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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Eva

di: Giovanni Verga

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Un mio amico, appendicista molto conosciuto, veniva spesso a trovarmi - eravamo giovani, artisti, entusiasti, matti del pari - Si fumava spesso la pipa insieme e digerivamo la gloria di là da venire. Il mio cuore, o piuttosto la mia immaginazione, aveva bisogno di espandersi. Gli parlai delle impressioni ricevute con tanto calore che egli volle leggere il mio scritto e lo trovò bello. «Dammelo,» mi disse «voglio farti amare da quella donna.»

«Eh?!» risposi come sbalordito da quell'enormità.

«Che ci trovi d'impossibile? La donna è così vana! E la ballerina ha tanto bisogno di simili entusiasmi che le facciano la reclame e si comunichino agli altri!»

«Oh! amarmi! Lei... amar me!... Sei matto!»

«Chi lo sa! E poi mi renderai un servigio; mi risparmierai buona parte dell'appendice teatrale che dovrei scrivere. Il tuo articolo è proprio bello; me ne farò onore.»

E lo portò via infatti, e la sera dopo trovai in camera il giornale ed una letterina del mio amico.

" Non te l'avevo detto? " mi scriveva, " il tuo articolo ha fatto furore. Eva desidera conoscerti. Stasera trovati in teatro, ti presenterò. "

Provai come una fitta al cuore. Presentarmi a lei!... io!... così fatto!... a quella bellezza circondata da tante seduzioni, da tanti splendori, che non aveva nulla di terreno!... proprio io!...E in me successe una lotta di mille pensieri diversi, e l'intima soddisfazione ch'ella avesse letto il mio articolo, avesse scorto una parte del mio cuore, e ne fosse lieta... e la ripugnanza di svelare al pubblico e a lei stessa il segreto delle mie impressioni, e il timore che esse fossero giudicate ridicole... Se ella mi trovasse ridicolo?...

Non ebbi neanche un istante il coraggio di pensare ad accettare quell'invito. Eppure ero felice, tutto solo nella mia cameretta, fantasticando cogli occhi fissi sulla fiamma del caminetto.

A un tratto fu suonato il campanello con violenza. Io mi scossi bruscamente. Udii nell'andito la voce di Giorgio. «E così,» mi disse entrando, «che cosa fai? Non hai ricevuto il mio biglietto?»

«Si, ma...»

«O dunque?»

«Ma non verrò... Non posso venire...»

«Eh! che diavolo! Ora che ho promesso di presentarti! Che figura mi fai fare?»

«Ma capisci...»

«Capisco che sei di una timidità ridicola.»

Così la paura di un ridicolo scacciò l'altra, e mi lasciai condurre. Alle porte del teatro sentii rinascere più vive che mai le ultime esitazioni, e le misi fuori risolutamente. Egli le respinse senza ammettere replica e mi prese pel braccio. Infilammo alcuni corridoi poco illuminati, e ci trovammo quasi improvvisamente in mezzo ad un caos di ordegni, di assi, di tele dipinte, di scale; tutto polveroso, unto, sudicio, dove stavano a chiacchierare alcuni macchinisti in maniche di camicia, e un pompiere faceva la corte ad una figurante lercia, seduta a cavalcioni su di una seggiola zoppa. - Era il rovescio di quel paradiso di tele dipinte e di fiori di carta. Di fuori risuonavano applausi fragorosi che soverchiavano la musica da ballo. Tutt'a un tratto, dalle quinte, entrò correndo un leggiadro folletto, tutto involto in una nube di veli, e rialzando la gonnellina appoggiò il piede su di uno sgabello per allacciare meglio uno degli scarpini.

«E' lei,» mi disse Giorgio; «vieni.»

Essa levò il capo, ancora tutta rossa e anelante. Ci vide e ci sorrise. - ahimè! un sorriso stanco, distratto, reso sgarbato dalla respirazione accelerata. I capelli le cadevano sul petto senz'arte; alcune stille di sudore rigavano il suo belletto; le sue candide braccia, vedute così da vicino, avevano certe macchie rossastre, e nello stringere i legaccioli vi si rivelavano i muscoli che ne alteravano la delicata morbidezza; le scapule si ravvicinavano sgarbatamente, fin la suola del suo scarpino era insudiciata dalla polvere del palcoscenico. Ti parlo da pittore; ma anche da pittore ne avevo ricevuto la prima impressione. Era la silfide dietro la scena, nel suo momento di prosa, in cui non ha bisogno di essere bella, e non si cura di esserlo. Ora è impossibile esprimerti l'effetto che tutto ciò doveva fare sulla squisita e mobilissima sensibilità mia. La farfalla tornava bruco, ed io ne risentivo un dispetto ed una amarezza indicibili.

«Ah, il signore!...» diss'ella sorridendo fra un nodo l'altro. «Le sono molto riconoscente del suo articolo.»

E siccome io non rispondevo, il mio amico stimò conveniente dire qualcosa per conto mio. Ella si rizzò, tutta rossa, ancora anelante, ed aggiustando i suoi capelli e le pieghe del suo gonnellino, mi affissava coi suoi grand'occhi - erano tutt'altri occhi che quelli lampeggianti ebbrezze e seduzioni mentite che avevano sconvolto la mia ragione; ma ci era un'aria d'insistente e quasi ingenua curiosità ch'era stranissima.

«Rientro in iscena,» disse vivamente e stendendoci le due mani nello stesso tempo. «Mi rincresce non potermi fermare più a lungo. Ma spero che il signore vorrà farmi il piacere di venirmi a trovare...»

