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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

 

FIRENZE VECCHIA

STORIA - CRONACA ANEDDOTICA - COSTUMI

(1799-1859)

 

di: Giuseppe Conti

  

XXII

Primi guai - La Guardia Urbana

La morte della Granduchessa Maria Anna

Festa in Boboli; partenza per Vienna; timori svaniti - Un comitato che si dimette e la storia di una colonna - Una deliberazione del Magistrato civico - Un busto del Granduca comprato "per il giusto prezzo" - Ciambellani dimissionari - Il trionfo de' birri - Condizioni politiche dell'Italia - La Guardia Urbana istituita e licenziata - Il ministro Fossombroni si ritira a vita privata - Muore a Pisa la granduchessa Maria Anna - Trasporto a Firenze - Esequie solenni nella chiesa di San Lorenzo.

L'ultimo bagliore della popolarità di Leopoldo II fu l'11 luglio del 1830, in cui ebbe luogo una grandiosa festa da lui offerta al popolo nel Giardino di Boboli. Quella festa riuscì soprattutto brillantissima per la fiducia da esso riposta nei cittadini, i quali con grande espansione dimostrarono l'affetto che portavano al principe. Due giorni dopo egli parti per Dresda, ove le due Granduchesse e le figlie lo avevano preceduto, lasciando il governo dello Stato nelle mani dei ministri.

In Firenze si stava in una certa apprensione, perché il Granduca era andato senza nessun ministro alla corte di Vienna.

La politica austriaca, a quei tempi, piombava con tutto il suo peso sopra i governi italiani, talvolta sotto forma di ammonimenti, talaltra con aperti rimproveri, per costringerli a batter la strada che essa voleva. Perciò era giustificato il timore che avendo il governo austriaco, sia pure per pochi giorni, Leopoldo II nelle sue mani, non esercitasse su lui qualche mala pressione, o gli giocasse qualche brutto tiro.

Invece, il povero Leopoldo se la levò meglio che poté; e per provare quanto egli, anche lontano, avesse a cuore lo Stato, si raccontò al suo ritorno, e forse non sarà neppur vero, che a Vienna mentre si recava ad ossequiare l'Imperatore accompagnato dal suo maggiordomo maggiore, si scatenò un vento impetuoso che minacciava una violenta bufera. Il maggiordomo, vedendo che il Granduca dai cristalli della carrozza guardava impensierito i nuvoloni neri che si rincorrevano per il cielo, gli disse:

- Ho paura, Altezza Reale, che ci tocchi una burrasca. - Lo temo anch'io, - rispose il Granduca.- Già! quando comincia questo benedetto vento di Siena!... -

Il maggiordomo non fiatò. Egli pensò che quelli forse erano i frutti degli studi che il Granduca aveva fatti da giovane sulle opere di Galileo!

Quando si seppe dunque che Leopoldo II verso la metà d'ottobre sarebbe tornato a Firenze come era andato, vale a dire senza aver subito nessuna pressione né ricevuti rimbrotti dalla burbera Austria, il popolo e il governo si sentirono come sollevati da un gran peso. Era andata bene; ma la paura era stata dimolta!

Perciò nacque subito in alcuni dei principali cittadini, l'idea di festeggiare con pubbliche dimostrazioni di gioia il ritorno del Sovrano, non tanto per ricambiare il merito di lui, quanto per far vedere all'Austria come i toscani tenevano alla loro indipendenza. A questo scopo si costituì subito una commissione composta dei marchesi Gino Capponi, Cosimo Ridolfi, Pier Francesco Rinuccini e del cavalier Giovanni Ginori.

Questi promotori raccolsero assai denaro per pubblica sottoscrizione; e i preparativi delle feste procedevano alacremente, poiché si voleva fare una dimostrazione solennissima e significativa. Si sentiva proprio che ci si avvicinava al'31.

Fu pensato perfino di erigere ad eterna memoria del fatto una colonna, da collocarsi sulla strada bolognese a tre miglia di distanza dalla porta a San Gallo, con una iscrizione dettata da Pietro Giordani, esule glorioso che aveva trovata cortese ospitalità in Firenze.

Il marchese Ridolfi, a nome anche degli altri promotori, con lettera del 30 settembre rimetteva al Governo il richiesto progetto della festa per ottenerne l'approvazione.

