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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

FOSCA

Di: Iginio Ugo Tarchetti

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Commetto io un’indiscrezione nel pubblicare queste memorie? Credo di no; né una titubanza piú lunga, giustificherebbe ad ogni modo la mia colpa. Colui che le ha scritte è ora troppo indifferente alle cose del mondo, troppo sicuro di sé, perché abbia a godere dell’elogio o a soffrire del biasimo che può derivargliene. Egli sa per quale strana combinazione questo manoscritto è venuto in mio potere, né ignora il disegno che io aveva concepito di publicarlo. Gli basterà che io vi abbia tolte quelle indicazioni che potevano compromettere la fama di persone ancora viventi, e che il segreto della sua vita attuale sia stato rispettato.

Se l’autore di queste pagine può ancora trovare nella solitudine e nell’egoismo in cui si è rifuggito, qualche parte di ciò che egli fu un tempo, non gli farà forse discaro che altri abbiano a versare, nel leggere queste memorie, quelle lacrime che egli ha certo versato nello scriverle.

Milano, 21 gennaio 1869

I

Mi sono accinto piú volte a scrivere queste mie memorie, e uno strano sentimento misto di terrore e di angoscia mi ha distolto sempre dal farlo. Una profonda sfiducia si è impadronita di me. Temo immiserire il valore e l’aspetto delle mie passioni, tentando di manifestarle; temo obbliarle tacendole. Perché ella è cosa quasi agevole il dire ciò che hanno sentito gli altri — l’eco delle altrui sensazioni si ripercuote nel nostro cuore senza turbarlo — ma dire ciò che abbiamo sentito noi, i nostri affetti, le nostre febbri, i nostri dolori, è compito troppo superiore alla potenza della parola. Noi sentiamo di non poter essere nel vero.

Ho pensato spesso con gioia alla rovina che il tempo va facendo alle mie memorie; piú spesso vi ho pensato con dolore. Dimenticare! È uccidersi, è rinunciare a quell’unico bene che possediamo realmente e impreteribilmente, al passato. Ché se si potessero dimenticare soltanto le gioie, forse l’oblio potrebbe essere giustamente desiderato; ma dei nostri dolori noi siamo superbi e gelosi, noi li amiamo, noi li vogliamo ricordare. Sono essi che compongono la corona della vita.

Il passato è la misura del tempo che abbiamo percorso, la misura di quello che ci rimane a percorrere. Perciò noi lo teniamo caro, perché ci fa fede dell’accorciarsi progressivo dell’esistenza. Un’avidità febbrile di morire affatica inconsciamente gli uomini. Chi vorrebbe tornare indietro un’ora, un minuto, un istante nella sua vita? Nessuno; e pure si ama, e si rimpiange questo passato che si ha orrore di rinnovare.

Scrivere ciò che abbiamo sofferto e goduto, è dare alle nostre memorie la durata della nostra esistenza. Scrivere per noi per rileggere, per ricordare in segreto, per piangere in segreto. Ecco perché scrivo.

Vi fu un tempo in cui avrei voluto fare un libro delle cose che sto per raccontare: un’inclinazione che i casi della mia vita avevano combattuto per tanti anni, ma né dominata né vinta, mi aveva trabalzato già tardi, già vecchio d’ingegno e di cuore, nel mondo della publicità e delle lettere. Io non vi aveva potuto portare che le memorie di una gioventú ricca di molte passioni, di una vita lungamente e orribilmente angosciata. Ove l’arte avesse trovato in me valore pari alla grandezza del soggetto, il racconto che mi accingeva a scrivere mi avrebbe forse procurato un successo clamoroso. Nondimeno me ne astenni. Gettare nel fango della publicità il segreto de’ miei dolori, sacrificarlo alle vuote soddisfazioni della fama sarebbe stata debolezza indegna del mio passato. Io scrivo ora per me medesimo. Non avrei mai osato violare la sola religione che è sopravvissuta alla rovina della mia fede, la religione delle mie memorie.

Su questo vecchio quaderno su cui ho tentato già tante volte d’incominciare il mio racconto, vi sono molte cancellature che non posso piú decifrare. Temo che il tempo abbia pure cancellate dalla mia anima non poche delle sue rimembranze.

Questi fogli su cui la mia anima si è arrestata tante volte, trattenuta da un terrore che non poteva vincere, mi accompagnano già da cinque anni nelle mie faticose peregrinazioni. Sulla maggior parte di essi vi è scritto nulla; pure sembra che il mio pensiero vi abbia tracciato delle cifre misteriose e solenni, tanto vi ho meditato sopra, guardandoli. E li svolgo nell’ansietà di leggerli, e osservo con melanconia i piccoli acari della carta che fuggono lungo le loro pieghe ingiallite.

