De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

LE FACEZIE

Di: Poggio Bracciolini

 

CXVII

RISPOSTA DI UN CONFESSORE A BERNABO' VISCONTI A

PROPOSITO DI UNA DONNA

Bernabò, duca di Milano, fu uomo molto dato alle donne. Un giorno, che solo nel giardino se la godeva tranquillamente con una donna che egli amava, sopravvenne improvvisamente un frate, che era suo confessore, e che per la grande autorità e sapienza sua aveva ogni porta aperta al duca. Questi arrossì e si sdegnò insieme dell'inattesa venuta del confessore, e un po' commosso, per aver poi la risposta: «Che cosa fareste voi dunque», disse, «se vi trovaste nel letto una donna bella come è questa?». «Ciò che non dovrei fare», rispose, «lo so; ma ciò che io farei non so dire». Con questa risposta calmò lo sdegno del duca, confessando d'esser uomo e di poter come gli uomini fallare.

CXVIII

DI UN SERVO DISTRATTO CHE VENNE CARICATO DI

SOVERCHIO PESO

Roberto degli Albizi, uomo dotto e molto cortese, aveva un servo sciocco e distratto, senza alcun ingegno, che e' teneva in casa più per umanità che per averne vantaggio. Una volta lo mandò con certi ordini ad un amico suo' che aveva nome Dego, e abitava presso il ponte Santa Trinità; questi chiesegli che cosa lo mandasse a dirgli il padrone, e il servo, che aveva dimenticato le parole di esso, stava pensieroso come uno stupido e non sapeva che dire. Allora, visto che il servo si serbava silenzioso: «Io so», gli disse, «che cosa vuoi»; e mostratogli un gran mortaio di marmo: «Prendi questo», dissegli, «e portalo tosto al padrone, che è ciò ch'egli vuole». E Roberto lo vide di lontano portar sulle spalle il mortaio, e pensando che ciò fosse per punire il servo suo della grande balordaggine, quando gli fu vicino: «Hai fatto male, sciocco», gli disse, «ché non hai ben comprese le parole mie; porta indietro quello che è troppo grande, e recamene uno più piccolo». E sudando e stanco dal peso, tornò all'amico, confessando l'errore, e ne portò un altro ed un terzo; e in questo modo fu punito della sua sciocchezza.

CXIX

DI UNO CHE VOLEVA SPENDERE MILLE FIORINI PER ESSERE

CONOSCIUTO E RISPOSTA CHE GLI FU FATTA

Un giovane fiorentino, di poco cervello, disse ad un amico che e' voleva viaggiare il mondo e voleva spendere mille fiorini per essere conosciuto. E l'altro, che lo conosceva a fondo: «Farai meglio», gli disse, «a spenderne duemila per non essere conosciuto affatto».

CXX

FACEZIA DEL CELEBRE DANTE

Quando Dante, nostro poeta fiorentino, era esule in Siena, un dì, nella chiesa dei Minori, stava col gomito appoggiato su di un altare, rivolgendo i suoi pensieri nell'animo, e gli si accostò un tale a richiederlo di non so qual cosa noiosa. E Dante: «Dimmi dunque», gli chiese, «qual'è la più grossa di tutte le bestie?» «L'elefante», rispose l'altro. «Or bene», soggiunse Dante, «lasciami stare, o elefante, ché io penso a cose più importanti delle tue; e non voler esser noioso».

CXXI

GIOCONDA RISPOSTA DI UNA DONNA DATA AD UN TALE

CHE LE CHIEDEVA SE SUA MOGLIE POTESSE PARTORIRE

DOPO DODICI MESI

Un cittadino di Firenze, che era stato fuori di paese, quando dopo un anno tornò a casa sua, trovò sua moglie che stava per partorire, ed ei male sopportava questa cosa, poiché temeva che sua moglie non gli si fosse serbata fedele. Ed essendo egli nel dubbio, andò per consiglio da una nobile signora che abitava lì presso, e ch'era donna molto ingegnosa, e le richiese se egli avesse potuto aver un figlio dopo dodici mesi. Ed ella, conosciuta la dappocaggine dell'uomo, rispose per consolarlo: «Certamente, che se la moglie tua, quel giorno in cui concepì, vide un asino, secondo il costume di questi animali partorirà dopo un anno». E l'uomo si chetò alle parole della signora, e ringraziando Dio che toglieva a lui un forte sospetto e risparmiava a sua moglie un grave scandalo, tenne per suo il fanciullo che nacque.

CXXII

DOMANDA OSCENA DI UN PRETE

Fuori della porta di Perugia evvi la Chiesa di San Marco, e in un giorno di festa, in cui tutto il popolo era convenuto in essa, Cicero, che n'era il pievano, nella predica ch'ei faceva secondo il costume, concluse con queste parole: «Fratelli, io desidero che voi mi togliate da un grave dubbio. Quando io in quest'ultima quaresima ho udito la confessione delle vostre mogli, non ho trovata alcuna che non affermasse di aver mantenuta intatta la fede al marito. Voi invece avete quasi tutti confessato che vi siete serviti delle mogli degli altri. Ora, per non rimanere io in tal dubbio, desidero sapere da voi, chi e dove sieno queste donne».

CXXIII

FACEZIA DI UN TALE SOPRA L'INVIATO DI QUELLI DI PERUGIA

Nel tempo in cui i Fiorentini avevano guerra col Pontefice Gregorio, i Perugini, che avevano abbandonato il Papa, mandarono legati a Firenze a chiedere aiuto; uno di costoro, che era un dottore, uscì con un lungo discorso, e alle prime parole, come proemio, disse: «Dateci del vostro olio». Un uomo allegro, che detestava quei magniloquenti discorsi, lo interruppe: «Di quale olio intendi tu dire? Veniamo a domandare soldati e tu dimandi l'olio? Ti sei forse dimenticato che armi e non olio noi veniamo a richiedere?» E poiché quegli rispose che erano parole della Santa Scrittura: «Bella cosa!», rispose l'altro, «noi siamo nemici della Chiesa e tu invochi la Santa Scrittura!». Risero tutti della facezia di quell'uomo, che con le dette parole si burlò della soverchia prolissità del discorso del dottore e poté così venire all'argomento.

CXIV

DEGLI INVIATI DI PERUGIA A PAPA URBANO

Anche ad Urbano V Papa, che era in Avignone, quei di Perugia mandarono tre ambasciatori; e quando vi giunsero, il Pontefice trovavasi gravemente malato; tuttavia, per non tenerli troppo tempo in pena, li fece chiamare, pregandoli però, prima che cominciassero, di parlar poco. Un dottore, che per via aveva mandato a memoria una lunga orazione, che avrebbe poi recitata al Papa, non ebbe riguardo alcuno che egli fosse malato e in letto, e si profuse in molte parole, così che il Pontefice mostrò spesso di avere a noia l'udirlo. Quando finalmente quell'ignorante ebbe finito, Urbano, cortesemente, chiese agli altri che cosa volessero ancora. Un altro degli ambasciatori, che aveva conosciuta la stoltezza di quello che aveva parlato e la noia recata al Pontefice: «Beatissimo Padre», disse, «abbiamo avuto mandato dai nostri cittadini, che se voi non farete tutto ciò che potrete per quello che vi chiediamo, prima di partire, questo compagno mio vi ripeta ancora il suo sermone». Questa facezia fece sorridere il Papa, il quale ordinò che avessero tosto quel che chiedevano.