Il 1° del mese di ottobre il Consigliere di Stato Cempini rispondeva al Ridolfi che trattandosi di dimostrazioni di gioia da darsi da una particolare società di privati, l'I. e R. Governo non credeva doverne prendere special cognizione, se non in quanto poteva interessare il buon ordine o aver qualche rapporto con il pubblico servizio. Ma siccome le idee svolte nel progetto non potevano pregiudicare né all'una né all'altra cosa, "così l'I. e R. Governo non aveva nulla da opporvi". Soltanto, per ciò che risguardava la iscrizione da scolpirsi nella colonna occorreva riportare l'approvazione sovrana.

Fu inoltre approvata la coniazione di una medaglia commemorativa da offrirsi al principe, ed una a tutti i sottoscrittori.

Cosicché ogni cosa pareva sistemata, e null'altro mancava che di conoscere il giorno preciso dell'arrivo del principe per dimostrargli la letizia dei sudditi; ma a un tratto, senza sapere né il perché né il per come, il governo proibì la festa che prometteva di riuscir solennissima e degna dei promotori e di Firenze.

Tanto fu lo sdegno che ne sentirono il Capponi, il Ridolfi e il Rinuccini, che dopo aver rivolte risentite parole ai ministri per questo sopruso loro fatto per le mene della polizia, che perseguitava i liberali rinchiudendoli nel Bargello, restituirono immediatamente i denari ai contribuenti, pagarono del proprio le spese già occorse nei preparativi, e fecero disfare ogni cosa. La colonna che doveva erigersi sulla strada bolognese fu poi inalzata nel giardino della villa Rinuccini a Camerata; Pietro Giordani, come autore dell'epigrafe scolpita nella colonna, in ricompensa dei sentimenti di devozione e di riconoscenza ivi espressi, fu, insieme al barone Poerio, espulso dal Granducato!...

E che il ritorno del Granduca, per così dire incolume, da Vienna fosse una gioia per tutti, lo dimostra la deliberazione presa dal Magistrato civico in tale occasione, ossia nel 24 luglio 1830.

In essa, il Gonfaloniere rappresentò di aver sentito il quasi universal gradimento degli abitanti di tutti i siti della città, perché fossero "dalla Comunità dati contrassegni di rispetto e di giubbilo, con qualche festa pubblica, nel fausto ritorno", che era per fare alla sua Residenza Sua Altezza Imperiale e Reale "il graziosissimo e ben amato Sovrano con la Granduchessa sua sposa e tutta la famiglia Imperiale e Reale, profittando di questa circostanza anche per dimostrarsi grati del regalo fatto pochi mesi prima dal Granduca, di 54 buglioli di cuoio per il corpo dei pompieri".

Perciò fu deliberato che al detto ritorno fosse preparato l'ingresso nella città, per la nuova strada detta di San Leopoldo in continuazione di Via Larga; ed a tale oggetto si facesse nelle mura urbane una sufficiente apertura a guisa di Porta, da servire per detto solo ingresso e da chiudersi dopo il medesimo, ottenendone l'opportuna superiore permissione, e di dare una qualche festa civica, che potesse essere di gradimento e piacere della prefata I. e R. A. S.

Ed a questo effetto, i signori adunati commessero al loro signor Gonfaloniere di fare le opportune richieste a chi occorreva per ottenere la permissione di detto strappo nelle mura urbane, e di umiliare a S. A. I. e R. l'offerta della città per detta festa.

A tanto zelo del Magistrato ed al gradimento degli abitanti di tutti i siti, non corrispose il gradimento del graziosissimo Sovrano, come non aveva corrisposto quello del Governo ai gentiluomini promotori di una pubblica festa. In risposta alla domanda di poter dare "i contrassegni di rispetto e di giubbilo" fu partecipata al Magistrato una lettera del Provveditore della Camera de' 6 settembre 1830, con la quale si accompagnava al Gonfaloniere una copia del "viglietto dell'I. e R. Segreteria di Finanze de' 26 agosto, contenente il veneratissimo Dispaccio con cui S. A. I. e R. ordinava farsi sentire nel suo Real nome al Gonfaloniere ed alla Magistratura, che grato al buon animo dimostratogli dagli abitanti di Firenze, e di cui il Magistrato stesso si era fatto interpetre, non permetteva che l'attaccamento e devozione de' suoi amatissimi sudditi alla Real sua Persona, fosse dimostrato con aggravio della Comunità, dando pubbliche dimostrazioni di gioia nella circostanza del suo ritorno nel Granducato come veniva domandato".

