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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

EROS

Giovanni Verga


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16-20


26-30

 

XXI

Alberti avea ricevuto un invito pel ballo al Casino, senza sapere da che parte gli venisse; cotesta era forse una buona ragione per non mancare, se non ce ne fossero state anche delle altre.- Andò.

La prima persona che vide, circondata dalla folla, corteggiata come una granduchessa, fu Velleda. Ella ci stava proprio come una granduchessa e non s'accorgeva di lui. Ad un tratto, come si accorgesse solo allora di lui, gli stese la mano con un bel sorriso, poi, senza lasciare il braccio del suo ballerino, gli agghiacciò la gioia che irrompeva tripudiante negli occhi di lui, rifacendosi a un tratto seria e fredda.

"Tutti sanno che ci conosciamo" gli disse. "M'inviti per un ballo."

"S'è presentato alla mamma?" gli domandò poscia allo stesso modo.

"...No..."

"Che cosa penserà... Si presenti."

La contessa Manfredini accolse Alberti col suo sorriso e col suo cicaleccio melato.

"Troppo gentile, davvero!... Siamo state via da Firenze... Abbiamo viaggiato. Bella città Napoli! la conosce?... E Roma? il Vesuvio?... Abitiamo il villino Flora, appena fuori Porta Romana. Riceviamo il lunedí. Non manchi."

Le allusioni a Belmonte, ed alla famiglia Forlani furono evitate con garbo.

"Hai qualche impegno col signor De Marchi?" domandò la contessa alla figliuola che si era riaccostata: Velleda si fece pensierosa un istante, come non avesse intesa la domanda; scosse il capo un po' vivamente, e rispose:

"No... non rammento..."

Alberti sorprese uno sguardo rapido e acuto che la madre saettò sulla figlia. Mentre conduceva Velleda a prendere il suo posto nella quadriglia, costei gli domandò negligentemente:

"La mamma l'ha invitato a venire ai nostri lunedí?"

"Sí!"

Allora aggrottò leggermente il sopracciglio, si mise al suo posto, spinse indietro lo strascico della veste; e non disse altro. Eseguiva le diverse figure della quadriglia colla sua grazia e disinvoltura abituale, alquanto fredda, noncurante, rivolgendo ad Alberti la parola solamente quel po' ch'era necessario per non dar nell'occhio.

"Ieri l'altro l'ho vista a Firenze per la prima volta" incominciò il marchese. Ella non disse verbo.

"Sapeva che ero qui?"

"Sí" rispose asciutto asciutto; e si mise a battere il tempo col ventaglio.

E dopo alcuni minuti di silenzio:

"Bella cotesta musica!"

"Sembrami d'averla udita."

"Dove?"

"A Belmonte... in villa Armandi..."

"S'inganna" disse ella freddamente.

Tacquero.

"S'è divertita in questo viaggio?" domandò Alberti.

"Assai!"

"È stata via molto tempo!"

"Le pare!... appena quattro mesi."

Ei chinò il capo.

"Troppa gente!" mormorò Velleda per rompere il silenzio.

"È vero."

"Ha visto la contessa Armandi nelle altre sale?"

"No."

"Deve esser qui. Sembrami d'averla vista un momento."

La quadriglia era finita. Mentre Alberti la riconduceva, Velleda gli domandò:

"Ha promesso alla mamma di venire?"

"Sí... Le rincresce?"

"Perché dovrebbe rincrescermi?" disse ella alteramente.

"Mi dia un bicchiere d'acqua" aggiunse immediatamente, come per mitigare la durezza della sua risposta.

Dopo di avere attraversato due altre sale, riprese, guardando attentamente i disegni del suo ventaglio:

"E non pensa di viaggiare anche lei?"

"Perché?" rispose Alberto con un po' di sorpresa.

"Perché è giovane, e il mondo è bello. Vada a Roma, in Grecia, in Oriente..."

"Mi manda molto lontano" rispose Alberti sorridendo a bocca stretta.

Ella, dopo aver giocherellato col fiocco del ventaglio, rispose lentamente:

"Faccia come vuole."

"Mi dia i suoi ordini..."