Sí, sono oramai cinque anni! Le cause del mio terrore non hanno cessato di esistere, perché il mio cuore non è di quelli che dimenticano, ma, comunque sia, questo terrore è dissipato. Mi sento ora il coraggio di ricordare e di scrivere. Ora che tutto deve essere finito!

Mi guardo spesso d’intorno come fossi rimasto solo nel mondo, come se le illusioni che mi avevano accompagnato sin qui fossero state cose vive e sensibili, come dovessi rivederle al mio fianco. Era venuto innanzi solo nella vita, e non mi era accorto mai di esser solo. Ma ora! Ho provato la solitudine della società, e l’ho spesso cercata con ardore, l’ho cercata anzi sempre; quella è nulla. È la solitudine delle passioni che è orribile!

Non so se gli altri uomini abbiano seguito un passaggio cosí rapido e cosí violento come il mio, dal periodo della fede a quello della disperanza; se sieno passati ad un tratto dalla vita operosa della gioventú, alla vita inerte e sconsolata della vecchiezza. Credo nondimeno che molti vi sieno entrati con calma, quelli che amarono serenamente e con calma.

Io era nato con passioni eccezionali. Io non avrei mai saputo né amare né odiare a metà; non avrei potuto abbassare i miei affetti fino al livello di quelli degli altri uomini. La natura mi aveva reso ribelle alle misure comuni e alle leggi comuni. Era dunque giusto che anche le mie passioni avessero cause, modi, svolgimenti, fini eccezionali.

Ho avuto due grandi amori, due amori diversamente sentiti, ma ugualmente fatali e formidabili. È con essi che si è estinta la mia gioventú; è per essi.

Scrivendo queste pagine, io non ho altro scopo che di interrogare le mie memorie ancora una volta per non doverle interrogare mai piú. Io innalzo questo monumento sulle ceneri del mio passato, come si compone una lapide sul sepolcro di un essere adorato e perduto.

Ho presa una grande risoluzione.

Prima di ritirarmi dal mondo, prima di isolarmi in mezzo alla folla — isolamento assai piú penoso che nelle vaste solitudini della natura — ho voluto ricordare ancora una volta, ricordare con pienezza e con fede. Io sono ora in pace con me stesso. Le agitazioni profonde della mia anima, le irrequietezze febbrili della mia mente sono cessate. Io ne comprendo ora le cause. Molti uomini non si trovano bene colla vita perché non hanno ancora scoperto il loro punto d’equilibrio.

Il difficile è trovare il centro della propria anima!

Non scriverò che di un solo di questi amori. Non parlerò dell’altro che pel contrasto spaventoso che ha formato col primo. Quello non è stato che un amore felice. Raccontarlo, sarebbe lo stesso che ripetere la storia di tutti gli affetti, e non v’è creatura che abbia amato sí poco da non conoscerla. O si abbandona, o si è abbandonati — spesso desiderosi, spesso contenti dell’abbandono. Tal cosa è il cuore umano.

Piú che l’analisi di un affetto, piú che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia.- Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito. Non so se vi siano al mondo altri uomini che abbiano superato una prova come quella, e nelle circostanze in cui io l’ho superata; non so se vi sarebbero sopravvissuti.

Esprimo questo dubbio, perché mi avvenne spesso di chiedere a me medesimo: "come, in che guisa vi sono io sopravvissuto?"

Sento nondimeno che qualche cosa si è guastato nella mia testa: io non ho piú cognizione di tempo, non ho piú ordine nelle mie idee, non ho piú lucidità nelle mie memorie. Questi cinque anni sono passati come un istante e come un’eternità, inosservati, oscuri, senza suddivisioni di giorni e di epoche. Quelle feste, quegli anniversari che formavano le gioie piú pure della mia vita quand’era fanciullo, sono essi ritornati ogni anno? E come non li ho avvertiti? Cosa ho fatto in questo lungo spazio di tempo? Perché non ho piú amato?…

Non so piú pensare, non so piú fermarmi lungamente sopra un’idea, non vedo piú le linee che separano il vero dal paradossale. Tutto mi sembra ora logico, naturale, possibile. Tutti i miei pensieri si urtano, si confondono, si perdono in un vortice che turbina incessantemente nella mia testa. È là che tutto va a finire. Sento che la coscienza di me si è confusa. Quando avrò scritto la storia di questo amore, dovrei scrivere ancora quella dei cinque anni che vi sono succeduti; sarebbe una storia terribile. Dovrei scriverne un’altra piú terribile ancora; sarebbe la storia delle mie visioni, il racconto dei sogni che hanno popolato le mie notti durante quel tempo.

