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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

FIRENZE VECCHIA

STORIA - CRONACA ANEDDOTICA - COSTUMI

(1799-1859)

 

di: Giuseppe Conti

  

XXXVIII

I nuovi tempi

Il Ciantelli è sostituito dal Bologna - Una dimostrazione - Arresti in Toscana - La soppressione dell'Antologia - Contro i liberali - Nuovi governanti I gesuiti rialzano la testa - Il papa Gregorio XVI: sua morte - Pio IX: suo slancio di liberalismo - Intrighi dell'Austria - Due petizioni al Granduca - Incertezze di Leopoldo II - Annunzio di riforme - Dimostrazioni a Livorno - La spada d'onore a Giuseppe Garibaldi - La Guardia civica nel Granducato - Entusiasmo dei cittadini - Diffidenze - Arruolamenti per la Guardia civica - A' Pitti - La bandiera dello Stato - Il Te Deum in Duomo - 1 preparativi per la festa del 12 settembre - Le deputazioni delle Comunità della Toscana al Granduca - Un proclama - Speculazione andata male - Nota stridente.

Il secondo matrimonio di Leopoldo che diede motivo a dilungarci nella descrizione della città di Firenze, delle sue usanze e dei suoi costumi, ci fece tralasciare la narrazione della parte politica di quest'opera, e che merita di esser riassunta, affinché sia in tutte le sue parti il più possibilmente completa.

Al punto in cui rimase interrotta la narrazione, il Ciantelli, Presidente del Buon Governo, era in pieno auge; ma egli, appunto per questo, tanto s'imbaldanzì, che col troppo fare si rese insopportabile. Era generale la indignazione contro di lui e le sue persecuzioni. Per ciò, Leopoldo II, alle cui orecchie giunsero infinite lagnanze e anche serie minaccie, impensierito delle conseguenze, il 31 agosto 1832 firmò il decreto che dimetteva l'odiato Presidente del Buon Governo, e nominò al suo posto l'auditore Giovanni Bologna, mite, dotto e probo giureconsulto.

Appena si sparse questa notizia, il popolo, sempre buono, improvvisò una dimostrazione, e si recò in Piazza Pitti ad acclamare al Principe; poi andò sotto le finestre del palazzo Ciantelli, fischiando e imprecando in modo assordante. Ma passato il primo entusiasmo, si dovette riconoscere che ormai il mal seme dava i suoi frutti; e che non era più questione di cambio di Ministri o di Presidenti di Buon Governo. Le pubbliche faccende andavan sempre più peggiorando; quanto maggiore si nutriva da ognuno il desiderio della libertà, tanto più nei governanti si voleva soffocare ogni sentimento di emancipazione e di ribellione al giogo della mente e alla schiavitù della persona.

Nel 1833 furono fatti, ad istigazione dell'Austria, diversi arresti in varie parti del Granducato, specialmente nella classe de' benestanti e delle persone più colte.

Il Guerrazzi e Carlo Bini di Livorno, furono deportati all'Elba; Vincenzo Salvagnoli, Giovanni Antonio Venturi e Leopoldo Pini di Firenze, mandati nella fortezza di Livorno; il Vaselli ed il Porri di Siena, il Contrucci di Pistoia, il conte Agostini e l'Angiolini di Pisa, per tacere di tanti altri vennero imprigionati a Firenze.

Fu anche soppressa, con Decreto del 26 marzo 1833, dopo dodici anni, quella Antologia fondata con tanto onore dal Vieusseux, ed apprezzata forse più all'estero che in Italia, come avviene sempre delle cose nostre. La guerra mossa dalla Voce della Verità, per le pressioni di Modena e di Roma, e dei Governi di Russia e d'Austria dei quali era l'organo, sortì il desiderato effetto con gli arresti e le persecuzioni dei liberali.

E questo accadeva perché mancavano i due più validi e franchi consiglieri del Sovrano: il conte Vittorio Fossombroni, il quale, come abbiamo veduto, aveva offerto da un pezzo le sue dimissioni, morto poi a 90 anni il 13 aprile 1844, a cui il Granduca "decretò l'onore del sepolcro in Santa Croce", e Don Neri Corsini, morto nel 25 ottobre 1845. Le due persone fidate alle quali Ferdinando III alla, sua immatura morte affidò Leopoldo II, sapendo di affidarlo in mano di due valentuomini, e di due onesti e bravi ministri.

Dopo la loro perdita, rimase agli Affari Interni il cavalier Giuseppe Pauer "che da varii anni sedeva nel consiglio con fama di mediocrità", e con l'altra di austriacante meritatissima. Fu anche nominato un quarto consigliere senza portafoglio, che però prendeva parte alle adunanze del consiglio, e questo fu Giovanni Baldasseroni, uomo attivo e rigoroso: qualità da lui dimostrate nella soprintendenza dei sindaci. Ma quello, che destava maggiori simpatie e qualche speranza nei toscani, era la presenza del Cempini nel Governo; poiché uomo giusto e tendente al liberalismo, sebbene pauroso di qualunque riforma che potesse alterare la costituzione dello Stato com'era. Ma dopo la morte del Fossombroni e del Corsini "l'andamento governativo prese aspetto pallido, incerto, debole, timido e reazionario".