Ma per addolcire il rifiuto, il Granduca dopo alcuni mesi si degnò di condonare "graziosamente alla Comunità la somma di L. 19,100.10.8 di cui essa restava ancora debitrice alla R. Depositeria per saldo delle somministrazioni ricevute nientemeno che nel 1819, in occasione delle feste date a Sua Maestà l'imperatore d'Austria, come risultava dal Biglietto della I. e R. Segreteria di Finanze de' 13 maggio 1831. Il Magistrato che oltre al risparmiare la spesa della festa si vide abbonare il vecchio debito, deliberò subito di esternare la sua gratitudine, e di fare gli opportuni ringraziamenti a S. A. I. R. per la beneficenza usata verso la Comunità, commettendo al signor Gonfaloniere di rimettere copia del partito al Provveditore della Camera di sopraintendenza comunitativa, perché dal medesimo fosse dato l'opportuno corso.

Il sistema quasi tradizionale del Magistrato civico, era furbesco quanto mai. Nel momento dell'entusiasmo deliberava sempre le feste, e votava le somme necessarie, protestando al graziosissimo Sovrano sensi di devozione e di attaccamento perfino esagerati; a sangue freddo poi, andando in lungo anche per degli anni, trovava mille gretole per far pagar quelle feste a chi se le era godute, perché non sì dicesse che "il pazzo fa la festa e il savio se la gode".

E per non parere proprio scrocconi, i signori del Magistrato, nel 25 novembre 1831, avendo sentito che lo scultore Ottaviano Giovannozzi proponeva alla Comunità di fare l'acquisto del busto in marmo rappresentante il Granduca, ordinarono che fosse acquistato a spese del Comune il detto busto "per il giusto prezzo" commettendo al Gonfaloniere di farlo determinare in quel modo che avesse creduto opportuno nell'interesse pubblico, per collocarsi nella sala delle loro adunanze.

Ed il giusto prezzo convenuto con lo scultore Giovannozzi fu di trentotto zecchini. Di fronte alle diciannove mila lire di debito condonato, il Magistrato ci poteva stare, e se ne fece onore con poco.

Ma il Ridolfi, il Rinuccini e il Capponi, che non avevano debiti da farsi pagare, appena tornato il Granduca cercarono di fargli conoscere il loro malcontento per il divieto del Governo, alla manifestazione di giubbilo da loro organizzata per il suo ritorno. Non avendo però ottenuta nessuna soddisfazione e venendo anzi essi a sapere che la polizia, diretta dal famigerato Ciantelli, presidente del Buon Governo, aveva addebitato quella dimostrazione "di mene rivoluzionarie e d'altri rei disegni", indignati più che mai che tal concetto si avesse dal Governo e dalla Corte di gentiluomini intemerati e fuori di ogni sospetto, indirizzarono una vibrata lettera al Granduca, con la quale il Rinuccini dava le dimissioni dal grado di maggiordomo della granduchessa Maria Ferdinanda, da Consigliere di Stato e da Ciambellano del Granduca medesimo: il Capponi da Ciambellano pure del Granduca, ed il Ridolfi, con lettera separata, dagli uffici di Direttore della Zecca e della Pia Casa di Lavoro.

Le dimissioni dopo qualche premura, fatta più per forma che per altro, vennero accettate, perché l'opera iniqua del Ciantelli, che si prevaleva ormai dell'età avanzata del Fossombroni e del Corsini i quali cominciavano a subire l'opera distruttrice degli anni, era giunto perfidamente a far credere al principe - che abbandonato a se stesso era quello che era - ed anche a gran parte de' cittadini, che con la scusa della dimostrazione di gioia, si voleva dai promotori della festa profittare di quell'occasione per obbligarlo a cambiare ordinamento allo Stato. Chi la seppe più lunga, come avviene sempre della gente che tiene il piede in più staffe, fu il cavaliere Giovanni Ginori, il quale "si contenne in maniera da tenersi fuori del dissidio; onde crebbe nel favore della Corte".

Le accettate dimissioni del Capponi, del Ridolfi e del Rinuccini, segnarono il trionfo dei birri e del presidente del Buon Governo Ciantelli, "uomo arbitrario ed impetuoso per carattere e per calcolo, devoluto alla polizia Austro-Modenese, intenta a spingere la Toscana sul falso piede degli altri Stati italiani".