Radunerò qui i documenti, le lettere, le note che ho conservato. Ricostruirò questo edificio colle sue stesse rovine.

Ora sono ben calmo e tranquillo; ora che ho incominciato a non diffidare piú di me medesimo. La mia indifferenza mi assicura che le sorgenti del mio entusiasmo sono esaurite. Una cosa mi conforta e mi inorgoglisce, il sentimento della mia freddezza— perché il mio cuore è freddo, terribilmente freddo.

Spero e pur temo dimenticare. Una notte triste ed oscura ha incominciato a distendersi sul mio passato.

Le onde che la virtú del sole aveva sollevate e convertite in belle nubi d’oro, ricadono in pioggia attraversando le fredde latitudini dell’aria, ricadono come lagrime della natura.

Quando il fuoco della gioventú si è spento, svanisce a poco a poco anche il tepore delle ceneri; esse rimangono là ad attestare dove la fiamma ha un giorno avvampato, fino a che il soffio gelato del tempo non viene anch’esso a disperderle.

II

Sarebbe inutile riandare sugli anni che hanno preceduto gli avvenimenti che sto per raccontare. Io non voglio afferrare che un punto della mia vita, non voglio metterne in luce che un istante. Chi oserebbe affacciarsi allo spettacolo intero della sua esistenza, spiare nelle sue pieghe tenebrose, e ritesserne tutta la storia?

La mia gioventú trascorse piena, ricca, feconda. La fortuna, a dir vero, non m’era stata assai prodiga de’ suoi favori; ma che cale alla gioventú della fortuna? Quella è l’età della forza, del coraggio, della baldanza; è allora che si raccolgono a piene mani i frutti che maturano nel giardino della vita, che si accosta alle labbra la coppa inebriante della felicità; a quell’età si fruisce di un bene che non si conosce e non si esperimenta mai piú nell’avvenire, mai piú- la mite e affettuosa indulgenza degli uomini.

Non ho mai potuto indovinare se la mia natura fosse piuttosto incompleta che esuberante; ma in qualunque modo, egli era ben certo che io mi innalzava sul livello delle nature comuni. La ripugnanza che ho sentito, e che sento ancora per tutto ciò che è convenzionale, per tutto ciò che è metodico, non proveniva già dalla mia educazione, ma da una disposizione speciale del mio carattere. Non mi importava di essere da piú o da meno degli altri uomini, mi bastava di esserne diverso.

In tutta la mia vita ho operato come ho pensato — convulsivamente. Dicono che i leoni si trovano in uno stato di febbre continuo. Ignoro quale medico abbia potuto accertarsi di questo fenomeno, come avrebbe fatto al capezzale di un infermo; ma sia ciò vero o non vero, sia la mia natura debole o forte, non vi è dubbio che io ho provato sempre una specie di agitazione febbrile e convulsa simile a quella.

Io mi sono divorato la vita. Io non potrei misurare la mia età colla stregua ordinaria del tempo.

Aveva ventotto anni allorché successero gli avvenimenti che sto per raccontare. La rivoluzione mi aveva trascinato già da tempo nelle sue file, quasi mio malgrado. Deviato da’ miei studi, combattuto nelle mie inclinazioni, mi era indotto a rimanere nell’esercito ove aveva ottenuto grado di ufficiale. Io vi militava da cinque anni, allorché colpito da una grave malattia di cuore dovetti chiedere una lunga licenza, e ritirarmi nel mio villaggio natale. Gravi rovesci di fortuna mi avevano impedito di camparmi la vita in altro modo che coll’essere inscritto nei ruoli di un reggimento, e far pompa del mio costume di capitano. E dico ciò perché allora la guerra era cessata, e mi vergognava spesso di quell’inazione ricompensata sí largamente. Io riscuoteva un lauto assegnamento sulle casse dello Stato.

Non parlerò adesso dei dolori che avevano provocata quella mia malattia. Essi appartengono ad un’altra epoca della mia vita; furono il frutto di una passione che, ove non mi fosse inspirata dal piú nobile dei sentimenti, avrebbe coperto di onta il mio passato. Nondimeno quei dolori furono enormi, e se non ebbero il potere di uccidermi, è perché tal potere è spesso negato al dolore.