Ci sorrise e con la vivacità piena di grazia spinse all'indietro colle due mani quel fiocco di velo che formava il suo gonnellino; riprese come una maschera il suo sorriso e disparve.

Rimanevo tristamente là dov'erano svanite le mie illusioni.

«Che te ne sembra?» domandò Giorgio.

«In fede mia... non valeva proprio la pena di venir qui a sciupare i bei frutti delle mie tre lire!»

«Che bel matto! Avresti voluto essere accolto con una piroetta? E credi forse che la prima ballerina della Pergola non debba far altro che sorrisi convenzionali e gesti aggraziati? Puoi essere ben contento, giacché ti ha invitato ad andarla a trovare...»

«Oh, grazie!»

«Saresti capace di non andarci!»

«Tanto capace che non ci andrò.»

«Eh, via! cotesto si chiama viver nelle nuvole!...»

«Lasciami pure le mie nuvole così belle, perché tutto il resto è così brutto!»

«Amen!» rispose Giorgio in tono derisorio. «Non te le invidierò, di certo!»

 

«Anzi,» avevo detto a Giorgio un altro giorno, «voglio tornare a vederla, cotesta sirena che abbaglia la ragione collo scintillare delle sue pagliuzze dorate, e che irrita i sensi colle sue vesti vaporose, che mette la febbre nel sangue, e fa scrivere appendici ridicole. Voglio ridere di me anch'io, giacché ne hanno riso gli altri, e lei per la prima.»

«Si direbbe che nella tua ironia c'è molta amarezza!»

«No! c'è del dispetto!... C'è il dispetto di aver visto il mio cuore ginocchioni davanti a cotesta dea che si allaccia le scarpe come l'ultima donnicciuola...»

Giorgio quest'altra volta era accanto a me, in teatro, e guardava cogli occhi spalancati quella donna circondata dagli stessi splendori, e irradiante le medesime ebbrezze. E a rispondere colla sua ammirazione al mio sarcasmo, esclamava quasi fra sé: «Perdio!... com'è bella!...»

«Oh! Sì! Sì! Ed è qualcosa che irrita, che fa dispetto, questa bellezza alla cui presenza il cuore si contorce di spasimo e la ragione diventa vigliacca, cotesta profanazione del bello che, sorridente e non curante, calpesta colle sue scarpine di raso tutto quello che abbiamo creduto puro e santo - la donna, l'amore, l'ideale. - Vedi, essa mi ha messo la febbre nel sangue, ed io mi sento come schiaffeggiato.»

«Mio caro» esclamò Giorgio uscendo fuori dai gangheri «qualche volta io credo che tutte le nostre creazioni rachitiche non valgano un capello della schietta bellezza fisica.»

«Ah! sì, per esempio cotesta vale tre lire.»

«Oh!»

«Sì, ella vende per tre lire le sue spalle, il suo seno, le menzogne dei suoi sguardi, i baci del suo sorriso, il suo pudore, per tre lire, a me, a te, a quel grasso signore con l'occhio imbambolato dal vino, a quel giovane che le getta in faccia i suoi sozzi desideri con esclamazioni da trivio, a quell'elegante annoiato che fissa su lei il suo occhialino distratto dal fondo del suo palchetto, a quella signora che non si fa pagare la seminudità, ma che la guarda con disprezzo. Tutto ciò non vale che tre lire; ella ebbra, procace, in mezzo a gente che ha la testa a segno, e qualche volta il sorriso o la curiosità insultante!... Nelle medesime condizioni la cortigiana ha su di lei il vantaggio di aver di faccia un uomo abbietto e ridicolo del pari.»

«Essa ha udito tutto quello che hai detto di lei!» rispose ridendo Giorgio che da qualche istante non mi dava più retta.

Io trasalii, spiegamene tu il motivo, se puoi.

«Davvero?» esclamai come se fosse stato possibile.

«Sì. Non vedi come ci guarda?»

Allora mi accorsi che la mia sorpresa e la mia credulità erano ridicole, e giacché mi sentivo umiliato, senza saperne il perché, ammutolii.

Giorgio era partito prima di me. Quando fui per uscire mi si avvicinò un inserviente del teatro e mi porse un biglietto.

«A me?» esclamai sorpreso.

«Sissignore, mi fu ben indicato.»

«Da chi?»

«Dalla signora Eva.»

«Eh?!...»

«Che l'aspetti nel vestibolo. Verrà fra mezz'ora.»

La mia sorpresa era tale che non potei metter fuori una sola delle interrogazioni che mi si affollavano in mente.

Apersi il biglietto e lessi:

" Non siete venuto: perché? Se volete accompagnarmi dopo il ballo, aspettatemi nel vestibolo. "

Rimanevo come sbalordito dalla sorpresa, leggendo e rileggendo quelle due o tre righe, sentendomi serpeggiare fiamme ignote per le vene, provando improvvisi ed inesplicabili turbamenti. Gli spettatori, gli artisti, gli impiegati del teatro erano tutti partiti gli uni dopo gli altri; i lumi erano stati spenti; non rimaneva che qualche fiammella di gas per i corridoi, e il lampione di un fiacre che si riverberava sull'invetriata del vestibolo. Avrai osservato come in certi momenti eccezionali un oggetto insignificante assorbisca tutta la nostra attenzione e s'inchiodi nel nostro cervello. - Quel lume che brillava al di fuori esercitava una specie di fascino sui miei occhi, e sembrava mi penetrasse sino al cuore con un raggio di fuoco. Non sapevo da qual parte ella sarebbe venuta, e al menomo rumore che udivo su per le scale o pei corridoi il sangue mi si rimescolava tutto. Venti volte provai una gran tentazione di scappar via. Avevo paura, ecco!

