostro cuore è rimasto deserto, e l'oggetto delle nostre affezioni non ha piú un'attrattiva per noi? Noi possiamo piangere su questa fralezza dell'amore, ma non possiamo arrestarlo: egli abbandona i cuori che vi hanno troppo creduto.

Io non sospettava che Clara avesse cessato di amarmi, no; questo sospetto mi avrebbe ucciso (almeno allora lo credeva), ma mi sentiva nell'anima mia qualche cosa di simile al presagio di una sventura lontana; mi pareva che avrei dovuto perderla, e l'amava di piú. Cosa portentosa, incomprensibile a me stesso; l'amava piú ancora di prima, oltre quella misura che aveva giudicata estrema, piú di quanto aveva creduto compatibile colla nostra natura mortale.

Tale sono stato in ogni tempo. Il pericolo non ha mai smentita quella fede che aveva riposta negli esseri e nelle cose che mi erano care. No, non li ho mai abbandonati. Allorché io li ho veduti sfuggirmi, mi sono avvinghiato ad essi per gettarmi insieme nell'abisso, per precipitare in una rovina comune.

Pensava a queste cose seduto sulla riva di un torrente, poco lungi dalla fattoria, dove era venuto insieme col colonnello e con Fosca. Dopo tante ore di persecuzione, era riuscito a trovarmi solo un istante, ed era fuggito in quel luogo quasi a nascondermivi. Era assetato di pace e di solitudine. In quel giorno Fosca era stata intollerabile, mi era divenuta odiosa. Durante il viaggio, durante la colazione, durante le nostre passeggiate nel giardino, non mi s'era tolta dal fianco un istante. Suo cugino aveva preso un fucile ed era andato a sparare ai colombi; ella mi aveva condotto sotto un albero, mi aveva fatto sedere vicino a lei, e m'aveva parlato del suo amore sí a lungo e sí calorosamente, che n'aveva l'anima piena di disperazione e di tedio. Non sentiva piú alcuna pietà per essa, perché mi pareva di meritarne di piú io medesimo.

Aveva ora approfittato di un momento in cui ella aveva dovuto allontanarsi, per fuggire e per andarmi a sedere sulla riva di quel torrente.

Da quanto tempo non m'era trovato piú solo in campagna, e non aveva piú inteso la voce soave della natura! Era un luogo orribilmente incantevole; il suolo a roccie, a borri, a dirupi, ad avvallamenti; il torrente scorreva nel fondo di una forra in un letto di selci terse e bianchissime; querce e castagni secolari sporgevano da una riva e dall'altra le loro braccia che si intrecciavano; il sole vicino a declinare gettava sulla superficie dell'acqua alcuni raggi che sembravano convertirla in tante lame d'oro e d'argento. Di quando in quando uno sbuffo di rovaio faceva cadere una pioggia di foglie che l'acqua travolgeva nei suoi vortici, o spingeva verso la riva; il terreno era fiorito di ciclamini, di pratelline, di viole; una pispola cantava sopra il mio capo; io guardava e sognava.

Era là, seduto da un'ora, allorché alzando gli occhi verso la sommità del burrone, vidi Fosca che stava seduta guardandomi. Io la vidi e non mi mossi. Ella si alzò, esitò un istante, poi attraversò correndo un tratto della riva coperto di acacie e di rovi, mi raggiunse, e si lasciò cadere vicino a me senza parlare.

— Mi sfuggi? — mi disse ella finalmente dopo un lungo silenzio.

— No, ma aveva bisogno di esser solo.

— Perché non avvertirmi?

— Temeva d'offenderti.

— Credevi meno offensivo il non dirmelo?

— Mio Dio! — io dissi — ma tu vuoi mettere il mio cuore ad una prova ben esigente!

Ella fece atto di alzarsi.

Io sollevai gli occhi per un movimento quasi involontario, e raccapricciai nel vedere che aveva il volto e le mani tutte coperte di sangue. Nell'attraversare la riva correndo, s'era ferita alle spine delle acacie, s'era lacerati i capelli, e aveva fatto a brani il suo abito.

— Resta, — io le dissi con voce commossa afferrando le sue braccia — tu sei ferita, tu devi soffrire.

Ella si guardò le mani senza muoversi, e disse:

— Non me n'ero accorta.

Le sciolsi un fazzoletto bianco che aveva al collo, e le asciugai il volto; andai a bagnarne un'estremità nell'acqua, e le lavai le ferite. Ella mi lasciava fare senza dir parola: guardava il torrente cogli occhi fissi e spalancati, e pareva assorta in una strana meditazione.

— Che hai? — le chiesi io — a che pensi?

Non mi rispose.

— Vuoi che mi getti in quell'acqua? — mi disse ella dopo un momento di silenzio.

— Fosca, — esclamai — non essere cosí ingiusta con me; io, tu lo sai, io ho momenti di tristezza, durante i quali posso essere qualche volta cattivo, ma tu conosci il mio cuore.

— È perché lo conosco, perciò appunto che vorrei liberarti del peso della mia affezione. Forse che io non vedo le tue torture?

Le strinsi la mano senza risponderle, e le dissi dopo un istante:

— Credo che tu te ne sia fatta un concetto esagerato.

— Può essere — diss'ella.

Tacemmo tutti e due per piú di un'ora.

Ella strappava convulsivamente delle manate di erba che gettava nell'acqua, applicava delle foglie sulle sue graffiature, e le levava per vedervi le traccie del sangue. Io guardava il fondo del torrente seminato di macchiette d'alghe che l'acqua curvava scorrendo. Eravamo appoggiati l'uno all'altra, ma sí assorti in noi, sí immobili, che non sentivamo piú il nostro contatto.

Il campanello di una mucca, che venne a pascolare sulla sommità della riva, ci riscosse da quell'assopimento. Quella bestia ci affissava con aria di stupida meraviglia; abbassava il capo, sbrucava una boccata d'erba, poi tornava a rialzarlo, e a guardarci. Ad ogni movimento della testa, il campanello che le pendeva dal collo mandava un suono sordo e malinconico.

Fosca mi disse:

— Perché mi guarda cosí?

— Non so — io risposi sorridendo — guarda pure me.

— Non però tanto fissamente. Ciò mi fa pena, non so il perché, ma mi fa una gran pena, ne ho quasi paura; mandala via, Giorgio, te ne scongiuro.

E si nascose il volto tra le mani per non vederla. Io mi alzai e me le appressai un poco agitando un fazzoletto; ella si allontanò fuggendo, e facendo tintinnare la sua campana.

— Credi che quella bestia sia piú felice di me? — mi chiese Fosca quando tornai a sedermele vicino.

— Se il non aver affetti e passioni, il non aver coscienza di bene e di male può essere una sorgente di felicità, io credo che sí, — dissi. — E in questo caso, è anche piú avventurata di qualunque uomo avventuratissimo. Ma che ne sappiamo noi? Chi può scrutare nella loro natura?