In capo ad un anno aveva richiesta l’attività, non già che la mia salute fosse migliorata, ma perché mi sarebbe stato impossibile rimanere piú a lungo nel mio paese natale. Quella vita di solitudine e di meditazione avrebbe finito coll’uccidermi. Chi ha vissuto un tempo nelle grandi città non può piú adattarsi alla vita dei villaggi; non può impicciolire le sue vedute, le sue idee, le sue abitudini fino alle proporzioni meschine, e spesso ridicole, che dà alle proprie la gente delle campagne. Io ho considerato sempre i piccoli villaggi come centri d’ignoranza, di barbarie, spesso anche di corruzione. Sono essi, a mio credere, che arrestano il corso della civiltà, che si pongono tra le ruote del suo carro. Se tutti i punti abitati della terra fossero Londra, Pietroburgo, Parigi, Roma, Berlino, il quesito la cui soluzione affatica da secoli l’umanità sarebbe risolto all’istante.

Né la monotonia di quella vita era il meno doloroso de’ miei tormenti. Io conosceva tutte le vie di quel paese, tutte le case, tutti gli abitanti — viuzze strette e fangose, catapecchie anguste e miserabili, contadini rozzi e cocciuti. Mi dava pena il vederli, piú pena il sentirli. La stessa natura non aveva che attrattive assai deboli. Vicino ai villaggi anche la natura sembra patire, è rozza e pigmea, soffre d’impotenza e di rachitismo; si direbbe che le manchi qualche cosa, come la forza e il profumo. I boschi di Boulogne, di Volksgarten, di Thiergarten non si trovano che vicino a Parigi, a Vienna, a Berlino.

L’uomo risente, come le piante, l’influsso dell’atmosfera in cui vive. Io mi vedeva isterilire, immiserire, deperire. Fosse effetto della malattia, fosse influenza di quel soggiorno triste ed uggioso, io mi era interamente e miseramente trasformato. Una malinconia profonda, una disperanza piena di gelo e di scetticismo si erano impadronite di me. Non sentiva piú alcun rammarico del passato, né alcuna trepidanza dell’avvenire. Questo avvenire lo aveva in certa guisa prevenuto. Me ne era formata l’imagine la piú triste, la piú nera, la piú desolante; aveva forzato la mia anima ad accettarlo senza lagnarsene, e cosí m’era posto in pace con l’unico oggetto che avesse potuto ancora atterrirmi, col fantasma sconosciuto di questo avvenire.

Ho pensato spesso, durante questi anni, a quei giorni pieni di desolazione e di sconforto, a quel lungo inverno di cinque mesi trascorso tra le pareti di poche stanze, senza veder altro volto d’uomo che il mio. Mi sono ricordato ancora di tutto ciò che aveva allora colpito in qualche modo i miei sensi: le larghe finestre a vetrate coperte di ragnateli, il pigolio dei passeri che beccavano nei canali delle gronde, lo stillare delle nevi che si scioglievano, il rumore degli zoccoli ferrati dei contadini sul selciato fangoso della via — uniche sensazioni, uniche voci che mi avvertivano come vi erano esseri che vivevano d’intorno a me, come io stesso viveva in mezzo ad esseri vivi e sensibili. Ho conservato memoria di quei giorni in un diario scritto sotto l’impressione di quei dolori segreti di cuore, che non giova ora qui riportare.

Allorché mi allontanai da quel luogo, e sostato nella prima città che incontrai nel mio viaggio, confrontai il mio volto con quello di altri uomini, mi chiesi con spavento se io era ancora lo stesso di un tempo, se era diventato dissimile da loro, se sarei sopravvissuto a quel giorno.

Aveva imparato a disperare troppo precocemente.

Allora non prevedeva l’aurora luminosa che doveva sorgere ancora sulla mia gioventú, e che doveva tramontare sí presto!

III

Ho parlato del mio paese natale.

Mi duole che queste pagine non sieno destinate a venire alla luce, per poter rendere publico un odio che conservo da lunghi anni nel cuore, l’unico che il tempo e la riflessione non abbiano fatto che avvalorare ed accrescere.

Io amo la terra, questa grande madre, questa gran patria comune; io l’amo tutta senza distinzione di suoli e di climi; l’amo come una parte di me, io che non sono che una porzione minima di lei stessa.

