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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

FIRENZE VECCHIA

STORIA - CRONACA ANEDDOTICA - COSTUMI

(1799-1859)

 

di: Giuseppe Conti

  

III

Maria Luisa, Napoleone I ed Elisa Baciocchi

Ultimi atti del commissario Reinhard - Il Senato fiorentino - Effetti della reazione - Selim III - Il generale Suwarow - La Sandrina Mari e gli aretini a Firenze - Il vescovo Scipione Ricci - Gli austro-russi - Sempre Te Deum - La morte di Pio VI - I francesi tornano in Toscana - Il regno d'Etruria - Lodovico di Borbone a Parigi - Proclama del generale Murat - Giuramento prestato al nuovo sovrano - Suo arrivo a Firenze - L'Apollo di Belvedere e la Venere dei Medici - Tristi condizioni del regno d'Etruria - Viaggio dei reali e morte del re Lodovico.

Appena gli ultimi soldati francesi ebbero lasciato in fretta e furia Firenze, fu affisso un avviso senza data - ciò dimostra che era stato pronto da un pezzo - del commissario Reinhard col quale rammentava ai fiorentini ch'erano "sottomessi al governo francese dal diritto della guerra; e che se era stata rispettata la loro religione, le proprietà e le persone, lo dovevano soltanto alla loro pacifica commissione e alla generosità francese, che non s'era obliata un istante". E dovevasi altresì "alla saviezza, alla purità e alla bontà dei Toscani" se era stato conservato il loro paese, cioè se non era stato distrutto erigendovi una piramide sulle sue rovine, come avevano minacciato di fare ad Arezzo e a Cortona.

Per essere amici, non potevano parlar meglio davvero!

Nello stesso tempo, fu affissa l'ultima e "furibonda" ordinanza del su nominato Reinhard, il quale, alludendo ai fatti d'Arezzo, diceva che "una ribellione provocata e feroce aveva invasa una parte considerabile della Toscana, nel mentre che l'armata francese era chiamata momentaneamente a combattere altrove la causa generale della libertà d'Italia". La disinvoltura del Commissario francese è stupenda. Per non dire che le truppe del suo paese andavano a soccorrere le altre, che ne avevan già toccate alla Trebbia, diceva, con faccia tosta, che andavano altrove a combatter per la libertà d'Italia!...

In conclusione, il signor Reinhard, nella sua sconfinata bontà, decretava che tutti i cittadini che avevan servito il loro paese "o la causa della libertà" si riunissero in Livorno dove per somma grazia sarebbero considerati come facienti parte del battaglione toscano.

I nobili e i preti della Toscana erano chiamati nientemeno responsabili di tutti coloro che venissero "assassinati, arrestati e perseguitati sotto pretesto d'attaccamento ai francesi e ai loro principii". E per maggiore consolazione di quelli che avessero delle ideacce contro i preziosi amici che momentaneamente s'allontanavano per la libertà d'Italia, il compitissimo signor Reinhard ammoniva i pacifici e buoni fiorentini, che gli ostaggi stati condotti in Francia risponderebbero testa per testa, delle uccisioni o degli affronti che fossero commessi in Toscana contro i patriotti.

Quest'ultima ordinanza, altezzosa e provocante, finì di esasperare gli animi, e ci volle tutta la prudenza e l'ascendente dell'arcivescovo Martini, per impedire che la popolazione si sollevasse e trasmodasse contro i fautori di così prepotenti e sfacciati amici, i quali si comportavano molto peggio che nemici. Se almeno avessero avuto la lealtà e la franchezza di mostrarsi per quello che erano, ognuno forse si sarebbe regolato: ma venire come liberatori non cercati, e proclamare poi negli editti che i toscani erano sottomessi alla Francia dal diritto della guerra era una tale insultante provocazione, che ogni popolo, anche dolce e pacifico come era stato dipinto nei precedenti proclami il popolo toscano, se ne sarebbe giustamente offeso.

Da ciò nacque una tremenda reazione. I cittadini, indispettiti contro i fautori dei francesi che trattavano i toscani come popoli conquistati mentre non costavan loro una sola cartuccia, e inaspriti dalle burbanzose minacce, arrestavano da se stessi e portavano alle Stinche o al Bargello quei disgraziati che credendo alla libertà, all'eguaglianza e alla fratellanza francese, s'eran lasciati illudere. Molti di quei patriotti, che in buona fede avevan creduto in una nuova èra di libertà della patria, furono bastonati dai reazionari, partigiani d'altri predoni stranieri, cioè degli austriaci; e così Firenze, rimasta senza governo, ebbe un dicatti che il vecchio Senato fiorentino, di cui nessuno rammentava più nemmen l'esistenza, riprendesse, dopo la partenza dei francesi, le redini dello Stato. Ed il primo atto di quel nucleo di gente inetta ed austriacante, che formò lì per lì una specie di governo, fu quello di mandare in tutta fretta come deputati ai generali austriaci, il conte Cammillo della Gherardesca, il marchese Antonio Corsi, l'avvocato Giuseppe Giunti e Carlo Pauer, per pregarli ad accelerare la marcia delle loro truppe su Firenze. Nel tempo stesso, si facevano premure all'armata aretina di venire a rimetter l'ordine, poiché gli eccessi dei "facinorosi avidi e audaci manomettevano le persone e le proprietà dei patriotti, in varie guise ingiuriate dalla plebaglia". Per conseguenza, non cessava di raccomandare al popolo con l'editto del 6 luglio, di cessare dagli arresti dei giacobini, non perché ciò era indegno di gente libera, ma "per non turbare con tali atti arbitrarii l'amatissimo sovrano", che avrebbe reso loro il dolce suo governo. E siccome il Senato prevedeva da un giorno all'altro il ritorno di Ferdinando III, così esortava tutti a non permettere che la gioia di tanta aspettativa "fosse mista con i mali sempre inseparabili dal disordine e dalla confusione".

Il capitano Lorenzo Mari, già uffiziale dei dragoni di Ferdinando III, e capo dell'armata aretina, credendosi sul serio un altro Napoleone, da San Donato in collina, dov'era coi suoi prodi accampato, fece sapere all'improvvisato governo di Firenze che egli avrebbe dato una risposta decisa soltanto quando egli fosse sicuro che le fortezze sarebbero state cedute alle sue forze, e le armi della guardia urbana,, stata costituita lì per lì alla meglio, venissero depositate fuori della porta a San Niccolò.

Al "superbo foglio di quel filibustiere" il Senato rispose che i toscani, essendo tutta una famiglia, non c'era bisogno di far tanto il gradasso; quindi rinnovava la preghiera che gli aretini venissero a Firenze. Si intromise allora fra le due parti il cavalier Wyndham, incaricato d'affari inglese, il quale, lasciato il campo degli aretini, giunse a Firenze il 6 di luglio.