— Ella era sola, e pareva nondimeno tranquilla. Non si amano forse tra loro?

— Non come noi. Ciò che è strano è che l'uomo soltanto ha orrore della solitudine.

— Tu però la cercavi poco anzi.

— Per un istante.

— Perché volevi esser solo?

— Per pensare.

— A chi?

— Dio mio!… A nessuno, a me stesso, alla natura. Non hai mai sentito il bisogno di esser sola?

— Sí, quando soffriva… per piangere.

— Ebbene…

— Tu volevi piangere? — interruppe ella — e per me?

— Ma no; — io dissi con impazienza — buon Dio; voleva esser solo, ecco tutto.

Fosca chinò il capo con aria mortificata, colse una viola, e mi chiese dopo qualche momento:

— Perché rifioriscono adesso le viole e le margherite, i primi fiori che sbucciano a primavera?

— Credo che si sbaglino, — io dissi — il tepore dell'autunno fa loro immaginare che l'aprile sia già ritornato. Vi sono molti fiori che cadono nello stesso errore. I lillà, i rosai, i sambuchi, tutte le piante primaticce tornano a metter le gemme in autunno.

— È vero, — diss'ella — l'autunno e la primavera si rassomigliano. È la stessa cosa che la gioventú e la vecchiezza. Chi sa se a ottant'anni si risentano le passioni di quindici!

— Ma! — io dissi — è però ben certo che si riprovano le stesse debolezze. La vita è un arco, le estremità si assomigliano perché sono vicine. Tutto ciò che vive presenta, nel deperire e nel distruggersi, gli stessi fenomeni che ha presentato nel nascere e nello svilupparsi; si muore come si ha incominciato a vivere, quasi che ciò che noi chiamiamo morte non sia che il formarsi del germe di un'altra vita.

— E queste viole bianche — diss'ella — sono viole da morto, non è vero? Perché i fiori da morto sono tutti bianchi?

Io mi sentiva orribilmente tediato da quelle domande. Il sole tramontava in quell'istante, l'orizzonte pareva in fiamme, i tronchi degli alberi spiccavano vivamente da quel fondo sanguigno ed abbagliante. Io pensava a Clara. Se ella fosse stata con me!

— Non so, — io dissi — forse perché sono i piú mesti e i piú fragili.

— Regalami un fiore.

— Ecco.

Spiccai una primula gialla e gliela diedi.

— Che uccello è quello che canta?

— Mio Dio! Uno scricciolo.

— Come la sua voce è sottile! Che colore ha?

— Credo grigio; eccolo, guardalo lí, su quel ramo.

— Credo che sia il piú piccolo dei nostri uccelli.

— Il piú piccolo.

— Dammi un bacio.

Mi rivolsi, e la baciai con freddezza.

Se ne avvide, mi guardò e mi disse:

— Ti tormento, non è vero? Ebbene ti bacierò io sola.

Mi prese una mano che si avvicinò alle labbra. Vedendo che io non le dicevo nulla tornò a chiedermi:

— Ti annoio forse? ti faccio soffrire? vuoi che io vada via? Rispondimi.

Io continuai a tacere. Era tutto il giorno che ella mi opprimeva cosí, il dispetto mi aveva reso muto e crudele.

— Rispondi — ripeté ella con accento supplichevole.

— Oh, lasciami, — esclamai io con impazienza — lasciami!

Ella si alzò, e incominciò a risalire lentamente la riva. Non si era allontanata che di pochi passi, allorché intesi un suo urlo acutissimo; mi rivolsi, e vidi che era caduta a terra in preda ad una di quelle sue convulsioni terribili.

Compresi troppo tardi il male che aveva fatto. Quell'accesso era uno de' piú violenti. Di là alla fattoria vi erano dieci minuti di cammino, fra poco avrebbe annottato, io e lei eravamo soli in quella forra.

La distesi sull'erba. Corsi a prendere acqua nella palma della mano, le spruzzai il volto, ma indarno. Le sue grida e le sue convulsioni erano calmate a poco a poco, ma ella era ancora svenuta. Me le sedetti vicino, aspettando in un'ansietà mortale che rinvenisse. Scorse una mezz'ora, era quasi buio. La mucca che avevamo veduto prima ripassò sulla sommità del burrone agitando il suo sonaglio, e si fermò un istante a guardarci. Anch'io ebbi quasi paura di quello sguardo. Quella donna distesa sull'erba come morta, coll'abito lacero, col volto livido e insanguinato, a quell'ora, in quell'oscurità tetra che non era né luce né tenebre, in quella forra profonda, sotto quei grandi alberi, soli… v'era in quel quadro qualche cosa di sí tetro, che raccapriccio ancora oggi a ricordarlo.

Quando m'avvidi che era inutile l'indugiare, sollevai Fosca sulle mie braccia, e mi diressi verso la fattoria. Ella era sí magra, sí consunta che io indovinava quasi il suo scheletro sotto le pieghe del suo abito di seta, e ne rabbrividiva. Quanta differenza da quei giorni, nei quali aveva per vezzo portato Clara in quel modo attorno alla nostra piccola stanza, e aveva sentito fremere sulla mia persona le sue forme piene, pieghevoli, dense!

Il colonnello era stato assai inquieto per la nostra assenza; lo fu ancor piú nel vederci tornare in quel modo.

Gli raccontai che, avendo udito le grida di Fosca, era corso verso il torrente e l'aveva trovata a terra svenuta; forse nel cadere s'era offesa il volto e le mani cogli spini.

Fu posta in carrozza, cosí priva di sensi com'era. Durante il viaggio non abbandonò mai la mia mano che stringeva tra le sue convulsivamente.

Suo cugino mi disse:

— Mi dispiace che ella vi fa stare in una posizione molto incomoda; poveretta, non capisce piú nulla, vi ha scambiato per me.

— Certo, — io risposi — ella crede di stringere la vostra mano.

XXXVII

Giunto a casa, incominciai a provare quella specie di leggerezza e di benessere che precede la febbre.

Mi buttai nel letto, smanioso di addormentarmi, di non svegliarmi mai piú, giacché non potevo piú reggere agli assalti di tutti quei pensieri che venivano a torturare il mio cervello.

Non tardai ad assopirmi, ma passai una notte terribile; ebbi l'incubo; un fantasma spaventevole s'era buttato sopra di me e mi stringeva, mi soffocava col suo peso; sentivo un affanno, un caldo, una sete, un'oppressura da non dirsi; al mattino mi svegliai come istupidito, mi sembrava di non esser desto; sentiva una gonfiezza penosa nel cuore, e mi pareva che egli si fosse ingrossato, e che urtasse con violenza nelle pareti del petto. Non avendo potuto alzarmi, mandai pel medico.