Io ho sentito spesso le sue attrazioni, l’appello che ella fa a’ suoi atomi, le sue creature; agli uomini, le sue particelle animate. A primavera, quando il sole la dardeggia de’ suoi raggi; in quel periodo di febbre, di ardenze, di fecondità, quando dal suo seno pieno di amore erompono le famiglie degli insetti e delle erbe, quando ella sorride di un sorriso pieno d’incanti e di fiori, io ho sentito spesso con una specie di furore il desiderio di rientrare nel suo seno; io mi sono prosteso per abbracciarla; ho sentito che essa mi chiamava, e ho gridato: "Tu mi vuoi, tu mi chiami, — io vengo, io vengo". Sí, io amo la terra, questa bella terra; io son certo che essa sarà lieve sulla mia fossa, quando stringerà dolcemente il mio petto colle sue braccia di selci e di radici; ma vi è in essa un punto che io odio, ed è quell’angolo freddo e uggioso dove son nato.

È di là che ho cominciato a gettare uno sguardo sul mondo, e a vederlo triste ed ingrato, è là che non ho potuto aver mai né una nobile gioia, né un nobile dolore; è là che conobbi gli uomini che mi hanno insegnato ad odiare gli uomini; è là finalmente, che non ho potuto amare.

Avrei voluto levarne le ceneri de’ miei cari, perché l’ultimo anello che mi congiungeva alla mia patria fosse anche spezzato.

Fui torturato lungo tempo da un’idea insistente e malinconica: mi pareva che quelle reliquie adorate non potessero aver pace là sotto, perché, io stesso, io sento che le mie ossa fremerebbero se sepolte sotto quelle zolle abborrite.

IV

Non so dire come ne partii per venire a Milano. Non so spiegarmi questa risoluzione, perché non aveva piú alcuna forza di volontà quando vi venni.

Era sul finire d’aprile, e mi ricordo di aver fatto a piedi attraverso la campagna un tratto di strada assai lungo. Due allodole gorgheggiavano nel cielo che mi sembrava alto, sereno, sconfinato piú di quanto non mi fosse mai parso dapprima. Esse si erano tanto innalzate che il mio occhio non arrivava a vederle, erano lontane l’una dall’altra, e a giudicarne dal canto, parevano immobili — si sarebbe detto che avessero trovato lassú dove posarsi. Il loro gorgheggio aveva qualcosa di affettuosamente intimo, pareva una serie di domande e di risposte; ed era sí melodioso, sí calmo, sí limpido che mi ricordo d’averlo udito ancora ad una grande distanza dal luogo ove l’aveva sentito la prima volta. Certo perché calmo e limpido, non perché vigoroso. Vi è uno strano mistero di luce in quel canto. Il mio orecchio poteva forse udirlo per la stessa ragione che il nostro occhio discerne il letto algoso di un lago attraverso le sue acque alte e tranquille, e non vede quello del torrente, le cui onde basse ed impetuose, ma torbide, scorrono con impeto al mare.

Aveva anche raccolto lungo la strada un mazzetto di tussilaggini gialle — gli unici fiori che abbelliscono quei vigneti sterili e desolati — e lo conservo tuttora nella mia scatola dei fiori disseccati.

Ho segnato tutti i periodi solenni della mia vita con dei fiori. Ne conservo una quantità di mazzetti che sono come le pietre miliari del cammino percorso nella mia esistenza, e li porto meco come l’unico tesoro che io possiedo al mondo.

Ho sempre sentito una specie di rispetto per queste piccole e fragili creature di un giorno, anche una specie di fede.

Un anno a Milano, in un’ora di profondo sconforto, una donna che passeggiava meco al mio fianco tenendo in mano una rosa, mi precedette di alcuni passi, e sfogliandola, e gettandone i petali dinanzi a me, mi disse scherzosamente: — Spargo dei fiori sul vostro cammino. — All’indomani un avvenimento inatteso mi restituiva la gioia e la pace.

Allorché giunsi in quella città, io non aveva né progetti, né idee, né speranze di giorni migliori. Vi era venuto, direi quasi, inconsciamente. Sapeva che fra due mesi sarei stato richiamato al reggimento e che di là avrei meglio potuto sollecitare questo richiamo. Forse era stato tale il movente del mio viaggio.

Appena arrivatovi, cercai con ansietà di un amico che certa comunanza di sventure mi aveva reso da tempo assai caro. Egli abitava in una casa signorile e assai vasta, dove era però quasi sconosciuto. Bisognava chiedere di lui. Battei perciò ad un uscio del primo piano, e venne ad aprirmi una donna giovane e bella. Mi parve che rimanesse colpita in modo singolare dal mio aspetto; né io lo fui forse meno del contrasto che formavo col suo. Essa era sí serena, sí giovane, sí fiorita; e il mondo pareva dover essere stato fino allora cosí benigno con lei, che io la guardai un istante senza parlare, compreso d’una meraviglia dolce e profonda.