L'Austria tutta propensa a mantenersi il dominio delle provincie lombardo-venete, polpa della monarchia, che essa sapeva quanto malvolentieri sopportassero l'esoso suo giogo, era indispettita contro i ministri toscani che facevano sempre mostra della loro indipendenza. Perciò il Ciantelli era il suo prediletto; poiché tutto infatuato dei tedeschi com'era, operava di comune segreto accordo coi duchi di Parma e di Modena, i quali non erano nulla più che prefetti austriaci.

Ma l'alleato Più potente dell'Austria era Leone XII, persecutore dei carbonari e degli ebrei, restauratore del Sant'Uffizio, e nemico d'ogni idea liberale. Basti fra le tante scempiaggini del suo stolto cervello, l'editto che proibiva alle donne di vestire attillate, acciocché non risaltassero le loro forme del corpo…!

Frattanto gli avvenimenti incalzavano. Dopo le giornate di luglio a Parigi, e la caduta di Carlo X, la elezione di Luigi Filippo "ravvivò gli spiriti affievoliti delle vecchie società segrete". Tutta Europa pareva in convulsione. Passò per l'aria come una folata contro i sanfedisti e i reazionari che per il momento ritirarono le corna in dentro, stando però con tanto d'occhi. E quella è gente che sa aspettare!

A complicar le faccende, il 30 novembre 1830 avvenne la morte di Pio VIII, che era succeduto il 30 marzo 1829 a Leone XII al quale, pur troppo, somigliava perfettamente.

I liberali sperarono giunto il momento "di levarsi dal collo l'aborrito giogo clericale", ma il 2 febbraio 1831, essendo stato eletto papa Don Mauro Cappellari, che prese il nome di Gregorio XVI, tutte le speranze andaron fallite. Vi furono a Roma alcune sommosse per parte dei liberali; e in varie città pontificie confinanti con la Toscana, il malumore era grandissimo.

Il governo di Leopoldo II nella paura che i moti insurrezionali si estendessero anche in Toscana, era diviso in due partiti. Uno voleva chiedere all'Austria un presidio armato, - il sogno vagheggiato dal Ciantelli - l'altro era sempre più tenace nella preservazione della indipendenza nazionale.

Anche il pubblico era diviso: i preti e i codini agognavano i tedeschi e già pareva loro di vederli per le vie di Firenze; i liberali vi si opponevano accanitamente, aborrendo ogni occupazione straniera, "contro la quale era garanzia l'ascendente che ancora aveva sul Granduca il Fossombroni, la fermezza del Corsini e la deferenza del Cempini per i suoi colleghi".

L'esercito che avrebbe avuto urgente bisogno di essere riorganizzato, per incuria dei governanti e per mancanza di ogni energia militare nel principe, non avea più nessun prestigio. Il capo supremo ne era il Fossombroni, con l'onorifico titolo di generale, senza aver mai scaricato un fucile: per conseguenza, occupato egli in altre e gravi cure di Stato, era costretto a starsene a quello che a mano a mano gli rapportavano i subalterni. Si aggiunga poi la nessuna passione che egli aveva per i soldati, e più che altro forse, la mancanza di fiducia in un piccolo esercito, il quale, anche se fosse stato composto tutto d'eroi non avrebbe certamente potuto opporsi a un esercito invasore; tutto questo rese inevitabile quell'abbandono che portò la dissoluzione di ogni disciplina, dopo che lo "spirito marziale dei bravi ufficiali e soldati formatisi nelle campagne napoleoniche era andato in dileguo".

Né le condizioni della marina erano migliori; poiché soppressa affatto la marina da guerra, la bandiera toscana dei legni mercantili era contata meno che nulla; onde i noleggiatori marittimi si trovarono costretti a viaggiare con patenti estere di Stati che, all'occorrenza, fossero in grado di far rispettare la propria bandiera.

Se l'esercito e la marina eran ridotti in così misero stato, non c'era davvero da aspettarsi dal Sovrano né energiche riforme né una vigorosa organizzazione, poiché Leopoldo II era il principe meno bellicoso che si potesse immaginare. Per lui, quando i soldati erano puliti e coi fucili lustri per le processioni e i servizi di chiesa, era anche troppo!

A tale stato di cose, supplì felicemente il patriottismo ed il buon senso, con la proposta fatta al Principe di creare la Guardia Urbana. Ed il Fossombroni particolarmente, il quale benché vecchio nelle grandi occasioni sapeva trovare l'antica fibra, vantando a faccia franca al Granduca il suo costante affetto, ed i servigi resi alla Casa regnante, ne vinse la titubanza, sventò le mene degli austriacanti ed "inaspettatamente comparve l'editto che commetteva ai cittadini la custodia del Governo e della pubblica sicurezza".

