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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

FOSCA

Di: Iginio Ugo Tarchetti

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XXI

Aggiungo qui la lettera che diressi in quella notte a Fosca:

"Vi scrivo appena arrivato qui. Siete il mio primo pensiero, benché il piú doloroso. Vi scrivo col cuore lacerato. Se il sagrifizio di dieci anni della mia vita potesse evitare a me il dolore di mandarvi questa lettera, e a voi quello di riceverla, vi giuro che accetterei questo rimedio con gioia. Procurate di ascoltare con calma quello che sto per dirvi.

Io non posso amarvi perché il mio cuore non è piú mio; non posso ingannarvi perché né io ne sono capace, né voi lo meritate. Il rispetto che ho per voi è piú potente della pietà che mi domandate, e mi impone di essere sincero. Un inganno vi umilierebbe, umilierebbe me stesso. Io amo perdutamente, io sono perdutamente riamato. Se aggiungessi parole a descrivere la mia felicità, apparirei troppo crudele verso di voi; nondimeno è necessario che vi facciate un’idea dell’intensità del mio amore per averne una dell’imponenza de’ miei doveri. Sappiate soltanto che il mio amore non ha, come il suo, né limite, né nome, né esempio; giudicate di ciò che io debbo a lei, di ciò che ella deve a me, di ciò che noi dobbiamo al nostro affetto e a noi stessi.

Prima di confessarmi il vostro amore, mi avevate richiesto della mia amicizia; ora che io debbo respingere questo secondo legame, reclamerete ancora i diritti di quella prima offerta? Credete che la pura amicizia non è possibile tra noi, come non lo è mai tra un uomo e una donna giovani. Essa non farebbe che rendere la nostra posizione piú imbarazzante, piú equivoca, piú pericolosa. È necessario che noi ci separiamo interamente. Consideriamo la nostra conoscenza come una sventura; tentiamo di sopportarla con forza, e di rimediarvi con coraggio.

Voi avete avuto marito, mi diceste; voi sapete dunque che cosa è un dovere, lasciate che io lo compia. Voi sapete anche che cosa è la felicità, lasciate che provi anch’io ad essere felice — non lo sono mai stato!

La ragione vi offre un mezzo assai facile per riconciliarvi col mio rifiuto. Supponete che la donna che io amo foste voi, come giudichereste il mio abbandono? Una viltà, una bassezza, un delitto. Mi disprezzereste. Ora, dareste voi il vostro amore ad un uomo cui aveste dato il vostro disprezzo? La necessità della nostra separazione è evidente, altrettanto che inesorabile.

Comprenderete che se ho insistito per avere un vostro indirizzo e per scrivervi, era allo scopo di farvi conoscere il piú presto possibile questi miei sentimenti e di sottrarmi ad una situazione piena di pericoli. Se questa mia promessa ha creato in voi delle illusioni che ho dovuto togliervi, perdonatemi, perché non avrei potuto fare altrimenti.

Sentite, — e chiamo il cielo in testimonio della veracità delle mie parole — se il mio cuore fosse stato libero, non vi avrei forse amata di tutto il mio amore, perché credo che la natura non abbia posto delle leggi di simpatia assai tenaci tra noi, ma vi avrei nondimeno amata. Il vostro cuore e il vostro talento mi vi avrebbero resa assai cara, piú ancora le vostre sventure. Avrei accettato con gioia il mandato di proteggervi e di confortare la vostra esistenza di qualche piacere. Ora è troppo tardi; io non appartengo piú a me stesso. Debbo essere crudele per essere giusto; e voi non potete disconoscerlo.

Siete anzi voi che mi dovete secondare in un’opera cosí difficile. È necessario che io conservi la mia stima, voi la vostra pace, ella le sue illusioni. Faccio appello alla vostra generosità, al vostro cuore. Non vi è miglior mezzo di guarire dell’amore, che amando. Non mi dovete odiare, perché non l’ho meritato. Il bene chiama il bene: stimandomi, avrete cara la mia stima, e vi adoprererete a meritarla.