Udii un leggero fruscio di seta dietro a me; uscì dall'ombra di un corridoio una donna tutta infagottata nelle sciarpe, nelle pellicce, e col velo sul viso. Attraversò quasi correndo il vestibolo; passò la sua mano sotto il mio braccio, senza dirmi una sola parola; spinse l'usciale, e mentre raccoglieva lo strascico della veste per montare in carrozza, mi disse con voce soffocata sotto il cappuccio e il velo: «Venite.»

Appena fui seduto al suo fianco calò il cristallo, sporse il viso in fuori, ed ordinò al cocchiere:

«Ai colli.»

Poscia sollevò il cappuccio che le veniva fin sugli occhi, gettò il suo velo all'indietro, e si volse a guardarmi fisso, senza dir motto, con un'aria di curiosità insistente, e quasi fanciullesca. Erasi sdraiata in un angolo del legno, col capo rivolto dalla mia parte. Sembrava assai stanca, e faceva scorrere quell'occhio curioso su tutta la mia persona, dal capo alle piante.

A un tratto si rizzò sulla vita, e mi domandò semplicemente:

«Come vi chiamate?»

«Enrico Lanti.»

«Quanti anni avete?»

«Venticinque.»

«Siete da molto tempo in Firenze?»

«No, da due mesi.»

«Ci resterete ancora del tempo?»

«Tre o quattro anni.»

«Io partirò in giugno» mi disse con una lieve tinta d'ingenua malinconia.

Aveva la voce sonora, di quella sonorità ch'è dolce come una musica.

E s'abbandonò sui cuscini, appoggiò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. Sembrava che dormisse.

La notte era tiepida e rischiarata da un bel lume di luna. Sentivo accanto a me quel respiro lievissimo come quello di una bambina; di quando in quando, a seconda delle svolte che faceva il legno, un raggio di luna passava dallo sportello e gettava dei capricciosi chiaroscuri su quel viso così bianco da sembrare diafano, su cui svolazzavano pel vento che veniva dal di fuori, alcuni ricci biondi così fini e leggieri che sembravano delle vaporose piccole ombre cinerine. Credevo di sognare. Ero proprio io! dentro quel legnetto! Sotto quel mucchio di velluto e di seta che era proprio lei!

«Perdonatemi» mi disse ella, dopo alcuni minuti di silenzio, senza neanche aprire gli occhi. «Sono molto stanca! E tutte le sere di solito mi riposo così un pochino.»

E siccome volevo rialzare il cristallo che aveva lasciato aperto, mi disse:

«Lasciatelo così. La sera è bella!»

«Ma vi farà male.»

«No, anzi!»

Sporse la testa fuori dello sportello e respirò con forza.

«Mio Dio, come fa bene!»

E rimase immobile, guardando lungamente al di fuori.

A un tratto si volse verso di me, e mi disse quasi bruscamente:

«Perché non siete venuto a trovarmi?»

Ero imbarazzato a rispondere, ed ella seguitò, senza attendere la mia risposta:

«Siete poeta?»

«No, sono pittore.»

«E' lo stesso, siete artista!» mormorò, e mi affissò a lungo coi suoi grand'occhi lucenti; così a lungo che il mio imbarazzo si faceva visibile. «Voi non mi avete trovato più così bella, da vicino!...» esclamò con tutta naturalezza, rompendo improvvisamente quel silenzio che mi sembrava eterno, benché non durasse da due secondi. «Oh, non mi dite nulla!...» soggiunse con un grazioso movimento del capo. «E' così!»

E si tacque nuovamente, guardò al di fuori, si passò a più riprese le mani su quei ricci ribelli, e di quando in quando mi affissava sempre con quello sguardo insistente.

«Di dove siete?» mi domandò.

«Son siciliano.»

«E' assai lontana la Sicilia?»

«Sì.»

«Più lontana di Napoli?»

«Sì.»

«Avete visto il San Carlo di Napoli?»

«No.»

«Io ci andrò forse in dicembre.»

Era una conversazione bizzarra, in cui le parole avevano tutt'altro significato, e nell'accento della voce erravano certi suoni che ricercavano le più intime fibre del cuore.

«E' vero che i siciliani sieno gelosi?» mi domandò dopo qualche istante.

«Nè più nè meno degli altri.»

«Voi non siete geloso?»

«Non lo sono mai stato.»

«Non avete mai amato?»

«No.»

«Giammai?»

«Giammai.»Mi affissò alcuni istanti e riprese:

«Siete innamorato dell'arte vostra?»

«Sì.»

«Come di una donna?»

«Come di una donna.»

«Come lo sapete se non avete mai provato l'amore della donna?»

Parve sorpresa ella stessa della sua scappata, e soggiunse, quasi per non darmi il tempo di rispondere:

«Come siete fatti voi altri artisti!»

Nuovo silenzio, oscillante di vibrazioni arcane, e pieno di turbamenti misteriosi.

«Ho conosciuto molta gente, ma non un artista» soggiunse. «Dicono che sono così matti! Vi ho guardato con curiosità per questo. Ve ne siete accorto?»

«Sì.»

