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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

EROS

Giovanni Verga


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XI

Alberti si svegliò tardi, stanchissimo, e col capo peso. Un raggio di sole penetrava fra le stecche della persiana e faceva luccicare la vernice del cassettone; ei gli sorrise, poscia rimase a fissarlo con occhi sbarrati; infine si alzò con un inesplicabile malumore.

Il suo primo sguardo fu per la finestra di Velleda: era chiusa. All'ora della colazione entrando nella sala da pranzo, volse intorno uno sguardo ansioso.

"Sei malato anche tu?" gli chiese Adele correndogli incontro festosa.

"Chi è malato?"

"Velleda, che non viene a colazione perché è cosí stanca da starne male. Avete ballato molto!"

Alberto lasciò cadere il sorriso ingenuo e l'aria giuliva della fanciulla. La colazione non fu molto gaia. Lo zio Bartolomeo uscí appena alzatosi da tavola, e li lasciò soli.

La fanciulla guardava il cugino alla sfuggita, gli porgeva i fiammiferi e la borsa del tabacco, cercava di prevenire tutti i desideri di lui, e, dopo di avere esitato lungamente:

"Che hai?" domandò.

"Io? nulla."

"Non è vero; hai qualcosa."

Il giovane sentí penetrarsi sino al cuore quell'osservazione, e rimase un po' senza rispondere.

"Ma cosa vuoi che abbia?"

"Mah... se lo sapessi!" rispose la fanciulla ingenuamente.

Per la prima volta il giovane non poté sostenere il limpido sguardo della vergine, accese il sigaro ed usci.

Trovandosi all'aperto, l'aria, il sole, il profumo dei campi, tutte quelle cose salubri e schiette, sembravano purificarlo e rinvigorirlo. Gli ebbri fantasmi della notte, che avevano bisogno del lume, della stearina e delle ombre delle cortine si dileguavano alla chiara luce del sole, e non rimaneva che la mesta e pura figurina di Adele, colle sue candide manine intrecciate sulle ginocchia, e i grand'occhi turchini che l'interrogavano timidamente.

Il giorno dopo la contessina Manfredini comparve all'ora del desinare, fresca e rosea come prima. Alberto provò un singolare dispetto vedendola cosí. "S'è rimessa?" le domandò.

"Lo vede!" rispose ella tranquillamente.

Prendevano il caffè in giardino; Velleda posò la chicchera sulla tavola di marmo, e si mise a dondolare su di una poltrona di legno: "E il suo amico non torna piú?" domandò dopo qualche tempo ad Alberto. Ei rispose, con un po' di sorpresa: "Verrà domani o doman l'altro".

"Ah!"

Si alzò, lasciò i due cugini in giardino, e andò a mettersi al piano. Il tocco della sua mano era secco, nervoso, quasi aspro; la melodia errava scucita, e come soffocata in mezzo ad un nembo di accordi tempestosi; c'era l'indolenza, la sprezzatura, la sbadataggine di chi va seguendo sui tasti i propri pensieri, e non si cura di afferrarli. Quella strana musica irrompeva dalle finestre aperte, e soverchiava, direi turbava, la pace solenne della sera, sembrava udirvi scoppi d'allegria e gemiti soffocati, e aveva qualcosa della leggiadria bizzarra della suonatrice.

Alberto si avvicinò al piano, e stette a guardar Velleda. Ella sembrava una statua di marmo che suonasse; calma, impassibile, cogli occhi fissi sulla carta.

"Canterai qualcosa?" domandò Adele

Ella scosse il capo continuando a suonare, poscia smise, e si alzò.

"Cosí presto!" disse Alberto "Continui a suonare almeno."

Velleda alzò freddamente gli occhi su di lui, e gli domandò:

"Cosa desidera?"

"Ma... quel che le pare."

Ella si mise a sfogliare della musica senza aggiungere verbo, l'aggiustò sul leggío, e incominciò una canzone di Schubert.