Io non posso cessare di frequentare la vostra casa, lo sapete; la mia lontananza creerebbe dei sospetti pericolosi alla vostra tranquillità. Fate che io non vi debba essere motivo di afflizioni, che possa vedervi con sicurezza, e stringervi la mano senza timore. Ogni altro rapporto tra noi è impossibile.

Se questa lettera vi pare fredda, è segno che sono riuscito a nascondervi il dolore che mi lacera il cuore. Si è ingrati di tutto al mondo, mai però di un affetto, perché è il solo beneficio che non ci umilia, e che lusinga la nostra vanità. Potete dunque calcolare sulla mia gratitudine.

Voi avete pronunciato nel lasciarmi delle parole che mi hanno fatto piangere perché mi hanno fatto conoscere il vostro cuore. Lasciate che io le ripeta ora per voi: Siate benedetta, siate benedetta!".

Uscii io stesso dopo la mezzanotte ad impostare quella lettera. Sentiva che era stato ben crudele nella mia stessa pietà. Affrettarmi tanto a disingannarla!… I sentimenti che aveva espressi in quelle pagine erano sinceri, ma io li aveva attinti dal mio egoismo piú che dalla mia compassione.

Ciò che mi stava a cuore era la mia felicità, era togliere di mezzo quell’ostacolo che ne aveva minacciate le dolcezze.

Non so se la felicità abbia potere di renderci egoisti, o se l’egoismo sia una condizione assoluta della felicità. Ma come mi sentiva mutato dacché era felice!

XXII

Vorrei aggiungere qui alcune altre pagine del mio giornale, su cui ho voluto ricordare le gioie del mio primo incontro con Clara.

Ma perché ritornare su quella parte del mio passato? Esso è sepolto assai profondamente. E poi, io non amo piú quelle gioie, io le odio. Sono esse che mi hanno ingannato sulla natura e sui fini della vita. Una vita tutta di dolori mi avrebbe conservato pio, severo, inflessibile; avrebbe almeno riempiuto d’orgoglio questo cuore, che ora è ripieno di nulla. Quelle gioie ne hanno invece oscurate le virtú, perché un’esistenza virtuosa non può essere altro che una serie di sacrifici non interrotta. Le dolcezze del mondo sono bandite da una vita veramente utile, e veramente benefica. Gli alberi che dànno frutti hanno fiori modesti e spesso inodori; i grandi fiori, quelli ricchi di petali e di profumi, non sbocciano quasi mai che sulle piante sterili e velenose.

La virtú non ha fiori, ma ha frutti.

XXIII

La felicità di cui aveva goduto in quei tre giorni aveva infuso in me — ordinariamente sí timido — un poco di quella baldanza, di quella fiducia di se stessi che hanno tutti gli uomini prosperi. Sapevo che all’indomani del mio arrivo non avrei potuto evitare di trovarmi solo con Fosca, e me le presentai con coraggio.

Adesso non so dire come ella fosse mutata, ma allora lo comprendeva. Il pallore e la magrezza del suo volto erano già tali che parevano non poter aumentare, pure in quel giorno mi colpirono piú vivamente del solito. Gli occhi — la sola beltà di quel viso — erano come arrossati dal piangere e dal vegliare, e un cerchio orribilmente livido pareva ingrandirne le orbite. Le labbra quasi pavonazze aggiungevano qualche cosa di spaventevole alla sua fisionomia. Del resto non v’era alcun disordine nel suo acconciamento, che era come sempre elegante e accurato. Le sue fattezze erano riposate, e quasi sorridenti.

— Ho ricevuto la vostra lettera, e vi ringrazio — mi disse ella con calma.

E porgendomi la destra, aggiunse:

— Spero che mi sarà almeno lecito di stringervi la mano.

— Diamine! Non abbiamo cessato di essere amici, e poi…

— Oh, — interruppe ella sorridendo — voi vi dimenticate già di ciò che mi avete scritto: "Credete che la pura amicizia non è possibile tra noi…"

— Allora si trattava d’altra cosa. Ora… Io intendo l’amicizia nel senso convenzionale della parola; un legame che non ha diritto ad alcuna intimità, e si limita a pochi rapporti superficiali.

