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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

FIRENZE VECCHIA

STORIA - CRONACA ANEDDOTICA - COSTUMI

(1799-1859)

 

di: Giuseppe Conti

  

XXIX

Vita fiorentina

Vecchia impronta - Rimpianti inutili - La livrea della miseria - Pane fatto in casa - Giambattista Niccolini e la cameriera - Colazione, desinare e cena - Quanto costava il vino - Preghiere - Santa Maria delle Grazie - Le veglie invernali - I ciechi - Venditori ambulanti - In strada - Botteghe - Caffè - Il basso popolo, il mezzo ceto, la nobiltà e la corte - Il sarto Piacenti - Persone di servizio - Le "cene notturne all'aria aperta" - La carità del marchese Pietro Torrigiani - I bíacchi del boia - Il beato Ippolito Galantini - Il buzzurro di Piazza Pitti - Una forma di cacio sbrinze - Le vetture di piazza - I viaggi del conte Galli - Il cocchiere Cicalino - Il "Gobbo vinaio" - Carità regale - Il sale ai malati dello spedale - Il prato del Monte alle Croci - Tipi originali.

Semplice, quasi patriarcale, era la vita dei vecchi fiorentini, e tale si mantenne fin verso la prima metà del secolo XIX.

Se tanta brava gente potesse tornare in qua, le parrebbe non, essere più in Firenze, nel vedere cambiati gli usi e le abitudini, abbandonate vecchie tradizioni ed usanze che datavan da secoli, per introdurne delle nuove che non hanno nulla di speciale né di caratteristico come le antiche, e che sono invece comuni a tutti gli altri paesi. Firenze, come molte altre città, ha perduto la sua impronta; non somiglia più a sé stessa.

Questo direbbero i vecchi se tornassero: ma siccome ciò è impossibile, è quindi inutile rimpiangere ciò che non è più.

Sarà dunque bene descriverla, la vita fiorentina di quei tempi, perché almeno rimanga come memoria, e come curiosità.

Nelle famiglie era osservata una parsimonia, una regola, un'economia che spesso si tacciò di grettezza e di avarizia, mentre non era che l'amore dell'ordine, e una contrarietà spiccatissima di farsi scorgere spendendo più del dovere, e non aver poi da pagare. Si lesinava piuttosto sul desinare, purché andando fuori si fosse vestiti bene, giacché ognuno ambiva di sembrare da più di quello che era. Nelle passeggiate festive, nei pubblici ritrovi, non si vedeva la folla stracciona e miserabile di altre città: eran tutti vestiti puliti, molti discretamente, diversi bene addirittura. Si vedeva la folla d'una città civile e ben educata, poiché l'ambizione di comparire in pubblico vestiti decentemente non è che un segno di civiltà e di educazione. La differenza fra ricchi e poveri era molto meno marcata di quello che non fosse altrove. Per questo, Firenze fu portata come modello.

In altri luoghi si vedono i popolani e gli operai che ostentano la libertà e l'eguaglianza, andare con la giacchetta, la blouse e la pipa nei passeggi e nei caffè dove vanno quelli del medio ceto, o borghesi come si dice ora. A Firenze andavano, e vanno ancora, gli operai e la gente dell'infima plebe negli stessi locali praticati dai signori e dal ceto di mezzo; ma appunto per un sentimento d'orgoglio e di eguaglianza vera, si vestono meglio che possono per non far notare la distanza fra essi e loro, perché i fiorentini hanno sempre sdegnato di portar la livrea della miseria, che altrove si porta con ostentazione di protesta.

Ecco perché il fiorentino veniva spesso, dagli altri italiani, tacciato di taccagno e di gretto. Costoro mostravano di non comprendere quanta più dignità, quanto più amor proprio ed orgoglio ci fosse, a non finirsi il salario ubriacandosi nelle bettole, e girar poi la notte cantando e schiamazzando per la città, mentre la famiglia soffre e spesso non ha da mangiare. Preferiva invece di vestirsi meglio, e spendere il guadagno in famiglia. Con questo non si può dire che Firenze fosse una città di santi e di modelli di virtù: troppo sarebbe; ma generalmente la popolazione era morigerata e civile.