Adele erasi messa a sedere sul canapè. Alberto, appoggiato alla coda del piano, teneva gli occhi fissi sulla suonatrice: costei non levava i suoi dalla carta, con certa altera freddezza; metteva tutta la sua anima nelle mani, di cui gli anelli scintillavano assai piú dei suoi occhi e vedevasi solo che quel seno si gonfiava dai lucidi riflessi della sua veste, su cui cadeva il lume delle candele. A poco a poco il suono morí nelle corde, le mani si fermarono, e la suonatrice chinò il mento sul petto.

"È finito?..." domandò Alberto come svegliandosi di soprassalto.

"Sí" rispose lei bruscamente.

E andò ad aggiustarsi un fiore tra i capelli, baciò Adele, salutò appena del capo Alberti, e se ne andò.

"Si soffoca qui!" disse Alberto alla cugina "vado in giardino,"

Il domani doveva arrivar Gemmati. Alberto andò ad incontrarlo, e dopo la prima stretta di mano il suo amico gli domandò:

"O cos'hai?"

"Cosa mi vedi? Sto benissimo."

"Stanno tutti bene in villa?"

"Tutti."

"Siamo in broncio, eh?"

"No!"

"V'amate sempre?"

"Non amo che lei!..."

"Chi ti parla degli altri?" disse Gemmati.

XII

Alberto si abbeverò di quel sottile veleno che lo penetrava senza che egli se ne avvedesse, e l'ebbrezza di oggi gli dava la sete per domani - spesso non era che un gesto, un'inflessione di voce, uno sguardo distratto, un sorriso appena accennato. Egli stava in una continua agitazione. Non si accorgeva nemmeno che cercava tutti i mezzi per star vicino alla contessina Manfredini, che accanto a lei era tutt'altro uomo che non poteva saziarsi di rimirarla, ch'era inquieto, dispettoso, cogitabondo quand'era costretto a star colla cugina, non si avvedeva degli innocenti sotterfugi, delle ingenue manovre che la povera Adele inventava per vederlo sorridere; non indovinava le domande che c'erano nel silenzio di lei, l'inquieta ansietà dei suoi sguardi. La poverina cercava almeno la compagnia di Gemmati, come per sfogarsi con lui, come se egli avesse qualche cosa del suo amico, e stava sovente vicino a lui zitta zitta, o pensierosa, o parlandogli di cose indifferenti, spesso ricacciando indietro le lagrime che le facevano velo alla vista, senza osar di svelargli giammai il suo dolore. Lo zio Bartolomeo non guardava piú il tempo, non si fregava le mani, e prendeva tabacco con molta enfasi. Velleda non si accorgeva di nulla, non mostrava di evitar Alberto, ma lo incontrava assai raramente da sola. Al contrario, si trovava piú spesso con Gemmati, stava piú volentieri a discorrer con lui, gli si mostrava graziosa, si faceva accompagnare nelle sue passeggiate, e faceva gravare su di lui il peso dei suoi capriccetti bizzarri.

Una volta Gemmati, tornando da caccia, avea incontrato le ragazze, Alberti, lo zio Forlani, i coniugi Zucchi, la intera comitiva insomma, al cancello del giardino. Tutti si erano affrettati attorno al suo carniere ben pieno facendogli i mirallegro. Velleda sola rimaneva zitta. Però la signora Zucchi, ch'era molto sensibile, offuscava un po' la gloria del cacciatore fortunato con esclamazioni compassionevoli verso una "tortorella fedele" che teneva spenzoloni per un'ala, e se la prendeva col crudele divertimento, colla durezza di cuore, ecc. Velleda, seria seria, l'interruppe:

"Se fossi un uomo non vorrei far altro."

"O tu perché non sei venuto?" domandò Gemmati al suo amico, mentre s'avviavano verso la villa

Gemmati rimase alquanto sorpreso dal tono di quella risposta, consegnò schioppo e carniere ad un domestico, e andò cogli altri; ma lungo il giorno fu pensieroso, ed anche inquieto. Guardava qualche volta il suo amico, tutto annuvolato, e che evitava visibilmente di trovarsi con lui. Alla fine approfittò di un momento in cui erano soli, e gli disse:

"Alberto, stammi a sentire... Da qualche tempo ce l'hai con me!"