«Ma non ho visto nulla! Vi credo troppo superbi per lasciarvi scorgere... Avrei una grande curiosità di leggervi in cuore le vostre stranezze. Vi guardo quasi come un animale curioso.»

E rideva schietta, ingenua, scoprendo i suoi piccoli denti, bianchi e lucidi.

«Quasi vi faccio paura?» le dissi ridendo.

«No!... no!...» rispose stringendomi la mano. «Siete stato così buono verso di me!»

Sembrò esitare qualche istante, e all'improvviso mi disse con vivacità:

«Ditemelo francamente: voi altri non vi montate la testa da per voi quando pensate tante belle cose di una donna?»

«No.»

«Davvero?»

«Davvero.»

«Ah, com'è bello quello che avete scritto di me!» esclamò battendo le mani con aria infantile. «M'ha fatto tanto piacere!»

La sua vanità era così sincera, così ingenua, direi, ch'era quasi commovente. Abbandonava fra le mie la sua mano senza guanto, quella piccola mano affilata, tiepida, colla pelle fine come il raso.

«Che sciocca sono stata a farmi vedere da voi tra le scene!» soggiunse. «Non me lo sono mai perdonato! La colpa è mia. Vi ho letto in cuore come su di un libro aperto...»

Mi strinse la mano, per proibirmi di rispondere; mise la testa fuori lo sportello e soggiunse come parlando a se stessa:

«Rincresce davvero l'aver sciupate certe illusioni... Anche delle illusioni!...»

«Guardate!» esclamò con infantile vivacità poco dopo, tirandomi per la mano. «Guardate com'è bello!»

Misi anch'io la testa fuori dello sportello. Il legno correva pei deliziosi viali dei Colli. L'alito di lei mi sfiorò il viso, e un brusco movimento della carrozza spinse il suo volto sul mio.

«Oh!» esclamò sorridendo e arrossendo, e buttandosi vivamente indietro. «Che bella sera! Vogliamo scendere?»

Saltò a terra leggiera come un uccelletto, e siccome la notte era freddina, si strinse al mio braccio.

«Che bel freddo!» esclamò ridendo e rabbrividendo con tanta grazia che mi comunicò il brivido delle sue membra. «Corriamo!»

E corremmo come due fanciulli, ella posando appena i suoi piedini sul suolo, compiacendosi del fruscio della sua veste, e tirandosi sul viso il mantello che il vento gonfiava.

«Oh, com'è bello!» esclamava quando non tremava dal freddo. «Oh! che bella sera!»

Quando fummo di nuovo in carrozza ella chiuse tutti i cristalli, e si rannicchiò in un angolo del legno tremando e ridendo a sbalzi: «Accostatevi di più» mi disse; «ho freddo.»

Le misi un cuscino sotto i piedi, e il paletò sui ginocchi.

«Ma voi avrete freddo!» diss'ella. «Facciamo a metà.»

Tirò indietro i suoi piedini, e gettò sulle mie spalle metà del suo mantello di velluto.

«Eccovi metà del manicotto,» soggiunse.«Avete le mani gelate! Che piccole mani che avete, signore!»

E poscia con un sospiro tutto gaio: «Ah come si sta bene così!»

Sentivo il suo corpicino delicato, tremante, raggomitolato in un cantuccio, e che mi mandava sul viso il suo alito tiepido e profumato.

«Che avete che non parlate?» mi disse dopo un breve silenzio.

«Nulla.»

«Siete contento di questa passeggiata?»

«Sì.»

«Anch'io!» esclamò, e un istante dopo, con quella sua bizzarra mobilità di pensiero: «Fate anche dei ritratti?»

«Sì.»

«Volete fare il mio?»

«Sì»

«Mi farete bella?»

«Come siete.»

«Vi piaccio?»

«Assai!»

«Anche voi mi piacete.»

Tutto ciò con tal franchezza e tal semplicità come se fossimo fratello e sorella, o forse la cosa più naturale di questo mondo.

«Ebbene, che fate adesso?» mi disse vedendomi sedere di faccia a lei.

«Ho bisogno di guardarvi in faccia!...»

Ella sorrise dolcemente, con quello stesso sorriso di piena e schietta ingenuità, piegò la testa all'indietro, socchiuse gli occhi, schiuse le labbra senza far motto.

E piovvero da tutta la sua persona su di me le sue emanazioni inebbrianti.

Poscia scoppiò a ridere allegramente: «Oh! che matti! che matti!... ma pure è una gran felicità esser matti di tanto in tanto!... Quanta noia in tutto il resto!»

«Anche il teatro?» domandai.

«Oh, soprattutto il teatro.»

«Allora perché non lo lasciate?»

Ella mi guardò sorpresa, con quei suoi grand'occhi spalancati da bambina, e mi disse ingenuamente:

«Ma è il mio mestiere, signore!»

«Ah!»

«E poi ci sono anche dei bei momenti.»

«Gli applausi?»

«Sì... in mezzo a tutti quei lumi, e quella musica, e quegli entusiasmi... e si sente bella...»

«Si sente?»

«Sì, proprio! Da principio anche cotesto fa una certa paura... a trovarsi così bella e così poco vestita sotto tutti quegli occhialetti che luccicano... E' qualcosa che fa piacere e fa soffrire. Poscia quei sorrisi, quegli occhi, quelle grida, quelle mani inguantate che si sporgono fuori dei palchi, montano alla testa come una febbre... E poi c'è anche una grande soddisfazione d'amor proprio.»

«Quale?»