Nelle famiglie del popolo come in quelle signorili, si usava fare il pane in casa: e per la città si vedevano a tutte l'ore i garzoni di fornaio che uscivan dalle case dov'erano stati a prendere il pane, e con l'asse in capo, coperta da un pannolano, lo portavano in forno dal panicocolo. Ai bambini piccini e ai nipoti le nonne con l'avanzo della pasta facevano il chiocciolino, e gli omini a braccia aperte, la ghiottoneria più desiderata dai ragazzi d'allora.

Ed a proposito del pane fatto in casa, è noto che il poeta Giambattista Niccolini innamoratosi della cameriera di sua madre l'avrebbe anche sposata, se una mattina, alzatosi di buon'ora non l'avesse colta in flagrante con un garzone di mugnaio, che portava in casa la farina per fare il pane: altro che pane! Ma tutto il male non vien per nuocere: sarebbe stato peggio dopo!...

In tutte le case si poteva dire che gli usi fossero uguali. La mattina per colazione invece del caffè e latte come si usa ora, si faceva la pappa nel pentolo, spesso affumicato, perché si faceva il fuoco a legna che si accendeva coi trucioli; i ragazzi si mandavano a scuola col paniere della merenda, la quale consisteva soltanto in una fetta di pan col burro, o un fico secco, o una mela, o una diecina di baccelli, o un mazzetto di ciliege o una fetta di pattona a seconda della stagione. Al tocco tutti tornavano a desinare, e le botteghe fino alle tre non si riaprivano. Il pasto frugale si componeva generalmente di minestra e lesso, e le feste il piatto preferito era la coratella nel tegame, il fegato con l'uova, il pollo nella bastardella, o l'agnello. Per carnevale era in gran voga il lombo di maiale arrosto, e i ragazzi giravan lo spiede con lo spago, facendo a gara a chi toccava quell'incarico, che spesso dalle mamme si concedeva al più buono, come un premio. La sera si cenava verso le otto tanto d'estate che d'inverno; ma si aspettava il capo di casa che tornasse da bottega, portando per lo più l’affettato, cioè salame o presciutto o più comunemente la mortadella, che si diceva anche finocchiona, ed era l'insaccato più economico. Nella quaresima si mangiava il caviale che allora lo davano a fette ed era squisito; oppure le aringhe, o i fichi secchi, le noci, e le mele secche: insomma tutto ciò che poteva esservi da spender poco e da far companatico.

Il vino a que' beati tempi costava quattro o cinque crazie il fiasco e se era vecchio, sette crazie - cinquanta centesimi! - Quando s'arrivava alla raccolta, se l'annata era stata abbondante non costava quasi nulla. Tant'è vero, che vi furono delle annate eccezionali in cui la gente andava ai conventi delle monache di Santa Maria Maddalena, del Maglio, di Santa Verdiana e ad altri, con certi fiaschi che parevan barili, e glieli empivano per una crazia, cioè sette quattrini - dieci centesimi - e molto spesso la buona monachina regalava una mela alla bambina o al ragazzo che andava a prendere il vino.

Sembrano queste minuzzaglie, notizie insulse e da non doversene tener quasi conto; ma in una storia di costumi e di usi, non è ozioso il ricordare anche le cose minime e di secondaria importanza.

Le pratiche religiose in ogni famiglia erano osservatissime; forse più per abitudine che per convinzione: ma tutti figuravano di farlo per coscienza.

Quando suonava mezzogiorno, nelle case e nelle scuole si diceva l’Angelus Domini; molti bigotti si levavano il cappello anche per la strada e si segnavano biascicando la prece. La sera alle ventitré, un'ora prima dell'Ave Maria, si diceva il Credo per gli agonizzanti; e alle ventiquattro l’Angelus Domini come a mezzogiorno. All'un'ora poi, in tutte le famiglie s'interrompeva il crocchio o la conversazione per recitare il Deprofundis. Le nonne, che eran le massaie, troncavano a mezzo le novelle che stavan raccontando ai nipoti e dicevano: - Bambini, diciamo il Deprofundis a' nostri poveri morti. -

Tanto all'alba quanto a mezzogiorno uscivano fuori da Palazzo Vecchio, da Pitti, e da ogni altro Corpo di Guardia i soldati per la preghiera: si mettevano a rango col fucile a pied'arm, e dopo due rulli di tamburi facevano il saluto colla mano sinistra; al terzo rullo dietr’ front e posavano i fucili.