CXXV

DETTO SCIOCCO DEGLI INVIATI DI FIRENZE

I nostri inviati fiorentini che furono mandati in Francia, quando giunsero a Milano andarono a visitare il duca Bernabò per fargli onore. E come furono dinanzi a lui, interrogati chi fossero, risposero: «Siamo cittadini e ambasciatori di Firenze, se vi piace», come s'usa dire; ed egli li ricevette e poscia li congedò. Solo quando giunsero a Vercelli, ripensando a ciò che fino allora avevano fatto, tornarono in mente le parole che avevano dette a Bernabò, e poiché uno di loro disse che avergli detto se vi piace era mal detto, perché s'anco non gli fosse piaciuto erano essi e cittadini fiorentini e ambasciatori, così tutti vennero in questo parere e conclusero d'aver avuto torto e di non essere in quel modo stati dignitosi. E di comune accordo tornarono a Milano per ritrattar quelle parole e andarono dal Duca. Là, quello di loro che era più vecchio e pareva più dotto: «Duca», disse, «noi eravamo a Vercelli quando pensammo di averti detto che eravamo cittadini ed ambasciatori fiorentini se ti piace; e questo dicemmo da sciocchi e da ignoranti, perché, piacciati o dispiacciati, noi siamo fiorentini, cittadini e ambasciatori». Il Duca, che era uomo molto severo rise della stolta cura di costoro e disse loro ch'egli aveva piacere, perché essi erano appunto ciò che e' li credeva.

CXXVI

DETTO FACETO DI UN CERTO GIAN PIETRO DA SIÈNA

Gian Pietro, cittadino di Siena, uomo gioviale e faceto, venne una volta in Roma invitato a bere da Bartolommeo de' Bardi; eravamo là in molti, e si scherzava su l'uomo e si beveva, e mentre, com'è d'uso, avevamo tutti, prima di bere, mangiato un boccone di pane, egli solo teneva il pane in mano. Gli chiedemmo perché non mangiasse, ed egli, ridendo, rispose: «Il tuo pane, Bartolommeo, è riverente ed educato; per quanto l'abbia io molte volte avvicinato alla bocca, egli a niun patto vuol entrar prima del vino». Ridemmo tutti del detto faceto di costui, che credeva che il cibo non dovesse andar sempre innanzi alla bevanda, specialmente quando si ha sete.

CXXVII

D'UN UOMO CHE AVEVA COMPRATA UNA VESTE DI

GRAN PREZZO ALLA MOGLIE

Un tale lamentavasi con la moglie, alla quale aveva comprata una veste di gran prezzo, perché egli non si serviva del matrimonio che non gli costasse un ducato almeno. E la moglie a lui: «Questo», disse, «avviene per colpa tua. O perché non te ne servi tanto spesso che non ti venga a costar più di un soldo ?».

CXXVIII

RACCONTO GRAZIOSO D'UN MEDICO

Il cardinale di Bordeaux mi narrò una volta che un certo suo concittadino, una sera, quando tornò a casa, prese a gemere lamentevolmente per un forte dolore ad una gamba. La moglie gli unse ripetute volte la gamba, vi pose sopra lana e stoppa e tutta la recinse con una fascia di tela. Ma l'uomo continuò a lamentarsi del dolore e chiese gemendo il medico; e questi venne, e a poco a poco, dolcemente, per causa del gran dolore che gli faceva, sfasciò la gamba, e la palpò; e nulla avendo trovato di male: «È adunque a questa», disse l'uomo (e gli porse l'altra gamba), «che io sento dolore ?». Bellissima sciocchezza questa d'un uomo che voleva sapere dal medico dove sentisse il male.

CXXIX

DI UN UOMO CHE TROVAVA L'ORO DORMENDO

Una volta in compagnia un amico nostro narrò che in sogno aveva trovato dell'oro. E allora uno disse: «Guarda che non ti accada come al mio vicino, cui l'oro si cambiò in lordura». E perché noi gli chiedemmo di narrare il sogno: «Un mio vicino», disse, «sognò di essere condotto dal demonio in un campo a disseppellire dell'oro, e ne trovò molto; e il demonio allora gli disse: Tu non puoi ora portarlo teco, ma fa' un segno sul luogo, perché tu solo possa conoscerlo. E avendo l'altro chiesto di che segno doveva servirsi: Falla qui, disse il diavolo, chè appunto in questo modo nessuno crederà che qui sia l'oro e tu solo conosci la cosa. L'uomo acconsenti e svegliatosi incontanente sentì d'aver sgombrato il ventre nel letto; sorse fra il puzzo e la poltiglia, e per uscir di casa mise in testa un cappuccio, entro il quale il gatto quella notte aveva fatta la sua. Pien di schifo per l'iniquo tanfo, dové lavarsi la testa e i capelli. Così un sogno d'oro s'era mutato in merda».

CXXX

DI UN SEGRETARIO DI FEDERICO IMPERATORE

Pier de le Vigne, uomo saggio e dotto, fu segretario di Federico imperatore, il quale, essendo nemico di Alessandro III Papa, e avendo portata la guerra nei dominii della Chiesa, fece accecare Pietro, che era italiano, per invidia che fra i barbari si era mossa contro di questo. Poi pentito, perché aveva fatta cattiva azione, lo chiamò nel suo consiglio segreto. Una volta che l'imperatore trovavasi in grave mancanza di denaro, Pietro lo consigliò di servirsi, nella guerra colla Chiesa, delle forze di questa, di prendere e fondere, per continuar la guerra, gli ornamenti d'oro e d'argento delle chiese, fra i quali erano in quel tempo memorabili (erano allora a Pisa) le catene che erano d'intorno alla cattedrale. Piacque il consiglio a Federico, ed arricchì l'esercito con le spoglie della Chiesa, e allora Pietro gli disse: «Imperatore, io mi sono vendicato finalmente della pena che tu mi hai ingiustamente inflitto. Tu ti sei già acquistato l'odio degli uomini; io ti ho fatto per causa del sacrilegio nemico di Dio; d'ora innanzi tutte le cose tue andranno a male». Dopo però fu Federico vincitore; ma poi Alessandro schiacciò l'orgoglio dell'Imperatore; e, con quel detto, Pier de le Vigne dimostrò che le cose sacre non possono portarsi ad uso profano; e chi io fa è punito da Dio.

CXXXI

DI UN FIORENTINO CHE SENZA SAPERLO MANGIO'

DELL'EBREO MORTO

Venivano due giudei da Venezia, dove abitavano, a Bologna, e accadde che uno di essi colpito da malattia morisse in viaggio; l'altro desiderava di trasportarne il cadavere a Venezia, e poiché ciò non potea farsi palesemente, così, tagliatolo in minuti pezzi, lo pose in un piccolo barile, mescolandolo con diversi aromi e con miele, tanto che usciva meravigliosamente un soave odore dal barile, e questo raccomandò ad un altro ebreo che andava a Venezia. Costui portò seco il barile sulla barca per il canale di Ferrara, ed essendo sulla barca in molti, accadde che un Fiorentino si mettesse a sedere vicino al barile. Quando venne la notte, attratto dall'odore, e sospettando che dentro si contenessero cose buone a mangiare, tolse di nascosto il coperchio e prese a gustare ciò che dentro vi era; e poiché gli parve che questo fosse un cibo molto saporito, così quella notte a poco a poco quasi tutto lo vuotò, credendo di aver mangiato buona cosa. Quando a Ferrara l'ebreo fu per uscir dalla nave e prese il barile, sentì dalla leggerezza del peso che esso era vuoto; e mentre e' da una parte si lagnava che gli avean rubato il cadavere, il Fiorentino dall'altra sentiva che egli stesso era il sepolcro del giudeo.