«Quelle di sentirci dire da tanti signori eleganti che siamo più belle di quelle gran dame superbe che ci guardano sdegnosamente come cagnolini ammaestrati.»

«Ah! le visite sul palcoscenico?»

«Sì, e anche in casa.»

«Vi piacciono?»

«Sì, ce ne sono di quelle che piacciono»

Diceva tutto questo guardandomi tranquillamente negli occhi, con una grand'aria di semplicità e di naturalezza.

«Che cosa avete che non dite più nulla?»

«Proprio nulla.»

«Vi dispiace che vi abbia detto queste cose?»

«Oh, no!»

«Poiché fra le visite che mi piacciono c'è anche la vostra. E' vero che non me ne avete fatte, ma me ne farete.»

«Oh, no.»

«Come no?! Perché?»

Ella aspettò lungamente la mia risposta, e riprese con la voce dolce ed il fare insinuante di un bambino che teme di aver torto:

«Ma se chiudo la porta in faccia a tutti quei signori sarò fischiata... E allora a voi per primo non sembrerò più bella...»

C'era una sincerità, tale accento di verità nella sua voce, che non seppi che cosa rispondere a quell'osservazione di cui la cruda verità mi spezzava il cuore. Anche lei s'era fatta pensosa, e teneva il capo chino fra le mani.

La carrozza si fermò. Essa mise fuori il capo dallo sportello e mormorò: «Diggià!»

«Volete tirare il campanello del primo piano?» mi disse.

Al primo piano c'erano le finestre illuminate.

«C'è gente da voi!»

«Sì,» mi rispose semplicemente e prese la mia mano.

Si era fatta improvvisamente triste. Erano le due del mattino; la carrozza era partita; la strada era deserta e vivamente rischiarata dalla luna. Eravamo soli, davanti a quella porta, come un commesso ed una sartina che fanno all'amore di nascosto.

«Verrete a trovami?» domandò.

«Forse.»

«Perché forse? Non potete promettermelo?»

«Temerei di mancare.»

«Ah! temete diggià di mancare!»

Mi scosse la mano, dopo un breve silenzio, e ripeté con voce quasi supplichevole:

«Venite a trovarmi!»

«Verrò.»

«Ah! bravo così! Domani?»

«Domani.»

«Verrete a prendermi dopo il ballo?»

«Se lo volete...»

«Ma non lo voglio! Mi fareste un piacere, ecco!»

«Ebbene, sì!»

«Arrivederci, dunque.»

E scomparve nell'andito. Avevo fatto una ventina di passi quando udii che mi chiamava per nome. Era la prima volta che udivo il mio nome in bocca sua, e mi parve che mi mescolasse tutto il sangue. Mi volsi - era ancora sulla soglia - e la luna l'irradiava tutta.

«Dove abitate?» mi domandò semplicemente.

«In Santo Spirito.» E le dissi anche il numero.

«Che piano?»

«Il terzo, l'ultimo.»

«Buona sera!» e stavolta partì davvero.

 

Rimanevo estatico, come inchiodato davanti a quella porta, respirando l'aria fredda della notte a pieni polmoni. Sentivo un'esuberanza di vita quasi dolorosa, che mi dilatava e mi comprimeva il cuore a vicenda. Mi pareva che ella dovesse guardarmi dietro i vetri, e quelle finestre illuminate, dinanzi alle quali passavano tutt'altre ombre che la sua, mi abbacinavano gli occhi. Si, ero geloso di quegli uomini che l'aspettavano in casa sua, alle due del mattino, e li vedevo belli, orgogliosi e sorridenti, rubarmi le sue parole, la sua vista, e la felicità. Vidi come un baleno dell'avvenire; mi trovai povero, solo, meschino, ridicolo, abbandonato su quella soglia, tremante di freddo e divorato dall'invidia! Che cos'ero io per disputare quella donna a quegli uomini felici? Provai dispetto, vergogna, gelosia rabbiosa; sentii che la vertigine di quella sera mi strappava violentemente da tutte le mie affezioni, e mi gettava nell'ignoto. Ebbi paura, e l'orgoglio mi diede la forza di giurare che mai più avrei riveduto quella donna, la quale si sarebbe vergognata di confessare il suo amore per me.

Non dirò che quel giuramento non mi costasse, e molto; ma ebbi la forza di mantenerlo - per invidia, per dispetto, per orgoglio, per gelosia... non lo so...

 

Il giorno dopo, nell'ora in cui avevo promesso di andarla a trovare, combattei una lotta terribile. Venti volte fui sul punto di uscire, di correre a buttarmi ai suoi piedi. Mi afferrai a due mani a tutte le mie più dispettose passioni, e non mi mossi... e se piangevo ero felice che nessuno mi vedesse piangere.

Così suonò un'ora. Allora respirai con forza, come se avessi superato una gran prova.

Faceva freddo. Di fuori un vento impetuoso scuoteva i vetri, e gemeva per le strette viuzze di oltr’Arno. Guardavo i rari fiocchi di neve che svolazzavano sui vetri, e pensavo alla mia famiglia lontana, e a tutte le tranquille gioie che avevo abbandonato per correre dietro a larve affascinanti. Mi sentivo invadere da cento ispirazioni gigantesche, e sognavo tutte le ebbrezze della gloria.

All'improvviso fu suonato violentemente all'uscio. Saltai sulla seggiola come se il filo del campanello fosse stato attaccato al mio cuore. Presi un lume e andai ad aprire tutto tremante, come se attendessi una disgrazia... Indietreggiai stupefatto.