In moltissime case, se non in tutte, si diceva il Rosario e quindi, nell'inverno, si faceva veglia lavorando. I pigionali d'uno stesso casamento per risparmiare il lume e al tempo stesso per farsi compagnia, e dir male del prossimo, si riunivano da un di loro. Quando poi tornavano "gli uomini" allora ognuno se ne andava a casa sua e cenava tranquillamente.... se in famiglia non c'eran questioni, che generalmente, pareva impossibile, si serbavan sempre a tavola.

La festa si desinava alle due, e dopo la girata, le donne coi bambini andavano in qualche chiesa alla benedizione, verso le ventiquattro, oppure alla Madonna delle Grazie, quel chiesino a piè del ponte, di faccia a Via de' Benci che oggi non esiste più, dopo che il ponte alle Grazie è stato completamente rifatto. La sacra immagine però è stata trasportata in una piccola Cappella del Lungarno lì prossimo. Sulle pile del ponte, v'erano delle casupole; in una di quelle nacque il poeta Benedetto Menzini e in un'altra il pittore Gaetano Bianchi, restauratore d'affreschi. Dopo cena si giuocava a tombola e si facevan le bruciate se non le portava il damo alla dama, che ne faceva parte a tutti. L'estate poi la passeggiata o le scampagnate eran lungo il Mugnone sugli argini, dove spesso alcune comitive andavano a far merenda; in Boboli, o nel Giardino de' Semplici, o al Poggio Imperiale.

I "lavoranti", quelli che oggi si chiamano operai, da novembre a quaresima vegliavano nelle botteghe fino alle otto. Anticamente, appunto nella stagione d'inverno, giravano per le strade col carretto una quantità di venditori di peperoni e di lupini nelle zangole, che misuravan col romaiolo di legno. E quando quelli delle botteghe che erano a veglia, sentivan gridare: - I' ho' peperoni! Salati, ma boni! - uscivan fuori a comprarli e mangiando i lupini trovavan più presto l'ora di far festa. E anche dalle case uscivan fuori le donnicciuole a comprare i peperoni, i ramolacci della Font' all'erta - tra San Gervasio e San Domenico di Fiesole – i più rinomati per mangiarsi col tonno; o i lupini, che a molta povera gente, specialmente per chi aveva dimolti figliuoli servivano di cena.

Per le strade, fra giorno, i ciechi giravan per Firenze con la chitarra ed alcuni col violino cantando la storia della Samaritana, di Sansone, di Marziale che nacque con due denti, della Gnora Luna. di Brandano, la Strage degl'Innocenti, la Fuga in Egitto o il Canto d'Erminia della Gerusalemme del Tasso, tutto quanto sapevano e veniva loro in mente. Le donne davano a quei ciechi, piuttosto noiosi e importuni, perché molti eran ciechi autentici, ma molti altri facevan da orbi e ci vedevan meglio degli altri, le seggiole e quelli delle botteghe i panchetti; e dalle finestre buttavan loro un quattrino rinvoltato in un foglio.

La sera dell'ottavario dei morti si mettevano due ciechi da un capo all'altro della strada rispondendosi cantando i Sette Salmi o altre divote preci per le anime del Purgatorio; e allora il quattrino glielo buttavano in un foglio acceso, perché vedendo il bagliore lo raccattassero. C'erano anche quelli che giravano con dei tabernacoli con qualche Cristo o Madonna miracolosa, e si mettevano a decantare quei miracoli che spesso eran così grossi - come un tale che faceva piangere un Cristo di legno, e di quando in quando anche sudar sangue - che i birri gli portavan via e li mettevano al bargello senza che il Cristo facesse il miracolo di liberarli.

Oltre ai ciechi, in ogni strada, era un continuo gridare ora d'ortolani, ora di fruttaioli che avevano i loro avventori fissi e si fermavano tutti i giorni alle medesime case; oppure di cenciaioli che dalla mattina alla sera giravan per tutta Firenze urlando: Donne chi ha cenci!... sprangai che accomodavan gli ombrelli e sprangavano i catini e le stoviglie rotte; seggiolai che rimpagliavan le seggiole sfondate in mezzo alla strada come se fossero stati nella propria bottega, arrotini e altre infinità di mestieri.