Nel giorno stesso, quel patriottico e dignitoso governo, composto dei senatori Cesare Gori, Andrea Ginori e Federigo de'Ricci, stipulò con l'armata degli insorti aretini, vera banda di malfattori guidata da ufficiali austriaci e russi, una vergognosa convenzione, per la quale si dichiarava che il Senato fiorentino desiderava vivamente di avere in Firenze l'armata aretina; di cedere ad essa le fortezze, le porte, le caserme, le munizioni, i cannoni, le armi ed altri oggetti militari; che a quei banditi fossero resi gli onori militari ben dovuti ad un'armata regolare che si espone per portarsi al soccorso di Firenze!; di trovar giusto e conveniente che l'armata aretina non conoscesse altro capo che il suo comandante, finché non ne giungesse uno insieme allarmata tedesca, maggiore di grado al comandante aretino. Questi ed altri patti, tutti a favore dei facinorosi aretini, furono conclusi dal nuovo governo, facendo arrossire i liberali veri, che non intendevano libertà senza indipendenza e senza intervento straniero, di qualunque nazione fossero gli invasori, che sotto mentite spoglie di amici venivano a darci la schiavitù e l'oppressione, chiamati dai più vili e codardi cittadini, vergogna del loro paese.

E tanto è vero, che la Toscana faceva gola a tutti, che perfino il sultano "Selim III Gran Signore dei Turchi, Ombra di Dio, Fratello del Sole e della Luna, capo di tutti i re, distributore delle corone, ec." mandò anch'egli un proclama per dire che il Profeta aveva permesso che la Francia sterminatrice facesse le sue vendette per le colpe degli uomini; ed ora che il suo compito era eseguito, i turchi sarebbero venuti a darci la libertà, promettendoci "una primavera di delizia e di riso!...". Ma degno di riso sarebbe stato davvero, se non lo fosse di sdegno, il veder bandire dagli altari da alcuni preti fanatici e ignoranti il proclama del sultano, come se si trattasse del vangelo di un nuovo apostolo!

E non fu soltanto il fratello del Sole e della Luna, che s'intenerì per noi, vedendoci preda dei francesi; ma anche il generale Suwarow si commosse per conto del suo governo, alla nostra sorte; e anche lui, poveretto, mandò un proclama che cominciava così: "Popoli d'Italia, armatevi e venite a porvi sotto gli stendardi della religione e della patria, e voi trionferete d'una perfida nazione". E dire che il comandante russo intendeva di alludere alla Francia!...

Il colmo dell'indignazione russa a nostro vantaggio è contenuta in queste parole: "I francesi vi opprimono tutti i giorni con gravezze immense: e sotto il pretesto d'una libertà e d'una eguaglianza chimeriche, portano la desolazione nelle famiglie...." e via di questo passo.

Poi che fu ammansita la tracotanza del fiero guerriero Lorenzo Mari, il patriottico e sapientissimo governo toscano, non sdegnò di trattare il 7 luglio anche col prete Donato Landi, qualificato commissario di guerra della armata aretina, per preparare gli alloggi e le vettovaglie necessarie a tale valorosa armata, costituita da una ciurmaglia di 5000 ribelli, per la maggior parte appunto aretini. Essi infatti entrarono in Firenze nel pomeriggio del giorno stesso dalla porta a San Níccolò in numero di 2500 fra fanti e cavalli guidati dalla celebre Sandrina Mari, che a cavallo come un uomo, vestita metà da donna e metà da soldato, entusiasmava quel prode esercito. Il vero nome di lei era Cassandra Cini, figlia d'un macellaro di Montevarchi; ma ad Arezzo la chiamavano Sandrina. Fu poi sposata al capitano Lorenzo Mari, il quale, dopo essere stato licenziato con gli altri ufficiali toscani dai francesi, si era messo alla testa dei rivoltosi aretini, illudendosi d'essere un condottiero d'eroi.

La Sandrina, che montava un bellissimo cavallo bianco, aveva a destra il cavaliere Wyndham, il gran Paciere inglese, e a sinistra il barbuto frate zoccolante del Monte San Savino, che tutti prendevano per un cappuccino, essendosi lasciata crescer la barba onde dar più tono alla sua insipida fisionomia. Egli, di motu proprio s'era dato il titolo di cappellano dell'armata, per giustificare in qualche modo la sua presenza fra le bande, delle quali mostravasi degno, continuando a bestemmiare come un facchino. Il marito di quella specie di Giovanna d'Arco in caricatura, era in uniforme di capitano con l’elmo da dragone, avea una tunica piena d'alamari, ricami e galloni; le spalline dorate, ed il petto fregiato di medaglie d'ogni specie, croci e tosoni, come i giuocatori di prestigio o i ciarlatani d'un tempo. Pareva un di coloro che con gli specchietti vanno a caccia dell'allodole.

Poco dissimili dal condottiero erano gli ufficiali, adorni d'assise e nappe svariatissime, fregiati tutti di coccarde toscane, austriache, russe, pontificie e perfino della mezzaluna turca insieme agli scapolari con la Madonna e l'immagine dei Santi.

E così ce n'era per tutti i gusti!

La figura più grottesca era sempre quella dello zoccolante truccato da Pietro Eremita, che fingeva di morire sotto il peso d'un'enorme croce che appoggiava sulla coscia destra, e che poi si seppe esser di sughero!

Altri 2800 aretini, provenienti dal Pontassieve, entrarono da porta alla Croce urlando tutti e schiamazzando, con un diavoleto strepitoso.

Il primo atto del comandante Mari fu quello di imporre al Senato fiorentino l'ordine di ribassare subito il prezzo del pane e di tutte le vettovaglie.