— Era cosa da aspettarsi, — mi diss'egli — vi vedevo deperire ogni giorno, e voleva avvertirvene. Me ne astenni sempre perché mi sentiva un poco imbarazzato a farvi questa confidenza, e perché speravo che un giorno o l'altro avreste trovato modo voi stesso di troncare quella relazione. Ora non posso farne a meno. Bisogna che lasciate quella donna ad ogni costo; siete troppo sensibile.

— Credete che ella ne morrebbe?

— Non è cosa da potersi prevedere. Ad ogni modo voi non fareste che affrettarle di poco una crisi vicina, inevitabile. Capirete che è questione assai delicata; io non posso dirvi: "Fate questo, fate quello", posso avvertirvi di un pericolo, ecco tutto; è a ciò che si limita il mio mandato. La vostra malattia attuale è cosa di cui guarirete in otto giorni; siete sano, e potete trionfarne, potete farvi robusto; ma i germi del male li avete già in voi, trascurateli, e non sarete piú in tempo. Vi ammalerete in piedi, vi consumerete senza avvedervene; alla vostra età, colla vostra costituzione, colla vostra indole, si muore in questo modo. Non avete nessun altro dispiacere?

— Nessun altro.

Stette un momento silenzioso, poi riprese:

— Pensateci, bisogna che scegliate fra la vostra vita e la sua; o voi o lei, questo è il dilemma, io mi limito a formularvelo.

Mi prescrisse alcune medicine, ed uscí dicendo sarebbe ritornato assai presto.

Passai tutto quel giorno in una profonda malinconia; v'era fuori un gran vento, piovigginava; io guardava le gocce di pioggia stillare giú per i vetri, e le ventole dei tetti girare da un lato e dall'altro cigolando. La notte era vicina, incominciava ad abbuiarsi, i mobili della mia stanza sparivano a poco a poco nell'oscurità; il rumore della via cessava, e sentiva da lontano certi rintocchi di campane che mi stringevano il cuore di tristezza. Io era tutto immerso nel pensiero dei miei affetti e dei miei dolori.

Ad un tratto intesi su per le scale un rumore di passi accelerati, poi un fruscio di abiti femminili, poi sentii aprirsi l'uscio con violenza, poi Fosca comparve come una visione nel fondo della stanza, corse verso di me, e si lasciò cadere inginocchiata vicino al mio letto.

— Tu soffri, tu sei malato, e per colpa mia! Oh mio Giorgio, o mio angelo, perdono, perdono!

Singhiozzava, e non poteva articolare altre parole.

— Fosca — io le dissi — che hai fatto? Alzati, alzati.

— No, finché non mi avrai perdonato.

— Ma io non ho nulla a perdonarti.

— Sí, dimmi che mi perdoni.

— Ti perdono.

— Oh grazie, grazie!

Si alzò a stento, e si abbandonò con le braccia distese attraverso il mio letto.

— Ieri ti ho tormentato, ti ho torturato con le mie insistenze, ho abusato troppo di te. Sí, sí, non dirmi che non è vero. Io lo so che tu sei malato per questo, io lo sento. Oh sono stata ben egoista, ben trista! Povero Giorgio! E tu non vuoi neppure dirmi che son io che ti ho fatto ammalare. Ma sapessi quanto ho sofferto anch'io stanotte! Dio, quanto ho sofferto! Io ignorava che tu eri malato; era in letto io pure, l'ho saputo adesso, mi sono subito sentita forte, mi sono alzata, sono fuggita. Povero angelo! povero angelo! Oh, io sono una insensata, una miserabile!

E stringeva colle mani e mordeva la coperta del letto piangendo.

— Calmati, Fosca, — io le dissi — tu lo sai, questa commozione potrebbe esserti fatale; se i tuoi accessi… se ciò succedesse qui… pensa…

— Oh no, no, è impossibile, io soffro troppo in questo momento; e poi io non mi appartengo piú, tutta la mia vita è in te, io non so piú di esistere. Ma guarirai, guarirai presto, non è vero? oh guarisci, guarisci!

Si alzò, buttò in un angolo il suo scialle, e prese a camminare per la stanza con passi rapidi. Afferrò l'estremità di un tappeto che copriva il tavolo, e lo gettò a terra assieme ad alcuni ninnoli che vi erano sopra. Guardò il cielo dalla finestra, si avvicinò ad una parete, vi appoggiò il capo, e rimase in quell'atteggiamento alcuni minuti. Io la guardava istupidito.

— Non voglio che soffra tu solo, — riprese riscuotendosi ad un tratto — no, no, non voglio.

Guardò intorno alla stanza, vide splendere sopra uno scrittoio la lama d'acciaio d'un tagliacarte, la prese e mi si avvicinò gridando:

— Feriscimi, feriscimi: dove è che soffri? nel petto, nel cuore? ebbene feriscimi qui, nel cuore, voglio anch'io la mia parte di dolori, sí, voglio soffrire anch'io.

Le afferrai la mano, e le tolsi la lama che gettai a terra.

— Per carità, — esclamai io — Fosca, non ti abbandonare a questi trasporti. Io non sto male, non ho nulla, siediti vicino a me, su questa sedia; se veramente mi ami, se ti è cara la mia vita, la mia felicità, non mi affliggere e non mi atterrire in questo modo.

Non disse nulla, e si sedette. La sentiva piangere e singhiozzare forte nell'oscurità.

— Accendi un lume — io le dissi.

— No, mi vedresti, avresti orrore di me. Io ti vedo lo stesso. Non ho bisogno di luce per vederti.

— Buon Dio! è forse la prima volta che ti vedo?

— È vero — diss'ella con tristezza.

— Ebbene, sarò io che voglio vederti — aggiunse per mitigare l'asprezza di quella risposta.

Si alzò, accese la lampada, e tornò a sedersi vicino al mio letto.

— Come sei pallido! Come sei bello! Ah, perché sei cosí pallido!

Stette un momento a guardarmi come rapita. Alzò gli occhi, e vide un vecchio Cristo di legno appeso alla parete.

— Tu credi? — mi chiese ella.

— Un poco.

— E preghi?

— Qualche volta.

— Vi fu un tempo in cui ho creduto anch'io, in cui ho pregato anch'io. Quando aveva quindici anni piangeva tutte le sere pregando. In collegio c'era un camerino dove andava a nascondermi per poter esser sola, e pregare ad alta voce senza essere sentita. Oh quell'età! quella fede! Ora è tutto finito. Sono tre anni che non prego piú; penso sovente al cielo, ma senza invocarlo. Due mesi or sono nei primi giorni che ti conobbi, in una notte che c'era stato un gran temporale, e non aveva potuto dormire, mi alzai e mi affacciai alla finestra. Aveva cessato di piovere, il cielo s'era rasserenato come per incanto e scintillava di miriadi di stelle, l'aria era fresca, imbalsamata, ricca di quel profumo acre che ha la terra bagnata; e allora mi ricordai con piú forza di Dio, e tesi le braccia al cielo quasi per chiedergli misericordia di me e della mia giovinezza infelice; ma fu indarno, io non sentiva piú la sua voce.