Quest'atto di benevola confidenza, mentre i popoli circonvicini armata mano si ribellavano ai propri sovrani, piacque tanto, che in soli tre giorni gli ascritti alla Guardia Urbana in Firenze ascesero a diecimila, "tutti pieni d'entusiasmo e di devozione al Principe".

il paragrafo principale dell'Editto del Granduca diceva: "S. A. I. e R. valutata la circostanza in cui una momentanea perlustrazione richiamasse verso i confini del Granducato, parte della forza militare destinata al servizio di questa città, volendo che resti a tal uopo opportunamente provveduto, e contando sul conosciuto zelo ed affezione, che, come tutto il resto dei suoi amatissimi sudditi, anima gli abitanti della capitale, ordina che sia ripristinata la Guardia Urbana come in altre occasioni fu utilmente praticato".

Questa guardia, composta di tutti i padroni di bottega, di possidenti e di nobili, rese utilissimi servigi e rivaleggiò con la truppa nel servizio di sicurezza dello Stato. I militi fiorentini particolarmente, si distinsero per la bella ed elegante tenuta.

L'uniforme della Guardia Urbana - che fu armata con dei fucili a pietra inservibili, che erano nell'Arsenale della Fortezza da Basso - consisteva nella giubba a falda, di panno turchino: coi bottoni di metallo giallo, fiocco di nastro bianco e rosso al braccio, pantaloni bianchi e tuba con piccola coccarda bianca e rossa a sinistra. Le buffetterie eran bianche e portate a tracolla.

Gli ufficiali avevano la lucerna e la dragona dorata alla sciabola.

L'Armeria era in Palazzo Vecchio, dove è oggi la Tesoreria Comunale; ed il capo di questa era il Maggiore Sordelli dei Veterani, adattatissimo al grave ufficio di consegnatario di quelle armi micidiali; Nel secondo cortile vi era il corpo di guardia per un picchetto che teneva una sentinella alla depositeria, dove è oggi l'ufizio d'anagrafe.

La gioia suscitata in Firenze ed in tutta la gentile e libera Toscana da questa nobile istituzione, inaspettata in un Principe che cominciava a tentennare pendendo verso l'Austria, raggiunse quasi il colmo del delirio.

Come in tutti era grande la gioia e la soddisfazione di tutelare e difendere da sé stessi la patria, sebbene con dei fucili a pietra, scongiurando il pericolo d'un ripugnante intervento straniero, era altresì in tutti una gara, da non credersi per addestrarsi nelle armi; una passione infinita di mostrarsi svelti e adattati alla vita militare. Ed infatti i quotidiani esercizi, le giornaliere istruzioni e le marce, in due mesi soli fecero di quei cittadini volenteroso ed amanti del proprio paese, un piccolo esercito disciplinato e istruito.

La popolazione fiorentina poté ammirare la marziale tenuta della Guardia Urbana la mattina di domenica 17 aprile 1831 nella quale il Granduca "verso mezzogiorno" passò in rivista il primo battaglione nel Giardino di Boboli, e precisamente sul piazzale della Meridiana.

"Le II. e RR. Granduchesse e le Arciduchesse, vi assistettero dalle finestre del Quartiere detto appunto della Meridiana; ed una folla enorme nei suoi abiti di festa, gaia, contenta, come per un lieto avvenimento di famiglia, accorse in Boboli ad ammirare la più scelta parte di essa".

L'entusiasmo fu indescrivibile, per quanto contenuto dalla presenza del Sovrano, il quale, come fu fatto pubblicare anche dalla Gazzetta Ufficiale, "rimase edificato dell'ordine e della precisione che in eminente grado distinguevano un tal corpo, a cui pubblicamente attestò la sua piena soddisfazione"; ed il comandante superiore balì Niccolò Martelli ricevé dal Granduca particolari congratulazioni.

Quella solennità fu indimenticabile per molti motivi: primo fra tutti quello, di far vedere che all'occorrenza, non si era degeneri dagli avi.

Ma "quando tu stai bene, Iddio ti guardi" dice un vecchio dettato. E così avvenne della Guardia Urbana: la quale, col suo mirabile contegno e la sua disciplinatezza destò le gelosie della "soldatesca stanziale, che non tollerava di essere superata nell'ammirazione sincera e spontanea del popolo e del principe e nell'esemplare portamento militare".