CXXXII

VISIONE DI FRANCESCO FILELFO

Francesco Filelfo, geloso della moglie, viveva in continua pena che ella non avesse con qualche altro a fare, ed era giorno e notte intento a vigilarla. Una notte che e' dormiva, in sogno, poiché avviene spesso che ci tornino nei sogni le cose che desti abbiam per la mente, vide un demonio che gli promise che avrebbe la donna sicura, se facesse ciò che egli avrebbe detto di fare. Ed avendo egli nel sonno annuito, dicendo di esserne assai grato e promettendone premio, il diavolo gli disse: «Prendi questo anello e tienlo sempre diligentemente in dito; poiché, mentre l'avrai, non potrà la tua moglie, senza che tu lo sappia, con altro uomo giacere». Tolto improvvisamente per la gioia dal sonno, sentì d'avere il dito nella cosa della moglie. E quello è davvero il migliore rimedio pe' gelosi, perché le donne non possano mai, alle spalle de' mariti, essere infedeli.

CXXXIII

DI UN BEVITORE

Un famoso bevitore di vino fu preso dalla febbre, per la quale gli si aumentò la sete; vennero i medici e discutevano sul modo di toglier la febbre e la straordinaria sete: «Solo della febbre», disse il malato, «voglio che voi vi occupiate, ché quanto a curar la sete, quello è affar mio».

CXXXIV

MOTTO FACETO DI EVERARDO SEGRETARIO APOSTOLICO

CHE USCI' IN UN RUMOR DI VENTRE AL

COSPETTO DI UN CARDINALE

Un dì che il cardinale de' Conti, uomo grasso e corporuto, era andato alla caccia, quando fu verso mezzogiorno si sentì fame e discese per pranzare. Era d'estate, e tutto sudato si pose a mangiare, e poiché i servi erano lontani occupati in varie faccende, così egli comandò a un certo Everardo Lupi, segretario apostolico, di fargli vento. Questi gli disse: «Non so io come voi vogliate»; e il Cardinale: «Fa' come tu vuoi». E l'altro: «Con molto piacere, per bacco!» ed alzata la gamba destra, ruppe in grandissimo crepito, dicendo che in quel modo soltanto era egli solito di far vento. Questa cosa fece ridere moltissimo coloro che erano presenti ed erano in grande numero.

CXXXV

SCHERZO GIOCONDISSIMO DI UN ALTRO CARDINALE

Collo stesso strumento il cardinale di Tricario rispose agli avvertimenti di Alto de' Conti. Era il cardinale di vita assai dissoluta, e un giorno alla caccia Alto lo ammoniva con lungo sermone a darsi a vita migliore; il cardinale, udite le parole di Alto, fissò questo per un poco in volto; poi, piegata la testa sul cavallo, alzò il deretano e diede un gran suono dicendo: «Alla tua faccia». E dopo questa unica risposta se ne andò, mostrando così in che stima avesse quegli avvertimenti.

CXXXVI

DI UNA DONNA CHE PER COPRIRSI IL CAPO SI

SCOPRI' IL SEDERE

Una donna, che per malattia della pelle s'era fatta radere il capo, un giorno venne chiamata fuori da una vicina per certa faccenda, ed uscì di casa dimenticando nella fretta di coprirsi il capo. Quando l'altra donna la vide in quel modo, la rimproverò d'esser venuta sulla via col capo nudo e così brutto; ed ella, per coprirsi il capo, sollevando le vesti di dietro, scoprì il deretano. Tutti quelli che videro risero di ciò che aveva fatto la donna, che per piccola cagion di pudore maggior male aveva fatto.
Questo va detto di chi cerca di nascondere un piccolo delitto con più grave scelleratezza.

CXXXVII

ISTORIA GRAZIOSA DI UN TALE CHE MANDO' LETTERE A

SUA MOGLIE E AD UN MERCANTE

Francesco di Ortano, cavaliere napoletano, che ebbe da re Ladislao il governo di Perugia, ricevette una volta lettere dalla moglie e da un mercante di Genova, al quale era debitore di denaro preso a mutuo. Quella della moglie lo esortava a tornare a casa, e gli ricordava ch'e' dovea compiere l'ufficio coniugale e la promessa di tornar presto e di mantenere la data fede; l'altra lo richiedeva della restituzione del denaro prestatogli. Rispose egli, com'era giusto, al mercante, che lo avrebbe quanto prima pagato, chiedendogli una breve dilazione; e scrisse alla moglie calmandone il desiderio con molte blandizie e promesse, dicendo che sarebbe tornato subito, che avrebbe fatto ogni cosa per risarcirla della lunga astinenza; e con la confidenza che aveva con la moglie si servì di parole un po' allegre, fra le quali vi erano queste aggiunte, che l'avrebbe contentata in molte maniere, e, per servirmi delle sue frasi, l'avrebbe in diversa guisa cavalcata. Nel sigillar le lettere mandò quella del mercante alla moglie, e quella di questa al mercante. Quando la moglie
ricevette la lettera, si meravigliò assai che e' non rispondesse a ciò che gli aveva scritto. Ma il Genovese, quando lesse la lettera che gli era pervenuta, e che conteneva cose liete o da moglie, fra le quali principalmente che l'altro sarebbe tornato, e con essa avrebbe molte volte ripetuto il giuoco, e altre cose più oscene, credette che l'altro si prendesse beffa di lui e andò dal Re a mostrargli la lettera, e lamentandosi che invece del denaro che gli doveva gli prometteva di cavalcarlo finché fosse stanco, aggiungendo che egli era stato cavalcato abbastanza quel giorno che avevagli prestato il denaro. Tutti presero a ridere, e risero anche di più quando fu conosciuto l'error della lettera.

CXXXVIII

STORIA DI DANTE

CHE RIMPROVERAVA SPESSO LA MOGLIE

Uno del mio paese, di nome Dante, la cui moglie avea fama d'essere poco onesta, era dagli amici molto spesso consigliato di togliere dalla sua casa il disonore, e rimproverava acerbamente sua moglie; ed ella con molte lacrime e con giuramenti protestava della sua fedeltà. dicendo che quelle cose erano dette dagli invidiosi della loro tranquillità. L'uomo fu persuaso da queste parole, e, una volta che gli amici tornarono a consigliarlo di rimproverare la moglie: «Ohè!», disse, «non mi annoiate più con codeste parole! Forse che voi meglio di lei conoscete i suoi peccati?». E tutti dissero che la moglie meglio li conosceva. «Allora» soggiunse, «ella dice che voi tutti mentite, e ad essa più che a tutti voi io presto fede».

CXXXIX

TESTAMENTO DI UN VECCHIO IN FAVOR DELLA MOGLIE

Pietro Masini, nostro concittadino, fu uomo molto mordace nel discorso; e quando fu vecchio e presso a morte, nel testamento che fece, nulla lasciò alla moglie fuori della dote; questa mal sopportava la cosa, e lamentavasi che il marito la maltrattasse, né le lasciasse alcuna cosa della sua sostanza, e chiedeva con molto pianto che le fosse legato un qualche sussidio per la vecchiaia: «Chiamate dunque», disse il moribondo, «il notaio ed i testimoni, affinché io lasci qualche cosa alla moglie». E questi vennero prontamente, ed essendo la moglie presente, disse Pietro, rivolto ai testimoni: «Costei mi annoia perché io le lasci qualche cosa, ed io per togliermi il fastidio, chiamo voi che siete presenti ad attestare che io le lascio la più fetente e più larga vagina che vi sia in questa città». Detto questo, tutti se ne andarono ridendo, e la donna rimase mesta e delusa della risposta del marito.