I gesuiti, benché espulsi dalla Toscana, eran quelli che maggiormente soffiavan nel fuoco della reazione, e nel 1840 avviarono a Firenze per tastare e preparare il terreno le monache del Sacro Cuore di Pisa o gesuitesse, che tali erano veramente. Quindi pian piano si videro insediate tra noi anche le suore di Santa Dorotea "ed altre donne di tal fatta, poiché per mezzo del sesso che più facilmente penetra ed impera nell'intimo delle famiglie, il sanfedismo sperava di riportare la desiata vittoria".

Qualche gesuita autentico riuscì perfino a predicare in Firenze, sotto le spoglie di semplice prete; "il popolo fiorentino ne fu indignatissimo; e non potendo in altro modo manifestare la sua avversione per tale schiatta di camaleonti ambiziosi avidi d'oro e di potere, ugualmente nemici dei re che fingono amare ed uccidono, come di chiunque vorrebbe far loro argine, scriveva di nottetempo a caratteri cubitali, in molti siti e fino sulle muraglie esterne della reggia: gesuiti no; morte ai gesuiti".

I primi frutti di queste sorde mene che insidiavano, senza che egli se ne accorgesse, la buona fede del Granduca, fu il fanatismo ad arte suscitato e dalla polizia e dal Governo tollerato, per Maria Domenica Bargagli del Monte a Sansavino detta la Menichina, impostura da medio evo intessuta dalla malizia e dalla stoltezza a fine d'interesse.

Quello che i reazionari operavano a Firenze, trovava riscontro in ciò che i gesuiti, loro alleati, facevano a Roma presso il papa Gregorio XVI, il quale non poteva soffrire la istituzione toscana del Regio Diritto e che egli dileggiava, chiamandola il Regio Storto. Facezie da gente che consuma più vino che olio, come avveniva appunto al degnissimo Gregorio, il di cui nome si prestava come esercizio di pronunzia imposto per ridere a coloro che avevano alzato il gomito ed ai quali non riusciva di pronunziarlo. "Di' Gregorio", s'usava dire agli ubriachi, che si discervellavano per pronunziarlo senza che vi riuscissero!

L'accusa che faceva il Papa al Regio Diritto toscano, era quella che voleva far da papa lui; mentre era stato istituito per impedire che il clero facesse da principe. La differenza, che dava nel naso ai preti ed ai reazionari, stava tutta qui.

La notizia della morte di papa Gregorio, avvenuta nel giugno 1846, fu accolta con lieto animo dai liberali e dai seguaci delle dottrine di Vincenzo Gioberti, che dall'esilio non si stancava di predicare.

Non si poteva prevedere però che cosa avvenne dipoi.

L'elezione del cardinale Mastai, che assunse il nome di Pio IX, avvenuta il 16 giugno 1846, sorprese l'Europa e scombuiò l'Italia. Se nessuno s'aspettava l'innalzamento al trono pontificio dell'oscuro vescovo d'Imola, molto meno s'aspettava da lui il famoso editto del 16 luglio successivo, col quale aprì le carceri e le porte di Roma a tutti i condannati politici. Questo fatto inaudito per opera d'un papa, diede da pensare ai filosofi non abituati ad illudersi, e a mandare in solluchero le plebi che credono a tutto ed a tutti, quando vedon compiere un'opera buona, senza occuparsi del movente di essa.

L'Austria vide di mal occhio quello slancio di liberalismo, quell'impeto di riforma del nuovo pontefice; e non potendolo attaccare di fronte, cercò di abbindolarlo coi consigli, con le disinteressate profferte di guida e di sostegno. Ma Pio IX ubriacato ormai dalla popolarità acquistata, dall'entusiasmo destato senza avere la minima convinzione del bene che le turbe credevano volesse fare all'Italia, tirò per la sua strada, e parve il principe più rivoluzionario del suo tempo.

Le franchigie e le riforme di lui, misero in orgasmo gli altri Stati; poiché tutte le popolazioni avendo gli occhi rivolti a Roma, e non benedicendo che i nomi di Pio IX e del Gioberti, chiedevano le stesse franchigie e le stesse riforme.

La Toscana anch'essa subì il fascino dei nuovi tempi iniziati dal papa Mastai, e credé possibile la utopia che per l'appunto dal Vaticano dovesse sorgere l'astro che avrebbe guidato l'Italia alla grandezza e alla libertà.

L'Austria, per mezzo del Metternich, stava con tanto d'occhi, perché Leopoldo II non si lasciasse vincere la mano dagli eventi.

Egli però, che come principe se non era ben guidato da savi ministri non poteva operare di propria iniziativa, non sapeva come contenersi, e si contentava di stare a vedere quel che faceva Pio IX per potersi regolare.

Ma se nel Ministero toscano non vi erano gli uomini di mente adatti alla gravità del momento, si trovavano al di fuori degli spiriti illuminati, che si preoccupavano dello Stato e si affliggevano nel vedere come si lasciasse sfuggire al principe l'occasione di mettersi alla testa di un movimento lealmente liberale e italiano. E questi uomini furono Bettino Ricasoli e Vincenzo Salvagnoli.