Fuori delle botteghe si vedeva il fornello del sarto coi ferri a scaldare, il ragazzo del legnaiolo che accendeva i trucioli per scaldar la colla, il tappezziere che impuntiva i sacconi o le materasse, se non le ribatteva addirittura sullo scamato, i fiascai che rivestivano i fiaschi, il ciabattino a bischetto che rattoppava le scarpe e via dicendo.

Quelli delle botteghe parevan tutti d'una famiglia, tant'era la buon'armonia e l'amicizia che regnava fra i varii mestieranti.

Una strada talvolta pareva una sala di conversazione; perché ogni mattina quando si aprivan le botteghe tutti si davano il buon giorno e ognuno aveva qualche cosa da raccontare, qualche novità da dare o da dir qualche barzelletta: spesso si udivano delle risate proprio da cuor contenti. Si dicevano quello che avevan mangiato per cena, dove avevan passato la serata e quindi ciascuno accudiva al proprio lavoro ed ai propri affari fino all'ora del desinare, in cui non si chiudeva, ma si accostavan le bande sicuri che nessuno si sarebbe azzardato a entrarvi, e alle tre si riapriva.

Ci sarebbe da farlo ora!

Nell'estate, quand'eran circa le sei - oggi si direbbe le diciotto - si usava fare la merenda, e alle otto, cioè alle venti, che a Firenze suonava le ventiquattro - ora italiana - ossia l'Avemmaria della sera, si chiudeva.

Quest' usanza più che altri l'avevano i calzolai, i sarti, i legnaioli, i marmisti, i tappezzieri e mestieranti simili.

Le botteghe di fondaco, di merceria, di setaiolo, e altre più di lusso, non si chiudevano fino alla sera; con l'usanza però sempre di far la chiacchierata coi vicini quando c'era meno da fare, per essere al corrente di tutte le novità. Il sabato sera il principale dava il salario ai lavoranti, e fino al lunedì non si riapriva; perché se qualcuno avesse aperto la bottega in giorno di festa per far la più piccola cosa, gli veniva subito fatta la cattura dai birri, ed era costretto a pagare una multa. Se poi era recidivo lo mandavano anche in carcere.

I Caffè si chiudevano la sera alle undici; e soltanto il Bottegone sul Canto di Via de' Martelli in Piazza del Duomo, del quale era proprietario Fortunato Carobbi, aveva il permesso di stare aperto fino alle due di notte "per comodo dei signori che uscivan dal teatro".

Il Caffè Doney era il principale di Firenze, e anco quello di Wital in Via Por Santa Maria, chiuso dopo il 1880, non era fra i secondari di certo. Sempre nella stessa strada si trovava il Caffè Elvetico, e l'Elvetichino era in Piazza del Duomo. Gli altri Caffè più frequentati e di una certa fama, erano il Caffè Landini in Via del Proconsolo, il Caffè Bellocci e il Leon d'Etruria di Vincenzo Galanti in via Calzaioli, quello della Vacca dei fratelli Boni in Via dell'Oche, del Giappone in Piazza del Granduca, dell'Orlandini in Via della Ninna e il Caffè dell'Arco demolito presso il Ponte Santa Trinita.

Il più antico Caffè di Firenze è il Panone in Via Por Santa Maria. Quel Caffè, che esiste tuttora, ha una storia.

Fra i più modesti si notavano il Caffè de' Filarmonici in via del Fosso; del Popolo in Piazza di San Piero, quello degli Svizzeri in Piazza di Santa Croce, del Pruneti in via de' Benci, e l'altro dalle Colonnine da Sant'lacopo. L'antico Caffè Guarnacci in via del Proconsolo, era rinomato per le orzate nell'estate; e la sera vi era gran concorso della nobiltà che vi si fermava in lunga fila con le carrozze per gustare quella bibita favorita, che oggi a Firenze è uscita di moda, sebbene a Torino sotto il nome di bomba trovi un largo smercio.