"Degli ordini, io?" esclamò Velleda rizzando il capo, "e a qual titolo, dica?"

"Dei consigli, almeno..."

Per la prima volta l'altera fanciulla alzò gli occhi su di lui, e guardandolo fisso:

"Credevo non ne avesse bisogno" disse. "Ma giacché li desidera... glie li ho dati... Parta."

Bevve tranquillamente, si passò sulle labbra il fazzoletto ricamato, riprese il braccio di lui, che non diceva piú una parola, e si fece accompagnare al suo posto senza aggiunger altro.

Un bel giovane, che sembrava in qualche intimità con lei, le si avvicinò con premura appena la vide seduta, e si chinò verso di lei per dirle qualche cosa. Alberto udí ch'ella rispondeva freddamente:

"Grazie. Sono stanca."

"Non balli piú?" domandò la contessa.

"No, mamma; vorrei già essere a casa."

La mamma rivolse su di lei uno sguardo penetrante e disse:

"Andiamo pure."

Il giovane, che era rimasto a discorrere con loro, accompagnò le due signore. Mentre Alberto stava per partire anche lui, incontrò la contessa Armandi.

"Oh! Lei qui! Lo credevo ancora a Belmonte. Va via anche lei? M'accompagni sino alla mia carrozza in tal caso..."

Gli porse il suo mantello ovattato, in anticamera, perché l'aiutasse un po'; e andava chiacchierando mentre il maldestro cavaliere era alquanto imbarazzato. "O come va che trovasi qui e solo? e la sua cuginetta?... Quest'altro capo qui, sulla spalla... È andato in fumo dunque?... Badi anche a lei, dicono che fa freddo. Grazie, cosí!... Per colpa sua, ne son certa; gliel'avea predetto, si rammenta?... Tiri un po' in su il cappuccio... Non speravo d'incontrarla: che fortuna!"

"Come va che non l'ho vista al ballo?"

"Era cosí occupato! Ma non me l'ho a male, veh!"

In questo momento rientrava il giovanotto che avea accompagnato le signore Manfredini, e salutò profondamente l'Armandi.

"Soletto?" gli disse costei.

Il giovine evitò di rispondere facendo un inchino, e un mezzo sorriso.

"Chi è quel signore?" domandò Alberti accompagnandolo con un lungo sguardo.

Gli occhi della contessa brillarono di un'ironia maliziosa: "Il signor De Marchi" rispose "un amico di casa Manfredini. Bel giovane, non è vero?"

E scese le scale appoggiandosi appena al braccio di Alberto. Questi, mentre le porgeva la mano per montare in carrozza, le domandò:

"Mi permette che l'accompagni?"

"No. Ella non potrebbe piú fingere d'ignorare dove abito, e sarebbe costretto a farmi la visita di Belmonte."

"Me la son meritata!"

"Non sono in collera" e gli strinse la mano, sorridendogli dal fondo del cappuccio. "No, davvero!"

La carrozza partí.

XXII

La prima volta che Alberto andò ai lunedí della contessa Manfredini parvegli di sorprendere negli occhi di Velleda un'espressione di meraviglia e di dispetto. Ma la giovinetta era troppo bene educata per far scorgere cotesto altrimenti che per sorpresa, e l'accolse con un po' di freddezza, è vero, ma convenevolmente. Non evitava, né cercava le occasioni di trovarsi sola con lui, e quando ciò avveniva per caso ella sapeva starci benissimo dominando Alberto con la sua calma superba. Gli rivolgeva la parola come a tutti gli altri, né piú né meno, qualche volta con una sfumatura d'ironia, qualche altra volta con impertinente freddezza, sovente come se volesse col suo contegno domandare tacitamente ad Alberti perché continuasse a frequentare la sua casa, malgrado il suo divieto assai chiaramente espresso. La madre, al contrario, quasi avesse voluto addolcire e far scusare i modi della figliuola, trattava Alberti affabilmente.

Una sera che l'aria piú mite della primavera permetteva di lasciare le finestre aperte, Velleda s'avvicinò ad Alberti colla sua solita disinvoltura, e gli disse tranquillamente:

"Ho da dirle qualcosa, Alberti" e lo precesse sul terrazzino. "Sa che il signor De Marchi ha chiesto la mia mano?"