Dopo tale ingiunzione, l'impavido guerriero Mari ordinò che venisse arrestato e rinchiuso nel Bargello, e quindi per intromissione dei parenti e degli amici, in Fortezza da Basso, Scipione Ricci, già vescovo di Pistoia, venuto in odio per le rivelazioni da lui fatte sulle nefandezze che si commettevano da certe monache di Pistoia e di Prato. Ma tanta era la stima che professava per il valoroso prelato "la gente illuminata ed onesta", che anche l'arcivescovo ebbe a interessarsi della sua sorte. E per dimostrare che roba fossero gli aretini insorti al grido di Viva Maria, basta sentirlo dalla bocca stessa del vescovo Ricci, il quale, raccontando le sue sofferenze durante l'empia prigionia, così si esprime: "Io ho dovuto più volte gemere davanti a Dio per le orrende bestemmie e per le infami laidezze ch'ero costretto sentire continuamente, in modo che gli orrori della carcere non mi avevano fatto mai tanto ribrezzo. Il giuoco continuo e la perdita di grosse somme davano luogo a frequenti risse. La santificazione delle feste non ho mai saputo distinguerla in quella truppa. Quanto poi alle ruberie di cui non si faceva scrupolo, era strana cosa il sentire come tra loro medesimi era in proverbio il Viva Maria per segno d'aver con buona coscienza rubato, quasi che nominandola si garantissero della trasgressione del precetto di Dio, e non piuttosto la oltraggiassero con insulto nell'offendere il suo divino figlio. Io non parlerò degli ammazzamenti volontari e proditorii che a sangue freddo si commettevano, perché tutta la Toscana ne è testimone. Dirò solo che la massima di molti preti e frati, che per castigo del Signore furon cieche guide a tanti popoli traviati, era non solo favorevole a tali omicidi, come se in così fare prestassero ossequio a Dio, ma taluni ancora ne gli animava, ne dava l'esempio, e si vantava inoltre di aver lordato del sangue di suoi fratelli quelle mani medesime, con cui offriva il sangue dell'immacolato agnello sparso per essi".

Questa sola testimonianza di Scipione Ricci basta per tutte, se non ce ne fossero a migliaia.

Le bande aretine invasero la città: ed il dì 8 luglio la percorsero trionfalmente, in unione alle truppe austriache e russe arrivate fresche fresche a rioccupare il posto dei francesi, per proclamare daccapo la sovranità di Ferdinando III. I due reggimenti di cosacchi, entrando in Firenze dalla porta al Prato, passarono di Mercato Vecchio; e rimase famosa la stupida ingordigia di quei soldati quasi barbari, i quali, traversando mercato, e vedendo agli ortolani i panieri delle zucchettine, le prendevan per fichi e con le lancie le infilavano e le mangiavano senza accorgersi che erano zucche.... meno dure delle loro ma non meno sciocche. I più intelligenti infilavano invece i salami, che i pizzicagnoli tenevano a mostra appesi sotto la tettoia della bottega.

Gli aretini che avevano sul petto e nel cappello immagini della Madonna ed abitini, entrarono gridando " Viva Gesù, e Viva Maria!". E in questi due santi nomi prendevano e rubavano tutto quanto loro capitava sotto. I fiorentini che non si smentiscon mai neppur nelle disgrazie, parafrasavano quelle religiose grida furfantesche, dicendo, quando vedevano quei branchi d'aretini:

Viva Gesù e Maria

E questa roba l'è mia!

Gli aretini se ne andarono mettendo l'assedio a varie città, percorrendo buona parte d'Italia, dove però non c'erano più francesi.

Il 20 luglio arrivò a Firenze anche il generale Klenau, che alloggiò al palazzo Riccardi. Egli abolì subito il bollo francese e rimise in uso quello di Ferdinando III.

Ricostituì poi la guardia cittadina, detta urbana, che fu composta di dodici compagnie di 120 uomini, la quale intervenne ad una gran rivista passata dallo stesso generale alle Cascine, ed alla quale intervennero quei due reggimenti di cavalleria russa, "armati di picche con le quali avevano infilato le zucche e i salami, e vestiti con superbe uniformi che destarono meraviglia e stupore nel popolo che gli accompagnò in fortezza gridando: Viva l'imperatore Paolo!".

Intanto fra il Senato ed il governo provvisorio di Arezzo nacque un aperto dissidio, poiché una deputazione aretina, guidata da Niccolò Gamurrini, era andata a Vienna ad umiliare ai piedi di Ferdinando III la proposta di separare dal resto della Toscana gli Stati occupati dagli insorti. Ma siccome l'insurrezione, per il modo con cui era stata condotta e per i furti e saccheggi ed altre infinite ribalderie fatte in nome di Maria Santissima e di San Donato, aveva dato luogo ad infinite lagnanze, che eran giunte anche a Vienna, così il Granduca, per mezzo del suo segretario Luigi Bartolini, fece rimettere ai deputati d'Arezzo un dispaccio che cantava molto chiaro.

Quel dispaccio, dopo i soliti complimenti d'uso circa "l'ammirazione, la gratitudine ed il plauso di S. A. per il coraggio fermezza e fedeltà di tutto quel popolo toscano" cioè aretino "che il signor Gamurrini aveva l'onore di rappresentare e che con l'assistenza di Dio e di Maria Santissima" che non ci pensavan nemmeno "aveva diminuite le disgrazie cui soggiaceva il granducato", conteneva altresì l'esplicito volere della prefata A. S. la quale non ammetteva nessuna distinzione e separazione, dovendo tutti i toscani essere uniti e sotto di lui.

Per dorare poi la pillola, si diceva che S. A. aveva presentato al suo imperiale fratello il signor Gamurrini, il quale era stato fatto conoscere a tutta la reale famiglia.

Il governo provvisorio d'Arezzo fu costretto a fare buon viso a mala fortuna; ed il 5 di settembre mandò fuori un avviso col quale annunziava che i felicissimi Stati di S. A. il granduca Ferdinando III erano stati liberati "dall'oppressione dell'usurpato governo francese" e che "le gloriose vittorie degli invitti eserciti imperiali e gli intrepidi sforzi delle combinate armi austro-aretine-russe" li avevano assicurati da ulteriori invasioni.

Dopo questa fanfaronata, il governo provvisorio veniva a dire che S. A. pulitamente e bene "per il canale dell'inclito Senato fiorentino" gli aveva fatto sapere che i componenti quel governo se ne potevano tornare a casa "e che dovessero cessare tutte le misure provvisorie state prese, ripristinando tutto l'antico sistema politico ed economico". Cessato così il potere di quei governanti, celebrarono il termine della loro esistenza con una solenne funzione nel Duomo di Arezzo, cantando un Te Deum solennissimo!

Il governo posticcio rimasto a Firenze, cominciò, per non sbagliare, dal voler far quattrini, poiché i nuvoloni avevan lasciate le casse vuote. Io non voglio dire come disse il Guerrazzi, che "dacché l'uomo nacque con mani fu ladro". No; l'ha detto lui, non c'è bisogno di ripeterlo; ma è un fatto che fra chi andava e chi veniva, facevano a chi portava via di più.

Quindi il governo rivolse un appello ai cittadini, i quali non poterono corrispondere che con poche migliaia di lire, essendo già esausti. Fu allora intimato, con spirito di malvagia persecuzione, un imprestito forzato agli ebrei, che si dicevan possessori di grosse somme nascoste; ciò che non era punto vero, perché anch'essi erano stati frugati bene e non male, ed eran ridotti così al verde, che non parevan più nemmeno ebrei.