Nelle strade ove abitava il popolo minuto e specialmente in San Frediano, in Via dell'Orto, del Leone, della Nunziatina, del Campuccio, in Gusciana, nei Camaldoli di San Frediano, in Via Gora verso il Prato, si costumava, nell'estate, di stare nella strada sugli usci delle case a godere il fresco, facendo un cerchio di seggiole mezze spagliate, se non sfondate addirittura, come comportava l'allegra miseria di quella gente, che nonostante era gaia e di buon umore. Tutti quei circoli di donne coi figliuoli attaccati alle sottane, che per lo più erano nudi con la sola camicia, ed ai quali davan la pappa in certi tegami che sapevan di rifritto da rivoltar lo stomaco, ed i più piccini se li attaccavano al petto, dando loro latte impunemente come se fossero nella propria camera, avevano un non so che di spensierato che faceva piacere, prescindendo, s'intende, dalla poca pulizia e dal modo trasandato con cui stavano. In quei crocchi di donnaccole era rarissimo che si sentisse dir bene di qualcuno: non si faceva, come suol dirsi, che tagliar la giubba addosso al prossimo, che era un piacere. Ma non c'era malignità: era piuttosto un bisogno di canzonare, d'occuparsi de' fatti degli altri innato nella plebe, e.... se si deve dir come va detta, anche più in su.

Quando era l'ora che tornavano i mariti, alcune di quelle donne che stavano a terreno mettevano fuori un tavolino e si sedevano a cena, unendosi con altri vicini e poi facevan conversazione. Il più delle volte però, taluno fra i più istrutti si metteva a cantar di poesia, facendo così, spoetando, l'ora di andare a letto, ciò che era un gran dispiacere per i crocchi che s'eran formati attorno ai varii poeti, che talvolta senza parere si mettevano in canzonatura l'un con l'altro, parafrasandosi la poesia ed improvvisando rime strane e spesso sguaiate, che suscitavano le più grandi risa. Questa era la vita che menava, press'a poco, il basso popolo, vita invidiata dalla gente più facoltosa, perché quelli avevano una salute di ferro, e de' pensieri se ne prendevano meno che era possibile.

Era in voga giust'appunto tra i popolani il dettato, che "i debiti vecchi non si pagano, e i nuovi si fanno invecchiare". Così eran contenti come pasque!

Il ceto di mezzo andava di consueto a prendere il fresco passeggiando per il Lungarno: e molti. come oggi si anderebbe a un caffè, si mettevano a sedere su certe panche di legno con la spalliera lungo le due spallette del Ponte Santa Trinita pagando una crazia a testa. Appena che uno si era seduto non c'era caso che se la potesse sgabellare non pagando nulla, perché se faceva da scordato lui, non lo faceva il pancaio; il quale, appena lo allumava gli andava dinanzi con la mano tesa dicendo: - Signori, il pancaio! I più facoltosi, fra costoro, specialmente le feste, andavano invece a prendere il sorbetto al Caffè dell'Arco demolito sull'angolo del palazzo Ferroni, così chiamato in memoria dell'Arco di Santa Trinita buttato giù. Cotesto caffè era il ritrovo elegante nell'estate, e si mettevano i tavolini fuori tanto dalla parte del Lungarno che da Via Tornabuoni.

La semplicità della vita fiorentina non era soltanto nel popolo, ma sibbene anche nella nobiltà e alla Corte. Per darne un esempio, gli impiegati e i servitori del Granduca parlando tra loro non dicevano a ogni parola, Sua Altezza; ma dicevano il padrone: e siccome il sarto di Leopoldo II era Francesco Piacenti, che aveva bottega in Via Vacchereccia, così il cavalier Nasi, e poi il signor Paglianti, addetti alla casa del Granduca, quando andavano per suo ordine da lui, gli dicevano: - Sor Francesco, la passi dal padrone perché ha bisogno di lavoro. - E per il solito, il lavoro era qualche abito nero; perché la specialità del Granduca era quella di portare continuamente la giubba con le fodere di seta bianca.

Il Piacenti vestiva pure la servitù, i camerazzi, i cantinieri, il capo degli argenti, gli staffieri e i lacché. Dal capo andava alla coda!

Anche nella nobiltà si usava trattare affabilmente la servitù, dalla quale, bisogna pur dirlo, i signori eran però ricambiati con un affetto e con un attaccamento esemplare, che oggi non si sogna nemmeno, perché la riconoscenza sembra un avvilimento. Oggi si accettano, anzi si pretendono, i benefizi; e chi li fa, quasi quasi deve ringraziare chi li riceve.

Anticamente i servitori entravano in una casa da giovanetti e c'invecchiavano. Avevano il segreto di farsi benvolere, ed erano affezionato ai padroni dai quali ricevevano ogni garbatezza.