Il Salvagnoli d'accordo col Ricasoli e con Gino Capponi, il quale però perché cieco non poteva prendervi una parte molto attiva, compilò una nobile e fiera petizione in data del 4 marzo 1847 che faceva noti al Sovrano i bisogni e i desiderio del pubblico. Il Ricasoli portò da se stesso la petizione al ministro Cempini, l'unico del quale egli avesse stima.

La petizione compilata dal Salvagnoli rispecchia tutto intero l'animo apertamente italiano: e la lealtà e la fermezza dei sentimenti ivi espressi possono servire anche oggi di norma e di guida a chi desideri veramente il bene della patria.

Non è qui il caso di trascrivere quell'importantissimo documento; ma non è ozioso riportare il sunto dei punti principali.

Dopo aver detto che a tutti è lecito pensare alle cose pubbliche, tanto più quando aumentando il numero dei mali cresce la necessità dei rimedi, lo scrittore entra subito nel merito della questione additando quei mali e consigliando quei rimedi, senza tanti preamboli e senza riguardi.

Prima di tutto comincia dall'affermare che la grave demoralizzazione dipendeva dal clero, troppo numeroso, generalmente non dotto né morigerato: "Il Clero non ha studi né occupazioni utili: i frati non istruiscono né sé, né gli altri. Reclutati dalle classi infime della popolazione, e fra gli individui o più incapaci o più oziosi, non portano nel chiostro né le disposizioni per esser buoni per sé, né quelle per esser utili agli altri".

Fra i preti eran pochi quelli mediocremente istruiti nei seminario; gli altri passati a malapena agli esami, conseguivano l'ordine sacro "per avere un mezzo a provvedersi la sussistenza, avvilendo l'augusto ministero". Le feste e i riti moltiplicati per fine di guadagno, portavano che "la pratica delle virtù evangeliche trascurate dai sacerdoti eran più trascurate dai laici".

Prendendo poi in esame gli impiegati, la petizione diceva che questi per mancanza di regolari studi erano insufficienti e intriganti. "Non è possibile buona amministrazione con una turba di persone che non aiuta con l'opera, che non sorregge con la condotta e che dissesta con le provvisioni". Parole roventi ma giuste. Ed alludendo al fatto vergognoso che la polizia, composta di sbirraglia vilissima, perseguitava i liberali per ingrazionirsi con l'autorità, fino al punto di sfrattare alcuni eminenti emigrati politici, e perfino Massimo d'Azeglio perché aveva pubblicato nel 1846 l'opuscolo intitolato Degli ultimi casi della Romagna, la petizione così dipinge quei poliziotti:

"Senza la guida della scienza la più difficile, com'è quella delle opinioni e dei bisogni morali e intellettuali, attingendo alle fonti più impure e più infide, perché reiette dal consorzio civile - le spie - educati alla scuola dei vizi volgari e de' delitti più odiosi, non sanno vedere nell'uomo che il male, e il nemico del governo nel cittadino. Confondono la sedizione con l'onesta speranza; la ribellione con la manifestazione lecita delle utili riforme; la lesa maestà con la franca sudditanza che non adula, e che anzi reverisce con la professione della verità.

Oramai questa turba è inadatta alla nuova materia: prende le ombre per corpi, crea il pericolo temendolo, o non sa vincerlo affrontandolo sicuramente per averlo ben conosciuto. Lo strumento subalterno del potere economico, ha creduto che le bestemmie politiche dei provocatori fossero dogmi d'un partito liberale; e per dargli un nome nuovo lo ha chiamato comunismo, senza vedere che questa piaga non è aperta mai dalle opinioni politiche, ma dalle oppressioni civili non esistenti in Toscana. Senza vedere che dove la proprietà non è un monopolio, ma anzi è troppo divisa - come appunto in Toscana - non vi sono nudi, angariati servi che al furor della vendetta uniscano l'avidità del rubare: senza vedere che settecentomila contadini son più che agiati operai essendo condominii: senza vedere che gli artigiani non incarcerati nelle grandi manifatture, ma padroni nelle proprie botteghe, non hanno bisogno di strappare un tozzo di pane alla feroce avarizia dei grandi capitalisti; ma ottengono non scarso salario da un lavoro libero per le richieste indefettibili appunto per la tanta divisione di proprietà".

Questo severo giudizio sulla polizia d'allora, fece profonda impressione nel Segretario di Stato Cempini, tanto più che egli era stato costretto a fare intraprendere a suo figlio un viaggio in Germania, perché appunto la polizia lo aveva preso di mira come liberale!...

Tali persecuzioni, che si facevan senza rumore e alla chetichella, provocavano scritti clandestini sui muri della città e pubblicazioni alla macchia, poiché la censura della stampa era stoltamente rigorosa.

E toccando anche questo tasto nella petizione presentata da Bettino Ricasoli, vi si affermava francamente che "quanti più saranno i giornali onesti e gravi, i libri meditati e interessanti il presente, tanto meno saranno i cartelli, le stampe clandestine, e le infamie che hanno per carta le muraglie e per penna, il carbone".