CXL

RACCONTO DI ZUCCARO DI UNA DONNA CHE CHIEDEVA

UNA MEDICINA AD UN PRETE

Zuccaro, che fu il più gentile degli uomini, soleva narrare di una donna non brutta e che era sua vicina, la quale, essendo sterile, chiedeva spesso al prete, al quale essa si confessava, se e' non sapesse di un qualche rimedio atto a far concepire i figliuoli. Egli alla fine accondiscese e le disse di venire da lui un giovedì, che era il giorno meglio adatto alla cosa; quando il dì venne la donna desiderosa di figliuoli andò alla abitazione del prete, che le disse: «Io mi servirò di un incantesimo che fa sorgere molte e varie illusioni, in modo che sembra che avvengano cose, che in realtà non avvengono. Or dunque, perché la cosa riesca, occorre costanza e fermezza d'animo. Vi sembrerà che io vi tocchi, ch'io vi baci e vi abbracci, ch'io faccia ancora quelle altre cose che suol fare vostro marito; tutto questo non è vero, ma così pare per la efficacia delle parole che si devono dire, le quali hanno appunto potenza di far parere vere cose che non lo sono». Consentì la donna confidente alle parole del prete, e disse che in niun conto avrebbe essa tenute queste stregherie. Il prete fe' molti segni, disse all'aria molte parole, poi prese a baciar la donna e la distese sul letto. E quando ella tremante gli chiese che cosa facesse: «Non ve lo dissi poco fa», rispose il compagnone, «che le cose che avreste vedute non sarebbero state vere?» E così e' fece due volte il piacer suo colla donna, sempre affermando che ciò non era. E così, credendo di essere stata illusa da un incantesimo, la donna se ne tornò a casa.

CXLI

DI UN EREMITA CHE SI GODE' MOLTE DONNE

Eravi in Padova un eremita che aveva nome Ausimirio, al tempo di Francesco, che fu il settimo duca di Padova; e sotto pretesto di confessione, egli, che era in fama di uomo santo, ebbe molte donne anche della nobiltà. Finalmente, poiché l'ipocrisia non si può lungamente nascondere, si divulgò la fama di queste scelleratezze, e preso dal Podestà, confessò molte di quelle nefandità e fu condotto a Francesco. Questi fe' venire un segretario, e per riderne, chiese all'eremita certe notizie e i nomi delle donne che egli aveva avute. E il segretario scriveva i nomi, molti dei quali erano di donne mogli a familiari del Duca, e questo per averne poi causa di riso. Quando alla fine parve che avesse il romito finito di nominare, il Duca chiese se ve ne fossero ancora, egli costantemente negò; ma il segretario lo redarguì più aspramente e lo minacciò della tortura se non avesse detto ogni cosa. Allora l'eremita sospirando: «Scrivete», gli disse, «anche la vostra e mettete anche quella nel numero delle altre». Quando udì ciò, cadde di mano, pel dolore, la penna al segretario; e il Duca ne fece gran riso, dicendo che era giusto che quegli che con tanto piacere aveva udita la sventura degli altri venisse ad essere in loro compagnia.

CXLII

DI UN FIORENTINO CHE SI ACCOMODO' CON LA

MOGLIE DI SUO PADRE

A Firenze, una volta, mentre un giovane stava sulla noverca, sopravvenne il padre e lo sorprese nel fatto con la moglie; la cosa nuova ed indegna colpì costui, che prese con gran rumore a rimproverare acerbamente il figliuolo, e questi balbettando cercava di scusarsi. Era molto tempo ch'essi disputavano, quando, mosso dalle grida, venne un vicino, ignaro della cosa, per comporre la contesa. E quando e' chiese la ragione del litigio, essi per pudor della cosa tacevano; finalmente, poiché il vicino più fortemente insisteva, e il padre dava la colpa al figlio, questi per primo prese a dire: «Costui, che è mio padre, oltre misura indiscreto, ebbe mille volte mia madre ed io nulla dissi; ora, perché io ho avuto per una volta sola sua moglie, per la mia sconsideratezza riempie la casa di grida come un matto». Rise colui della faceta risposta del figlio e condusse seco il padre, cui cercò, come gli fu possibile, di consolare.

CXLIII

DISPUTA DI CERTI FRATI MINORI SUL MODO DI

FAR L'IMMAGINE DI S. FRANCESCO

Certi frati dell'ordine de' Minori chiamarono un pittore perché dipingesse loro l'immagine di San Francesco; ma erano fra loro discordi, perché alcuni lo volevan colle stimmate, altri in atto di predicar al popolo, altri in diversa guisa. Passarono tutto un giorno a disputar della cosa e alla sera andarono a dormire, lasciando il pittore senza aver nulla deciso; e il pittore, conosciuta la stoltezza dei frati, vedendosi beffato, lo dipinse in atto di sonare il flauto, altri dicono impiccato pel collo. Veduta la figura, i frati cercarono dappertutto il pittore per fargli del male, credendo essi che egli avesse fatto gravissimo oltraggio alla religione e meritasse la maggior pena; ma egli si era raccomandato alle gambe.

CXLIV

DI UN PRETE FIORENTINO CHE ANDO' IN UNGHERIA

È costume nel regno d'Ungheria, che, dopo la messa, coloro che sono in chiesa e che han male agli occhi, s'avvicinino all'altare e si faccian bagnar gli occhi dal prete con acqua versata nel calice; nello stesso tempo il sacerdote pronunzia alcune parole dei sacri libri, con le quali egli prega la sanità. Andò una volta in Ungheria un prete di Firenze con Filippo detto lo Spagnolo; e avendo una volta detta la messa alla presenza del re Sigismondo, quando ebbe finito, vide avvicinarglisi molti malati agli occhi, perché questi egli bagnasse loro coll'acqua del calice. Ed egli, credendo che il male fosse loro venuto per la crapula e il troppo bere, prese il calice, come aveva visto che gli altri facevano, e li asperse, dicendo in italiano: «Andatevene, che siate morti a ghiado». Ciò udì il Re ed Imperatore, e non poté trattenere il riso; e a tavola il dì dopo riportò, per riderne, le parole del prete, che mossero il riso a tutti e l'ira a coloro che avean gli occhi malati.

CXLV

RISPOSTA DI UN VILLANO AL PADRONE

Uno de' nostri villani fu una volta interrogato dal padrone in qual tempo avessero essi maggior lavoro ne' campi. «In maggio», rispose. E poiché egli glie ne chiedeva la ragione, perché ciò pareva strano in quanto sembra che in quel mese riposino i lavori della campagna: «perché», disse, «è in quel mese che noi dobbiamo coprire e le nostre e le vostre donne».