Per conseguenza, la delusione dei governanti fu completa.

Invece però di pensare a dare un assetto qualsiasi alle finanze, essi si diedero con una specie di voluttà feroce a far processi ai giacobini; ed in quindici mesi, fra prima e dopo, sopra un milione d'abitanti, che tanti ne faceva la Toscana, ne furono intentati trentaduemila "per genialità francese"! Molti cittadini per antichi rancori furono anche messi alla gogna alla colonna di Mercato, dove si mettevano soltanto gli assassini ed i ladri.

Alla fine di luglio partirono le truppe russe ed i due reggimenti di dragoni austriaci "Kaiser" e "Arciduca Giovanni". Fu cantato anche allora in Firenze un altro Te Deum in Duomo, con l'intervento del Senato e di settanta dame fiorentine vestite di nero e col velo in capo, per onorare il generale Klenau e... più che altro il suo stato maggiore, composto di ufficiali delle più distinte famiglie, e piuttosto bei giovani!

In questo tempo giunse la notizia della morte di Pio VI, avvenuta a Valenza, nel Delfinato, il 29 agosto; e mentre che a Firenze si apprendeva tale nuova, giunse l'altra dello sbarco a Livorno del re di Sardegna Carlo Emanuele IV il quale "veniva colla pia consorte ad alloggiare nella consueta villa del Poggio Imperiale"; il Senato lo accolse rispettosamente a nome di Ferdinando III; ma cercò di non compromettersi.

Il mesto monarca aspettava che gli alleati gli rendessero i suoi Stati; e nella tranquillità del Poggio Imperiale gli erano gradite le visite che gli faceva Vittorio Alfieri. Carlo Emanuele si trattenne in Firenze fino al giugno del 1800.

La vittoria di Marengo mutando a un tratto faccia alle cose, riportò a galla Napoleone. Il Granduca, impensierito per le conseguenze che ne potevano derivare, avendo saputo che l'inetto e stolto governo di Firenze aveva daccapo eccitate le masse e specialmente gli aretini ad armarsi, rimandò subito da Vienna il senatore Bartolini, il quale, con i senatori Amerigo Antinori e Marco Covoni, più invisi ai reazionari, ed il generale Sommariva comandante i presidii tedeschi, costituì una nuova "Reggenza" la quale fu più fatale delle altre due, perché commise arbitrii e vendette alla sua volta. Gli aretini poi dalla regina Carolina di Napoli, che passava da Firenze per andare a Trieste erano eccitati sempre di più. Tutto questo giovò a Napoleone, il quale pensò subito a rifarsi degli smacchi subìti, occupando il 18 ottobre I799 Livorno e bombardando Arezzo, ed entrando poi di nuovo in Firenze con le sue truppe, che portarono come trofeo di guerra, otto bandiere tolte agli aretini, diciotto cannoni e trecento prigionieri.

Quando pareva che a poco a poco si mettesse un po' d'ordine, la Toscana dopo nuovo alternarsi di governi provvisorii, e di ritornare a ciò che poc'anzi, via via aveva lasciato, ebbe, diciamo così, la promozione. Essa fu convertita in regno d'Etruria, mediante il trattato di Luneville, passando in dominio ai Borboni i quali cederono in cambio di essa a Napoleone, proprio come se fosse stata roba sua, Parma e Piacenza, perché ne ingrandisse lo Stato Cisalpino. Regnanti e console si barattavan provincie e popoli, come i ragazzi fanno dei giuocattoli.

E giacché li lasciavan fare, facevan bene.

Il 15 ottobre 1800 i francesi rioccuparono la Toscana per conto della Spagna. La miseria era estrema, specialmente nel medio ceto a causa dei molti impiegati licenziati perché d'opinioni contrarie alla repubblica, e dei commercianti che si trovavano in difficili condizioni per esser fermi i porti, ai quali non approdavan più i bastimenti che portavano il grano. Cosicché i francesi, per togliere una delle tante cagioni di malcontento, pensarono di occupare tutta questa gente, ridotta senza aver da mangiare facendo costruire un loggiato dalla parte esterna della porta alla Croce che fu di grande comodità quando nei giorni di mercato pioveva. Era però doloroso il vedere tante persone di civil condizione con le mani sanguinanti perché non abituatela quella sorta di lavoro, e che in abiti puliti si piegavano a far da manuali e da facchini.

Il 9 febbraio 1801 l'imperatore Francesco, fratello di Ferdinando III, rinunziò per sé e per i suoi discendenti al Granducato di Toscana ed alla parte dell'Isola dell'Elba che ne dipendeva.

Il 21 marzo fu istituito legalmente il nuovo regno d'Etruria sotto lo scettro dell'infante Lodovico di Parma, e tutte le autorità laiche ed ecclesiastiche che ne furono informate, vi si assoggettarono con una specie di soddisfazione. Soltanto il colonnello De Fissou, governatore di Portoferraio, sostenuto e protetto dietro le scene dall'Inghilterra, che per pigliare, anche lei, ha sempre avuto un cuor di Cesare, si rifiutò recisamente di riconoscere per sovrano il re Lodovico; ed alla intimazione di uniformarsi alle nuove disposizioni, ebbe il fegato di rispondere con lettera del 7 agosto 1801 che "non constando a lui della renunzia al Granducato di S. A. R. Ferdinando III, Arciduca d'Austria e Granduca di Toscana, qui (in Portoferraio) non si attendono, né, senza farsi rei di ribellione in prima classe si possono attendere, gli ordini del re d'Etruria sconosciuto al comando di Portoferraio".

Conchiudeva poi dicendo: "Se mai costà piacesse, si pubblichi pure che il Paviglione dell'Austriaco regnante è inamovibile da questi posti; sappia ciascuno che vien protetto da mano potente; che la Gran Brettagna non ne permette l'abbassamento".

E così Portoferraio stette apparentemente fermo per Ferdinando III, in sostanza per l'Inghilterra, fino alla pace di Amiens.

I nobili, che dispregiavano i patriotti, rimasti sino allora nascosti in campagna, tiraron fuori le corna, quando sentiron pronunziare di nuovo la dolce parola sovrano, tanto più che di costui nessuno ne sapeva nulla.

Questo re balzato all'improvviso, generò lo scontento generale.

I veri liberali che non volevan sapere né di Ferdinando, né di francesi né d'austriaci, né di Borboni, ma intendevano solo di avere una grande patria italiana, furono contrariati di quest'altro atto arbitrario del primo console, tanto più che il nuovo sovrano d'Etruria veniva da "una schiatta" così retrograda, da tornare indietro d'un secolo più che sotto il Granduca.