E ribattendo questo chiodo nella seconda petizione unita alla proposta di legge per la libertà della stampa, presentata essa pure dal barone Ricasoli e compilata insieme col Salvagnoli, nel 27 marzo 1847, così si concludeva: "La Toscana anche in ciò potrebbe far meglio degli altri paesi; poiché qui non essendo sproporzione di fortune, manca la causa degli odii tra classe e classe; qui essendo mitezza di costumi, non vi è da temere il furore delle parole; qui essendo la istruzione e la urbanità diffuse, è da aspettarsi una discussione non passionata, ma tranquilla.

Quindi è, che se altri principi hanno fatto leggi sulla stampa prima del nostro, il nostro potrebbe farle migliori e più efficaci".

"Noi viviamo, diceva la Prima petizione, fra i rottami di tutti i tempi e di tutti i regni. Siccome tutti hanno fatto e disfatto, e niuno ha fatto o disfatto compiutamente, vi sono insieme i resti del vecchio e i principio del nuovo, senza che vi sia un edifizio intero, una macchina governativa formata di tutti i congegni necessari al miglior moto, fatta con un disegno solo, attivata dalle vere forze motrici, retta metodicamente nella sua azione, non impedita da attriti".

Queste perciò erano le ragioni che mossero i due egregi cittadini a farsi avanti ed anteporsi rispettosamente al Governo presso il Principe, affinché egli non si lasciasse sfuggire l'occasione di costituire uno Stato conforme ai nuovi tempi.

Ma l'influenza straniera che aveva per suoi istrumenti maggiori il Pauer e l'Hombourg tennero irresoluto il Granduca che non sapeva volere né disvolere. Così passò un tempo prezioso, e la petizione del Ricasoli e del Salvagnoli rimase nella Segreteria di Stato come documento di lealtà di cittadini amanti della patria, e di insipienza del principe.

Gli avvenimenti però gli vinsero la mano. Da Roma il fanatismo per Pio IX si ripercuoteva in Firenze, e il fermento si faceva ogni giorno più serio. Tanto è vero che il Granduca, per consiglio del Cempini, mandò il 21 luglio un proclama ai "buoni e fedeli toscani" esortandoli con dolci parole ad aspettare con calma "la maturazione" delle riforme, che fu costretto a promettere.

Intanto il ministro Pauer il 31 dello stesso mese "ingiungeva alla vecchia Consulta di concertare col Presidente del Buon Governo e col R. Procurator Generale, i mezzi per reprimere i torbidi che sempre più pullulavano: Ma, non ne cavò alcun frutto". E gli stette il dovere!

Il Governo toscano aveva sperato che con l'annunzio di prossime riforme, la calma sarebbe tornata nell'animo dei fiorentini, nei quali si era trasfuso "il parossismo febbrile politico" a tal segno, che le concessioni venivano risguardate come semplici atti di dovere e nulla più.

Dopo il fermento di Roma, contribuivano assai a questo stato di cose le dimostrazioni di Livorno, centro d'azione del partito liberale; le quali dimostrazioni - che allora erano una novità - si convertivano spesso in tumulti come avvenne il 20 giugno 1847, in cui fu cantato il Te Deum in Duomo, per celebrare l'anniversario della elezione di Pio IX. Cotesto giorno fu forse il più serio; perché, dopo il Te Deum, molti dimostranti si recarono al Consolato pontificio, alternando fischi ed applausi; e quindi andarono al palazzo del Governatore facendo una gazzarra tale, da render necessario l'intervento della truppa. Il colonnello Laugier, alla testa di 1400 soldati, avrebbe voluto far uso della forza; ma il Governatore avendolo impedito, mise nella condizione il Laugier d'essere d'allora in poi il bersaglio della plebe livornese.

Egli non poteva più uscir fuori senza venir fatto segno a grossolane ingiurie, e a contumelie d'ogni genere.

Questi fatti riscaldavan sempre più l'animo dei fiorentini, molti dei quali dimostrarono più civilmente i loro sentimenti, prendendo parte alla sottoscrizione per offrire "una ricca spada d'onore" a Giuseppe Garibaldi, che allora si designava soltanto come emigrato genovese, amico di Mazzini e "condottiero dei Legionari italiani a Montevideo, ove pugnò da forte contro Rosas dittatore".

Quella spada di "squisito valore" fu opera dell'artefice Francesco Vagnetti; e per non entrare in impicci con la polizia, portava il motto: L'Italia a Garibaldi.

Prima di spedirla, la spada fu esposta al pubblico nella bottega del Vagnetti in Borgo Sant'Jacopo, e si può dire che vi accorresse tutta Firenze a vederla.

Fu quasi un avvenimento, non tanto per l'importanza del dono, quanto per l'uomo a cui era destinata, il nome del quale era simbolo di libertà.

Nel granduca Leopoldo II e nei suoi Ministri, mancava l'intelligenza e l'ardire di opporsi alla corrente che minacciava di portare alla rovina, piuttostoché alla via del vero progresso e delle riforme liberali.

Chi più di tutti consigliava e spingeva la canaglia a trasmodare per svisare gl'intendimenti del popolo, erano, al solito, i sanfedisti ed i codini, i quali lavoravano a tutt'uomo, nella speranza che le cose giungessero all'eccesso, per tornare all'assolutismo del passato, e poter vedere finalmente per le vie di Firenze gli amati tedeschi.