"Lo sospettavo..."

"Non volevo... non avevo intenzione di maritarmi..." soggiunse con voce breve e risoluta, senza guardarlo. "Ma giacché mi ci avete costretta ho detto di sí."

Alberto tardò alcuni minuti a rispondere.

"Mi ordinate di non venir piú in casa vostra?" domandò alfine.

"Adesso è inutile" diss'ella con un sorriso glaciale e superbo. "Ho bruciato le mie navi."

La notizia di quel matrimonio non tardò a circolare fra gli amici di casa Manfredini; da prima discretamente, in seguito con maggiore sicurezza. De Marchi avea diradato le sue visite, Velleda lo trattava con grande riserbo, ma sapevasi che dalle due parti stavansi trattando delle questioni d'interesse, e ciò era perfettamente in regola.

"Ardon gl'incensi!" disse una volta l'Armandi sortendo insieme ad Alberto da casa Manfredini.

Velleda aveva alquanto raddolcito il suo contegno verso Alberti, sia che la rassegnazione di lui l'avesse disarmata, o che, dopo la presa risoluzione, egli non le ispirasse piú alcun timore. Ella attraversava colla sua grazia disinvolta quel periodo, tanto difficile per una ragazza delle domande susurrate dalle amiche di casa all'orecchio della mamma, delle allusioni piú o meno velate, degli sguardi indiscretamente curiosi. Di tanto in tanto sembrava un po' astratta e pensierosa, avea certi momenti di silenzio quasi cupo, o di gaiezza come irritata, o di asprezza irragionevole. Tutto ciò cadeva piú frequentemente e piú direttamente sul povero Alberti, quasi ella non potesse perdonargli di averla costretta ad una risoluzione intempestiva. Il sarcasmo le veniva frequente in bocca, ed ella medesima arrossiva alcune volte dei suoi pungenti epigrammi; un momento dopo sembrava ravvedersi e avere l'intenzione di fargli delle scuse, come poteva farle il suo carattere orgoglioso, con una parola gentile o con una attenzione delicata. Alberto impallidiva, o arrossiva, soffriva, ma non osava rinunziare a vederla. Sovente sorprendeva gli occhi di lei che lo fissavano carichi di collera, accigliati, foschi; allora il riso di lei era piú mordente, o, cosa strana, la sua parola era piú graziosa. Alcune altre volte era lei che sorprendeva gli sguardi d'Alberto rivolti verso De Marchi, colla febbrile ammirazione dell'invidia. De Marchi era un rivale formidabile, bello, altolocato, elegante e spiritoso - il povero innamorato soffriva la piú crudele gelosia; quella che umilia ed annichila.

Un lunedí che c'era piú gente del solito in casa Manfredini, Alberto si trovò un momento solo vicino a Velleda sull'uscio del giardino, e si misero a parlare dell'ultima opera della Pergola, e delle corse che s'erano fatte alle Cascine. Da qualche tempo fra di loro correvano le buone relazioni di gente completamente indifferente. Velleda perciò non si mosse, e seguitava a discorrere tranquillamente e piú a lungo del solito, canticchiava fra i denti i motivi di cui si rammentava, e faceva strider la sabbia sotto il suo stivalino irrequieto, gli domandava come si chiamasse il cavallo che avea vinto alle corse, e a quanto ascendesse il primo premio. Alberti rispondeva un po' distratto, come gli avveniva spesso ma a proposito.

"Le piacciono anche a lei le corse?" gli domandò Velleda.

"Non voglio che sposiate De Marchi!" rispose ad un tratto bruscamente Alberti afferrandole le mani.

Ella gli piantò gli occhi in faccia, e stette a fissarlo in tal modo, colle braccia rigidamente tese. Non aggiunsero una parola - rimasero guardandosi. - A poco a poco gli occhi di lei si velarono, il viso si fece smorto, e le braccia si allentarono. Poi si svincolò con uno sforzo disperato e rientrò come fuggendo.