La nobiltà fiorentina prendeva molta parte ai divertimenti popolari: però, meno poche eccezioni, le grandi famiglie restavano in villa buona parte dell'anno.

Il marchese Pier Francesco Rinuccini era il grande ordinatore delle feste della Società fiorentina: le "cene notturne all'aria aperta" erano una sua invenzione. Partivano gl'invitati la sera verso le ventiquattro in carrozza, e tornavano a notte inoltrata. Una volta, il sullodato Marchese rientrato in palazzo non trovò al posto il portiere; salite le scale si accorse che certe stanze erano insolentemente illuminate, e spinto l'uscio di una di quelle, vide che tutta la servitù, nessuno eccettuato, si abbandonava a una danza vertiginosa: camerieri, cuochi, sguatteri, e altri invitati, ballavano precisamente come i topi quando il gatto non è in paese. Gli uomini all'inattesa comparsa del padrone rimasero senza fiato, le donne poco mancò che non svenissero. Il Marchese represse un sorriso, assunse un'aria tragica, e ordinò che "smettessero immediatamente". Il giorno dopo raccontò agli amici in qual modo la servitù approfittava della sua assenza, e diede subito le dimissioni da direttore delle "cene notturne all'aria aperta"!

Fra i vecchi signori fiorentini era famoso il marchese Pietro Torrigiani per essere uomo caritatevole e vero signore, che faceva onore alla sua casata, celebre per lo splendore ed il fasto al pari d'una Corte; e si può dire che fosse la prima di Firenze. Ma il marchese Pietro, era noto altresì per essere spregiudicato al massimo grado. Fece epoca, anzi, ciò che un giorno gli accadde mentre, come era suo solito, faceva l'elemosina a un povero.

Il presidente del Buon Governo Ciantelli, l'uomo che già sappiamo che roba fosse, aveva dati ordini severissimi ai birri contro i poveri che accattavano per le strade; ed i birri, nei primi giorni specialmente, si misero con tanto impegno ad eseguire gli ordini ricevuti, che avrebbero arrestato anche i muricciuoli. Ora avvenne che il marchese Torrigiani, conosciuto da tutti i poveri per la sua bontà, sl imbatté presso il ponte alla Carraia in uno di essi, che gli andò incontro per chiedergli l'elemosina. Mentre il Marchese metteva mano a tasca e stava per dargli un paolo, poiché egli non dava mai di meno, si fecero addosso al povero due birri tutti inferociti per arrestarlo. Al marchese Torrigiani andò il sangue alla testa; ma per un poco si contenne, dicendo ai birri con gli occhi un po' sgranati: - Che cosa entrate voi nei miei interessi? Io pago quest'uomo che mi ha fatto un servizio, e andatevene! - Siccome però i birri non lasciavano il povero, il marchese Pietro venendo a più mite consiglio, li bastonò tutt'e due di santa ragione, e disse loro: - Andate a dire a Sua Altezza che ve le ha date il marchese Torrigiani! -. Poi diede il paolo al povero che se la svignò più presto dei birri, che furon fischiati dalla gente accorsa a quel lazzo, inseguendoli con I' epiteto di biacchi del boia come li chiamava il popolo per dispregio.

Dopo questa lezione, il signor Ciantelli mitigò il rigore, per paura che se il sistema del marchese Torrigiani avesse preso piede, un giorno o l'altro bastonavano anche lui. E sarebbe stata una manna!

La vita fiorentina di quei tempi era così ristretta, che ogni cosa da poco prendeva l'importanza d'un avvenimento. Lo provò il fatto quando nel 9 aprile 1827 il Magistrato della città accordò al canonico Gaetano Caprara di poter collocare nella casa di sua proprietà, posta in Via della Scala, il busto "in rilievo" rappresentante il beato Ippolito Galantini che in quella casa abitò e vi morì.