CXLVI

DETTO DI UN UOMO RIDICOLO

Un Romano, che noi abbiamo conosciuto, montò una volta su di un muricciuolo che era in un canneto, e, come se si trovasse dinanzi al popolo, prese a parlare alle canne, intrattenendole sulle cose della città. Mentre parlava, per un po' di vento che s'era mosso, le canne piegavano le cime; e quell'uomo sciocco che fingeva a se stesso che quelle canne fossero uomini, come se esse lo ringraziassero del discorso: «Non abbiate tanto rispetto», disse, «o signori Romani, per me che sono l'ultimo di voi». E questa frase venne poscia in proverbio.

CXLII

COME UN UOMO CHE VOLEA UCCIDERE IL PORCO FU DERISO

Era costume una volta, in un borgo del Piacentino, che, quando alcuno all'inverno ammazzava il maiale, invitasse i vicini a cena. Un tale, al fine di evitar quella spesa, consultò un compare. E questo gli disse: «Di', domani, che questa notte t'han rubato il porco». E quella notte, di fatti, mentre l'altro non sospettava d'alcuna cosa, gli rubò il porco. Alla mattina, quando vide che gli mancava la bestia, andò dal compare amentando con alte grida che glielo avessero rubato. E l'altro: «Tu dici bene, compare; è così che io ti ho insegnato di dire». E per quanto l'altro ripetute volte e per tutti gli Dei giurasse che quel che diceva era vero: «Fai bene», l'altro diceva, «era secondo il consiglio che ti diedi». E siccome l'altro ripeteva il giuramento: «Io ti dissi prima che tu dovevi parare di questa guisa; ed io ti diedi buon consiglio». Finalmente il pover'uomo se ne andò deluso.

CXLVIII

DETTO DI FACINO CANE

Facino Cane, capitano de' Ghibellini, entrò in Pavia e, come era convenuto, saccheggiò soltanto i beni dei Guelfi. Quando questi furono finiti, cominciò le sue scorrerie anche nelle case dei Ghibellini. Andarono questi a lagnarsi di essere stati spogliati essendo della stessa fazione: «Voi dite la verità», disse Facino, «o figli miei, voi siete tutti Ghibellini, ma i beni sono Guelfi». In questo modo, senza far differenza tra le fazioni, tutti i beni furono tolti.

CXLIX

DI UN GIOVANE INESPERTO CHE NON SI SERVI' DELLA

MOGLIE LA PRIMA NOTTE

Un giovane bolognese, senza ingegno e sciocco, prese per moglie una giovinetta bellissima. E la prima notte, ignaro della cosa, poiché non aveva mai avuto alcuna donna, non seppe consumare il matrimonio. Alla mattina dopo, interrogato da un amico del come le cose della notte fossero andate: «Male», rispose, «perché, dopo aver lunga
mente cercato di far la cosa con mia moglie, holla io trovata senza il taglio che le donne, dicono, hanno comunemente». E allora l'amico, conosciuta l'imbecillità dell'altro: «Taci», gli disse; «ti scongiuro di non farne parola, perché è cosa di grande pudore e di grave pericolo se si viene a sapere». Ed avendo quegli richiestolo di consiglio e di aiuto: «Io», rispose, «farò la fatica per te, e se mi paghi una cena sontuosa, ti farò quel taglio; ma per far questo ho bisogno di otto giorni di tempo, perché la è cosa assai difficile a farsi». E lo stolto acconsentì, e di nascosto lo pose quella notte nel letto colla moglie, ed egli in altro letto solo andò a coricarsi. Dopo gli otto giorni, essendo per opera dell'amico molto larga la via, da non lasciar più alcun timore, chiamò questi il marito, e gli disse che per amor suo aveva egli molto e lungamente faticato e che finalmente aveva finito di fare quel taglio che egli voleva. La fanciulla, essa pure istruita molto, si compiacque col marito del lavoro dell'amico. E lo stolto, quando trovò la moglie forata, tutto lieto ringraziò l'amico e gli pagò la cena.

CL

DELLA MOGLIE DI UN PASTORE CHE EBBE UN FIGLIO

DA UN PRETE

Un pastore di Rivo, borgo nevoso di montagna, aveva la moglie che giaceva spesso col prete e concepì da questo un fanciullo, che nacque e crebbe in casa del pastore. Quando questo ebbe sette anni, il prete con molta dolcezza disse al pastore che il fanciullo era suo, e che volevalo, giunto com'era a sett'anni, condurre in casa sua: «Questo non potrà mai essere», disse il pastore, «il fanciullo è mio perché è nato in casa; perché, soggiunse poi, «sarebbe un brutto affare per me per il mio padrone se tutti gli agnelli che nascono dalle mie pecore coperte dai maschi degli altri dovessero essere del padrone dei maschi».

CLI

DI UN VILLANO CHE CONDUSSE DEGLI ASINI CARICHI

DI FRUMENTO

All'assemblea de' magistrati di Perugia un villano chiedeva una certa grazia e uno di essi si oppose come se essa fosse disonesta. Il dì dopo, il villano molto avveduto condusse a casa del suo contradditore tre asini carichi di frumento; al quarto giorno quel tale mutò d'avviso e sostenne la causa del villano con molto calore. Uno che gli era vicino disse ad un amico mentre egli parlava: «Non odi come quegli asini ragliano? Alludeva scherzando al frumento che l'altro aveva ricevuto.

CLII

DETTO FACETO DI UN POVERO AD UN RICCO

CHE AVEVA FREDDO

Un ricco, che avviluppato nelle vesti andava a Bologna d'inverno, incontrò per la montagna un villano coperto di una camicia sola tutta lacera, e meravigliato che tanta forza del freddo (cadeva la neve e soffiava il vento) quell'uomo potesse sopportare, gli chiese se non si sentisse diacciato. «Niente affatto» rispose l'altro, lieto in volto; e avendogli aggiunto ch'egli era stupefatto della risposta, poich'egli sotto le pellicce aveva anche freddo: «Se voi», disse il villano, a portaste tutti i vestimenti, che avete, indosso come faccio io, non sentireste più freddo».

CLIII

DI UN MONTANARO CHE VOLEVA SPOSARE UNA FANCIULLA

Un montanaro di Perugia voleva sposare una giovane figliuola di un vicino; e quando la vide, essendogli parsa troppo fanciulla e ancor tenera, il padre di questa, che era uomo sciocco, gli disse: «Ella è più matura di quello che credi; ha già avuto tre figli dal chierico del nostro curato».

CLIV

DI UN PRETE CHE CHIESE LA DECIMA AD UNA GIOVANE

A Bruges, che è una gran città d'Occidente, una giovane molto inesperta confessava un giorno i suoi peccati al prete della sua parrocchia. E questi, fra le altre cose, le chiese ancora se avesse sempre pagate le decime al piovano, e la persuase che queste si dovevano dare anche nella parte cui ha diritto il marito; e la giovane, per non aver da essere debitrice di nulla ad alcuno, lo contentò immantinente. Tornò essa a casa più tardi del solito, e al marito, che glie ne chiese la ragione, disse senza alcun timore ciò che era avvenuto. Il marito finse di non darsene per inteso e dopo quattro giorni invitò a pranzo il prete, insieme con molti amici perché la cosa fosse meglio conosciuta; e quando furono a tavola, narrò la storia, e rivolto al prete: «Poiché», gli disse «voi dovete avere le decime su tutte le cose di mia moglie, abbiatevi dunque anche queste», e così dicendo, pose sotto la faccia del prete, che non si moveva, un vaso pieno di sterco e di urina della moglie, e lo costrinse a mangiare.