Agli altri partiti dei francesi, degli austriaci e del nuovo re, apparteneva tutta gente che era degna del dispotismo straniero. 1 nobili e i preti erano i più fanatici per Lodovico Borbone, poiché conoscevano le bigotterie del padre, ed erano certi che il venire dalla Spagna dove l'autorità del re era il solo diritto conosciuto, la canaglia plebea sarebbe stata oppressa quanto meritava. Sentimenti, degni invero di onesti cittadini!

L’infante Lodovico, regalato da Napoleone alla Toscana ribattezzata "regno d'Etruria" aveva ventott'anni, quando dal primo console gli venne destinato il trono. Egli, benché fosse d'alta statura e di bell'aspetto, non aveva nulla di regale. Aveva i capelli biondi come una fanciulla tedesca, e li portava pettinati all'índietro terminando in un codino legato da un nastro nero, che finiva con un fiocco. Aveva più l'aria di melenso che di principe, e vestiva con molta trascuratezza. Sua moglie, piccola e bruna, tozza della persona e di carnagione ulivastra, con occhi neri vivacissimi e penetranti, senza istruzione, ma d'una superbia veramente spagnuola, era il tipo della donna da casa borghese. Per conseguenza, sotto certi rispetti, potevan dirsi una coppia e un paio.

Il 21 aprile 1801 i due nuovi regnanti della Toscana lasciaron Madrid scortati da due reggimenti di cavalleria "vestiti a nuovo" fino al confine francese, poiché si recavano a Parigi a ricever scettro e corona dalle mani del primo console. Gusti quelli, che non poteva levarsi un altro console che non si chiamasse Napoleone.

Nella carrozza della futura regina venne messa una cassetta piena di decorazioni, da regalarsi alle dame della sua corte, quando l'avrebbe costituita; e re Carlo IV vi fece anche aggiungere un sacco pieno di luigi d'oro.

Napoleone preparava a Parigi accoglienze sfarzose agli sposi Borboni; ed aveva ordinato che fossero ricevuti con grande onore nelle città della Francia. ove ad essi fosse piaciuto di fermarsi.

Infatti, appena arrivati a Bordeaux la trovarono in festa, e quando la sera si recarono con le autorità al teatro che era tutto illuminato, furono accolti da grandi applausi, spesso però superati da fischi sibilanti e acutissimi; cosicché una cosa bilanciò l'altra se non la sorpassò.

A Parigi arrivarono il 25 maggio, ed il giorno seguente si recarono alla Malmaison, nome di cattivo augurio, in un antico carrozzone tirato da quattro muli. Alla Malmaison, Napoleone li ricevé da regnante più che da console, circondato dal suo stato maggiore. L'infante e la moglie viaggiavano col titolo imposto loro da Napoleone stesso, cioè, di conte e contessa di Livorno. Appena Lodovico vide il primo console, l'abbracciò e lo baciò come se fosse stato suo padre. Napoleone che non s'aspettava l'amplesso di quel fanciullone, credendo che avesse inciampato, gli stese le braccia per sorreggerlo. I sovrani d'Etruria si trattennero a Parigi vario tempo; e quell'ingenuo principe che Napoleone regalava alla Toscana, diede la maggior prova della sua pusillanimità il dì 3 giugno, nella circostanza della grande rivista fatta in suo onore davanti alle Tuilleries. Nientemeno, che cotesto tipo novissimo di sovrano, avendo una indecente paura dei cavalli, preferì di stare a godersi lo spettacolo da un terrazzino, motteggiato e deriso dai generali e dagli ufficiali che si burlavan così per causa sua della Toscana e dei fiorentini che dovevano ossequiarlo come re!

Ma ciò non è tutto.

Questo sovrano buffone, poiché tale è il titolo che gli spetta nella storia, profittando della confidenza che a mano a mano prendeva coi coniugi Bonaparte, smettendo la timidezza che gli era abituale, faceva spesso in loro presenza, e dei familiari, pare incredibile, le capriole sul tappeto della sala, come fanno i ragazzacci di strada, o i pagliacci delle arene!... Di più, insegnava ai generali ed al seguito militare di Napoleone, a cantare il Tantum ergo ed altri inni sacri, facendosi deridere da quella gente fiera e guerresca, che aveva tutt'altro da pensare che al Pange linguae.

E tanto si prendevano giuoco di lui, che per scherno gli portavano i balocchi che avevan servito ai piccoli. Beauharnais, perché con quelli si divertisse!

Il 30 giugno 1801 i sovrani d'Etruria partirono da Parigi accompagnati e scortati da 260 ussari francesi che li accompagnarono fino a Parma, dove si fermarono per qualche tempo. Finalmente il 12 agosto arrivarono a Firenze, capitale d'un regno, che non si sarebbero mai sognati.

In questo frattempo il generale Murat, comandante delle truppe francesi in Firenze, emanò un proclama per annunziare ai toscani la gran fortuna che stava per piombare loro addosso, con l'arrivo del nuovo re. E anche questo proclama conteneva, per i veri ben pensanti che sapevan leggere tra le righe, la solita beffarda canzonatura. Bastano infatti le prime parole: "Toscani! Voi siete distinti tra i popoli per il vostro attaccamento alla Monarchia: un Re vi annunzia che egli viene a prendere le redini dello Stato".

Finché al governo francese piaceva di occupare la Toscana per conto proprio, allora lodava i toscani perché eran repubblicani anche se eran codini; e dovevano esser repubblicani per forza: quando poi gli piaceva di mandare un re, come voleva lui, allora li lodava perché attaccati alla monarchia; quasi che i buoni e pacifici toscani non potessero nemmen mangiare, se a Palazzo Pitti non c'era a sedere un re.

Il proclama di Murat continuando nella canzonatura, dice che la venerazione dei toscani per le istituzioni e per la memoria dei principi, che inalzarono il paese al più alto grado di splendore (gli antichi tempi della repubblica il generale francese non li rammentava più) avrebbero spinto il re Lodovico a continuare nell'opera della loro saviezza, ed il suo avvenimento al trono presagiva tutti i successi gloriosi del regno dei Medici, dai quali cavillosamente si voleva far discendere!

Ce n'erano ancora però, delle belle parole nel proclama di Murat, e che ai liberali parvero tante staffilate. Di fatto, aveva la disinvoltura di dire che egli si era sforzato di far godere i benefizi della pace, e che erano state rispettate le proprietà e le persone, e che i toscani non avevano sopportato che le pure spese per il mantenimento dell'armata, dimostrando a lui un vero attaccamento, ciò che formava la sua soddisfazione. "Il nuovo re terminerà di cicatrizzare le piaghe della guerra".