A questo malcontento e a questa gelosia, si univa la sorda guerra dei codini che non vedevan di buon occhio tanti cittadini armati, - per quanto lo fossero poco meno che di bastoni - e i raggiri degli agenti austriaci i quali, "ora che il pericolo era passato, andavano insinuando che era inutile tenere occupati i popoli in siffatte pratiche militari". E siccome i tristi riescono più spesso dei buoni nei loro disegni, così quando la Guardia Urbana che aveva destate tante liete speranze meritava di essere stabilmente ordinata e disciplinata, venne disciolta.

E per quanto "ciò fosse fatto con accomodate parole, nullameno la dispiacenza fu generale".

Le accomodate parole, che meglio sarebbe dire gesuitiche addirittura, contenute nell'editto 4 giugno 1831, sono le seguenti: "S. A. I. e R. apprezzando l'esemplare emulazione con cui i Toscani d'ogni ceto hanno fatto a gara nel concorrere alla formazione delle Guardie Urbane e Locali, ne ha provato nell'animo Suo la più gradita sodisfazione. Ha quindi nel tempo stesso dedotto un'ulteriore luminosa dimostrazione del prezioso amore dei suoi fedelissimi sudditi, e dell'incivilimento tanto diffuso tra loro, da farli certi che i pubblici comodi si promuovono nella tranquillità dell'ordine sociale, a cui per conseguenza l'onesto accorgimento è portato ad offrire accurata ed efficace tutela. Mentre in vista dell'indole che distingue le toscane popolazioni, si compiace S. A. I. e R. di potere ad ogni cenno contare sull'attività delle medesime, sente d'altronde il paterno desiderio di non distrarle senza necessità dalle loro abitudini industriali e domestiche".

L'ipocrita forma di una licenza bell'e buona che veniva data alla Guardia Urbana, senza neanche ringraziarla, non poteva sfuggire a cittadini accorti ed intelligenti, tanto più che sapevano ormai con chi avevan da fare; né valse la lustra, più ridicola che altro, di ordinare che i ruoli della Guardia Urbana fossero conservati nella segreteria di Guerra "per memoria del passato" e per norma del futuro. E sebbene, sempre per dar della polvere negli occhi, fosse stato conservato agli. ufficiali l'onore del grado, nessuno ne tenne conto e anzi volle dimenticarlo, "come avviene delle cose d'ingrata memoria".

L'amarezza che "penetrò nel cuore dei Toscani" vedendosi con quell'atto tenuti a torto in diffidenza, finì di affievolire l'intimo accordo tornato fino a un certo tempo, fra principe e popolo. La paurosa misura d'aver tolto le armi di mano al fiore dei cittadini, i quali per altro non se ne eran serviti che per rendere servigi al proprio paese in momenti difficilissimi, mostrò nel Governo la maggiore ingratitudine, la quale si risolveva in una immeritata ingiuria che maggiormente dispiacque, e che diede poi i suoi frutti.

Leopoldo II messo su dai segreti agenti dell'Austria, che lavoravano senza che egli se ne accorgesse, cominciò a credersi un Sovrano di prim'ordine e che tutte le cose buone fin allora fatte fossero solo merito suo, e non dei savii ministri che gliele avevano consigliate. Cosicché egli subì a poco a poco l'ascendente dell'Austria; la quale, vedendo l'impegno che il Fossombroni metteva nel propugnare in ogni occasione la indipendenza toscana, glielo dipingeva come uomo da non potersi troppo fidare. E il Granduca che abboccò all'amo insidioso, finì per dimostrargli in più d'un'occasione di non riporre ora in lui la piena fiducia. Quello era l'effetto dell'opera iniqua del Ciantelli "persecutore politico" del vecchio e venerato ministro; il quale vedendo che non aveva più quel prestigio di una volta, ebbe l'idea di dimettersi; ma lo trattenne il Corsini. Il Fossombroni vi aderì perché per un momento nutrì la speranza che con l'ascensione di Carlo Alberto al trono sabaudo, la Toscana avrebbe potuto battere una nuova via, conservando quella supremazia civile che tutti le riconoscevano in Italia. Ma oramai era destino che la saviezza e la franca onestà non dovessero esser più le consigliere del trono.