 

Era Eva, tutta imbacuccata, pallida e tremante dal freddo, che mi guardava con certi occhi dove avrei giurato che ci fossero delle lagrime.

Mi aspettavo rimproveri, scene drammatiche; nulla di tutto ciò. Ella entrò, sedette accanto al camino spento, e mi disse tranquillamente:

«Non siete venuto!»

«Voi!»

Ella sorrise dolcemente. Aveva gli stivalini tutti coperti di neve.

«Siete venuta a piedi?»

«Sì.»

«Perché?»

«Non so. Avevo bisogno di farmi perdonare l'altra sera.»

E si sforzava di non tremare, di non far scricchiolare i suoi dentini, come se avesse temuto di rimproverarmi il freddo glaciale che regnava nella mia cameretta. Sebbene cotesta delicatezza mi commovesse, io ero tutto vergognoso, pel mio camino spento, pei miei mobili più che modesti, e pel mio vecchio mantello che avevo gettato su di una seggiola.

Ruppi il cavalletto e accesi il fuoco nel camino.

Ella sorrise; aveva la labbra violette e stese le manine tremanti sulla fiamma che le rendeva quasi trasparenti.

«Oh! che bel fuoco!» ripeteva.

Io m'inginocchiai ai suoi piedi; asciugai i suoi stivalini con un lembo del mio mantello, e poscia glielo stesi sotto i piedi a guisa di tappeto. Ella mi lasciava fare, ridendo come una bambina; guardava all'intorno con curiosità, e mi sembrava che in cotesta curiosità, così espressa, non ci fosse più nulla di mortificante pel mio amor proprio.

«E' la vostra camera?» mi domandò.

«Sì.»

«Come siete felici voi altri artisti!... Quanti bei sogni dovete aver fatto fra queste pareti.»

Oh! il bel sogno ch'era la sua leggiadra figurina, col sorriso dolce, gli occhi umidi, le bianche mani incrociate sulle ginocchia, e la veste bruna che si piegava mollemente sulla sua persona come carezzandola, là, in quel povero angolo della mia cameruccia, illuminata dalla fiamma del mio camino!

Ella aveva capricci improvvisi, bizzarri, dietro ai quali si smarriva volentieri il proprio buon senso come dietro al sorriso di un bambino. «Fatemi vedere!» disse. E si mise a rovistare in tutti gli angoli, in tutti i miei disegni, in tutti i miei cartoni, ponendo tutto sottosopra, scappando in mille ingenue esclamazioni, facendomi mille domande prive di senso e piene di grazia. «Oh! bello!» e seguitava a metter tutto sossopra, battendo le mani dinanzi alle mie tele.

«Come fate a creare tante belle cose?» mi domandò, facendosi seria - e senza aspettare la mia risposta: «Regalatemene una.»

«Scegliete voi stessa.»

«Datemi quel paesaggio. E' una spiaggia di mare?»

«Sono i Ciclopi.»

«Che cosa sono i Ciclopi?»

«Si chiamano così certi scogli giganteschi sulla spiaggia di Aci-Trezza.»

«In Sicilia?»

«Sì.»

«Oh, come sono belli!»

Prese un pennello e sul margine della tela scrisse:

" Eva - 22 Marzo ".

«Così ci avrò lavorato anch'io!» aggiunse con quel sorriso vago.

E poi, facendosi seria:

«Voi altri dovete trovare un paradiso da per tutto.»

Girò all'intorno uno sguardo sorridente e riprese:

«Son contenta di essere venuta. Così ho visto il vostro nido.»

Il suo sguardo cadde sul modesto lettuccio, e sorrise vagamente senza dir motto. Poi tornò a sedersi accanto al fuoco, con un atto di dimistichezza carezzevole, e soggiunse guardandomi fisso:

«Sì, son contenta di esser venuta; ma mi avete pur dato un grande dispiacere!»

«Perdonatemi!»

«Oh, non ho nulla da perdonarvi! Non vi ho nemmeno domandato perché non siate venuto. Quando non vi ho visto, all'uscire dal teatro, ho subito indovinato il motivo che vi faceva mancare alla vostra promessa... e son venuta.»

Mi stese le mani, mi guardò negli occhi sorridendo, e soggiunse:

«Siete ancora geloso?»

«Oh...»

«Mi amate molto?»

«Mi par d'impazzire.»

«Molti mi hanno detto la stessa cosa.»

«Oh, Eva!... perché mi dite questo?»

«Ma a voi vi credo. Dovete amarmi così! Oh, Dio mio! com'è bello essere amata così! Ho dovuto piacervi molto per farvi pensare di me a quel modo... Se sapeste che cos'è per una donna il sapere di aver tanto piaciuto! Quanto durerà questa impressione in voi? Chi lo sa! Ma non importa. E' pur dolce l'averla destata, anche per un momento solo. Anch'io vi amo.»

«Voi! voi!»

«Sì, vi amo perché vi piaccio tanto.»

Mi guardava con tanta serenità, che quelle semplici parole avevano un senso affascinante.

«E poi, in questo momento, anche voi mi piacete.»

<Ah! in questo momento!...»

«Sì, mio Dio!... bisogna mentire per farvi piacere! Con voi credevo che potessi aprire il cuore schiettamente. Potreste giurare che mi amerete sempre come oggi?»

«Sì! oh, sì!»

«Fanciullo!» esclamò essa con un triste sorriso, «Quanti me lo hanno detto!»