Ma la corrente, per il momento, travolse anche loro, come trascinò il Governo e lo stesso Granduca; il quale nel 4 settembre 1847 fece pubblicare il memorabile editto, controfirmato dal primo ministro Cempini, che cominciava con queste parole:

"Noi Leopoldo II ecc., animati sempre dal più costante attaccamento al benessere generale della Toscana, e persuasi della utilità e convenienza di creare una Guardia civica che concorra a mantenere la pubblica quiete e sicurezza; sull'unanime parere dei componenti la R. Consulta di Stato, e sentito il nostro Consiglio, ordiniamo quanto appresso:

È istituita nel Granducato la Guardia civica la quale dichiariamo dovere essere riguardata come Istituzione dello Stato".

Tutti gli altri articoli dell'editto non erano che un fervorino - dal quale trapelava parecchia paura - per infondere nei fedelissimi sudditi della Guardia civica il sentimento del dovere e del rispetto alle leggi, delle quali la prelodata guardia era la tutela e la garanzia. E ciò per ricambiare la fiducia che in essi aveva riposto il loro "Principe e padre".

Il timore che quei militi potessero servirsi delle armi ad altro scopo, era affatto puerile, perché se non facevano alle bastonate, coi fucili che vennero loro dati non potevan far altro. Ma la gioia dei cittadini fu tanta, la contentezza in tutti fu tale, che nessuno finiva nemmeno di leggere il manifesto.

Prima che questo fosse affisso, l'attesa notizia della istituzione della Guardia civica la diede il marchese Cosimo Ridolfi. Uscendo egli nel pomeriggio da Palazzo Vecchio per andarsene a casa, quando passò di Via Por Santa Maria fu accerchiato da molti giovani che frequentavano il Caffè Ferruccio, difaccia a Via delle Terme, che allora era il ritrovo delle "teste calde", e gli domandarono ansiosamente se il Granduca si era piegato al desiderio del popolo. Il marchese Ridolfi rispose di sì, e fece capire che la Guardia civica poteva considerarsi come istituita. La notizia consolante si sparse in un attimo per la città e tutti aspettavano trepidanti il desiderato editto. E quando verso sera fu affisso il manifesto nei varii punti della città, fu incorniciato di lauro, tanto era sincero l'entusiasmo dei cittadini di tutte le classi.

Quel sabato sera parve festa: si popolò ad un tratto la città di gente, che sentiva il bisogno d'accomunarsi, di manifestare la propria gioia. Uomini e donne, e perfino ragazzi, avevano delle coccarde bianche e rosse improvvisate; e per le vie era un parlare concitato, un applaudire al Principe, un salutarsi fraternamente anche senza conoscersi, un inneggiare alla libertà, parendo al popolo di risorgere a nuova vita. Ma i clericali e i codini che si videro perduti, seminarono la zizzania; e la diffidenza si fece strada nell'animo dei meno zelanti, i quali, còlti nel lato più debole dell'interesse, si affollarono in massa a ritirare i denari depositati alla Cassa di Risparmio, mettendo in serio imbarazzo i direttori di essa. Impressionato il Governo degli effetti che questa cosa poteva produrre, non ne nascosero al Granduca la gravità; ed egli per rassicurare gli animi dei più paurosi, depositò alla Cassa di Risparmio una grossa somma della sua cassetta privata, e così il pericolo ad arte creato dai sanfedisti fu scongiurato.

Se i cittadini si abbandonarono alle più vive dimostrazioni di gioia la sera del 4 settembre, molto più vi si abbandonarono il giorno seguente. Fin dall'alba sul campanile di Giotto sventolò al nuovo sole la bandiera fiorentina bianca e rossa, e attorno al Duomo si riunirono tutti quei cittadini zelanti ed ambiziosi di servire la patria, che si sarebbero arruolati nella Guardia civica. In breve tempo ascesero a qualche migliaio: ed ordinatisi a guisa di compagnie, preceduti da varie bande musicali, dalla bandiera nazionale, e da quella pontificia e greca, si mossero ordinatamente per andare a Palazzo Pitti.

Appena mossi però, si imbatterono in una numerosissima comitiva di campagnuoli, che domandarono di unirsi a quei cittadini, pregandoli di accoglierli come fratelli. L'entusiasmo raggiunse i limiti non della frenesia, ma della pazzia addirittura. Il popolo era in delirio: fu un abbracciarsi, uno stringersi di mani commoventissimo, indimenticabile. Tutta la popolazione, quella domenica, era nelle vie festante, gaia, come non c'era ricordo. Le compagnie improvvisate, alla testa della numerosa dimostrazione, nel recarsi in Piazza Pitti fece un giro per la città muovendo da Piazza del Duomo; quindi per Via de' Servi, Piazza della Santissima Annunziata e Piazza San Marco entrò in Via Larga (Cavour), dove applaudì alla casa dei Poniatowski, perché polacchi; a quella del marchese Carega, ministro di Carlo Alberto; e al cavalier Morrocchi, che faceva da Gonfaloniere. In Via de' Martelli la dimostrazione si fermò dinanzi al Padri Scolopi, che rappresentavano la libertà della istruzione unita "alla soda religione" ciò che forma "la salute dei popoli". Da Via Calzaioli traversando Piazza del Granduca, applaudì a' soldati di linea che montavan la guardia a Palazzo Vecchio; e poi per Via Por Santa Maria andò in Piazza Pitti. Qui lo spettacolo fu imponente e grandioso senza fine. Il giubbilo, la contentezza e l'entusiasmo non ebbero più limiti. Le bande suonavano Dio sa che cosa, fino a stordire; ma non ci si badava. S'era tutti fratelli, c'era la Guardia civica, e questo bastava. Gli applausi andavano al cielo, gli urli, le acclamazioni senza tregua, senza respiro, dovevan sentirsi da lontano qualche miglio.