Prima di venire a Firenze, Lodovico mandò in sua vece il "marchese di Gallinella conte Cesare Ventura, cavaliere Gran Croce del reale e distinto ordine di Carlo III, gentiluomo di camera con esercizio, e consigliere del consiglio di Sua Altezza Reale, il signor infante Duca di Parma, Piacenza e Guastalla", a prendere possesso in suo nome del regno della Toscana, ricevendo nei modi soliti, gli omaggi e i giuramenti consueti.

Ed il 2 agosto ebbe luogo in Palazzo Vecchio la solenne cerimonia del giuramento al nuovo Sovrano, alla quale intervenne Murat, e il Magistrato civico fiorentino "come rappresentante il soppresso Consiglio dei dugento".

L'avvocato regio Tommaso Magnani, ed il luogotenente del Senato Orlando Malavolti del Benino, ebbero l'audacia di pronunziare all'indirizzo del nuovo re, in presenza del suo mandatario marchese di Gallinella, con tutta la filastrocca dei titoli alla spagnola, compreso quello di "gentiluomo di camera con esercizio", ipocrite e in quel momento in ispecie, mendaci parole. Ecco quelle pronunziate dall'avvocato regio Magnani, nel "favellare agli astanti, sulle lodi del passato e del nuovo monarca".

"Bene a ragione avete manifestati finora col profondo vostro dolore, o clarissimi senatori, o fedelissimi cittadini, i grati sentimenti di un cuore, che è troppo giustamente oppresso dalla perdita dell'ottimo, dell'augusto Ferdinando III, del Reale Granduca di Toscana, già vostro clementissimo sovrano. Questo principe, destinato a governare e felicitare altri popoli, principe magnanimo, giusto e benefico, doveva ben risvegliare negli animi vostri i più teneri movimenti d'amore e di gratitudine. Foste voi testimoni del di lui adorabile carattere, e la Toscana tutta poté riconoscere in esso quanto influisca alla felicità dei popoli, la saviezza, l'umanità, la giustizia, del sommo imperante.

La perdita però benché dolorosa, benché somma, va ad ottenere nella risoluzione delle cose un efficace riparo".

Con queste lacrime di coccodrillo si rimpiangeva un buon uomo mandato via come un servitore licenziato su due piedi, non perché fosse chiamato a felicitare altri popoli; ma perché i francesi non ce lo vollero più per venirci loro. E l'insolenza della concione dell'avvocato regio risaltava maggiore dal fatto che appunto il trattato di Luneville, come abbiamo veduto, convertiva la Toscana in Regno d'Etruria, e l'assegnava all’infante Lodovico, l'imperatore Francesco nel dì 9 febbraio 1801 a nome del fratello granduca Ferdinando, per sé e suoi successori, rinunziò alla Toscana ed all'isola dell'Elba: e l'imperatore stesso si obbligò di indennizzarlo in Germania di quanto perdeva in Italia. E la meschina indennità consisté nello spogliare l'arcivescovo di Salisburgo della potestà laica che esercitava insieme con l'ecclesiastica nella sua diocesi, e formarne un principato per Ferdinando III, che assunse il titolo di Elettore, facendo, in tal guisa, come si suol dire, quinta per discendere.

Così il cristianissimo imperatore diede un minuscolo esempio di soppressione di potere temporale. Ma in casa nostra costoro fanno i difensori della Chiesa!...

A queste spudorate parole si unì lo smacco delle altre ad elogio del nuovo padrone, dicendo: "Felici noi, che vediamo rianimate le nostre speranze con l'avvenimento al trono di S..M. Lodovico Primo, Infante di Spagna, nostro Re e Signore"!...

Ribadì il chiodo il Malevolti del Benino, cominciando anche lui col piagnucolare sulla "rimembranza dell'amara perdita fatta dell'amato nostro sovrano il serenissimo granduca Ferdinando III, destinato a governare e felicitare altri popoli", e proseguiva: "la memoria di un tenero padre, che formò sempre la delizia, la felicità dei sudditi, e l'ammirazione delle Nazioni tutte d'Europa, non poteva non eccitare vivamente la nostra tenerezza, il nostro dolore; le di lui sovrane beneficenze, le regie di lui virtù, il di lui dolce e generoso carattere, saranno eternamente scolpiti nei nostri cuori, e sempre rammenteremo con piacere il nostro benefattore".

E di fatti lo ricompensaron bene il loro padre e benefattore!

"Solamente" continuò con la sua faccia verniciata il Del Benino "poteva calmare il nostro cordoglio quel nuovo monarca che ci viene annunziato; e S. M. Lodovico Primo poteva solo eccitare in noi i sentimenti di gioia e di letizia". Ed ora bastano le citazioni, perché si fa il viso rosso soltanto a leggerle, queste parole. I liberali veri se non amavano Ferdinando perché soggetto all'Austria, non ebbero mai la viltà di fingere un dolore che non sentivano, come facevano coloro che gli si eran sempre protestati affezionatissimi sudditi ed umilissimi servitori.

Che brava gente!

Avvenuta così la cerimonia del giuramento, la città si preparò a ricevere i nuovi sovrani, non foss'altro per la curiosità di vedere com'eran fatti.

Giovacchino Murat, il più bel generale dell'esercito francese, che la teneva più dai realisti che dai giacobini, accompagnato da uno stupendo stato maggiore di generali e d'ufficiali, ed alla testa di tutta la truppa francese, andò a ricevere i sovrani davanti al parterre fuori di porta a San Gallo, facendo così un francese, ad un re di stirpe spagnola, gli onori di casa in una città italiana.

Uno squadrone di dragoni francesi ed uno di polacchi - poiché scortavano il re d'uno Stato italiano! - aprivano il corteggio di mezzo trotto, per far largo all'immensa folla, che spaventata si rifugiava contro i muri delle case.

Il corteggio magnifico era chiuso da un plotone di cavalleria polacca preceduta dalla fanfara. E con questo apparato francese, spagnuolo e polacco, entrarono in Firenze i sovrani dei regno d'Etruria, come la Toscana, con appellativo da Museo, si era voluto dal dittatore di Francia che fosse chiamata.

Dagli etruschi veri ai toscani d'allora, ci correva poco, ma tutt'insieme!...

Così entrò Lodovico di Borbone in Firenze, dove non c'era mai stato e dove veniva da re, insieme con la moglie ed il bambino, Carlo Lodovico.

La sera vi furono le solite illuminazioni, il consueto giubbile, la solita gioia spontanea imposta con le notificazioni delle autorità che eccitavano il pubblico sentimento a forza di editti e di paroloni.