«Non mi parlate in tal modo, Eva!»

«Che v'importa, se in questo momento non amo che voi! Mi crederete almeno, giacché sono così franca! Sì, sarà un capriccio, sarà una pazzia. - Vi amo perché siete ingenuo, perché non siete ricco, perché non siete elegante, perché avete in cuore tutte le follie dell'arte, perché mi guardate con quegli occhi, e anch'io divento come voi, non mi riconosco più! - Ecco perché vi amo. Domani forse mi piacerà di più la cravatta di un bel giovane, come a voi piaceranno le mani rosse di una sartina. Avremmo avuto torto per ciò di godere insieme questo momento di felicità? O saremmo più stimabili se mentissimo oggi con promesse per mentirci ancora domani con menzogne? Io ne ho amati tanti! Anche voi chissà quante donne avete amato! Oggi mi piacete, vi piaccio, e son felice di dirvelo, ecco! Domani... Chi lo sa il domani? Dunque vedete che se vi parlo con tanta franchezza avete torto di essere geloso.»

C'era tanta sincerità, direi tanto cuore, in quelle cose dure, che le rendeva affascinanti. Avrei potuto farmi saltare le cervella, ma non avrei potuto abbandonare la mano di quella donna che mi diceva di amarmi in tal modo, facendomi indovinare il giorno in cui non mi avrebbe più amato.

Ella era seduta di faccia a me, dinanzi al camino, e quasi le nostra ginocchia si toccavano; teneva le mani nelle mie e i suoi piccoli polsi bianchi e rotondi uscivano fuori dalle trine delle maniche; mi guardava sorridente, fiduciosa, con abbandono, felice di espandersi così sinceramente, e di parlarmi col suo cuore, povera e modesta come me. Ella mi disse anche:

«Vedete che vi amo davvero, se ve lo dico qui, quasi al buio, così infagottata, senza che possiate trovarmi bella...»

Il fuoco s'era spento. Ella s'inginocchiò dinanzi al camino - ella sì elegante, sì delicata, che avevo vista circondata di tutti gli splendori del lusso - s'inginocchiò dinanzi al mio povero camino, affumicato e pieno di cenere, e cercò di rianimare le poche braci. Io andavo attorno per vedere che cosa potessi sacrificare al gran freddo che faceva. Ella si avvide del mio imbarazzo e mi disse:

«Vogliamo andare a prendere il thè?»

«Dove?»

«A casa mia.»

«Ma come? a piedi?»

«A piedi, come due scampati. Voi mi darete il vostro mantello.»

«Andiamo.»

Faceva un freddo di gennaio; le strade erano tutte bianche di neve; ella tremava. Allorché fummo in piazza d'Azeglio, il mio primo sguardo cadde su quelle finestre del primo piano ancora illuminate. Ella che si stringeva al mio braccio, lo sentì trasalire, e lo premette leggermente come per attaccarsi a me.

«Non ci ho colpa, vi giuro!» esclamò con voce supplichevole. «Speravo che a quest'ora fossero partiti!...»

Mi prese per mano, come un bambino, e mi fece salirle scale appresso a lei.

«Zitto!» mi sussurrò all'orecchio. «Non voglio che vi vedano; spegnete il gas.»

Io girai la chiavetta. Eravamo al buio, e sentivo il profumo del suo fazzoletto, il soffio del suo respiro. Essa cercò tastoni il campanello e suonò quasi timidamente. Venne ad aprire una leggiadra cameriera. Eva le disse all'orecchio qualche parola, mi spinse in un andito, e scomparve senza far rumore da un altro uscio a vetri.

La cameriera mi fece entrare in una stanza da letto, debolmente illuminata, e scomparve anche lei.

 

La camera era piccola e imbottita di seta bianca come un elegante scatolino. In un canto c'era un letto tutto velato di trine, con certe cortine diafane che sembravano i vapori di un sogno d'amore, e lasciavano trasparire certe coperte color di rosa, di cui la seta doveva carezzare l'epidermide, e nascondere nelle sue pieghe scrosci di risa soffocate, di palpiti virginei. C'era un profumo singolare in quella camera, un profumo di cosa viva, un profumo di donna e di donna amante. C'erano in tutti gli angoli quei piccoli oggetti che luccicano e che hanno forme e colori leggiadri. C'erano negli specchi come il riflesso di chiome bionde, come il lampo di occhi lucenti e di sorrisi giovanili; vi si riverberavano ombre leggiere, colori delicati; il moto dell'orologio era silenzioso; il tappeto era spesso, bianco e carezzava i piedi.

Nell'altra stanza si udivano voci di uomini, e di tanto in tanto delle risa allegre. Si udì anche per qualche istante il suono del pianoforte, e ad intervalli la voce di Eva, fresca, spensierata, giuliva. Poi si udì un rumore di tazze mosse.

Improvvisamente una luce più viva invase la camera ed entrò Eva.

Ella corse verso di me; mi afferrò improvvisamente il capo, senza dire una sola parola, e mi diede un bacio.

«Ecco il tuo thè!» mi disse.

 

E quand'io la baciavo, quand'io la soffocavo di carezze deliranti, ella metteva un piccolo grido: un grido pieno d'amore e di voluttà.

«Ahi! mi fate male!»

Si svincolò ridendo dalle mia braccia; mi guardò fisso, con quegli ardori negli occhi, stendendo le mani per tenermi discosto ed esclamò:

«Come sei bello! Come devi amare tu! Vieni!» soggiunse sottovoce, prendendomi per la mano. «Zitto! vieni qui, accanto a me!»