E tutto quel baccano, quel frastuono, quella specie di fin del mondo, raddoppiò, se era possibile, quando al terrazzino del primo piano si affacciò il Granduca in mezzo ai due piccoli principi, Ferdinando e Carlo, "future speranze del paese", come credevano allora. La Granduchessa, essendo nel puerperio, si contentò di stare a vedere e farsi vedere dietro ai vetri di una finestra. Forse era la meno entusiasta di tutti.

Un aneddoto curioso ma autentico fu l'imbarazzo in cui si trovarono a Corte, perché in Palazzo non esisteva una bandiera dello Stato!... Lì per lì, siccome il Granduca aveva avuto la luminosa idea di volerla sventolare dal terrazzino, come corrispondenza dei suoi, sentimenti con quelli del popolo, fu provveduto disfacendo in fretta e furia una cappa magna di cavaliere di Santo Stefano, che era rossa, dalla quale ne fu levato un telo il quale unito con gli spilli a un altro bianco, venne improvvisata la bandiera che legata con dei nastri ad un'asta, il Granduca, in mezzo al delirio universale, la sventolò ripetutamente e quindi la calò a chi stava di sotto.

Tutto sarà facile descrivere, fuorché quel momento d'ebbrezza, di esaltazione e di giubbilo di un popolo intero. Lo stesso Granduca ne fu commosso, ed aveva le lacrime agli occhi; giù tra la folla la gente piangeva di tenerezza senza sapersi frenare. Era una cosa novissima, uno spettacolo non mai veduto. Tutti subivano un fascino strano, al quale non potevan sottrarsi.

Intanto un Comitato composto del professore Ferdinando Zannetti, del professore Giorgio Pellizzari, del marchese Ferdinando Bartolommei, del cavalier Luigi Mannelli, dell'avvocato Antonio Mordini e di Pasquale Benini, salì alla reggia per rassegnare al Granduca i sentimenti di riconoscenza dei sudditi.

Il Comitato fu ricevuto con vera soddisfazione dal Sovrano, che gradì l'indirizzo di ringraziamento che gli venne presentato per la istituzione della Guardia civica, che sarebbe stata "il più valido sostegno di tutte quelle riforme che dovevan far prospero ed a nessuno secondo il nostro paese". A buon intenditor, poche parole! Ma Leopoldo II, in seguito, da quell'orecchio non ci sentì più.

Dopo l'omaggio reso al Sovrano, la dimostrazione, sempre imponentissima si portò alloggiato degli Uffizi ad appendere corone di lauro alle statue di Pier Capponi e di Francesco Ferrucci, in mezzo a frenetici evviva.

Ma le grate, indimenticabili emozioni non finirono.

Verso sera, come se si fossero passata la parola, tutti i dimostranti si trovarono di nuovo riuniti attorno al Duomo; ed entrati nel tempio assistettero al Te Deum intonato dallo stesso arcivescovo Minucci; e quindi dai militi volontari della Guardia civica furon portate all'altar maggiore alcune bandiere, che il prelato benedisse, ed una delle quali accettò in dono e la portò da se stesso, a piedi, nel Palazzo Vescovile. Mostratala quindi da una finestra al popolo che acclamava fino a rimaner senza fiato, riaccese in esso tanto entusiasmo che pareva si cominciasse allora!

La Magistratura civica dopo il 5 di settembre 1847, si può dire che fosse continuamente adunata onde far sì che la festa della domenica 12 dello stesso mese riuscisse cosa più degnamente solenne che si potesse immaginare.

Ed il giorno 7 si adunò straordinariamente per discutere intorno alle verbali istanze della deputazione "detta del Popolo fiorentino" e composta dei signori avvocato Mordini e marchese Bartolommei, i quali furono invitati a presentarsi in adunanza per fornire i debiti schiarimenti intorno alle loro proposte. Le quali consistevano nel pregare il Comune a prendere l'iniziativa della festa, ed a pubblicarne il programma, che la deputazione stessa sottoponeva all'approvazione, all'effetto di onorare le rappresentanze della Toscana che sarebbero venute ufficialmente in Firenze.

Quindi, che la Magistratura cittadina si mettesse alla testa del solenne corteggio che si sarebbe recato a' Pitti per "presentare all'ottimo principe" che tanto saggiamente regolava "i felici destini della bella Toscana, umile ed ossequioso omaggio, segnatamente per l'ultima gradita istituzione della Guardia civica". Ma il Magistrato protestò di accettare l'invito fattogli sempreché il Granduca "si fosse degnato di ricevere le deputazioni che verrebbero a Firenze; e che venisse da lui affidato al Comune l'incarico di compiere gli onori della capitale con accompagnare e presentare le dette deputazioni".