CLV

DI UN MEDICO CHE SI SERVI' DELLA MOGLIE DI UN SARTO

CHE ERA MALATA

Un certo sarto di Firenze pregò un medico di visitare la moglie che non si sentiva bene. E questi, essendo lontano il marito, venne alla casa e si giovò della moglie sul letto per quanto ella non volesse. Quando tornò il marito, il medico stava per uscire, e seppe che egli avea curata la moglie come si conveniva; ma questa trovò poi tutta in lacrime. Conosciuto il tradimento del medico, tacque; e dopo otto giorni prese seco una pezza di finissimo panno e andò dalla moglie del medico, dicendole che questi l'aveva mandato per prenderle la misura di una sottoveste che si chiama cotta. Era necessario che, per tale bisogna, quella donna, che era bellissima di forme, si mettesse quasi nuda, perché ei potesse più giustamente prendere la misura del corpo e far meglio la veste. E quando fu nuda, e non v'era alcuno, il sarto fece l'affar suo, e rese la pariglia al medico; al quale di poi non mancò di raccontarlo.

CLVI

DI UN FIORENTINO CHE ERA FIDANZATO COLLA FIGLIA

D'UNA VEDOVA

Un Fiorentino, che si reputava furbo, erasi fidanzato con la figlia di una vedova e veniva spesso, come è costume, alla casa di lei; un giorno che la madre non v'era, egli si godé la fanciulla. Quando ella tornò, seppe tutto ciò che era avvenuto dal viso della figlia, e prese a rimproverarla acerbamente, dicendole che aveva disonorata la casa e conchiudendo in ultimo che quel matrimonio non si sarebbe conchiuso e che ella avrebbe fatto ogni sforzo per scioglierlo. Tornò il giovane quando la sua futura suocera era uscita, come e' soleva fare, e quando vide la fanciulla mesta e ne chiese la causa e seppe che la madre avea deciso di dissolvere il matrimonio: «E tu», le chiese, «che intendi fare?». «Di ubbidire la mamma», rispose. «Puoi farlo, se tu vuoi», soggiunse il giovane; e poiché ella gli chiese in qual modo poteasi ciò fare: «Poco fa», disse egli, «tu sei stata di sotto; ora vieni tu sopra, ché coll'atto contrario si dissolve il matrimonio». Ed ella acconsentì e sciolse il matrimonio. Dopo del tempo ella andò a marito ed egli prese un'altra moglie, e alle nozze di questo ella venne, e quando si videro, al ricordo delle cose passate sorrisero fra di loro; la sposa, che vede questo, sospettando a male, alla notte, chiese al marito che cosa significasse quel sorriso; egli non voleva dirlo, ma fu costretto, e confessò la sciocchezza di quella fanciulla. E allora la moglie: «Che Dio confonda colei che fu tanto matta da far capire la cosa alla madre. Che bisogno c'era di andare a dire alla mamma la faccenda vostra ? So bene che io feci la stessa cosa più di cento volte col nostro servo, ma io non feci mai di ciò parola alcuna alla madre». Tacque il marito e capì di aver avuto ciò che si meritava.

CLVII

DI UN USURAIO DI VICENZA

Un usuraio di Vicenza invitava spesso un frate, che era uomo di grande autorità e che spesso predicava al popolo, a fare una predica contro gli usurai, imprecando con tutte le forze contro quel vezzo che era fra tutti il più radicato nella città; e ripeteva questo invito con tanta insistenza da riuscire molesto. Meravigliato un tale che egli così continuamente insistesse perché fosse vituperato il mestiere che egli stesso faceva, gli chiese a che volesse riuscire con le sue sollecitazioni: «Qui», rispose l'usuraio, «sono moltissimi che dànno a prestito con usura, e poca gente viene da me e non guadagno niente. Ma se gli altri si persuadessero di smettere, io farei il guadagno che ora tutti assieme fanno». Questa storia mi narrò ridendo quel frate.

CLVIII

NOVELLA FACETISSIMA DEL CUOCO GIANNINO

Giannino, cuoco di Baronto Pistoiese, che aveva fatto il cuoco anche a Venezia, narrò al pranzo dei segretari una novella molto faceta. Fuvvi una volta un Veneziano sciocco che fu offeso da un'ingiuria, e desiderava di avere dei figliuoli che gliela avessero vendicata. Ma la moglie era sterile ed egli pregò un amico, che diceva di essere assai abile artefice per procrear figliuoli, perché gli facesse questo favore. E l'amico pose ogni sua cura per far le parti del marito. Un giorno che questi, per non disturbar la grande opera, l'aveva lasciato a lavorare il campo, e passeggiava per la città, incontrò il nemico suo ancor più minaccioso dell'usato: «Oh! oh! », disse il nostro uomo, «taci tu, stolto; ché non sai ciò che contro di te si faccia in casa mia; e se tu lo sapessi, freneresti le tue minacce e penseresti a te stesso. Si fa, sappilo dunque, si fa quello che farà poi le mie vendette».

CLIX

DI UN VENETO SCIOCCO CHE ESSENDO A CAVALLO

PORTAVA GLI SPERONI IN TASCA

Ci raccontò ancora una simile sciocchezza di un altro Veneziano, il quale, essendo montato a cavallo per andare in villa, teneva gli speroni in tasca. E poiché il cavallo lentamente camminava, egli lo batteva spesso ai fianchi coi talloni: «Ah! non ti muovi?», gli diceva: «se tu sapessi che cosa ho in tasca, tu cambieresti il passo».

CLX

DI UNO SCIOCCO VENEZIANO

CHE FU DERISO DA UN CIARLATANO

Narrò ancora un'altra novella, della quale ridemmo moltissimo. Disse che venne una volta a Venezia un ciarlatano, che aveva dipinto in una banderuola un ordegno maschile cinto da molte legature. Andò da lui un Veneziano e gli chiese che cosa significasse quella distinzione; e il ciarlatano, per ridere, disse che il suo affare era di tal natura, che se una donna ne avea solo la prima parte, faceva dei mercanti; la seconda, dei soldati; la terza, dei capitani; la quarta, dei papi; e chiedeva il prezzo dell'opera proporzionalmente. Ciò credette prontamente lo stolto, e, narrata la cosa alla moglie, chiamò a casa sua il ciarlatano, e stabilito il prezzo, volle che gli facesse un figliuolo soldato. E quando questi fu sulla moglie, il marito fece finta di andarsene, ma si nascose dietro il letto; e mentre essi erano intenti a fabbricare il soldato, saltò fuori improvvisamente lo sciocco e spinse di dietro l'uomo con forza, perché v'entrasse anche la quarta parte: «Per i Santi Evangeli di Dio», esclamò, «avrò un papa!» e credeva di aver frodato l'amico.

CLXI

DI UN VENEZIANO CHE ANDAVA A TREVISO E CHE EBBE

UNA SASSATA NELLE RENI DAL SERVO

Un Veneziano, che andava a Treviso, cavalcava un cavallo preso a nolo ed aveva il servo dietro a piedi. E nell'andare, questi ebbe dal cavallo un calcio in una gamba, e adirato pel dolore, afferrato un sasso per far male al cavallo, lo scagliò per caso contro le reni del padrone; e questi, da sciocco, credette che la cosa gli venisse dal cavallo; e poiché rimproverava il servo che in causa della ferita lo seguiva lentamente e di lontano: «Non posso venir più in fretta», gli rispose questi, «per causa del calcio che mi fa male». «Non te ne affliggere», rispose il padrone, «che è un cavallo che ha questo vizio; anche a me poco fa ha esso dato un gran calcio nelle reni».