— Di chi cercate, in grazia?

Profferii il nome del mio amico.

— Al secondo piano.

Avrei giurato di aver sentito già piú volte quella voce, di averla sentita bambino, ne’ miei sogni… La guardai come si fa a persona che parci di conoscere. Nell’allontanarmi sentii che un lembo del mio soprabito era stato chiuso tra le due imposte dell’uscio. Ella se ne avvide e fu sollecita a riaprire.

— Perdonate.

M’inchinai. Non risposi nulla, ma tornai ad affissarla sí stranamente, che essa mi guardò quasi spaventata. Sentii quello sguardo penetrarmi penosamente nell’anima.

"Sí felice, sí florida, sí bella!" esclamai tra me stesso salendo la scala; "oh dolce creatura! se tu mi porgessi quella tazza che l’età e gli affanni hanno allontanato forse per sempre dalle mie labbra, come potrei rifiorire anch’io, e sorridere ancora alla vita! Ma la gioventú è dei giovani, e le gioie non sono che dei felici!"

Giunto sul pianerottolo, mi rivolsi, e vidi ch’ella era rimasta immota sull’uscio, e mi accompagnava dello sguardo, e pareva commossa e pensosa. Aveva ella compreso che io era sventurato, e aveva sentito il bisogno di confortarmi del suo affetto e della sua compassione?

Dirò cosa antica come l’amore. Bastarono quello sguardo e quella mestizia. Da quel momento le nostre sorti furono gettate. Io l’aveva vinta con l’unica attrattiva che vi era in me, — quella da cui le donne sono prese assai raramente, ma cui, ove lo sieno, inorgogliscono spesso di cedere senza resistere, perché comprendono di mettersi cosí sulla via di una missione che le santifica — l’attrattiva della sventura.

Trovai il mio amico, e mi installai nel suo appartamento.

Ebbi da lui notizie di quella donna. Suo marito era giovine e avvenente, occupava una carica distinta in un’amministrazione governativa; non erano ricchi, ma parevano agiati e felici; avevano un figlio; essa si chiamava Clara: quando non agucchiava presso una piccola finestra che guardava nel cortile, leggeva romanzi sul suo balcone, seduta in mezzo a’ suoi vasi di fuxie e di gerani; suonava anche il pianoforte e cantava.

Passai quella prima notte in una specie di delirio; lessi l’epistolario di Foscolo — l’uomo antico — e rividi in un’allucinazione le scene passate della mia vita. Mi pareva che tutto fosse finito lí, con quel giorno, con quella fuga, coll’incontro di quella donna; travedeva non so quali gioie nell’avvenire.

Fui riscosso per tempo dal suono di un piano-forte che veniva dal piano sottostante. Apersi la finestra e mi affacciai dal mio balcone. Era un mattino lucido, caldo, sereno, il sole si versava sulla via che brulicava di passeggieri affaccendati. Le carriuole dei lattivendoli stridevano sulle loro ruote malferme, i vetturini facevano scoppiettare le loro fruste, gruppi di fanciulli s’inseguivano schiamazzando; ogni cosa era vita, luce, moto, allegrezza. Da lungo tempo non aveva assistito a quello spettacolo del ridestarsi di una gran città. Abbassando lo sguardo sul balcone di sotto, vi scorsi Clara che mi stava guardando. Essa era seduta in mezzo a’ suoi vasi in un abito semplice e negletto; ma le sue fuxie non erano ancora in germe, e non v’era altro di fiorito intorno a lei che alcune pianticelle di primule e di azzalee.

L’amore, la piú complessa e la piú potente di tutte le passioni, è ad un tempo la piú facile e la piú semplice nel suo nascere. Un uomo e una donna si incontrano, si vedono, si guardano — e basta. Da che cosa era egli stato mosso quello sguardo? Che cosa vi era in esso? Che cosa diceva? Nessuno lo sa. Nondimeno tutti gli amori incominciarono con uno sguardo.

Rientrai nella stanza ebbro. Non di amore, no; non amava ancora, non ne sperava; ma assetato di conforti, di compianto, di lacrime. Avrei desiderato una donna, non per chiederle le sue carezze, ma per piangere sul suo seno. L’uomo è piú profondo nell’amore, la donna nella tenerezza; si piange meglio sul seno di una donna.

Non so se gli altri uomini abbiano súbiti abbandoni, súbiti impeti, súbite risoluzioni come ho io. In me vi è nulla di lento, di ordinato, di normale. La mia è una natura a molle, a sbalzi; una natura sempre alterata.