— Tu non puoi non credere, — io le dissi — la tua bontà è una fede, la tua virtú è una religione, i tuoi dolori sono una preghiera. Quanti onesti credono di essere atei perché sono infelici! La loro infelicità sembra volerli allontanare dal cielo, e non sanno di essere i piú credenti degli uomini! Può la bontà non essere credente?

— Ciò è vero — diss'ella. — Oh se potessi credere ancora! Ma per te crederò, sai, pregherò ancora per te. Sarò esaudita lo stesso. Stasera dirò le mie vecchie orazioni, le dirò sempre, tutti i giorni; domani andrò in una chiesa per pregarvi e per piangervi.

Mi fece passare una mano sotto il capo, volse il mio viso verso il suo; mi guardò, e mi sorrise cogli occhi bagnati di lacrime.

— Come sei bello cosí malato, — mi disse — se tu non soffrissi vorrei vederti sempre cosí. Farei patto di passare tutta la mia vita in questo modo, vicino al tuo letto a guardarti.

Mi arruffò i capelli con le mani, li fece cadere a ciocche da un lato e dall'altro del guanciale, si alzò, prese uno specchietto e mi disse:

— Guardati.

Io mi guardai e sorrisi. Baciò lo specchio, lo ripose, e tornò a sedersi.

— Ora — diss'ella — me ne andrò; mio cugino era uscito, e non sarà tornato ancora; se lo sapesse!… Ebbene, se lo sapesse!

— Ma che monta? — riprese crollando il capo e riabbracciandomi — io ti adoro, Giorgio, io ti adoro. Che m'importerebbe il perdere la mia pace, la mia fama, il rendermi anche ridicola, quando ciò fosse per te? Ove è il tuo male? Nella testa, nel cuore?

— Nell'uno e nell'altro, piú nel cuore.

— Anche il mio è lí. Mi sento una pena, un fuoco, una quantità di sangue… Ti parrà strano che io tanto consunta soffra di troppo sangue, e pure è cosí. Ieri mi sono sentita meglio, quelle graffiature mi avevano fatto bene. Dovresti levarmene un poco.

Si tolse uno spillone dalla cintura, me lo diede e mi disse:

— Forami una mano, forami.

— Ma è una follia! Che idea!

— No, no; — esclamò ella con impazienza — lo voglio, te ne prego, Giorgio!

Io allontanai il braccio, ella fu sollecita ad afferrarlo, a tirarlo verso di sé, e a percuotere la mano che aveva libera sullo spillo. Si ferí leggermente; una goccia di sangue cadde sul mio guanciale.

— Ora sono contenta, — disse ella, — mi fa male, mi abbrucia, sono contenta.

— Va', va'!, — le diss'io — è tardi.

— Sí, andrò, ritornerò domani; fuggirò ancora. Oh! per pietà, non soffrire, non esser triste; guarisci presto, guarisci presto.

Si abbassò a raccogliere lo scialle che aveva calpestato passeggiando. Guardò tutt'intorno alla stanza, guardò il mio letto, i miei mobili, e disse:

— Che pace vi è qui dentro! Che raccoglimento! Che religione! È qui che tu vivi, o mio Giorgio —. Si inginocchiò, e stette assorta un istante non so in quali pensieri; si calò il velo del cappello, si alzò, e mi disse con voce ferma e risoluta:

— Un solo bacio, uno solo, e partirò subito.

La baciai; attraverso il suo velo vidi lucere le sue lagrime.

Prese un lembo del mio lenzuolo e se lo avvicinò alle labbra; baciò anche un piccolo libro che v'era sul tavolino. Quando fu vicina all'uscio, tornò indietro, si fermò a piedi del mio letto, si appoggiò colle mani incrociate sulla spalliera, mi guardò un istante; poi uscí senza parlare.

All'indomani il dottore mi trovò assai peggiorato.

XXXVIII

Dodici giorni dopo io aveva già lasciato il letto, ma il medico mi aveva prescritto un riposo continuo. Non uscivo piú di casa, e Fosca veniva a vedermi ogni giorno. Aveva cominciato allora a nevicare, le giornate erano brevi e malinconiche, io passava le mie ore al caminetto, leggendo, fantasticando, rattizzando il fuoco, guardando i passeri posarsi tutti arruffati sulle gronde dei tetti, pensando a quell'inverno che aveva trascorso un anno prima nella mia patria, simile in tutto a questo, se non era che ora almeno viveva sotto il martello di un gran dolore.

I momenti che passava con Fosca erano i piú tristi di quelle mie giornate. Le sue contraddizioni non erano mai state sí frequenti e sí estreme, la mutabilità del suo carattere, se pure non era la sua malattia che la rendeva sí variabile, non si era mai rivelata sí pienamente come in quei giorni. Passava da un abbandono di dolore ad un abbandono di gioia, da un eccesso di pietà ad un eccesso di egoismo, repentinamente, senza causa, senza pensare e senza avvedersi del male che mi faceva. Ora che eravamo liberi, soli, sicuri di noi, quegli incontri potevano essere assai piú pericolosi. L'amore di Fosca non conosceva piú alcun ritegno, alcun limite. La sua virtú avrebbe avuto la forza di imporgliene? Era la domanda che io mi volgeva spesso rabbrividendo.

Perché, soltanto la mia freddezza, la mia avversione, la mia ripugnanza invincibile, inconcepibile, estrema, avevano avuto fino allora il potere di conservarci puri. Fosca aveva compreso la tacita eloquenza di quel contegno; il suo amor proprio le aveva imposto di non tradire la natura de' suoi desideri, ma era però ben facile l'indovinarla. E se adesso ella avesse potuto superare queste esigenze del suo amor proprio? se avesse osato… se la pietà mi avesse vinto?…

Era ben necessario che io mi fossi risolto a non vederla piú cosí da solo, a non vederla che raramente. Oltre ai pericoli di queste sue visite, oltre alla fissazione terribile che si era impadronita di me e di cui ho già parlato — che essa volesse trascinarmi con sé nella tomba — (e io la vedeva avvicinarvisi, deperire miseramente ogni giorno) m'era pure fisso in capo che lo spavento incussomi da que' suoi accessi nervosi, la vicinanza continua, il contatto, quel non so che di morboso che vi era in lei, avrebbero dovuto, o tardi o tosto, sviluppare in me la stessa malattia. V'erano momenti in cui sentiva salirmi tutto il sangue alla testa, provava un tremito violento in tutta la persona, sentiva un'oppressione terribile al petto, e non poteva sollevarmene liberamente che piangendo dirottamente, e gridando. Che era ciò? Avrei io ereditato da lei questo male? Sarebbe stato questo il premio che avrei ricevuto della mia pietà?