— In questo senso, va bene.

— Accettereste dunque sinceramente questa specie di amicizia?

— Sinceramente.

— Grazie!

— Sempreché — riprese ella dopo qualche momento — non aveste a mutar consiglio da oggi a domani, e ad evitare di trovarvi solo con me, come avete fatto dopo il nostro primo abboccamento. Anche allora mi avevate fatto una promessa simile a questa.

— Era un’altra questione — io dissi. — Comprenderete che io prevedeva allora ciò che è successo, e che quel contegno non aveva altro scopo che di evitarlo.

— Voi non sapete come ne sono mortificata.

— Di che?

— Di ciò che è successo.

— Perché? Non ne è il caso. La vostra simpatia mi onora, e la vostra sensibilità non forma che l’elogio del vostro cuore.

— Quanto siete indulgente! — diss’ella con un sorriso pieno di ironia.

Era disgustato di quella freddezza. Comprendeva che essa voleva mostrarsi indifferente al mio rifiuto, e che il suo amor proprio umiliato gliene dava tutti i diritti; pure, mi faceva pena il vederla irridere a quell’affetto che aveva creduto sí serio e sí veemente.

— Vi siete divertito a Milano?

— Assai.

E lo dissi apposta con enfasi.

— Confessate che quella donna, lei… la mia rivale, — riprese essa marcando queste parole con un sorriso, — abita a Milano, e che vi siete andato per rivederla.

— Era facile indovinarlo. Non è cosa che indichi in voi una penetrazione molto profonda.

— Sono sí ingenua sul conto vostro! E vi ritornerete?

— Prestissimo.

— Se ne avrete licenza.

— S’intende.

— Ah! ah! — esclamò ella sorridendo — dirò io una parola a mio cugino. Dipenderà tutto da lui. Scommetto che avrete bisogno della opera mia.

— Signora! — io dissi vivacemente — non comprendo le intenzioni che vi consigliano a farmi questa offerta, e mi astengo dal rispondervi.

— Rifiutereste perfino la mia mediazione?

— Non vi avrei creduta capace di offrirmela!

— Siete geloso della mia dignità! Ciò mi piace. Ma avrei fatto volontieri una bassezza per voi. Che volete? È un capriccio. Amate molto quella donna?

— Ve l’ho detto, alla follia.

— È bella?

— Un angelo.

— È buona?

— Un angelo.

— Perché non la sposate?

— Ha marito.

— Ah! E la stimate?

— La stima è una condizione dell’amore.

— Non è vero, ma non importa. Vi renderà dunque molto felice?

— Tanto che temo morirne.

— Sono contenta — diss’ella.

Tacemmo per qualche istante tutti e due. Essa lacerava colle dita l’estremità di un fazzolettino di garza che s’era annodato al collo, e guardava fisso a terra senza batter palpebra.

— Sentite, — le dissi io dopo qualche momento — io soglio porre in tutte le mie azioni una franchezza con cui mi vanto di non aver mai avuto la debolezza di transigere. Questo dialogo pieno di ironia mi umilia, questo ferirsi scambievolmente non è né leale, né onesto, soprattutto è indegno di noi. La nostra situazione è ora ben definita. È necessario che non torniamo piú su questo argomento.

— È ciò che io desiderava.

— Ne sono felice. Spero che non avremo piú motivo di parlare di noi.

— Potete anche sperare che non ci vedremo piú.

— Sia, — diss’io esitando — sarebbe affliggente, ma utile.

Ella si alzò, s’inchinò freddamente, ed uscí senza guardarmi.

Non l’avrei io realmente piú veduta? Ne dubitava.