Le scrissi, e le gettai dal balcone un biglietto contenente queste sole parole:

"Io sono infelice, io sono malato, io soffro".

Il biglietto cadde a’ suoi piedi. Essa lo vide, esitò un istante, poi si curvò, lo raccolse, e fuggí nella sua camera.

Non ricomparve piú lungo il giorno. Alla sera la vidi un istante sul balcone, e osservai che aveva gli occhi soffusi di lacrime.

Da quel momento la mia illusione non ebbe piú freno. Essa aveva pianto per me, essa aveva accettato in certo modo il compito che io le aveva chiesto di consolarmi.

Fui assalito da una smania febbrile di vederla, di sentire la sua voce, di averla vicino a me, di gettarmi a’ suoi piedi, di dirle lacrimando tutta la povera storia della mia vita.

Avessi avuto un oggetto toccato da lei, portato da lei, un suo nastro, un suo abito, avrei passato la notte guardandolo, me ne sarei sentito meno diviso.

Cosí fu in ogni tempo della mia anima. Passai sempre dall’apatia all’adorazione senza soffermarmi sull’amore. Perché riposarsi a metà? Perché non mirare agli ultimi limiti? Le grandi cose sono estreme — le grandi anime adorano o odiano.

Erano cominciate allora le pioggie lente e monotone della primavera; pioveva tutto il giorno, e le finestre del suo balcone erano chiuse. Io la sentiva suonare e cantare sotto di me. Era caso, era divinazione? Essa ripeteva sempre alcune arie che mi erano care, e che mi rammentavano le scene piú dolci della mia vita. Non uscivo piú di casa per non allontanarmi da lei. Là, in quella stanza, le ero vicino; non la vedevo, ma sapevo di esserle vicino.

E poi, la sentiva!

Le scrivevo tutto il giorno, le scrivevo cose strane, immense, inaudite. Ero spaventato di me medesimo. Spesso la notte balzava dal letto e mi gettava sul pavimento come per tenderle le braccia, come per esserle piú d’appresso. La mia anima, vuota da tanto tempo, si era gettata con furore su quella preda. Se la sua pietà non fosse venuta a salvarmi, io mi sarei divorato il cuore.

La rividi. Il bel tempo era ritornato, aprile era finito, e maggio fioriva. Risentii tutte le febbri della primavera, quel fuoco ardente che il sole di maggio trasfonde nelle fibre, nelle vene, nel cuore. I fiori sbocciavano, gli uccelli riprendevano le loro canzoni, le fanciulle — fiori umani — scherzavano lungo le aiuole; dappertutto l’inno all’amore era cantato.

Un giorno nel salire la scala, vidi le sue stanze aperte, essa era sola; corsi verso di lei, e mi precipitai alle sue ginocchia. Essa fece atto di fuggire; io rimasi immobile col volto celato tra le mani. Mi si appressò piangendo, si curvò verso di me, e mi disse singhiozzando:

— Abbiate pietà, andate, lasciatemi.

— No, io morirò qui, io soffro.

— Oh mio Dio! povero giovine!

— Mi odiate?

Essa mi strinse al suo seno, e mi coprí di baci e di lacrime.

— Vi amo, vi amo, ma lasciatemi.

Fuggii come un demente.

Alla notte fui assalito dalla febbre; ebbi strane visioni, feci dei sogni puerili: vedeva delle farfalle e degli angeli, dei paesi che non aveva mai visto; mia madre, piú giovane di molti anni, piangeva vicino al mio capezzale, ed era vestita di un abito grigio che io l’aveva veduta portare da bambino.

Allo indomani era malato.

Le riscrissi:

"Io sono malato, io non guarirò se non vi vedo, venite".

E essa venne.

Venne per due lunghe settimane, ogni giorno, dissimulando, come poteva, il suo segreto; divisa tra l’angoscia del mio stato e il rossore dell’inganno che le costava la sua pietà.

Fu la sua pietà, che la condusse all’amore; in quei giorni le nostre anime si unirono.

Piú tardi io le scriveva ancora:

"Oh mia vita! Vieni a confortarmi. Vieni qui, lontano da cotesta casa dove non possiamo essere felici. Ho affittato una cameretta chiara, solitaria, serena, piena di sole. La riempirò tutta di fiori per te. Ma vieni. I nostri cuori hanno bisogno di palpitare l’uno sull’altro. Cosí si muore".

E essa venne ancora.

La pietà l’aveva condotta all’amore; fu l’amore che la condusse alla colpa.

In quei giorni si unirono le nostre vite.

V

Fummo felici, ineffabilmente felici.