- "Io?" disse Alberto senza guardarlo.

Sí, tu, e non so perché. Cosa t'ho fatto?"

"Nulla, t'inganni. Perché dovrei avercela con te?"

Gemmati gli prese la mano, ch'ei non osò rifiutargli, e gli disse guardandolo negli occhi:

"Saresti geloso?"

"Geloso?..." disse Alberto trasalendo, "e di chi?"

L'altro ebbe un moto di sorpresa.

"Ma... dell'Adele."

"Perché sarei geloso?" replicò Alberto dopo un breve silenzio, e fissandogli gli occhi in viso per la prima volta. "Non fai la corte alla Velleda per conto tuo?"

"Io?"

"Sí, tu" insisté con un sorriso stentato; "oppure è lei che la fa a te"

Gemmati scoppiò in una buona e franca risata.

"Sei matto! Io sono un povero diavolo di medico in erba, e lei una contessina che ha piú anelli ch'io non abbia quattrini... Come vuoi?.. Del resto... Ma a te che te ne importa?"

"Nulla me ne importa.. proprio nulla. Ho detto cosí per convincerti che non potevo esser geloso di te a motivo di Adele."

Gemmati stette ancora qualche istante guardandolo negli occhi, e stringendogli le mani; e riprese da lí a un momento:

"Ascoltami, Alberto: forse non sai tu stesso qual tesoro sia il cuoricino della tua Adele, e come ti ami, la povera fanciulla, con quanta sincerità, e con quanta delicatezza... e come ti nasconda i suoi timori, i dispiaceri che le dai senza accorgertene.. Sai che se tu la tradissi faresti... To', ci vogliamo abbastanza bene per dirti la parola tal'e quale - una viltà!"

Da alcuni giorni la povera fanciulla amava anch'essa la solitudine, non perché si vedesse negletta dal cugino, ché quando lo vedeva sorridere le si schiudeva il paradiso, ma pel dolore di vederlo cosí... cosí... non lo sapeva lei stessa. Ei la trovò su quel sedile dove la luna li avea visti l'uno accanto all'altra, e sentí qualche cosa che gli stringeva l cuore; la poverina stava a guardarlo timidamente, spalancando gli occhi per dissimulare le lagrime che le spuntavano, e non osando chiamarlo nemmen cogli sguardi ei le si avvicinò col sorriso falso, come un colpevole. - Allora Adele gli afferrò la mano con vivacità, e scoppiò in pianto..

"Perché piangi?" disse Alberto, quasi anche lui colle lagrime agli occhi.

"Oh, perché son felice!... Guarda che matta!"

Stettero un po' insieme; egli parlava poco e distratto; essa lo guardava di nascosto, quasi temesse di annoiarlo.

"Alberto, mi permetti che ti dica una cosa?" balbettò infine timidamente.

"Di'."

"Confidami cos'hai!"

"Ma cosa mi vedi?"

"Non lo so... Non sei piú il medesimo..."

Egli arrossí lievemente.

"Perché mi fai cotesta domanda?" disse bruscamente, rialzando il capo da una specie di meditazione.

"Perché... perché sei molto cambiato."

Egli parve esitare.

"Temi che non ti ami?"

La fanciulla lo guardò attonita, e rispose ingenuamente:

"Perché non mi ameresti? Non me l'hai detto tu stesso che mi ami?"

"Voglio dire... se temi che non ti ami piú?"

"Non me lo diresti, in tal caso?" rispose Adele al modo istesso, e senza distogliere gli occhi dai suoi.

"Dunque?..." balbettò il giovane, e quel dunque gli s'inchiodo nel pensiero.

"Dunque sarei proprio un vile!" mormorò allorché fu solo, e fuggendo per la campagna come se alcuno l'inseguisse.

XIII

"Come va che non s'è piú visto, marchese Alberti?" udí esclamare dietro di sé.

Si voltò, e vide la contessa Armandi a cavallo, che si era fermata sulla via, a due passi da lui. La contessa stava bene in sella, l'amazzone disegnava elegantemente il suo bel corpo, il velo azzurro le svolazzava sul viso, quasi la baciasse, la cavalla, col freno tutto bianco di spuma, allungava il collo e scuoteva la bella testolina colla grazia di una gazzella addomesticata.