Gli uomini di cui si circondò Lodovico di Borbone, lo consigliarono a porre in oblio tutte le divergenze dei partiti e ad esortare i sudditi alla concordia e a quella benevolenza di cui egli per il primo dava l'esempio.

Ma coloro che secondo le promesse del Murat, si aspettavano dal sire spagnuolo il risarcimento delle piaghe della passata guerra, stavan freschi: perché il nuovo sovrano venne ben presto a noia a causa delle "imperiosità e delle dissipazioni della corte" che finivan di rovinare lo stato: ed anche perché essa riceveva gli ordini dalla Francia, ciò che valse a riaccendere nel popolo il desiderio di riavere Ferdinando III. Almeno si sapeva dove si cascava!

Ma di ciò non si preoccupava Napoleone, il quale tempestava di lettere il governo etrusco e d'ordini il residente francese a Firenze, per avere come senseria del trono d'Etruria, altri oggetti preziosi delle nostre Gallerie. La sua fissazione più tenace era 1a Venere de'Medici, poiché voleva effettuare un suo antico progetto di rapina velato dalle parvenze di capriccio artistico.

Nel 1796 la celebre statua dell'Apollo di Belvedere fu portata per ordine del liberatore d'Italia, Napoleone, da Roma a Parigi come trofeo di guerra; e siccome egli soleva dire che aveva in mente di fare un matrimonio tra l'Apollo e la Venere de'Medici, così il senatore Mozzi, ministro degli esteri, consigliò il re d'Etruria di mandare nel 1802 a Palermo in deposito sotto la tutela e protezione del re Ferdinando IV, la Venere detta de'Medici insieme ad altri preziosi oggetti delle Gallerie per salvarli dalle rapaci mire dei francesi e più specialmente di quel genio artistico del Bonaparte. Responsabile e custode di tali preziosi oggetti fu il cavalier Tommaso Puccini, che si recò appositamente a Palermo. Ma Napoleone che considerava il re Lodovico quanto il terzo piè che non aveva, non si diè per vinto; e mentre faceva mille moine e carezze ad Averardo Serristori, rappresentante etrusco a Parigi, conquideva continuamente il re di Napoli insistendo per avere la famosa Venere. Il re aveva fatto sempre mille salamelecchi al cavalier Puccini, che teneva d'occhio gli oggetti della Galleria di Firenze depositati in Palermo, e gli protestava che li avrebbe fatti gelosamente custodire per essere restituiti subito che gliene sarebbe fatta richiesta.

Ma un bel giorno il bravo Ferdinando IV di Napoli fece notificare al Puccini che la Venere de'Medici per ordine del Bonaparte e col pieno consenso del re d'Etruria era già in viaggio per Parigi. Tutto questo però fu un intrigo del Bonaparte con la complicità di Acton, che fece credere al cardinal Pignattelli, reggente la Sicilia, che effettivamente il governo d'Etruria era convenuto con Napoleone di cedergli la Venere. Intanto la statua partì, e "Francia applaudì, vedendo accrescere il Museo di Parigi colle spoglie di popoli più traditi che vinti".

Il cavalier Puccini, per la paura che anche gli altri oggetti preziosi, mercè le astuzie del Bonaparte, dovessero seguire la sorte della Venere, scrisse subito a Firenze perché si pensasse al modo "di ritirare sollecitamente in Toscana gli altri monumenti con il loro Direttore (che era lui stesso), cui non molto confacevasi l'aria di Sicilia".

A buon intenditor poche parole. Era quanto dire che avere affidati gli oggetti preziosi della, Galleria di Firenze al re delle due Sicilie, era lo stesso che aver fatto il lupo pecoraio!

Questo smacco inasprì maggiormente i fiorentini; tanto più che i migliori vedevano che il governo del re d'Etruria riportava lo stato alle peggiori consuetudini del passato. Non prevalevano che i gesuiti ed il clero, e si pose mano perfino a ripristinare il tribunale della inquisizione, già soppresso da Pietro Leopoldo. L'arcivescovo Martini, che nel 1796 aveva tolto di mezzo lo scandalo dei miracoli della Concezione di Via del Ciliegio, ora aveva voltato bandiera anche lui; ed era uno dei più caldi fautori di una stolta superstizione. Egli favorì la falsa credenza dell'apparizione nelle vicinanze di Villamagna di una madre defunta alla propria figliuola; e la non meno stolta portentosa moltiplicazione dell'olio nel monastero di Santa Maria Maddalena. Non sdegnò nemmeno di appoggiare le imposture di una certa Borselli, che abitava in Piazza San Marco, la quale, dandosi aria di profetessa, pretendeva indovinare i futuri eventi, spacciando le più grossolane fole agli ignoranti che a torme si recavan da lei. Fra le altre, diceva che essa era stata bastonata dal diavolo, perché adorava certe immagini di rame a cui ella attribuiva i più strepitosi miracoli. Se. almeno fosse stata vera quella bastonatura, sarebbe stata la prima buon'azione del diavolo!...

La polizia si preoccupò seriamente dei malcontento della gente sensata, che biasimava con sdegno tali sconcezze in un paese che nei passati tempi era stato ammirato per la sua grande civiltà. Onde non curando il falso bigottismo eccitato dai preti nella plebe, cercò di troncare quello scandalo. Ma il Martini vi si oppose. Allora il rimedio più efficace fu il dileggio e il disprezzo dei fiorentini, i quali non avendo ancora dimenticati i tristi effetti del fanatismo degli aretini, misero tanto in ridicolo l'arcivescovo, la Borselli, i miracoli e quelli straccioni che ci credevano, i quali finirono tutti per smettere e non se ne parlò più.

Questo darà un'idea di ciò che era ridotta Firenze sotto il nuovo regime del Borbone. I conventi eran pieni di ragazze che non avevan neppure l'età necessaria. ma che vi si rifugiavano più per aver da mangiare e non far nulla, che per sentimento religioso. Gli scandali dei conventi però, dove formicolavano tante ciondolone senza voglia di lavorare, furono enormi; ed è meglio non parlarne!

La Toscana, o diciamo anche l'Etruria, andava a rifascio; ed a questo contribuiva grandemente la salute del re, il quale, essendo epilettico non poteva occuparsi degli affari di Stato. Cosicché il vero re d'Etruria, era... la regina, la quale si intrometteva in tutte le faccende anche più importanti, e comandava a bacchetta. "Ella era vana e presuntuosa di spirito, di modi imperativi e prepotenti; i pregiudizi delle donne plebee si accoppiavano in lei coi difetti delle più orgogliose principesse". Di qui facile il credere, che essa esercitasse sempre "amplissimo predominio sull'animo del debole marito"; il quale non soddisfatto di non contar quasi nulla di fronte alla moglie, volle anche attestarlo pubblicamente con uno speciale motuproprio, chiamandola con quello "a parte dell'autorità sovrana" poiché il re stesso dichiarava, e quando lo dice lui bisogna crederci, essere ella dotata di rari meriti personali!