Non vi era dubbio però che le deputazioni non fossero ricevute a Palazzo: tant'è vero che il Magistrato, prima di sciogliersi, in quella stessa adunanza deliberò di commettere la esecuzione del gonfalone del Comune, uguale "a quello esistente nell'opera di Santa Maria del Fiore". E di più ordinò la provvista dei berrettoni adattati alla toga di cui era rivestita la magistratura, in sostituzione di quelli oramai resi indecenti e totalmente inservibili!

Siccome il tempo stringeva, fu tenuta un'altra adunanza straordinaria la sera del dì 9, alla quale intervennero l'avvocato Mordini, il marchese Bartolommei, il professore Emilio Cipriani e l'ingegnere Giuseppe Poggi per la deputazione del popolo fiorentino, onde sottoporre all'approvazione del Magistrato il programma definitivo per il 12 settembre. Ritiratisi i quattro cittadini "per dar libertà nella discussione" i signori Priori lo approvarono completamente e ne fecero parte integrale della notificazione al pubblico.

Tanta era l'aspettativa per la festa del 12 settembre, che un certo Gaetano Corsini si esibì "d'imbandire desinari a prezzi discreti per mille persone nei chiostri del Convento di Santa Trinita, previa concessione ottenutane da quei reverendì Padri, purché la Comunità gli fornisse le tavole e i sedili". E la Comunità "considerando conveniente di prestarsi e facilitare il modo onde provvedere al comodo delle tante persone che non curando la lontananza del paese venivano esultanti a compiere un sacro dovere che verso il beneficentissimo Principe e Padre nostro loro incombe", deliberò di commettere al magazziniere Demetrio Bellini di consegnare al Corsini tutto quanto esisteva nei magazzini, capace all'uso indicato, purché fosse restituito intatto.

La istanza del Corsini aprì gli occhi al Magistrato sul dovere che aveva anch'esso "di corrispondere un atto di ospitalità quasi indispensabile, offrendo ai gonfalonieri che sarebbero indubbiamente venuti a Firenze, un decente quanto modesto pranzo"; ciò che venne approvato, incaricando il signor Gonfaloniere di regolare questa faccenda.

E siccome l'appetito viene mangiando, fu pure deliberato di dare un desinare nel convento di San Firenze, eziandio agli individui componenti le bande di provincia, consistente in un discreto trattamento in ragione di venti crazie (L. 1,40) a testa.

E "per tenere a calcolo il trattore" tanto per il mantenimento dei patti quanto per constatare senza equivoci il numero di quelli che avrebbero ricevuto il trattamento, fu stabilito "di delegare alcuni zelanti cittadini che soprintendessero e vigilassero il desinare ai bandisti, impedendo gli abusi che facilmente potevano aver luogo". E questi zelanti cittadini furono l'architetto Felice Francolini, Diomede Buonamici, Vincenzo Lanini e N. Scharpantier (sic) affidando inoltre all'avvocato Mordini di nominare un'altra "Commissione di persone probe, le quali fossero incaricate del rilascio dei biglietti, o buoni, per il desinare suddetto".

Essendo stato pubblicato nel programma della festa, che era proibito alle donne di prender parte alla dimostrazione. ed avendo il Granduca "graziosamente concesso alle dame provinciali l'accesso alle terrazze del palazzo Pitti", il Comune stabilì di erigere alcuni palchi per le signore fiorentine, che furono munite di speciale biglietto "da ritirarsi dai due pompieri a ciò delegati ad ogni palco".

Sorse finalmente il sospirato giorno 12 settembre 1847.Fin dall'alba cominciarono ad arrivare le deputazioni provinciali alle porte della città, ricevute dagli incaricati del Comune, che a mano a mano le accompagnavano ai luoghi loro assegnati.

Moltissime di queste deputazioni eran precedute dal gonfaloniere e altre assai dal parroco, e tutte col vessillo del Comune o di corporazioni ed associazioni private, con stemmi e leggende d'ogni forma e colore.

Moltissimi volontari della Guardia civica vennero pure con le deputazioni, e si calcolarono a più di ventiquattromila; le bandiere oltre quattromila; e quasi un centinaio le bande, con uniformi, morioni, elmi, stivali e costumi, da parere impossibile che ci fosse tanta gente che avesse il coraggio di andar fuori vestita a quella maniera!

Furono più di settantamila le persone spicciole venute da tutte le parti della Toscana: per conseguenza è facile immaginare che cosa di imponente, di grandioso e di sbalorditivo fu la giornata del 12 settembre 1847.

Siccome vollero prender parte a questa festa anche tutti gli stranieri che si trovavano in Firenze, così fu stabilito che essi si riunissero sotto gli Uffizi, dove era assegnato con un cartello lo spazio per ogni nazionalità. C'erano svizzeri, greci, inglesi, prussiani, francesi e moltissimi americani.