Passammo attraverso una serie di sensazioni nuove, ardenti, vertiginose. Mai due anime avevano combaciato cosí pienamente, mai due nature si erano congiunte, fuse, identificate in una sola come le nostre.

Clara aveva indole forte, giusta, severa; vi era nulla di fatuo, nulla di fiacco, nulla di puerile nel suo carattere; e pure nessuna donna fu mai piú affettuosa, piú dolce, piú arrendevole, piú accarezzevole, piú eminentemente donna.

Aveva venticinque anni; era alta, pura, robusta, serena. Scopersi piú tardi il segreto di quel fascino immediato che aveva esercitato sopra di me. Essa rassomigliava a mia madre. Mia madre poteva aver avuto la stessa bellezza e la stessa età quando io nacqui.

Una volta amanti, ci abbandonammo con una specie di dolce disperanza alla nostra passione; non avemmo piú limiti; ella pure era tal natura da non conoscerne. Avremmo quasi desiderato di soffrire, di porre il nostro amore come ostacolo alla nostra felicità, al nostro avvenire, per rendercene meritevoli. Ci sentivamo struggere dalla smania di sacrificare qualche cosa l’uno all’altra. Cosí eravamo troppo immeritatamente felici. Non potevamo dare un prezzo a quelle gioie; le sentivamo troppo intense, troppo profonde!…

Ci raccontammo tutta la nostra vita. Ci trasfondemmo l’uno nell’altra senza rossore, senza dissimulazioni, senza esitanze. Essa aveva vissuto poco nel mondo, aveva sposato a sedici anni un uomo che le era indifferente, non aveva mai amato, nessuno le aveva mai chiesto dell’affetto, adorava suo figlio. In quella vita di isolamento e di disamore era nondimeno felice.

Come tutte le donne veramente ingenue s’era data a me senza fingere, senza esitare; essa aveva pensato a lungo alle conseguenze della sua colpa; aveva lottato a lungo; ma una volta decisa, si era abbandonata senza ritegno. Non so se ella ne arrossisse e ne gemesse in segreto; il suo contegno non lasciò mai penetrare in me questo dubbio, essa non mi parve mai che felice. Mi diceva spesso con aria di credulità e di spavento, affatto puerile: — Sono cosí felice che ho paura di morire.

Il suo rimpianto piú acerbo era di non avermi conosciuto prima; non si doleva dell’avvenire che il tempo ed i suoi legami ci avrebbero, o tardi o tosto, attraversato, ma del passato che avevamo vissuto lungi l'uno dall’altro, senza conoscersi, senza sapere che esistevamo, di quei bei giorni della prima gioventú che non avevamo potuto trascorrere assieme.

— Oh, s’io t’avessi conosciuto allora! quanto sarei stata felice di darti questo mio cuore puro ed intatto, di offrirti tutta la mia gioventú, tutta la mia freschezza — giovinetta, anch’io era bella!… Come tu avresti saputo formare il mio cuore, come t’avrei amato, come t’avrei ubbidito!

Tali le parole che essa mi diceva soventi. Ella soffriva di non poter legare a me le prime e le piú pure memorie della sua esistenza.

Come aveva preveduto, la mia salute era rifiorita, io era ritornato forte, lieto, sereno; ma mi pareva aver tolto a lei tutto ciò che aveva aggiunto a me stesso. Essa non avvizziva, ma deperiva con lentezza. Si era come tramutata, non era piú quella di un tempo. Mi pareva fosse divenuta piú alta, piú gentile, piú flessibile; la vedeva come fosse stata un’immagine di se stessa.

Spesso essa mi diceva scherzosamente: — Ho voluto essere il tuo medico, e ho trascurato un po’ troppo me medesima. — Non so come avvenisse, ma è ben certo che ella mi aveva data la sua forza e la sua salute assieme col suo affetto. L’amore fa spesso di tali miracoli.

Del resto io non dirò come e quanto noi fossimo felici. Triste quella felicità che si può dire! Io mi era serbato fino allora eccezionalmente puro, essa eccezionalmente ingenua. Ci eravamo amati, ella per pietà, io per gratitudine; la stima, la simpatia, la conoscenza profonda delle nostre anime, piú che la nostra stessa gioventú, ci avevano condotti alla passione. Ella a venticinque anni, io a ventotto, eravamo ancora due fanciulli. In un gran centro di corruzione come cotesto, noi eravamo rimasti illibati, puri, vergini, ricchi di illusione e di fede — e la felicità e la grandezza di un tale amore non possono essere raccontati.

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 22:35