XXIII

Dopo alcuni giorni incominciò a susurrarsi dietro il ventaglio che il matrimonio della signorina Manfredini avea inciampato in gravi difficoltà d'interesse. De Marchi era partito per Napoli, allo scopo di facilitare le pratiche presso la sua famiglia; la ragazza si faceva vedere di rado; la mamma era piú seria del solito, e mostravasi amabilissima colle amiche piú maldicenti.

Alberto e Velleda non s'erano piú detta una sola parola. Ella non aveva piú la rigida alterezza di una volta, la fermezza dello sguardo, la sicurezza dell'intonazione. Avea un'aria di vinta. Dinanzi a lui ammutoliva, e chinava gli occhi. Una sera che passeggiando in giardino egli le prese la mano, gliela lasciò. Cosí gli s'abbandonava.

La contessa Armandi era divenuta intima di casa Manfredini; però mostrava non aver perdonato ad Alberto la visita che non le avea fatto, e che poscia ella non gli avea permesso di farle. Del resto era capricciosissima, e per vendicarsi sembrava aver adottato il sistema di fargli perdere la tramontana. Ora era ironica, impertinente, motteggiatrice, sdegnosa; ora si faceva accompagnare al piano, o in carrozza, e lo lasciava sempre alla sua porta dicendogli: "Sin qui!".

Una sera che al villino Flora la conversazione era stata piú scucita, e la mamma Manfredini si era mostrata piú preoccupata del solito, l'Armandi disse ad Alberto sortendo:

"A proposito, perché non sposa lei Velleda?"

Alberto ricevette la domanda come una stoccata in pieno. L'Armandi non gli diede il tempo di rispondere, e soggiunse subito gaiamente:

"Quell'altro sarebbe un matrimonio sbagliato. La signorina Manfredini non è ricca, e la famiglia dello sposo non l'accetta volentieri. Fortuna che la bambina abbia piú giudizio della madre, la quale s'è incaponita dietro quel miraggio, e ci penserà due volte prima di dir di sí! Ci vuol altro!"

"Lei però ha detto ardon gl'incensi!"

"Ho detto gl'incensi, non ho detto le tede!" rispose la contessa col suo risolino ironico. E montò in carrozza.

Alberto rimase pensieroso.

Il giorno dopo Velleda lo interrogò due o tre volte collo sguardo - ei mostravasi annuvolato. - Poi andò a sedere in un canto, senza fargli una sola domanda.

Alberti si avvicinò, sedette accanto a lei e si misero a sfogliare dei libri e dei giornali. Dopo un lungo silenzio le disse a voce bassa:

"Sapete che fra breve tornerà il signor De Marchi da Napoli?"

Velleda gli fissò gli occhi in viso, si strinse nelle spalle, e non rispose.

Il giovane le strinse la mano di nascosto, e riprese.

"Perdonatemi tutto ciò che ho detto in quella sera... Sono stato matto... o qualcosa di peggio!"

La fanciulla all'ombra della ventola, non staccava da lui quello sguardo luminoso, tenace, incisivo; ma non aprí bocca; egli si fece pallido, esitò, le strinse la mano con forza, e balbettò:

"Sposatelo."

Velleda rimase zitta, immobile, bianca; infine lasciò cadere lentamente questa parola:

"Perché?"

"Perché io non prenderò mai moglie."

Una vampa di fuoco corse pel viso della giovinetta, poscia impallidí, ritirò dolcemente la mano, rimase alcuni istanti collo sguardo fiso dinanzi a sé, col sopracciglio aggrottato, e infine disse con un tono di voce che non sarebbesi potuto indovinare se fosse altero o indifferente:

"Che m'importa?"

Alberto si aspettava la sorpresa, l'indignazione, la collera, e rimase sbalordito da quella risposta. Piú pallido di lei, e colla voce tremante, le disse:

"Come dovete odiarmi!"

Ella, senza levare gli occhi, lasciò cadere mollemente la sua mano in quella di lui.

"Ascoltatemi, Velleda!" esclamò Alberto con accento commosso. "Vi amo in modo che non saprei dire. Nella mia testa c'è qualcosa di guasto, e il dubbio mi rode come un verme velenoso. Ho bisogno di esser convinto che mi amiate per me, senza secondi fini, e che mi sacrifichiate tutto... tutto, intendete?... Perdonatemi! Allorché questo dubbio fatale è entrato in me... o ci è stato messo con una parola... avrei voluto fuggirvi... e non ho potuto. Voi sola potete darmene il coraggio disperato. Cosa volete che faccia?"