La dimostrazione si raccolse dopo la messa e il Te Deum in Duomo: e quindi, compatta, pigiata, fino a soffocare, girò tutta Firenze mettendoci più di tre ore a passare. Era un urlare, un applaudire, un suonare frenetico, assordante, continuo, da non capir più nulla, da non saper più in che mondo si fosse.

Parevan tutti pazzi, si abbracciavano, si baciavano urlando evviva, stringendosi la mano, gridando daccapo coi visi accesi, con la voce rauca dal grande urlare, polverosi, stanchi, affranti da non poterne più. E nonostante continuavano a suon di banda a andare, andare, gridando e strillando. Piazza Pitti pareva un campo di teste. Ci si sarebbe camminato sopra come in un prato. Fra le signore più entusiaste che applaudivano dalle terrazze di Palazzo Pitti, fu notata la marchesa Alessandrina d'Azeglio, figlia di Alessandro Manzoni, che per quel giorno si era fatta fare apposta un ombrellino con gli spicchi bianchi, rossi, verdi e gialli, per comprendere anche la bandiera del Papa.

Leopoldo II vestito da gran maestro dell'Ordine di Santo Stefano, perché l'uniforme austriaca strideva in quel giorno di pura gioia italiana, si affacciò al terrazzino insieme alla Granduchessa ed a tutta la famiglia, circondato dai ministri e dai dignitari di Corte.

Il Magistrato, preceduto dai donzelli, salì alla Reggia dove ebbe luogo la presentazione delle deputazioni. Il cav. Tommaso Morrocchi come primo Priore, essendo assente il Gonfaloniere, pronunziò un discorso di circostanza, al quale rispose il Granduca, che si trattenne poi a confabulare coi gonfalonieri e i rappresentanti delle altre città della Toscana.

Quando gli venne presentata la deputazione di Volterra, il Granduca le rivolse queste parole: "Mi congratulo con Voi, che possiate dirvi quasi compatriotti di Pio IX, che fra Voi fu educato. Egli è stato, che mi ha dato coraggio ad intraprendere quelle riforme di cui tutti ci rallegriamo".

Dopo il ricevimento le deputazioni uscirono dal Palazzo; e Leopoldo II si affacciò di nuovo al terrazzino con la bandiera in mano per salutarle. Lo scoppio degli applausi fu una cosa che non si ridice.

Riordinata la dimostrazione, tutte le deputazioni si portarono nella Piazza di Santa Maria Novella per fare la consegna delle bandiere al cavaliere Morrocchi che le riceveva, dando in cambio di ciascuna il vessillo nazionale. Le bandiere erano state benedette dai frati domenicani, i quali spontaneamente eran venuti sul cimitero della chiesa per quella funzione prima che venissero portate al Granduca. Ed il clero della cattedrale, quando passò la dimostrazione dinanzi al Duomo, si presentò al Magistrato civico e consegnò al primo Priore un vessillo nazionale.

Le bandiere delle deputazioni furono mandate a Santa Croce: ed il Granduca donò al Comune quella che egli aveva sventolato dal terrazzino, come ricordo di quella memoranda giornata.

La sera vi furono illuminazioni e pubblici divertimenti, senza che avvenisse il minimo inconveniente; e la mattina dopo il Granduca "prese a sfogare la piena degli affetti, ai buoni e fedeli toscani" con un proclama che faceva scoppiare il cuore!

Come segno apparente d'abbondanza, vi fu per tutto quel giorno di lunedì, la vendita sui baroccini di centinaia di polli arrosto a sei crazie l'uno, avanzati dalle eccessive provviste che gli osti avevan fatte per il giorno innanzi.

Pare che molti dimostranti venissero col pane in tasca, perché le osterie non fecero grandissimi affari. Tanto è vero che il Corsini il 14 di settembre avanzò una reverente istanza al Magistrato, nella quale, dopo aver fatta una patetica narrazione delle vivande provviste "per la fausta ricorrenza nella sua precaria trattoria dei chiostri di Santa Trinita", veniva a concluder d'averci rimesso 250 scudi per il piccolo numero degli individui che ricorsero in dello locale.

Ma il Magistrato, quantunque facesse plauso alla buona intenzione che ebbe il Corsini, "non poteva passare sotto silenzio che il medesimo tentava una speculazione per proprio conto e che la Comunità aveva fatto anche troppo col fornirlo delle tavole senza interesse e farsi mediatrice presso il superiore del convento di Santa Trinita per il conseguimento del locale: e tutto ciò per favorire le vedute speculative di lui". E non gli diede nulla.

Fu quella la nota comica della festa massima che fu fatta in Firenze in quei tempi d'entusiasmo e di fede nell'ideale della patria.

Ma una nota stridente, alle persone di senno fece più effetto per il suo contrasto. Fra le quattromila bandiere, che

presero parte alla "festa più civile che mai facesse popolo civile", molte delle quali portavano leggende analoghe alla circostanza, una ce ne fu dove era scritto GIOVAN BATTISTA NICCOLINI, che era in aperta contradizione coi gridi di: "Viva Pio IX, Viva Gioberti" che dovunque echeggiavano, ed alle quali il poeta dell'Arnaldo da Brescia non si sarebbe mai associato.

              

  

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Ultimo Aggiornamento: 08/01/99 23.27