Cosí io proseguiva a vivere in tali angustie, non rassegnato, non apertamente intollerante, inerte; debole troppo per risolvermi a fuggire quella donna, troppo geloso della mia felicità per sapergliela sacrificare interamente.

XXXIX

Non so fino a quando avrei durato in quella irresolutezza, se la notizia di un piú grande pericolo non fosse venuta a salvarmi.

— Che cosa avete risolto di fare? — mi chiese una volta il medico.

— Lo sapete, nulla, non ho la forza di prendere alcuna risoluzione.

— E pure converrà che vi decidiate.

— A che?

— A ciò che vi parrà meglio. Io vi dirò ora piú esattamente quale è la vostra situazione, quale quella di lei. Voi saprete trovarvi il vostro tornaconto.

— Spiegatevi, la mia situazione?

— È assai piú triste di quanto non lo crediate. Suppongo che in questo amore vi sia stato finora nulla di colpevole, anzi ne sono certo.

— Nulla, nulla — io dissi.

— Non mi nasconderete però che avete incominciato a temere della sua virtú, non meno che della vostra debolezza.

— Mi pare anzi di avervene parlato.

— E a temerne molto.

— Moltissimo, le circostanze…

— Sí, sono le circostanze — riprese egli — che creano per ciascun di voi un pericolo di cui ignorate tutta l'estensione. Se io non ve n'ho parlato prima, è perché sapeva che ciò allora era inutile; la difficoltà di vedervi liberamente era una guarentigia della vostra virtú; per voi lo era la sua sola bruttezza. Allora io ne poteva esser sicuro — lo fui anche finché avete tenuto il letto — ma oggi è un'altra cosa. Conosco la sua malattia, giacché non si tratta che di una malattia, e so che ella potrebbe abusare della vostra accondiscendenza. Guardatevene. È necessario che io vi faccia una rivelazione.

— Voi mi tenete in grande ansietà.

— Sappiate che l'amore sarebbe fatale a quella donna; un errore l'ucciderebbe. La sua sensibilità è sí profonda, la sua irritabilità sí grande… non vi dirò altro, voi mi comprendete. Si tratta di un'infermità comunissima, ma fenomenale pel suo sviluppo, di un'infermità spaventevole.

— Mio Dio, — io dissi — ed ella sa ciò?

— Sí.

— In questo caso, ella stessa …

— Ebbene! Ella stessa potrebbe provocare questo pericolo. Voi la conoscete, badate che l'idea del sacrificio che ella sembrerebbe fare della sua vita, non esalti la vostra immaginazione fino a farvelo parere sublime. La sua vita sta per finire, ella lo sa; ella può scherzare con essa impunemente; ma riguardo a voi è altra cosa. D'altronde non ignorate che l'amore non sta nel cuore; non illudetevi, quella donna non sacrificherebbe la sua esistenza né a voi, né al vostro affetto, non la sacrificherebbe che alla sua felicità.

— Ella — proseguí il medico — era assai meno malata allorché vi conobbe. La vostra vicinanza, le vostre accondiscendenze le sono state fatali; d'ora in poi glie lo sarebbero sempre piú. Convincetevi di una cosa, ed è che voi l'uccidereste in ogni modo, o volendola rendere felice, o continuando a tollerarla come avete fatto finora. L'unica via che vi rimane è di abbandonarla.

— Ma come, — io dissi — come abbandonarla?

— Diamine! Immagino che non sarà poi impossibile — rispose egli sorridendo. — Via, abbiate animo. Vi volete rovinare cosí? Che credete! siete dimagrito spaventevolmente, avete addosso una febbriciatola che mi fa paura. Io non compiango quella donna meno di voi, io ammiro la vostra generosità e ve ne lodo; ma sacrificarvi in tal guisa è una stoltezza; i primi doveri sono quelli che avete verso di voi medesimo. Io vi farò ottenere una licenza col pretesto che la vostra malattia lo esige. Fra due giorni potrete partire. Vi terrò informato di tutto. Vedremo in appresso ciò che si potrà fare, prenderemo consiglio dagli avvenimenti. Acconsentite?

— Con tutta l'anima — io risposi.

E due giorni dopo andai ad accomiatarmi dal colonnello, cui dissi:

— Vengo a salutarvi in ufficio, perché non avrei piú tempo di venire stassera in vostra casa; è tardi e devo apparecchiare per la mia partenza; scusatemi presso vostra cugina, io partirò domani all'alba.

— Diavolo! — esclamò il colonnello — mi dispiace che ve ne andiate cosí per tempo; ma per altro lato… quando si tratta di lasciare un paese come questo, un paese di Tartari, di Pellirosse… capisco.

E mi strinse e mi scosse la mano con una ruvidezza piena di affetto.

Quanto mi faceva male ingannare quell'uomo!

XL

Quella notte non dormii; passai circa sei ore, assopito, sopra una seggiola a bracciuoli, vicino al focolare, coi piedi incrociati sul paracenere, pensando e fantasticando alla luce della fiamma del caminetto. Le idee piú dolci e le piú tristi si succedevano senza posa nel mio cervello, si urtavano, si mescevano senza lasciarmi un istante di pace. Agiva io umanamente nell'abbandonare Fosca in quel modo? Era leale, era onesto quel fuggire cosí da lei, quell'ingannarla in tal guisa? Era sovratutto prudente? Nulla di tutto ciò; né io poteva mettere in calma la mia coscienza, né almeno tenermi certo che questa risoluzione non avrebbe compromesso il nostro segreto. Se nell'apprendere questa notizia, ella avesse rivelato, ne' suoi accessi, le cause della mia fuga? Se suo cugino?… E poi, ella ne avrebbe certo sofferto, ne avrebbe sofferto orribilmente, avrebbe potuto morirne! Ad ogni modo, se pur nulla di ciò fosse avvenuto, io poteva essere almeno ben sicuro che quella donna mi avrebbe disprezzato, e giustamente. Questa supposizione era tuttavia la meno triste che io potessi fare.

Ma per altro lato quante considerazioni insorgevano a giustificarmi! La mia salute, i doveri che io aveva verso Clara, la mia avversione sempre crescente, l'impossibilità di dividermi da lei in un modo meno violento, quella specie di influenza decisiva che il medico aveva esercitato sopra la mia volontà, tutto ciò doveva pure aver peso in quell'apprezzamento rigoroso che io intendevo fare della mia condotta.

E poi, quali compensi! Sarei sfuggito alle persecuzioni di Fosca, non l'avrei veduta piú, avrei ricuperata la mia salute e la mia gaiezza, avrei riveduta Clara, avrei passato quaranta giorni vicino a lei. Quaranta giorni!

Ciò era piú che sufficiente a confortarmi di questi scrupoli e di questi timori. Il pensiero di riabbracciare Clara fu quello che mi tenne desto e immerso nelle mie fantasticherie fino al mattino. Ogni qualvolta l'immagine di Fosca veniva a collocarsi d'innanzi a me, quella di Clara insorgeva a frapporsi e a celarmela.