"Noi non potremmo amarci altrimenti!" rispose Velleda dopo aver riflettuto un istante. "Meglio cosí! Adesso anch'io posso dirvi che vi amo!"

XXIV

Un amore cosí romanzesco dovea sedurre l'immaginazione del giovane fantastico. Le sue passioni eterne erano state cosí passeggiere, le sue impressioni cosí vivaci e mutabili, che allorquando avea sentito il bisogno di aver fiducia nel sentimento che riempiva tutto il suo essere, era divenuto inquieto. L'amore di quella strana fanciulla che gli sacrificava le piú legittime esigenze, e il suo avvenire e il rivale piú terribile, lusingava ad un tempo la vanità e il cuore di lui, e insieme il sofisma. Ei vi si abbandonò con ebbrezza, senza esaminare dove potesse condurlo, senza discutere se fosse possibile cosí come mostravasi.

I due giovani si vedevano spesso; ora regolarmente, ed ora a caso - è vero che aiutavano parecchio il caso. - Il cavallo di Alberto non sapeva passeggiare che fuori di Porta Romaria, e la signorina Velleda faceva quello che non aveva mai fatto, l'aspettava alla finestra, o sotto le acacie del giardino. Allorquando erano insieme si dicevano ben poco, discorrevano degli argomenti piú comuni, che per loro avevano cent'altri significati; i loro occhi si incontravano di rado, le loro mani non s'incontravano mai. La contessa Manfredini aveva l'aria di fiutare il vento. De Marchi era ritornato da Napoli, e la sua prima visita era stata per il villino Flora. Le trattative pel matrimonio non erano molto avanzate. certuni dicevano anzi che avevano fatto un passo indietro, ma gli interessati erano tutte persone ammodo, e sapevano continuare le loro relazioni in modo da non dar pretesti agli indiscreti ed ai curiosi; tanto piú che degli impegni seri non ne erano mai stati presi officialmente.

In uno degli ultimi ricevimenti di casa Manfredini, De Marchi erasi mostrato piú premuroso e galante del solito. Alberti, rincantucciato in un angolo, soffriva in silenzio. Velleda stava servendo il tè, e passandogli accanto lo vide cosí pallido e contraffatto. "Che avete?" gli domandò. Ei le lanciò un'occhiata febbrile. Velleda passò oltre.

Alberto la seguí con avido sguardo. La vide passare accanto a De Marchi, che stava appoggiato allo stipite di un uscio, colla mano nascosta nel gilé, colla lente incastrata nell'occhio, bello e sardonico. Alberto non poté udire che cosa colui le avesse detto inchinandosi verso di lei; ma lo vide sorridere, e anch'essa sorrise ed arrossí leggermente. Nell'angolo dov'era Alberto si udí un rumore di porcellana che rompevasi; nessuno se ne accorse, o ci abbadò: la signora piú vicina non volse nemmeno il capo; soltanto Velleda, dall'altra estremità della sala, volse un'occhiata cosí rapida e sfolgorante verso quel rumore, che De Marchi s'aggiustò la lente sull'occhio e guardò anche lui.

La signorina Manfredini continuò a sgusciare fra la folla, briosa e gentile. Infine passò accanto ad Alberto, senza una nube sulla fronte, senza volgere gli occhi su di lui, e gli gettò sommessamente questa parola:

"Seguitemi."

Alberti andò dietro di lei nell'altra sala, e, temendo di far scorgere la sua agitazione, si mise a guardare con grande attenzione il giuoco che non capiva. Poco dopo si trovò vicino Velleda, disinvolta, scherzando coi giuocatori e con coloro che stavano a veder giuocare. Avvedendosi di Alberto gli disse: "Non fuma?" e andò a prendergli un sigaro da un astuccio intagliato. "Passate di là senza farvi scorgere" soggiunse cosí piano che appena egli poté udirla.