Quando il canonico Caprara fece mettere il busto a posto, pareva che avesse rivoltato il mondo. Tutti accorsero in Via della Scala ad ammirare, a guardare, a perdersi in mille chiacchiere, quasi che si fosse trattato del più grande uomo della terra o della cosa più straordinaria. E questo seguiva anche per fatti di minore importanza. Basterà rammentare il buzzurro di Piazza Pitti - che stava a far le ballotte, le bruciate e la pattona, dove ora è il tabaccaio - il quale tornando nel 1830 a Firenze, portò la novità del cacio che oggi si dice d'Olanda, e che allora dal popolo si chiamava sbrinze. L'astuto svizzero mise una forma di questo cacio, grande quanto un tavolino tondo da caffè, sotto una gran custodia di vetro; e i ragazzi e anche la gente d'età ci si fermava incantata per diversi giorni, a guardar tanta meraviglia, credendo che ci volessero tesori per poter mangiare di quella delizia; ma quando videro che era una cosa che tutti potevan comprare per pochi soldi, non lo guardaron più nemmeno.

In quanto ai comodi della città pareva un sogno che ci fossero dodici vetture di piazza che stazionavano metà sotto gli Uffizi, e metà presso il Sasso di Dante. Tutte però erano a due cavalli e facevano quasi soltanto i servizi di campagna: ma insomma, per coloro che non s'eran mai mossi di Firenze, sembrava che cotesto fosse il massimo della comodità e della mollezza.

Quando i signori andavano a fare qualche viaggio si servivano delle carrozze di posta; ma il conte Galli il più eccentrico della nobiltà fiorentina, che andava vestito sempre trascurato più del decente e che per una delle processioni del Corpus Domini, alla quale prendeva parte, si metteva la giubba coi bottoni di brillanti che valevano mille scudi l'uno, ogni anno andava a fare un viaggio a Vienna e a Pietroburgo nella sua carrozza e con due dei suoi cavalli, mettendoci più d'un mese. Era quello il carnevale e la cuccagna del suo cocchiere Cicalino, che aveva preso da una famiglia di contadini a Scandicci, il quale si divertiva più del padrone; e facendo le spese, con un uomo di quella fatta non ci rimetteva certamente di suo.

Quando il conte Galli andava via di Firenze lasciava per rappresentante un gobbo che vendeva il vino delle sue fattorie al finestrino del palazzo in Via delle Seggiole. Cotesto "gobbo vinaio" era il suo maestro di casa e ne disimpegnava le attribuzioni onestamente.

La granduchessa vedova Maria Ferdinanda e l'arciduchessa Maria Luisa sorella del Granduca, che il popolo teneva in concetto di santa, andavano due volte la settimana allo Spedale. Le due principesse, senza boria e senza pompa, si recavano ai letti dei malati, li confortavano con amore, li esortavano affettuosamente ad aver coraggio e fede, e lasciavano loro cinque o dieci paoli ogni volta, che facevano più effetto delle parole.

Quella era la vera carità regale, senza ostentazione, non facendo annunziare ai quattro venti come una cosa d'esagerata degnazione il bacio dato a un bambino, o un'elemosina a un povero diavolo.

Ed il popolo con tali esempi si ingentiliva e si educava nella pietà e nel vero amor fraterno.

Tutte le domeniche usava che i gíovanetti della Compagnia di San Filippo Neri - detti sanfirenzini - di quella de' Vanchetoni e di altre, andassero anch'essi allo Spedale di Santa Maria Nuova divisi in tante squadre comandate da uno che era chiamato il maestro, a portare il sale ai malati, perché lo Spedale allora non lo passava!... Ogni maestro aveva nello spedale un armadio a muro, dove dentro c'erano i grembiuli bianchi e i bussolotti del sale, che i giovanotti si legavano a cintola sopra il grembiule. Ad ogni ragazzo si assegnavano dieci o dodici malati a cui doveva dare il sale per il lesso; e agli impotenti dovevan far la carità d'imboccarli.

Alcuni poveretti dicevano a quei ragazzi balbettando per chieder loro ancora del sale: - Un altro pochino, un altro pochino.

D'estate, il giorno dopo vespro, i sanfirenzini andavano per squadre di dodici o quindici al Monte alle Croci, sul prato che c'era, ed al quale si accedeva da un usciolino a mezza salita, dove ora è il giardino delle rose, e quivi giuocavano a palla, all'altalena, o facevano i soldati. Alle ventitré precise, al suono di una campanella, tutti dicevano il Credo; e alle ventiquattro facevano silenzio: quindi girando il prato dicevano il Rosario e dopo tornavano a Firenze con lo stesso ordine e con lo stesso chiacchierìo di quand'eran partiti.