Mi riscossi al suono delle ore che scoccarono alla torre della piazza. Erano le sei, e conveniva partire. Il fuoco si era spento, io mi sentiva irrigidito e ingranchito da quel lungo rimanere sulla seggiola. Uscii da quella stanza con una specie di trepidazione affannosa, ma dolce: dappertutto, vicino al letto, sul divano, nelle inarcature delle finestre, in tutti gli angoli della camera mi pareva di veder Fosca guardarmi inesorabile e minacciosa.

Discesi sulla via, spirava un'aria gelata e tagliente; i fanali erano ancora accesi, incominciava ad aggiornare, il cielo era grigio e nuvoloso. Alcuni conduttori di vetture pubbliche dormivano con quel freddo, avvolti nei loro mantelli, sul cassetto delle carrozze. Ne riscossi uno, mi cacciai nella vettura, e mi feci condurre alla ferrovia. Vi giunsi un po' presto, ma non importava. Attesi una mezz'ora passeggiando per la sala, parlando e sorridendo con me stesso. Sopra uno stipite della porta rilessi le date delle gite che aveva fatto fino allora a Milano, e che aveva avuto cura di scrivervi tutte le volte colla matita. Erano cinque in tutto; vi aggiunsi quest'ultima: Giorgio e Clara, 19 dicembre 1863.

Queste date esistevano ancora quattro mesi or sono. Il tempo che ha distrutto i miei affetti, non ne aveva ancora cancellato le traccie. Uscendo dalla sala per entrare nella vettura, mi accorsi che aveva cominciato a piovigginare. Mi sedetti ad un'estremità del sedile presso la vetrata onde guardar la campagna che era tutta coperta di neve; i miei scrupoli erano svaniti interamente, e mi sentivo gaio e felice come un fanciullo. Fra sei ore sarei stato nelle braccia di Clara; stavamo per partire, allorché intesi aprirsi lo sportello ed entrare frettoloso un altro viaggiatore. Mi rivolsi, e rimasi fulminato: era Fosca.

Essa venne a sedersi vicino a me senza parlare. I suoi capelli erano scomposti, le sue fattezze orribilmente alterate, il pallore del suo volto cadaverico. Gli occhi di tutti i passeggeri si rivolsero verso di lei con aria mista di compassione, di spavento e di meraviglia. Io stesso non l'aveva mai veduta sotto un aspetto sí spaventoso. Se la sorpresa, se il terrore non mi avessero reso impossibile il pensarci tosto, sarei stato ancora in tempo a discendere con lei dalla vettura; ma non m'era balenata alla mente questa idea, che il convoglio era già partito. Io rinunzio a descrivere tutto lo strazio di quella situazione crudele. Ora il segreto della nostra intimità era scoperto; non solo, ma ella aveva abbandonata la sua casa per seguirmi. Se fino a quel giorno io aveva esperimentato la sua dolcezza, ora doveva esperimentare la sua collera: io leggevo ora ne' suoi occhi uno sdegno represso a forza, una fermezza di proposito che non avrei mai potuto supporre nel suo carattere; si era seduta vicino a me, ma non per altro che come per assicurarsi che non le sarei sfuggito. Non mi guardava, né pareva volermi chiedere alcuna spiegazione della mia condotta. D'altronde la sua voce era abitualmente sí debole, che il rumore delle ruote mi avrebbe impedito di sentirla.

Mi attenni all'unico rimedio che mi era possibile accettare in quel momento. Alla prima stazione che incontrammo, mi alzai e le dissi:

— Discendiamo, ci fermeremo qui, aspetteremo il primo convoglio che ritorni, parleremo.

Mi ubbidí senza rispondere.

Il paese dove ci eravamo fermati era un piccolo villaggio di poche case, e distava dieci minuti di strada dalla stazione. Il convoglio non sarebbe ripassato che fra sei ore, era necessario attendere in un luogo caldo e coperto; non v'erano carrozze, pioveva ancora, e bisognava percorrere a piedi quel tratto di cammino che ci separava dal paese.

Offersi il mio braccio a Fosca che lo accettò e vi si abbandonò come fosse stata sul punto di svenire. La copersi in parte del mio mantello. La via era tutta fango, tutta pozzanghere, e vi affondavamo fino alla caviglia; tutta la campagna era coperta di neve; stuoli innumerevoli di corvi stavano appollaiati sugli alberi; e saltellavano da un ramo all'altro senza discenderne. Noi camminavamo in silenzio; io stringeva il braccio di Fosca, e sentiva la sua persona tremare per l'emozione e pel freddo. Soltanto una grande fermezza di volontà poteva dare a lei quella forza.

Appena giunti al villaggio, vedemmo una casa sulla cui porta era dipinta una corona d'ellera, e nel mezzo di questa una bottiglia e un bicchiere riuniti da una larga pennellata di minio, che voleva figurare uno zampillo di vino, il quale pareva spicciare dal bicchiere e versarsi nella bottiglia che era piú piccola. Entrammo in quella bettola. Era una stanza a piano terreno, piena di carrettieri che vi stavano bestemmiando, bevendo e fumando in piedi, come fossero stati sulle mosse per partire. Alcune tavole nere, grasse, bisunte, erano disposte attorno alle pareti, e parevano trasudare olio; un odore ributtante di chiuso, di liquori, di fumo di cattivo tabacco ammorbava quell'atmosfera in modo da renderla irrespirabile. Intanto che quei carrettieri ci stavano guardando meravigliati, ed ammiccavano degli occhi fra loro — né io poteva non rimarcare il contrasto che il volto cadaverico di Fosca formava con quelle loro faccie rosse, piene, abbronzite — chiesi alla padrona della bettola, se si potesse avere una stanza appartata e accendervi fuoco.

— Non v'è altra stanza che questa, — diss'ella — ma per loro, signori, se vogliono… metterò a loro disposizione la mia.

Salimmo per una scala di legno in una camera vasta, munita d'un ampio camino, dove non tardò a brillare una gran fiamma. Offersi una sedia a Fosca che vi si lasciò cadere sfinita, ne presi un'altra per me, e mi sedetti di rimpetto a lei dall'altra parte del camino.

Eravamo soli, e poiché non era piú possibile evitare una spiegazione, credetti meglio affrettarla e provocarla io medesimo.

— Ecco, — io dissi — o Fosca, a che cosa ci hanno condotto le vostre follie!

Ella alzò gli occhi con lentezza, quasi con fatica; mi guardò e li riabbassò senza rispondere.

— Spero — io continuai — che mi direte quale scopo avete avuto nel seguirmi, quali sono i vostri progetti, quale il contegno che terrete verso vostro cugino, allorché gli sarà nota la vostra fuga, se pure non gli è già nota in questo istante.