Lisciava i miei baffi, arruffava i miei capelli e li intrecciava coi suoi, mi prendeva la testa fra la mani per guardarmi a lungo negli occhi, e mormorava:

«Bambino! bambino mio bello!»

Ad un tratto si fece seria; mi affissò con certi occhi attoniti, e mi disse:

«Mi pare di amarti davvero, guarda!»

Saltò dalle mia ginocchia come un uccello, corse all'uscio e girò la chiave.

«Buona notte, signori!» disse, e volgendosi verso di me, con uno scroscio di riso infantile: «Se ci vedessero!»

Si udì uno scoppio di voci e di recriminazioni al di là dell'uscio.

«Ho sonno!» ripeté Eva, «Buona notte!»

«Che imbecilli!» soggiunse poi «si credono in diritto di annoiarmi anche quando sono felice!»

Stette ad ascoltare, e ripigliò dopo alcuni istanti:

«Se ne vanno; finalmente! Verrai domani, non è vero?»

«Sì.»

«Alla stessa ora, mi aspetterai in teatro?»

«Sì.»

«Anzi, fai così: m'aspetterai in fiacre, in piazza Santa Maria Nuova. Verrò a trovarti io stessa. Prendi il fiacre numero nove; è la data del giorno in cui mi hai conosciuta. Ora che farai?»

«Come vuoi ch'io te lo dica se non lo so... se non ho più la testa, se ho la febbre!...>

Ella aveva i capelli sciolti, e me ne sferzava il viso con certi movimenti felini. «Ebbene,» mi disse, «se hai la febbre vai a casa.»

«No, starò a vederti dormire.»

«Eh?!»

«Starò a guardare le tue finestre dalla via, e ti vedrò dormire.»

Ella sorrise in modo inesprimibile, e mi avventò un bacio come un morso.

«Birbone!»

Scostò colle sue mani i capelli dalla mia fronte; mi guardò con certi lampi abbaglianti negli occhi - mi guardò a lungo così, tenendomi la fronte fra le mani - e poscia, come rispondendo a se stessa:

«Vattene!» mi disse «vattene!» E non mi lasciava, e sporgeva verso le mie le sue labbra sitibonde, e chiudeva gli occhi.

Mi richiamò di nuovo, quand'ero sulla soglia dell'uscio. «Dammi qualche cosa di tuo» mi disse; «dammi il tuo fazzoletto.»

E poscia un'altra volta:

«Aspetta! Voglio che anche tu pensi a me.»

Si staccò dal seno uno spillo d'oro, e mi punse leggermente sulla mano.

«Bravo!» esclamò dandovi su un bacio. «Ora vattene. Addio!»

Attraversai l'andito al buio, e andavo tastando tutte le serrature dell'uscio, senza trovar modo di aprirle.

Al di là dell'altro uscio udivo un fruscio di vesti e di passi, come se Eva andasse e venisse per la camera. Questa situazione si prolungava e cominciava a farsi imbarazzante. Non potevo tornare indietro, e non potevo chiamare la cameriera. Tutt'a un tratto udii uno scoppio di risa fresco, gaio, argentino - uno scoppio di risa che mi chiamava per nome, e comprendeva tutte le mie follie. Mi trovai, non so come, sull'uscio della sua camera; sollevai la portiera, e vidi quella leggiadra testolina che si affacciava fra le cortine del letto incorniciata dai biondi capelli e dai candidi merletti - saettandomi il delirio del suo sorriso, le ebbrezze dei suoi sguardi, e il fascino del suo silenzio.

 

Io non saprei dirti quanto durasse cotesto sogno febbrile, e quello ch'io vi provassi. Avevo in seno tutte le gioie, tutti gli entusiasmi, tutte le frenesie... e mi soffocavano. Sembravami che il cuore mi si dilatasse talmente, per tanta piena di affetti, che il mio petto non bastasse a contenerlo. Provavo nello stesso tempo tal fastidio di me, tal rimorso, come un dolore pungente. Sentivo che ero tremendamente felice. Passavo i giorni sognando ad occhi aperti, alla finestra, o presso il camino, o gironzolando per le vie - senza vedere, senza udire, senza pensare - e la notte divoravo avidamente tutte le ebbrezze. Partivo da lei all'alba, di nascosto, come un ladro che ha rubato il paradiso.

Provavo sgomenti inesplicabili; di tratto in tratto il cuore mi palpitava di gioie improvvise, acri e dolorose; sentivo arcane e infinite ispirazioni artistiche che non avrei neppure tentato di esprimere, e impotenze desolanti.

 

Ella mi amava veramente. Quell'amore sarà stato un capriccio, ma in quel momento era sincero. Le arrecavo paura e diletto. Delle volte mi guardava timidamente, e all'improvviso mi saltava al collo, ebbra anch'essa d'amore. Aveva certe strane curiosità di sapere come fosse fatto il mio cuore che l'amava in tal modo. Mi chiudeva gli occhi con le mani, metteva la sua bocca nella mia per sentire come fosse caldo il mio alito, ed appoggiava l'orecchio sul mio cuore per udire come battesse. Mi voltava e rivoltava in tutti i sensi, scomponeva i miei capelli, e quando l'affissavo a lungo negli occhi, li chiudeva con un piccolo grido di paura.

«Se avessi saputo di doverti amare così» mi diceva, «non ti avrei più cercato. Mi fai male!»

(segue)

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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.31

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