Ci si ritrova proprio il giullare che faceva le capriole dinanzi a Napoleone, e pretendeva d'insegnare, ai generali del suo stato maggiore, a cantare il Tantum ergo!

Per dir la verità, a mandarci Lodovico, il Console ci fece un bel servizio! È vero però che non era il primo, e pur troppo non fu l'ultimo!...

Il maggior tracollo della poca popolarità del governo di Lodovico Borbone fu dunque l'assoluta padronanza dello stato che prese la regina Maria Luisa. Essa, sedotta nel suo volgare orgoglio dalla simulata cupidigia "di cortigiani e di cortigiane indegnissime" concesse il suo particolare favore al conte Odoardo Salvatico di Parma e alle sorelle Paglicci "tra i bassi intriganti spregevoli". Del Salvatico basta questo ritratto: "Senza essere egli di cattivo cuore, era ignorante e da nulla; si lasciava condurre dai frati e dal Nunzio. Il rovesciamento d'ogni buon ordine, la total rovina delle finanze, l'istallamento delle persone più inette nei più alti gradi, la legislazione paralizzata, tutto era effetto non della cattività, ma della incapacità di quest'uomo".

Nell'autunno del 1802 i sovrani d'Etruria s'imbarcarono a Livorno sopra una nave spagnuola, accompagnata da una squadra stata loro appositamente inviata, per andare a Madrid ad assistere alle nozze del principe delle Asturie con una principessa di Napoli; e a quelle tra il principe di Calabria con una infanta di Spagna.

Partirono i sovrani con prospero vento; ma ben presto incolse loro una così fiera burrasca, che corsero serio pericolo. Per colmo di disdetta, la regina prima di giungere a Barcellona fu presa dalle doglie del parto, e diede alla luce una bambina. Furon poi contenti quando si trovarono riuniti a Madrid fra loro parenti, tutti d'una medesima razza!

Il re Lodovico peggiorò grandemente delle sue condizioni e dové trattenersi fino alla fine dell'anno a Madrid, non essendo in grado di porsi in viaggio. Finalmente il 29 dicembre la Corte Etrusca s'imbarcò a Cartagena e giunse a Livorno il 7 gennaio I 803.

Non c'è da dire che avessero avuta furia a riportare in giù quel camorro!

Ma gli strapazzi del viaggio fecero peggiorare ancora di più quel vacillante re: ed il magistrato civico di Firenze era ansioso di sapere quando i sovrani amatissimi fossero tornati a Firenze per poterne dare, in tempo debito, consolante avviso al pubblico.

Quel ritorno, non punto necessario, fu annunziato al popolo con una sdolcinata e vergognosa notificazione affissa il 12 gennaio 1803. E lo stupido documento merita d'esser riprodotto nella sua integrità, per dimostrare a qual grado di abiezione era giunta Firenze, rappresentata da persone servili ed inette, che avevan perduto perfino la forma del giglio fiorentino, lo stemma glorioso dell'antica città, riducendolo a quella specie di granchio, di cui aveva tutta l'apparenza.

NOTIFICAZIONE

Il Gonfaloniere e Priori Rappresentanti la Comunità Civica di Firenze, dopo di avere con altra loro notificazione augurato il felice ritorno delle Loro Maestà i Nostri Amatissimi Sovrani, si riservarono di render noto anche al pubblico il giorno preciso, in cui era luogo a sperare che facessero il loro ingresso in questa Dominante, onde potesse ognuno, per mezzo di un'illuminazione alla Casa di propria abitazione, esternare la gioia, il giubbilo ed il contento che seco traeva una così fausta ricorrenza.

Essendo stati prevenuti pertanto che questo sì bramato avvenimento possa effettuarsi nella sera del dì 13 stante, si fanno un dovere di avanzarne la presente loro partecipazione, acciò possan tutti gli abitanti con sentimento di filiale amore saziarsi nella vista di pegno così prezioso, augure di prosperi futuri eventi, in cui sono riuniti tutti i voti. della Nazione Toscana, alla quale è toccata la sorte di goderne il Vassallaggio e la Protezione.

Dalla Cancelleria della Comunità di Firenze, li 12 gennaio 1803.

MICHELE ROTI, Gonfaloniere

VINCENZIO SCRILLI, Cancelliere.

Due belle teste quel Roti e quello Scrilli, per avere il coraggio di scriver quella po' po' di roba ad un popolo che aveva un passato così diverso dal presente!

La primavera, nella quale eran riposte le speranze dei medici per un miglioramento nella salute del re Lodovico, gli fu invece fatale. E non poteva esser di meno, perché era tornato il giorno 13, secondo le viete superstizioni della Corte. Gli insulti epilettici si fecero più frequenti e più gravi; a questi si aggiunse una febbre catarrale, che lo spense la sera del 27 maggio 1803, assistito fin da ultimo da monsignor Martini. La regina, dichiarata reggente per testamento del defunto, durante la minorità del figlio, assunse subito la direzione del governo.

Il popolo, sempre eguale, dopo essersi continuamente lamentato del malgoverno del Borbone, appena questi morì, dimenticando tutte le noiose querimonie passate, pensò di svagarsi andando in folla al Palazzo Pitti, giacché non si spendeva nulla, a vedere la salma del re esposta al pubblico.

Se non ci fosse stata per molti quella occasione per vedere il Palazzo e farsi un'idea del come stavano i regnanti, sarebbero morti con quella voglia. E la sera, nelle case del medio ceto e del basso popolo non si parlava d'altro che della magnificenza delle sale, della ricchezza della mobilia, dei quadri, delle lumiere e perfino delle scale larghe come strade.

Il morto non lo rammentavan quasi nessuno; o, se ne parlavano, era per magnificare lo sfarzo dei viticci con le candele gialle accese attorno al feretro; per celebrare la ricchezza del baldacchino sotto il quale era esposto, e lo splendore della grande uniforme con cui era vestito il morto, dicendo che era un vero peccato che tutta cotesta bella roba dovesse andar sottoterra.

Un altro svago la folla lo trovò la sera del trasporto alla chiesa di San Lorenzo, fatto con pompa di soldati, di clero, di magistrati e di ciambellani. Il cadavere fu messo in deposito nei sotterranei, dove sono le tombe medicee, e dopo alcuni anni, nel 1815, fu trasportato in Spagna e sepolto nell'Escuriale.

  

  

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Ultimo Aggiornamento: 04/01/99 23.13