XXIV

Però, ripensandoci, era lieto di queste spiegazioni. Esse mi davano almeno il diritto di dimenticarla, e mi scioglievano da quel debito di pietà che mi pareva aver contratto verso di lei. Buona, mite, soffrente, l’avrei avuta cara e compianta; fredda, ironica, sprezzante, non avrei piú sentito per essa che dell’indifferenza. Ciò che mi teneva in pensiero era l’impossibilità di darmi ragione della mutabilità del suo contegno, dell’incoerenza della sua condotta. Per quanto mi arrovellassi non poteva comprendere la natura di quel carattere, non riusciva a metterlo bene in luce. Fino a quel momento era stato incerto tra l’ammirazione e il disprezzo — gli estremi della sua condotta esigevano apprezzamenti estremi — dopo quel dialogo, freddo, caustico, artificioso, non sentiva nemmeno piú il bisogno di giudicarla — essa mi era perfettamente indifferente.

Perciò alla sera, quando mi fu detto che ella era ammalata, ascoltai quella notizia con freddezza, e l’abitudine di non vederla piú per molti giorni fu causa che me ne dimenticassi interamente.

Avrebbe ella serbato la sua promessa? Incominciava a crederlo. A tavola non si apparecchiava nemmeno piú per lei, e nessuno ne riparlava. Il suo posto era stato occupato da un nuovo commensale. Ella era andata ad abitare un altro appartamento lontano dalla sala da pranzo; e siccome non vedevamo piú, come prima, entrarne ed uscirne i medici e le cameriere, non v’era piú nulla che potesse richiamarla al nostro pensiero, e ciascuno di noi se ne era facilmente dimenticato.

Confesso qui di aver nutrito per essa un sentimento che mi sono rimproverato assai spesso. Io odiava quasi quella donna. Allora ne attribuiva la cagione a ciò, che mi pareva che ella avesse voluto farsi giuoco della mia sensibilità; piú tardi compresi che le cause ne erano differenti. Vi è nulla di piú ridicolo di una emozione non divisa. Nulla è piú atto a renderci inamabile una persona che non possiamo amare che il vederla usare a nostro riguardo i modi e il linguaggio di un amore appassionato. La nostra ripugnanza cresce in proporzione dello zelo che ella pone a superarla. Nessuna legge in natura è piú inesorabile di quelle che reggono le simpatie e le antipatie. Non è vero che l’amore sia una questione di sentimenti, esso non è che una questione di nervi, di fluidi, di armonie animali: l’identità dei caratteri, la stima lo fortificano, non lo creano. Noi siamo spesso ingannati da queste cause apparenti, perché l’identità del carattere non è che un effetto dell’identità della costituzione.

Chi non vorrebbe dare all’amore un’origine piú spirituale e piú nobile? Ma non è possibile! Bensí egli può essere un impulso ad azioni nobili. L’amicizia gli è superiore, perché non è esclusiva. Io, come qualunque altro uomo, fui qualche volta preferito da donne giovani e avvenenti che non ho potuto riamare, nemmeno d’amor fisico; aveva ripugnanza per ciò che avrebbe formato l’altrui felicità, e ne soffriva. Avrei potuto strapparmi il cuore, ma non avrei potuto sentir nulla per esse.

Cosí era di Fosca — se non che la sua bruttezza la poneva anche fuori di questa legge.

XXV

Un giorno — ne erano trascorsi piú di venti dacché l’aveva veduta l’ultima volta — suo cugino non comparve a tavola — tutta la casa era in disordine e i camerieri ci avvertirono che Fosca, peggiorata improvvisamente, si trovava in pericolo di vita; ci fossimo perciò accontentati di un pranzo improvvisato alla meglio.

Quella notizia mi giungeva cosí inattesa, e mi trovava cosí disarmato da quella lunga dimenticanza, che mi sentii colto da un súbito terrore, quasi avessi dovuto essere io la causa della sua morte. La mia debolezza mi induceva a credermi colpevole, e mi creava dei rimorsi che non avrei dovuto sentire.

Sarebbe ella morta per me? Questo pensiero mi trapassava il cuore come una lama di coltello.

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Ultimo Aggiornamento: 17/07/05 00:43