Quell'altra stanza era un piccolo gabinetto da lavoro che metteva da una parte nella camera della madre, e dall'altra in quella della signorina Manfredini. C'era un grande scrittoio fra due finestre, un canapè di faccia, e un piccolo tavolino accanto: fra il canapé e lo scrittoio aprivasi l'uscio della camera di Velleda. La stanza era poco illuminata da una sola lucerna a ventola posata sul tavolino. Alberto aspettò alcuni istanti, inquieto, coll'occhio e l'orecchio tesi; il cicaleccio della conversazione; e le esclamazioni dei giuocatori si udivano distintamente, di tanto in tanto il fruscío di una veste passava attraverso l'uscio socchiuso. Tutto ad un tratto apparve Velleda, camminando sulla punta dei piedi con passo rapido e risoluto, e gli prese la mano. Ma nel medesimo istante lo fermò, col braccio teso, e rimase immobile, ansiosa, atterrita, guardando l'uscio dal quale era entrata. Spinse bruscamente Alberto nella sua camera, ed ebbe appena il tempo di chiuderne l'uscio. Tutto questo accadde in un lampo.

"Cosa fai qui?" domandò la contessa Manfredini entrando.

"A momenti mi si stacca un bottone dal guanto..."

"Sei pallida."

"Non mi sento bene."

"So tutto... Ho visto il marchese Alberti..."

"Mamma!..."

"L'ho visto attraverso lo specchio, ti dico, quando ha lasciato cadere la tazza... Non mancò di fare uno scandalo... Costui vuol comprometterti ad ogni costo!"

La giovanetta fu sublime per presenza di spirito, ed ebbe uno di quei tratti d'audacia che hanno soltanto le donne.

"Ci ascoltano, mamma!" esclamò con accento supplichevole.

La contessa volse uno sguardo furtivo verso la stanza accanto dove giocavasi, ed uscí.

Velleda, pallida, strema di forze, e piú bella che mai, entrò risolutamente dov'era Alberto.

"Ebbene?" gli disse fermandoglisi dinanzi.

Egli aveva tutto udito. "Perdonatemi!" mormorò. "Ero geloso."

"Di chi?"

"Di colui!..."

"Sareste qui se aveste il diritto di essere geloso?" rispose ella semplicemente.

Il giovane volse attorno uno sguardo commosso, quasi reverente, come se il profumo verginale di quella cameretta avesse qualcosa d'augusto, e le cadde ai piedi.

"È vero!... Cosa avete fatto, Velleda!..."

"Ho fatto la sola cosa che potesse provarvi come vi ami; ~ rispose la giovanetta, senza una sola vibrazione nella voce.

Alberto osò allacciarla colle braccia, e accostarle alla fronte le labbra tremanti. Ella socchiuse gli occhi, e si abbandonò mollemente. Ad un tratto trasalí, lo respinse con vivacità. e stette ad ascoltare. "Mio Dio!" esclamò.

In un lampo raffermò il viso e lo sguardo, uscí con un movimento felino, e si trovò a faccia a faccia colla madre e colla contessa Armandi.

"La contessa non si sente bene" disse la Manfredini. "Hai qualche cordiale nella tua camera?"

"Nulla, mamma!" rispose Velleda con insolita vivacità.

L'Armandi s'era buttata sul canapè, e malgrado il suo gran male sembrava stesse assai meglio della ragazza ch'era pallida come un cencio. Ella avea rivolto un'occhiata rapida e penetrante su di Velleda, e s'era scusata alla meglio.

"Qualcosa troverò" disse la Manfredini dopo aver saettato alla sfuggita uno sguardo acuto sulla figliuola.

"Andrò io, mamma!" esclamò costei, di cui l'angoscia acuta tradivasi nell'accento. Ma prima che ella potesse gettarsi dinanzi all'uscio, la madre era entrata precipitosamente.

L'Armandi prese la mano della fanciulla, per ringraziarla, senza distogliere gli occhi da quelli di lei.

La contessa Manfredini ritornò quasi subito, perfettamente calma, tenendo in mano una boccettina che faceva odorare alla contessa. La madre e la figlia non si rivolsero uno sguardo.