Per conseguenza, dopo l'occupazione austriaca di Modena, Parma e Bologna, i fatti delle Romagne, la minaccia che maggiori turbolenze venissero a funestare la Toscana per la tracotanza del Ciantelli che pareva il vero Granduca, il Fossombroni vedendosi non più ascoltato, ma anzi quasi inviso al Sovrano, cui aveva dato tutto il suo potente ingegno, volle ritirarsi a vita privata. Ed in una lettera da lui scritta da Arezzo al cav. Giuliano Frullani, "sul bisogno di accomodare le forme politiche del Governo" concludeva: "Finiscono tra dodici giorni cinquant'anni, da che un Motuproprio di Leopoldo I mi chiamò agli onori dei pubblici impieghi, senza che io abbia osato giammai di credermi idoneo a disimpegnarne e chiederne veruno. Non sono dunque più per me né i timori né le speranze. Fortunatamente mi resta il delicato sentimento del pregio dell'amicizia, e mi compiaccio in qualche sogno geometrico che non posso ancora abbandonare e di cui parleremo tra poco insieme, giacché il mio ritorno a Firenze non sarà, come la vostra amicizia suppone, molto lontano". Da questa lettera che porta la data del 31 dicembre 1831, si sente tutta la sfiducia che ormai nutriva il Fossombroni per il Granduca accerchiato da gente ambiziosa, abbindolato da birri gallonati e da spie austriache truccate da gentiluomini, contro i quali l'integerrimo Corsini rimasto solo non poteva far argine.

Per Leopoldo II cominciava insensibilmente quel rovescio della medaglia che suol sempre seguire al tempo felice, quando la felicità non è posata su solide basi, o che non si sa mantenere col proprio senno. o che dipende dall'opera altrui. Al politico rovescio di questa medaglia, che una mente elevata avrebbe potuto impedire, si aggiunse per il Granduca quello a cui niuna forza umana poteva opporre resistenza.

La granduchessa Maria Anna, donna di semplici e modeste virtù, la quale pareva di non avere altra missione che quella di amare ciecamente il marito, si affliggeva da gran tempo per un fatto del quale ella non aveva colpa, ma che pure agli occhi di lei pareva tale. Essa sapeva quanto il suo sposo, e più di lui il popolo che non voleva un giorno cadere sotto la dominazione di un principe straniero, desiderasse che fosse assicurata la successione al trono con la nascita di un principe. Ed invece essa ogniqualvolta nutriva la speranza di appagare il desiderio del principe suo consorte e dei sudditi fedelissimi, non aveva dato alla luce che una femmina.

La buona e pia principessa non avendo saputo fare che tre figlie, tanto se ne afflisse, che a poco a poco si annidò in lei un terribile male che non perdona, e che ribelle a tutte le cure, a tutti i tentativi della scienza, la condusse inesorabilmente alla fossa.

L'afflizione di non aver mai partorito un maschio fu probabilmente il movente che determinò la catastrofe, poiché forse i germi del male già erano in lei; ma non per questo la sua fine dispiacque meno ai suoi sudditi che l'amavano davvero, poiché si può dire che essa vivesse soltanto "per beneficare, istruire ed edificare i suoi simili".

Già da qualche tempo i segni del morbo letale che ne rodeva l'esistenza innanzi tempo, si erano in lei fatti palesi: perciò i medici le consigliarono durante la stagione invernale del 1832 il mite soggiorno di Pisa. Ultimi ed inutili tentativi quando si tratta di malattie spietate e crudeli come quella.

Tutta la Corte si trasferì a Pisa, nella speranza che l'augusta malata potesse, se non ritrovar la salute, almeno migliorarne d'assai le condizioni. Ma furon vane speranze; poiché verso la metà di marzo 1832 i segni della prossima sua fine furono manifesti. La infelice sovrana che per parte sua vedeva serenamente avvicinarsi la morte, ne provava orrore per le sue tre povere figlie che un giorno senza dubbio avrebbero avuto una matrigna; poiché, anche d'altra razza, le matrigne press'a poco son sempre le stesse; ed il cuore d'una madre non può reggere per i figli suoi a questa idea più d'ogni altra tremenda.

La pia Granduchessa quando comprese proprio che il suo termine si avvicinava a gran passi, volle presso di sé il suo confessore monsignor Gilardoni vescovo di Livorno, - dove lo chiamavano Girandoloni perché non ci stava mai - il quale l'assisté fino all'estremo.