CLXII

DI UNA VOLPE CHE FUGGIVA DAI CANI E CHE UN VILLANO

NASCOSE NELLA PAGLIA

Una volpe, che fuggiva da' cani che la inseguivano nella caccia, si incontrò in un villano che sull'aia batteva il suo grano, pregandolo a difenderla dai cani e promettendogli di non dargli più danno al pollaio. Il villano acconsentì, e presa una forcata di paglia, coprì con essa la volpe. Poco dopo vennero i cacciatori a chiedergli se avesse vista una volpe che fuggiva e che via avesse presa. Ed egli rispose loro che la volpe era andata per una certa strada, con le parole, ma cogli occhi e col gesto indicava ch'essa era sotto la paglia; e i cacciatori, più attenti alle parole che ai gesti, continuarono la loro via. Allora il villano, scoperta la volpe: «Mantieni dunque», le disse, «la promessa che mi hai fatta, perché l'hai scampata per le mie parole, avendo io detto che eri lontana». Ma essa, che aveva avuta grande paura ed aveva visti i gesti del villano: «Le tue parole», rispose, «furono buone, ma l'azione cattiva». Questo va detto di coloro che dicono una cosa e ne fanno un'altra.

CLXIII

DI UN FIORENTINO CHE COMPRO' UN CAVALLO

Un Fiorentino, che io conosco, fu costretto a vivere a Roma per comprare un cavallo di cui aveva bisogno; e pattuì col venditore, che chiedeva venticinque ducati per prezzo ed era troppo caro, di dargliene quindici alla mano e di voler essere debitore del resto. Il giorno dopo, quando venne a chiedere i dieci ducati che rimanevano, ricusò di darglieli il Fiorentino: «Abbiamo stabilito», egli disse, «io sarei tuo debitore di dieci ducati; ma se io te li pagassi, non sarei più debitore».

CLXIV

FACEZIA DI GONNELLA SALTIMBANCO

Gonnella, che fu un saltimbanco molto faceto, promise per pochi denari, di far diventare indovino un tale di Ferrara, il quale desiderava molto questa cosa. Lo fece venire una volta seco in letto, e silenziosamente mandò fuori dal ventre un grande vapore, poi gli disse di mettere la testa sotto le lenzuola; e quegli la mise e la ritrasse tosto pel gran puzzo: «Tu hai fatto un gran peto», gli disse; e Gonnella: «Paga tosto il tuo denaro, perché hai indovinato».

CLXV

ALTRA FACEZIA DI UNO CHE VOLEVA DIVENTARE INDOVINO

Anche un altro gli chiese di diventare indovino: «Con una pillola sola», gli disse, «ti farò tale», e fatta una piccola pillola di sterco, glie la pose in bocca, e quello sputò fuori pel fetore. «La pillola che mi hai data», gli disse, «sa di sterco». E Gonnella gli rispose che aveva indovinato giustamente e lo richiese del prezzo che avevano stabilito

CLXVI

DI ALCUNI PRODIGI NARRATI A PAPA EUGENIO

Quest'anno, d'ottobre, essendo di nuovo venuto il Pontefice a Firenze, si narrò di molti prodigi e da persone di tanta fede che a non credergli sembrerebbe follia. Lettere giunte da Como da persone onoratissime che hanno vista la cosa, narrano che in un certo luogo che è lontano cinque miglia di là, alle ventun'ora di sera, fu vista una gran moltitudine di cani che parevano rossi e che si credette fossero quattromila, andare verso la Germania, e seguivano questa prima schiera una gran quantità di bovi e di pecore, dopo questi venivano fanti e cavalieri divisi in coorti ed in bande, alcuni dei quali collo scudo e in così gran numero da parere un esercito; e alcuni di essi pareva che avessero il capo, altri senza capo si vedevano. L'ultima schiera era di un uomo grandissimo come un gigante; stava sopra un grandissimo cavallo e aveva seco gran quantità di giumente di tutte le sorta. Questo passaggio durò quasi tre ore e lo videro in diversi luoghi; e di ciò sono molti testimoni, uomini e donne, che per veder meglio si avvicinarono. E dopo il tramonto del sole, come se passassero ad altri luoghi, non si videro più.

CLXVII

ALTRO PRODIGIO

Dopo pochi giorni da Roma raccontarono altre cose, e di non dubbia fede, poiché vi sono le prove. Il venti di settembre si scatenò un turbine di venti e furono strappate dal suolo le mura di un castello abbandonato chiamato Borghetto, che è lontano sei miglia dalla città, e la chiesa antichissima che è vicina a quel luogo, e le pietre erano così sminuzzate che pareva fossero state le mani dell'uomo. In una bettola, che era luogo di riposo pei viandanti e dove molti si erano rifugiati, tutto il tetto fu sollevato e portato molto lungi di là sulla via, senza che ne venisse danno ad alcuno. La torre della chiesa di Santa Ruffina, che è lontana dieci miglia dalla città dall'altra parte del Tevere, e verso il mare, in un luogo che si chiama Casale, fu svelta dal suolo e rovinò. E a coloro che meravigliati ne chiesero la cagione, due bifolchi, che stavano a Casale a coltivare i campi, venuti per questi avvenimenti a Roma, narrarono di avere spesso veduto camminare per le foreste vicine quel cardinale detto il Patriarca, che poco tempo prima era morto di ferita, con una veste di lino, com'è dei cardinali, e col berretto quadro come soleva portarlo, mesto, che si lagnava e piangeva. E lo videro quel giorno in cui fu così violento il turbine del vento, là in mezzo, fra i venti, abbracciare quella torre e strapparla dal suolo e rovinarla a terra. Oltre a ciò molti grossi alberi e querci furono divelti dalle radici e gettati lontano. Nelle quali cose prestandosi comunemente poca fede, molti andarono a vedere e dissero che era vero.

CLXVIII

DI UN NOTARO FIORENTINO DISONESTO

Un notaro di Firenze, e che guadagnava assai poco dall'arte sua, pensò a qualche altra scaltrezza per guadagnar danaro e andò da un giovane a chiedergli se gli erano stati restituiti cinquecento fiorini, che suo padre aveva una volta prestati ad un tale che era già morto. Il giovane, che non sapeva alcuna cosa di ciò, disse che tale debito egli non aveva visto in nome del padre. Il notaro asseriva che l'istrumento l'aveva egli stesso rogato, e spinse il giovane a chiedere ciò che doveva dinanzi al podestà, rinnovando con denaro l'atto. Il figlio di colui che si diceva essere debitore, quando fu citato, negò che il padre suo avesse mai presa alcuna cosa in prestito, e che di quest'affare nulla risultava, com'è uso dei mercanti, dai suoi libri; e subito andò dal notaro e lo prese a rimbrottare come uomo falso, che aveva scritta cosa che non era avvenuta. E il notaro: «Tu non sai», gli disse, «figlio mio, che nel tempo in cui fu fatto quell'affare tu non eri ancor nato; tuo padre prese a prestito quella somma, ma la restituì dopo pochi mesi, ed io stesso ho fatto il contratto pel quale tuo padre e assolto di quel debito». E quello diedegli il denaro per rinnovar l'istrumento e fu tolto da quella molestia. E così con bella frode il notaro ebbe denaro da entrambi.