"Bisognava proprio incontrarlo per via!" disse l'Armandi stendendogli la mano all'altezza del suo ginocchio. "Fortuna che viene a cercare i dolci tramonti, e i bei punti di vista!... Farebbe anche dei versi, marchese?"

Il sorriso di lei era cosí gaio, che il giovane se lo sentiva quasi comunicare, e rispose:

"Non ho questo vizio, contessa."

"È innamorato dunque?"

"Anch'ella ci viene senza far versi, né essere innamorata..."

"Che ne sa lei?" domandò con un sorriso che lo scombussolò del tutto.

"Ma..."

"Non posso essere innamorata di mio marito... o della mia Zelia?" aggiunse con quel risolino mordente e leggiadro, guardandolo ardita e civettuola, e giocando col pomo del frustino fra i crini della cavalla.

"Però" riprese "ella che non ha né marito, né Zelia, amerà la bionda, o la bruna. Quale delle due?"

Il giovane arrossí, volle negare, e rimase imbarazzato.

La contessa stava a guardarlo col gomito sul ginocchio, la guancia sulla palma, e una provocante ironia negli occhi.

E dopo averlo ascoltato cosí fra ironica e motteggiatrice soggiunse con una gran serietà:

"È vero! Ella è troppo giovane per amare la bruna, e non amerà la bionda che per un quarto d'ora. Ella non ama che la sua giovinezza, e la donna allo stato di nebulosa. Addio. Quando avrà bisogno del consiglio di una buona amica venga a trovarmi; cosí m'avrò la sua visita che aspetto da un pezzo."

E spronò Zelia, senza dare il tempo ad Alberto di balbettare le scuse che gli si leggevano in volto. Poi arrestò di botto lo slancio della cavalla, e rizzandosi sulla staffa con piglio grazioso ed ardito, si voltò indietro, e gli disse da lontano:

"Oh, non sono in collera... e per prova!..." sul ciglione della via spuntava una margherita tardiva; ella la recise di un colpo di frusta "ed in prova le lascio un ricordo: consulti l'oracolo, marchese."

E sparí come un lampo.

"Hai visto la contessa Armandi?" domandò a tavola Gemmati.

"Sí"

"Cosa t'ha detto?" aggiunse Adele.

Alberto s'imbrogliò nel racconto di una storiella metà vera e metà inventata, si confuse e si fece anche un po' rosso. Lo zio Forlani tossí due o tre volte, e Velleda gli rivolse una rapida occhiata.

"Che bella signora!" disse per cambiar discorso.

Il giorno dopo, quando Alberto stava per andare a villa Armandi, incontrò per caso la signorina Manfredini presso il cancello.

"Va dalla contessa?" gli domandò.

"Sí."

"Ci tien proprio a far cotesta visita?"

"Ma... tenerci..."

"Se non ci tiene non ne faccia nulla per oggi. Il tempo è bello; andremo alla Sassosa in carrozza con Adele."

E per la prima volta chinò gli occhi dinanzi allo sguardo di lui.

"Sí..." diss'egli, "sí!"

XIV

Adele accettò l'invito tutta giuliva. Era tanto tempo che il cugino sembrava le tenesse il broncio! Ma in quella comparve il babbo, con un viso piú scuro del solito, e chiamò la figliuola nella sua camera sotto pretesto di farle un discorso serio.

Alberti ascoltava assai distratto i discorsi che teneva Velleda, la quale era assai piú calma e piú padrona di sé. Adele ritornò poco dopo, pallida, tutta sossopra, e col viso ancora bagnato di lagrime.

"Cos'è stato?" domandò piano il cugino.

Ella lo guardò cogli occhi lagrimosi, il petto le si gonfiò, e scoppiò a piangere.

"Nulla! nulla!" rispondeva ostinatamente a tutte le interrogazioni di lui che si sentiva trafiggere il cuore da quel pianto.