Egli, in quelle terribili alternative di fallaci speranze e di crudeli disinganni, amministrò alla Granduchessa tre volte il viatico in pochi giorni; ed il Granduca volle in persona tenere l'ombrellino come faceva nelle processioni del giovedì santo nella chiesa di Santa Felicita in Firenze.

La sera del 23 marzo i due medici curanti, professori Brera e Betti dichiararono imminente la fine della Sovrana: ed infatti il giorno dipoi, assistita da essi e dal vescovo Gilardoni, spirò come una bambina, senza che quasi se ne avvedessero.

Per ordine del Granduca ne fu imbalsamato il cadavere e furon date tutte le disposizioni per il trasporto a Firenze che avvenne il 28 di marzo.

Il corteggio funebre che si mosse dal real palazzo di Pisa, quando giunse fuori di Porta Fiorentina tanto la truppa che il clero si fermarono, ed il convoio seguitò per la sua strada. Precedeva la carrozza a quattro cavalli del Commissario che aveva in consegna la salma; quindi quattro palafrenieri a cavallo e dopo il carro funebre "a sei cavalli di scuderia" seguito da quattro guardie del corpo e da un anziano. Dietro veniva la carrozza dei religiosi della chiesa di San Niccola di Pisa, che accompagnavano la morta Granduchessa.

Il convoio dopo aver fatte due fermate, una a San Romano e l'altra all'Ambrogiana, giunse nel pomeriggio del 29 a Firenze.

Il lugubre suono delle campane annunziò l'avvicinarsi del funebre corteggio; e la Guardia del Corpo e il battaglione dei Granatieri si schierarono fuori della Porta a San Frediano da dove il corteggio arrivava. La Cavalleria ed il battaglione dei Fucilieri occupavano la Piazza del Carmine; i cleri e le corporazioni religiose erano riuniti nel Seminario di Cestello.

Alle 5 pomeridiane arrivò alla porta il convoio e fu composto il corteggio con un plotone di Cacciatori a cavallo, il battaglione dei Granatieri, le croci mortuarie, i Religiosi d'Ognissanti, quelli del Monte alle Croci, il clero di San Frediano, di Santa Felicita, di San Lorenzo e della Metropolitana; quindi la carrozza del Commissario, i quattro palafrenieri con torce, ed il carro funebre fiancheggiato dai cappellani', dal parroco di Corte e dai quattro religiosi di Pisa. Faceva ala il Corpo degli Anziani e seguivano le Guardie del Corpo, un battaglione di Granatieri e un plotone di Cacciatori a cavallo. Il corteggio percorrendo Borgo San Frediano, il Ponte alla Carraia, Via della Vigna, la Piazza di San Gaetano e il Canto alla Paglia, giunse alla Basilica di San Lorenzo. Sulla porta, il Commissario incaricato del trasporto, consegnò al duca Strozzi maggiordomo maggiore, le chiavi della cassa ove era rinchiuso il cadavere; e dopo la recognizione dei sigilli fatta dall'Avvocato regio, sempre sulla porta della chiesa, la cassa fu benedetta dal Priore e portata direttamente a tumularsi nella cappella della Madonna del Ritorno presso la cappella di Michelangiolo. Qui fu stipulato l'atto di consegna, al quale furono testimoni i due ciambellani Ottaviano Compagni e Giuseppe Rucellai. Una chiave fu consegnata al Priore e l'altra si conservò nella guardaroba generale del Granduca.

Le esequie solenni della defunta Granduchessa furono fatte nella Basilica di San Lorenzo il 30 aprile 1832.

Con un'affluenza straordinaria, il popolo rimpiangeva sinceramente la perdita di una donna esemplare e modesta anche nello splendore del trono, e che beneficò quanti più poté.

Il tumulo di stile classico nel mezzo di chiesa fu lodata opera dell'architetto Baccani, il quale pure diresse l'addobbo dell'esterno del tempio.

Il Magistrato civico della Comunità di Firenze si era adunato alle 10 antimeridiane per assistere in forma solenne alla funebre cerimonia, nella Scuola dei cherici di San Lorenzo facendo le funzioni di Gonfaloniere "il signor Ottaviano Naldini" in assenza del cavaliere balì Cosimo Antinori. "Mancarono alla suddetta funzione i signori Emanuele Fenzi e Lorenzo Biondi".

Monsignor Gilardoni lesse il panegirico in memoria della defunta sovrana "e terminata la funzione furono licenziati". E questo c'era da aspettarselo.

        

  

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Ultimo Aggiornamento: 07/01/99 0.30