— Qualunque sieno per essere le conseguenze di questa mia risoluzione — diss'ella con calma — voi non dovrete parteciparvi in alcuna maniera.

— Mi pare però che in questo stesso momento… Voi sapete che io ho una licenza di quaranta giorni, che andava a fruirne ora per riconquistare in parte quella salute che mi sono rovinato per voi, e che questa vostra imprudenza mi costringerà a rinunciarvi.

— Perché? Voi potete continuare il vostro viaggio; se in questo momento voi siete qui, e se io sono in vostra compagnia, è perché mi avete invitata a venirvi.

— Fosca, — io dissi con calore — spero che non vorrete spingere tant'oltre la vostra crudeltà, da irridere perfino alla mia delicatezza. Le ragioni che adducete non hanno maggiore logica di quelle di un fanciullo. Avete troppo spirito per non avvedervene.

— No, — rispose ella con asseveranza — no, siete in errore. Io sono ben risoluta a lasciarvi proseguire la vostra via, a non frappormi fra voi e la vostra felicità. Non ho saputo che nella notte di ieri la vostra risoluzione; era troppo tardi perché io potessi uscire di casa; sono venuta stamattina, ed eravate già partito; se vi avessi trovato, vi avrei fatto conoscere quali erano i miei progetti. Sono giunta ancora in tempo a vedervi e a seguirvi — a seguirvi senza parlarvi, senza chiedervi nulla, senza pretendere alcuna cosa da voi; immagino che non me ne contestereste il diritto. Ho con me del denaro, e vi terrò dietro ovunque andrete: nessuno m'impedirà di abitare la stessa città, la stessa casa, di non perdervi d'occhio un istante. Se non m'aveste invitata a discendere, vi avrei accompagnata come un'estranea, fino a Milano. In quanto a mio cugino, rassicuratevi, gli ho scritto di questo mio amore, gli ho confessato come io stessa vi ho legata a me colla mia insistenza, come avete dovuto sacrificarvi a questa passione e risolvervi ad abbandonarmi con un inganno. Gli ho detto che siete onesto, buono, leale, che il vostro maggior dolore era quello di tradire la sua fiducia (credo di aver indovinato un vostro sentimento); potete essere tranquillo su ciò.

— E credete cosí di avermi tolta tutta la responsabilità che mi hanno creata le vostre follie?

— È la seconda volta che usate questa parola "follie". Credeva che almeno del mio cuore non avreste mai potuto dubitare, che ne avreste rispettato il dolore.

— Ma che cosa pretendete da me?

— Nulla.

— Perché mi avete seguito?

— Ve l'ho detto.

— Ma io non vi amo, dovete pure avvedervene.

— Non importa, vi amo io.

— Non avete pensato a che cosa vi condurrà questa situazione?

— Non posso avere altro pensiero che il vostro.

— La vostra salute v'impedirà di seguirmi, non avrete forza di giungere fino a Milano.

— Ebbene, morrò per via.

— Voi credete con ciò di farvi amare, di farvi ammirare; la vostra vanità ha forse in questa risoluzione una parte maggiore che il vostro cuore; disingannatevi; la mia stima, il mio affetto non attingono alcuna forza da questa falsa costanza.

— Mi conoscete assai male — diss'ella. — Io non ho creduto al vostro amore quando asserivate d'amarmi; come potrei lusingarmi di accrescerlo adesso che mi sfuggite? Non ho voluto mai che illudermi. Sono io che vi ho amato, che vi amo, che voglio amarvi. È un impegno che ho contratto con la mia coscienza. Voglio che ci crediate, vi costringerò a crederci. Mi sono votata a voi, ho risolto di morire per voi. Aveva bisogno di uno scopo nella vita, l'ho trovato, lo raggiungerò. Non importa che non mi amiate, potete anche odiarmi, è tutt'uno; anzi preferirò il vostro odio alla vostra indifferenza: ciò di cui voglio assicurarmi è della vostra memoria; voglio costringervi a ricordarvi di me; quando vi avrò oppresso con tutto il peso della mia tenerezza, quando vi avrò seguito sempre e dappertutto come la vostra ombra, quando sarò morta per voi, allora non potrete piú dimenticarmi. Ecco perché vi ho seguito.

— Ma è una aberrazione — io dissi.

— Forse, ma non monta.

— Un'aberrazione inutile…

— Non credo, vi conosco.

— Per lo meno crudele.

— Sí.

— Sapete dunque che ne soffrirò?

— Sí.

— Come potete conciliare questi due sentimenti disparatissimi: l'amore che dite avere per me, e il desiderio di farmi soffrire?

— Non desidero di farvi soffrire. Io vorrei rendervi felice se lo potessi; ma il mio amore è troppo piú grande delle sofferenze che può cagionarvi.

— Non vi comprendo, tutto in voi è contraddizione.

— Sí, — esclamò ella con impeto — un'orribile, una spaventosa contraddizione.

Tacemmo entrambi per un istante.

— Avete però un mezzo — ripigliò ella con calma, e senza distogliere gli occhi dalla fiamma che stava affissando — per sottrarvi alle mie minacce.

— Quale?

— Uccidetemi.

— Uccidervi! Che insensatezza! Ma voi sapete che non s'uccide una persona impunemente, né senza motivi. Se mi aveste detto ciò a quindici anni, vi avrei trovato qualche cosa di nuovo, di romantico, di commovente, ma ora! E perché dovrei uccidervi? Perché non vi posso amare? Che colpa ne ho io se il mio cuore non può sentire nulla per voi?

— Il vostro cuore! — diss'ella — non appellatevi al vostro cuore. Conosco questa ipocrisia delle passioni, l'ho esperimentata. Il cuore non è l'amore. Se il mio volto fosse stato meno brutto, se io avessi potuto correggere le linee del mio naso, della mia bocca, della mia fronte, conseguire un poco della freschezza e della pinguedine dell'infima donna del volgo, voi stesso, voi mi avreste adorato. L'amicizia è bontà, ma l'amore non è che bellezza.

— Sia come volete — io dissi. — Doppia ragione perché dobbiate cessare di perseguitarmi sí crudelmente. Posso io impormi una simpatia che la natura vi ha negato i mezzi d'inspirarmi? Devo io subire le conseguenze di quello che vi ho fatalmente inspirato io? Che cosa poteva fare per voi oltre a ciò che ho fatto? Vi ho dedicato quattro mesi della mia gioventú, mi sono sacrificato intieramente ai vostri capricci, alle vostre pretese, ai vostri nervi. Ho avuto la forza di fingere un affetto che era ben lungi dal sentire, ho avuto la delicatezza di dissimularvi con tutti i ripieghi possibili la mia avversione. Ho resistito finché ho potuto; quando vidi che la mia salute n'era rovinata, e che non poteva liberarmi da voi che fuggendo, ho risolto, benché con ripugnanza, di giovarmi di questa astuzia. Un santo non avrebbe fatto altrimenti. Ed ora che cosa volete da me? Che cosa esigete di piú? Ho sentito un vivo interesse per voi, vi ho compianta, vi ho stimata. Mi obbligherete ora a parlarvi aspramente, a far tacere perfino la mia pietà? Siete sconoscente, siete ingrata, non avete cuore. Se mi amaste, mi lascereste in pace. Pretenderete adesso che io vi sacrifichi tutta la mia vita? È impossibile. Quattro mesi di tali tormenti sono un'eternità; un amore felice non potrebbe durare di piú. Voi lo sapete, voi non potete dissimularlo: io non posso amarvi, io non posso amarvi!