Il rimedio parve giovare immensamente alla contessa, e dopo cinque minuti ella ritornava in sala al braccio della signora Manfredini. Velleda si fermò ancora un po' dinanzi allo specchio per aggiustare qualche piccolo disordine della sua toeletta, senza neppur volgere gli occhi sullo specchio. Ella accompagnò con un lungo sguardo attraverso lo specchio le due signore, e allorché fu certa di essere sola, si precipitò nella sua camera, e la scorse in una sola occhiata. Non c'era nessuno. Corse alla finestra, alta un primo piano dal suolo, e la trovò socchiusa, soffocò un grido, e cadde sui ginocchi.

Il giorno dopo, alle quattro, il marchese Alberti presentavasi alla contessa Manfredini, e le chiedeva la mano di madamigella Velleda.

XXV

Il marchese era un orso campagnuolo, avea trentaduemila lire di entrata, e il matrimonio fu presto combinato.

"Lo sapevo!" esclamò l'Armandi, con un sorriso mordente, quando le diedero la notizia.

E soggiunse, forse per addolcire o spiegare quell'affermazione singolare:

"Quel giovane ha la bosse del matrimonio."

La sera stessa, mentre stava per andarsene, disse ad Alberto:

"Ve l'avevo detto che avreste finito per sposarla voi. Siete fatti l'uno per l'altra."

E gli volse le spalle. Partendo non si accorse del saluto di lui, e non gli rispose; ad un tratto, tornando indietro, e stendendogli la mano:

"A proposito, le mie felicitazioni" gli disse.

Velleda amava moltissimo il suo fidanzato; ma l'amava com'ella poteva amare, con molta riservatezza, e un po' freddamente in apparenza. Alberto invidiava a lei l'inalterabile disinvoltura e il dominio di sé stessa. L'elettricità di cui era carica l'anima ardente di lei, celavasi sotto un esteriore glaciale, e scoppiettava solamente in qualche lampo degli occhi, o nella reticenza di un sorriso, o in una stretta di mano piú lunga del solito, mentre si separavano sull'uscio: che metteva nel giardino. Quel pudore elegante aveva la sua leggiadría.

La signora Manfredini sembrava la vera amante di Alberti; lo lisciava, lo carezzava, lo adulava, se lo teneva attaccato ai panni, e gli accordava l'onore di offrirle il braccio molto spesso, assai piú spesso ch'egli non avrebbe desiderato. Qualcheduno degli amici di casa avea domandato quale delle due Manfredini sposasse il marchese Alberti.

Il matrimonio era stato fissato pel settembre. Le signore Manfredini sarebbero andate in giugno a Livorno, e Alberti dovea andare a raggiungerle, dopo aver fatto una corsa pei suoi poderi, e date le disposizioni per certi restauri che occorrevano ad una villetta sul lago di Como, che lo zio Bartolomeo avea salvato dal naufragio delle sostanze paterne, e nella quale gli sposi dovevano andare a passare l'autunno.

In quel tempo a Firenze non si parlava che di un gran signore romano, giunto di fresco, il quale s'era fatto vedere alle Cascine in un superbo equipaggio. Il principe Don Ferdinando Metelliani era un omicciattolo dieci o dodici volte milionario, che troneggiava dai quattro cuscini del suo phaéton come un Apollo brutto. La folla agitavasi al suo passaggio come uno sciame di formiche sorprese dal piede di un villano, lo invidiava, lo ammirava, lo derideva, lo deificava; tutti gli occhi volgevansi verso il suo cocchio lucente; il nome di lui, la sua ricchezza, la sua età, i suoi vizi, correvano sulle bocche di tutti; le piú belle e le piú schive guardavano con maggior attenzione che non sogliono accordare ad un semplice mortale, cotesto scimmiotto che le fissava insolentemente, e buffava loro il fumo in viso del suo avana, e lo trovavano schicche perché spingeva i suoi quattro cavalli sulla folla come se si sentisse abbastanza ricco per pagare le ossa che avrebbe rotto. Il principe discendeva da quel patriziato romano che aveva cinque secoli di esistenza allorquando la piú antica nobiltà d'Europa arava la terra o serviva nelle sue legioni; era ufficiale delle Guardie Nobili, e cotesto soldato, discendente da una famiglia che aveva condotto alla vittoria parecchie generazioni dei padroni del mondo, s'era rifiutato a battersi in duello; avea quarant'anni, e avea sciupati tutti i godimenti della vita; ascoltava messa tutti i giorni, si comunicava due volte al mese, gettava l'oro sotto le ciabatte delle cortigiane, e avea fatto rinchiudere la sua unica sorella in un monastero per non darle una dote. - Sopra tutto ciò due milioni di scudi.