CLXIX

DI UN MONACO CHE INTRODUSSE IL CORDONE

IN UN FORO DI UN'ASSICELLA

Nel Picentino è una città chiamata Iesi. In essa eravi un frate, che aveva nome Lupo, il quale amava una giovinetta che era anche vergine; e questa, esortata molte volte, cedette e acconsentì a far la voglia del frate. Ma temendo di dover provare troppo grave dolore, esitava alquanto, onde il frate disse che avrebbe interposta una tavoletta di legno, per il foro della quale avrebbe lanciata la freccia. Poi prese una tavoletta di abete sottilissima, la perforò, e andò di nascosto dalla fanciulla, introdusse il cordone nel foro, e prese a baciarla soavemente, mentre sotto le vesti cercava il buon boccone. Ma il cordone suddetto, per la bellezza del viso e per il contatto di sotto, risvegliatosi, prese a gonfiarsi stranamente e fuor di misura entro il foro, rimanendovi come strangolato; e la cosa ben tosto fu a un punto tale, che non potea più né entrare né uscire senza grande dolore. Cambiato in dolore il piacere, il frate prese a gridare ed a gemere per il martirio troppo grave. La fanciulla atterrita voleva consolar l'uomo, e lo baciava e voleva che compiesse la cosa desiderata, e gli accresceva il dolore; perché aumentandosi in quel modo il volume, lo spasimo si facea peggiore. E il disgraziato si doleva e chiedeva dell'acqua fredda per calmare quel gonfiore, bagnandolo. La ragazza, che aveva paura di que' della casa, non osava chiedere acqua; poi, commossa dalle grida e dal dolore di quell'uomo, andò a prenderne, e bagnatolo, tolse alquanto il gonfiore. E come un po' di rumore si faceva nella casa, il frate, desideroso di svignarsela, tolse il cordone dalla tavoletta, ed era scorticato, massime al di sopra; e quando dové chiamare il medico per la cosa, la novella venne sulle bocche di tutti. Ché se a tutti costassero altrettanto i loro vizi, molti sarebbero più continenti.

CLXX

ORRIBILE STORIA DI UN GIOVANE

CHE MANGIAVA I BAMBINI

Io racconterò ancora, tra queste fiabe, una storia nefanda ed orribile, non mai udita ne' secoli addietro, che io stesso credevo favolosa, ma della quale ho potuto convincermi per una lettera di un segretario del Re. Ecco come press'a poco era scritto in una parte di quella lettera. «A dodici miglia da Napoli è avvenuto un fatto mostruoso, in un luogo de' monti di Somma, dov'è un borgo così chiamato. È stato preso e condotto dal Podestà un ragazzo di circa tredici anni, che aveva mangiato due bambini di tre anni. Egli li attirava con blandizie in una spelonca, li impiccava e li tagliava a pezzi, e parte di quella carne mangiava cruda, parte cotta al fuoco. Ed ha confessato di averne mangiati molti altri, perché quelle carni gli sembravano più saporite delle altre; e che ne mangerebbe sempre, se potesse. E poiché si dubitava che ciò facesse per pazzia, rispose saggiamente sulle altre cose, e constò che operava non per demenza ma per ferocia».

CLXXI

DI UN CAVALIERE FIORENTINO CHE FINSE DI ANDAR FUORI

DI CASA E SENZA SAPUTA DELLA MOGLIE SI NASCOSE

NELLA STANZA DA LETTO

Un cavaliere fiorentino, uomo podagroso, il nome del quale taccio per suo onore, aveva moglie e questa aveva gittati gli occhi sull'intendente della casa. Di ciò s'era egli accorto, e in un giorno di festa finse d'andar fuori di casa, e nella stanza da letto, senza saputa della moglie, si nascose. Questa, credendo che il marito fosse lontano, andò tosto dall'intendente e lo chiamò nella stanza: «Voglio», gli disse dopo poche parole d'accoglienza, «che noi facciamo fra di noi qualche giuoco». E avendo l'altro acconsentito: «Fingiamo», disse la donna, «di fare fra di noi la guerra, poi concludiamo la pace». E poiché l'altro non capiva: «Lottiamo un poco», disse ella, «e quando mi avrai distesa per terra, metti la tua freccia nella mia ferita e allora con iscambievoli baci concluderemo la pace». E la cosa piacque molto all'uomo, che aveva sempre udito far le lodi della pace e che la pace sarebbe stata tanto soave. E poiché entrambi giacevano e ormai si preparavano alla pace, il marito uscì dal nascondiglio: «Cento volte», egli disse, «ai miei giorni ho io procurata la pace; ma questa sola contro l'uso mio, non voglio che si faccia». Così se ne andarono, senza aver potuto concluderla.

CLXXII

DI UN TALE CHE VOLEA FARSI CREDERE DI UNA GRANDE

CASTITA' E CHE FU SORPRESO IN ADULTERIO

Un tale nostro concittadino, che voleva sembrare uomo casto e di grandissima religione, fu una volta sorpreso da un amico nell'atto, e fu acerbamente da lui redarguito che egli, che predicava la castità cadesse in così brutto peccato. «Oh! oh!» rispose, «non credere che ciò io faccia per lussuria, ma bensì per domare e macerare questa misera carne e per purgare i reni». E son così fatti questi pezzi d'ipocriti, che fanno di ogni erba fascio e vogliono sempre coprire con qualche onesto velame la loro ambizione e le loro nefandità.

CLXXIII

SULLO STESSO SOGGETTO

Un eremita, che dimorava a Pisa, al tempo di Pietro Gambacorta, condusse una notte nella sua cella una donna pubblica e se ne servì una ventina di volte, ma sempre movendosi, per sfuggire il peccato di lussuria, dicendo in volgare: «Dòmati, carne cattivella». E quando la donna lo disse, e' fu cacciato dalla città.

CLXXIV

DI UN POVER'UOMO CHE GUADAGNAVA COLLA BARCA

Un povero che traeva il viver suo traghettando il fiume, una sera, che non vi aveva passato alcuno, tornava tardi a casa, mesto, quando di lontano vide uno che gridava perché lo passasse; e sperando nel piccolo guadagno, passò all'altra riva quell'uomo. Ma avendogli chiesto il denaro, quegli giurò che non ne aveva affatto e gli promise di dargli buoni consigli in premio dell'opera sua: «Come», disse il barcaiuolo, «mentre la mia famiglia muore di fame, dovrò darle de' consigli a mangiare?». «E questo soltanto», rispose, «io posso dare». Il barcaiuolo, molto adirato, chiese che cosa dicessero questi consigli: «Che tu», disse il viaggiatore, «non devi mai trasportare alcuno senza aver prima avuto il denaro; e che tu non dica mai a tua moglie che un altro lo ha più abbondante». Udite queste cosee e' tornò afflitto a casa. E alla donna, che gli chiese denaro per comprar del pane, disse, che in luogo di denaro egli recava dei buoni consigli, e le narrò la cosa, e le disse i consigli che aveva ricevuti. La donna quando sentì parlar d'abbondanza, drizzò le orecchie: «Forse che», chiese, «voi uomini non ne avete tutti la stessa quantità?». «Che! «rispose, «vi sono fra di noi grandi differenze; il nostro prete ne ha forse più del doppio», e stendendo il braccio, le mostrò la misura. La donna, tosto accesa di voglia, volle il più presto che poté esperimentare se suo marito avesse detto il vero. Così mutata in stoltezza quella che doveva esser sapienza, imparò il pover'uomo che non si hanno a dire le cose che ci sono nocive.

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 22.49.56