— Oh, tu mi amerai, — esclamò ella con voce terribile — tu mi amerai!

Si drizzò di tutta la persona, e mi guardò con aria risoluta e minacciosa. Io rimasi come istupidito dalla paura e dalla sorpresa. Era avvezzo a temere quella donna, e mi meravigliava e mi doleva dell'arditezza che aveva posto in quelle mie parole. Come aveva osato tanto? Comprendevo che ella agiva ora per uno di quegli impeti, di quei súbiti mutamenti che erano cosí facili nel suo carattere, e che sarebbe stato impossibile il continuare con lei una discussione seria e tranquilla.

— Fosca!… — le dissi con accento affettuoso, e mi sentii soverchiato da una súbita angoscia di cuore, e non potei dire di piú.

Ella si portò le mani alla fronte, se la premette fino a imprimervi le traccie delle dita, alzò gli occhi al cielo, e si contorse le mani gridando:

— Ah! io sono disperata, io sono disperata!

Guardò attorno alla stanza con aria atterrita, vide la finestra, esitò un istante, poi vi si avventò con impeto.

— Addio, Giorgio, addio! non mi rivedrai piú!

La raggiunsi prima che avesse potuto aprirla, la trascinai a forza vicino alla sua sedia. Singhiozzava affannosamente senza piangere. L'abbracciai, e me la strinsi al seno con tenerezza.

— Siedi, siedi, — io le dissi — non ti desolare cosí, farò tutto quello che vorrai. Tu tremi, sei pallida!

— Ho freddo.

La copersi col mio mantello, e rattizzai il fuoco.

— I tuoi piedi sono bagnati, i tuoi abiti inzuppati di pioggia; accostati alla fiamma, cosí. Datti pace, datti pace. Non sono cattivo, lo sai, non ti farò alcun male, ti ubbidirò, ma non mi spaventare co' tuoi impeti. Abbi anche tu compassione di me!

Tornai a sedermi, e mi celai il volto fra le mani, per nascondere le lacrime che la pietà di lei, che il dispetto della mia fortuna mi avevano richiamato sugli occhi.

Stemmo qualche momento senza parlare. Fosca si accorse che io piangeva.

— Tu piangi, — mi diss'ella — oh mio Dio!

Si lasciò cadere dalla sedia, e mi tese le braccia supplichevole.

— Non piangere, non piangere. Sono un'egoista, una miserabile. Lo so che ti rendo infelice, e non ho la forza di rinunciare a te, non lo posso, ecco la mia sciagura piú grande… Oh perdonami, perdonami! Se tu vedessi nell'anima mia! Se tu sapessi come ti amo, come mi sei necessario! Fa' tutto ciò che vuoi di me, sarò la tua serva, la tua schiava, ma non mi sfuggire, non mi abbandonare. Non potrei stare quaranta giorni senza vederti, sarebbe impossibile, morrei disperata. Ritorna, ritorna. Tu lo vedi. Io morirò assai presto, sento la morte dentro di me; ancora un istante e sarai libero. Tu sei giovane, tu sei bello, hai salute, hai talento, la vita ti sorride, il mondo è tuo, la felicità che ti attende è lunga; sacrificati ancora un momento per me; quando sarò morta, considererai questa sventura come un istante di amarezza nelle lunghe ore di gioia che avrai goduto, mi ricorderai forse con delle lacrime. Non mi parlare di doveri, di ragione, io non ho piú ragione, non ho piú coscienza di doveri; non esigere da me ciò che non è piú possibile ottenere; io ti amo, ecco tutto ciò che so dirti. Abbi carità. Ritornerai? Dimmi che ritornerai.

Si trascinò verso di me, e nascose il capo tra le mie ginocchia.

— Sí, — io le dissi — sí, torneremo assieme, ma domani dovrò pur ripartire, non posso fare a meno di recarmi per due giorni a Milano.

— Ah! — esclamò ella. — Ebbene, ebbene non importa. Non vorrò essere felice io sola. Avrò la forza di resistere. Ma non ti fermerai di piú, ritornerai? Promettimelo.

— Sí, — io dissi — te lo prometto.

— Giuralo.

— Lo giuro. Ma potrò poi rivederti in casa tua? Tuo cugino…

— Spero che non avrà veduto la mia lettera, che saprà nulla. Io l'ho lasciata sul mio tavolino da lavoro. Dacché non tengo piú il letto, egli non viene piú nella mia camera. Sai che non esce dall'ufficio che pel pranzo. Prima di quell'ora saremo già arrivati. La mia cameriera ne sa qualche cosa, è prevenuta, non dirà nulla. Checché avvenisse, vedrò oggi il medico, e lo pregherò di venirtene ad informare.

Ometto il resto di quel triste dialogo. Feci cercare una carrozza, e ricondussi Fosca alla stazione. Il freddo, la fatica, il dolore avevano talmente esaurito le sue forze, che dovetti quasi sollevarla sulle mie braccia per salire con essa le due predelline della vettura del convoglio. Quivi si sedette dirimpetto a me; volle tenere tutte e due le mie mani tra le sue, avvicinare il suo viso al mio, baciarmi di quando in quando come fossimo stati soli. Piú ella era sofferente, piú era affettuosa; lo spavento, l'agitazione, le lotte di quella mattina l'avevano sfinita; non aveva quasi piú coscienza della nostra situazione, e si abbandonava a me senza ritegno.

Chi eravamo noi? Quali rapporti correvano tra quei due esseri sí diversi? Quella donna sí mostruosa, sí spaventevole, sí malata, poteva essere l'amante di quell'uomo? Tali erano le domande che io leggeva negli sguardi attoniti dei nostri compagni di viaggio.

Mi ricorderò per tutta la vita di quel giorno!

Alla sera mi sentii un poco rassicurato nel ricevere questo biglietto del dottore:

"Ho saputo da lei quanto è successo oggi, e vi scrivo per incarico suo; state tranquillo, la cosa non ebbe alcuna conseguenza, suo cugino ignora tutto. Sento che intendete di ripartire domani, e che avete promesso ritornare fra due giorni. Verrò domattina a parlarvi e a consigliarvi in proposito".

Ma quali altri consigli poteva egli darmi in quel caso?

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Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 00:36