Il principe Metelliani frequentava la migliore società di Firenze, e avea conosciuto la signora Manfredini all'Ambasciata di Napoli; l'altera bellezza di Velleda avea colpito

il dissoluto patrizio, e soltanto dinanzi a lei, che non gli volgeva uno sguardo, egli aveva chinato la testa pelata e superba; s'era incaponito con ostinazione da uomo onnipotente a far la corte alla sola donna che non la facesse a lui. La signorina Manfredini era troppo orgogliosa per accorgersene, e allorché vide la prima nube sulla fronte di Alberto, ella aggrottò il sopracciglio. - Una volta che il principe s'era mostrato piú galante del consueto, ella, con un cenno impercettibile, chiamò il suo fidanzato, che ronzava lí presso, e lo presentò a Don Ferdinando. Quei due uomini si scambiarono un saluto d'antipatia cordiale.

Ma la contessa Manfredini civettava col Metelliani in luogo della figliuola. Allorché entrava in una sala al braccio di lui, o allorquando poteva presentarlo alle sue amiche, sembrava raggiante, ed era arrivata a chiamarlo semplicemente Don Ferdinando. - Don Ferdinando lasciava fare graziosamente. La figliuola al contrario conservava una serenità olimpica; soltanto allorché le donne piú nobili, piú belle, piú eleganti, si abbassavano a mendicare l'attenzione di quell'omiciatto, che non sembrava curarsi d'altri all'infuori di lei, le sue rosee narici si gonfiavano appena. Di tanto in tanto era distratta, o pensierosa; qualche volta Alberto la sorprendeva fissando su di lui uno strano sguardo, come se lo vedesse per la prima volta, e stesse esaminandolo tacitamente. Essa non avea mai voluto dirgliene il perché, e finiva sempre motteggiandolo.

Gli amici di casa Manfredini avevano combinato una gita, e naturalmente la madre e la figlia erano della partita; siccome Alberti, vivendo ancora da scapolo, non avea che due cavalli, dei quali uno da sella, il principe Metelliani avea messo la sua carrozza a disposizione delle signore Manfredini. Questa circostanza avea fatto nascere un piccolo diverbio con Alberto che era un po' geloso del principe, senza che volesse confessarlo; ma la contessa avea spiegato nella lotta tutta la sua vanità di mondana, tutta la sua prepotenza di suocera, e avea vinto. Velleda s'era acconciata alla vittoria colla superba indifferenza che le era particolare. Al ritorno la lunga fila delle carrozze, con in testa la sfolgorante daumont delle Manfredini, avea fatto un giro per le Cascine, e allo svoltar del piazzone il principe era venuto loro incontro a cavallo. Allorché Velleda, distesa mollemente nella superba calèche, volse uno sguardo su quell'immensa piazza affollata, e vide tutti gli occhi fissarsi sui magnifici cavalli, sulle ricche livree di quell'uomo che stava dinanzi a lei col cappello in mano, il seno le si gonfiò con violenza.

Alberti ebbe il torto di congedarsi un po' bruscamente quella sera. Velleda gli aveva detto, piú freddamente del solito:

"Avete un carattere singolare davvero!"

Quand'egli si allontano, l'accompagnò con uno sguardo carico di pensieri; poi alzò leggermente le spalle.

Il domani stavano per uscire in carrozza - carrozza da rimessa - e vedendo il suo fidanzato ancora imbronciato, Velleda gli disse ridendo, mentre si abbottonava il guanto:

"Orsú!... Sareste capace d'ingelosirvi del Metelliani?"

"No!" rispose Alberto con un po' di superbietta appunto da geloso.

"Alla buon'ora!" diss'ella; ma non rise piú.


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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.37