Una delle particolarità più note del popolo fiorentino è stata sempre quella di canzonare i tipi più buffi, di metter loro dei soprannomi tremendi, e di far loro la caricatura perfino in gesso dai lucchesi, che si vendeva liberamente per le strade e che poi si vedeva sui cassettoni di quasi tutte le case di quel tempo.

Nel 1834 fra i più perseguitati era un tale, detto Zuccherino, che vendeva i biscottini e che aveva per male quando lo toccavano.... sotto le reni! E i ragazzi che lo sapevano, messi su al solito dai grandi, bastava che lo vedessero perché gli corressero dietro in punta di piedi e lo prendessero per.... la parte di cui era tanto geloso. Le furie di Zuccherino erano terribili: bestemmiava, trattava male quei monelli, le loro mamme, i babbi e quasi anche i pigionali.

Un'altra vittima di quelle birbe era un venditore di chicche, che quando passava tutti gli dicevano: - O becco! poiché con questo bel nome soltanto era ormai conosciuto. Ma costui pareva anzi che se ne tenesse, perché il giovedì santo non lavorava ed andava invece in giubba con la moglie - dalla quale pur troppo gli proveniva il titolo poco nobiliare - tutta in ghingheri e con lo scialle di ternò a visitar le chiese. A costui è fama che dicessero:

Oh virtù del sacro rito,

Anche l'adultera va coi marito!

C'era anche il Magnanino, che stava di bottega sull'angolo di Via de'Cimatori, ubriaco puntualmente fino dalla mattina alle otto! Quando poi la sbornia non gli permetteva di arrivare all'ora di chiuder bottega, la chiudeva avanti e si metteva a girare per tutte le strade di Firenze senza saper dove andava urlando e strepitando con una turba di ragazzi dietro che gli facevan la fischiata e che si fermavano a rispettosa distanza quando seccato si fermava anche lui, minacciandoli di tutte le peggiori cose del mondo. Ma siccome non si reggeva ritto, continuava la sua ignota via a balzelloni, senza chetarsi un minuto.

I birri che lo sentivano, quando potevan farlo, si allontanavano, secondo il vecchio sistema sempre vigente; ma quando non potevan farne di meno, lo arrestavano e lo conducevano dal Commissario del quartiere più prossimo, che gli domandava che cosa aveva fatto per essere arrestato. E il Magnanino tutte le volte rispondeva: - Nulla! e nulla non si scrive! -

Ponte, altro passatempo dei monelli fiorentini, era un ometto piccolo con una gran capelliera bianca, che andava sempre senza cappello come se avesse i calori anche d'inverno. Lo chiamavan Ponte, perché un giorno il vento gli portò il cappello in Arno, mentre traversava il Ponte Santa Trinita: ed egli, stizzito, fece giuro di non portar mai più cappelli. E lo mantenne. Quando i ragazzi gli dicevano:

- Ponte, i'ccappello?...

- L'ho a bottega - rispondeva.

Fra i tipi più curiosi e più buffi di cui si vendevano dai figurinai le caricature, i più noti erano Giorgino orefice sul Ponte Vecchio, piccolo con le gambe torte, il viso lungo e una bazza smisurata; il principe Ruspoli, col collo lungo e d'una figura ridicolissima; il Michelagnoli, Commissario degli Innocenti chiamato per soprannome il re Erode, perché si diceva che le rendite le mangiasse tutte lui, e i fanciulli ivi ricoverati ne soffrissero. Il gobbo fioraio, un ometto allegro e faceto che vendeva i fiori le domeniche e che quando li offriva alle Signore diceva sempre: "I' ho le rose e la vainiglia - Ma se la scappa.... chi la ripiglia?...", il Monchino, di stirpe nobile degli Orlandini, che durò molti anni a suonare il campanello di casa con la bocca, e poi finì, poveretto con l'affogarsi; e infine il Grazzini canonico del Duomo, detto il brutto.

Una volta fu buttato nella buca delle lettere alla Posta, un biglietto indirizzato: Al più brutto che sia in Duomo.

Il postino, senza nemmen pensarci, lo portò al canonico Grazzini; il quale però senza perdersi d'animo, appena letto l'indirizzo, disse: - Non viene a me - e lo inviò a un altro canonico, brutto parecchio sì, ma non mai quanto lui.

È inutile, nessuno si riconosce! Eppoi i brutti!

           

  

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Ultimo Aggiornamento: 08/01/99 22.20