Dopo circa una mezz'ora ritornò lo zio. Era serio in viso, ma con quell'aria di burbero benefico che gli andava a meraviglia. Egli fu amabilissimo con Velleda, e accarezzò il nipote sulla spalla.

"Il tuo baio mi sembra un po' malato" gli disse. "Vuoi venire a vederlo?"

Alberto sentí in nube che il suo baio stava assai meglio di come egli non si sentisse in quel momento; pure seguí lo zio, di cui il viso andava rannuvolandosi a misura che si allontanavano dal pergolato dove avevano lasciato le ragazze. Arrivati nel viale rimpetto alla scuderia, ch'era dall'altro lato della villa, ei si fermò su due piedi, dominando il nipote da tutta la maestà della sua corpulenta statura e del suo sguardo da zio.

"Alberto, tu sei il figliuolo della mia cara Cecilia!" incominciò solennemente.

"Zio mio..."

"E sei anche un ottimo ragazzo... non ho difficoltà di dirlo."

"Oh, mio zio..."

"Io ti voglio e ti vorrò sempre del bene, da secondo padre che ti sono. Tu puoi vedere come ti ho accolto in casa, e come.."

"Grazie, zio mio!..."

"Ma che lavoro mi fai in ricambio!

Alberto si fece di bracia.

"M'hai stregata quella povera bambina, di'?..."

Il nipote, con tutti i colori dell'iride sul viso, teneva gli occhi fitti a terra, come se avesse voluto sprofondarvisi. Lo zio tacque maestosamente, aspettando risposta per alcuni secondi; indi riprese in aria paterna:

"M'accorgo dal tuo imbarazzo che capisci d'esserti condotto assai male, e che ne sei pentito!..."

E mise una seconda pausa; ma la risposta che aspettava non venne.

"Me ne sono accorto soltanto oggi... troppo tardi! Ma avrei potuto diffidare di te, del sangue mio, del mio secondo figlio.. ché per tale ti ho?..."

Alberto non fiatava, ma andava ruminando come diavolo lo zio se ne fosse accorto proprio adesso che egli non pensava quasi piú alla cugina, e ricordavasi della tosse che si era udita quella sera del famoso colloquio con Adelina, e che in buona coscienza aveva allora attribuito allo zio. Costui, vedendo che il nipote non si risolveva a parlare, e rimaneva impalato quasi fosse stato di sasso, riprese:

"Mea culpa! mio danno! i cocci li pagherò io! io che son stato troppo cieco, fiducioso come... come un galantuomo... Quella povera figliuola passerà qualche grosso guaio... ma pazienza!"

"La sposerò!", rispose Alberto pallido come un cencio.

"Figliuol mio!" esclamò il signor Forlani abbracciandolo teneramente. "Non ho mai dubitato di te!"

Ritornarono sotto il pergolato, non curandosi altro del baio che mangiava tranquillamente la sua avena. Velleda, senza alzare gli occhi dal lavoro, li saettò di uno sguardo che avrebbe fatto onore ad un diplomatico. Adele chinò maggiormente il capo, ed impallidí.

"Figliuola mia" le disse il babbo appena Alberto si fu allontanato; "tuo cugino Alberto mi ha domandato la tua mano. Posso parlarne qui dinanzi alla tua amica che è come una sorella."

Adele lasciò cadersi il lavoro di mano, e si fece bianca, Velleda si alzò come per lo scattare di una molla, corse a lei in furia, l'abbracciò e la baciò a piú riprese, poi, al sopravvenire di Alberti, gli sorrise graziosamente, e gli stese la mano.

"Che Iddio vi benedica, figliuoli miei!" finí il signor Forlani abbracciando i due giovani nel tempo stesso.

"O come il babbo se n'è accorto adesso?" esclamò ingenuamente Adele, allorché rimasero soli.

La felicità della poveretta era cosí grande che sembrava irradiarsi anche sugli altri. C'era tanto affetto, tanta gratitudine, tanto abbandono, tanta espansione nella sua gioia che Alberto credette un istante il suo amore si fosse galvanizzato.

Gemmati avea fatto una corsa sino a Pistoia; ritornando alla sera trovò tutti in festa, e come seppe di che si trattava abbracciò Alberto, e gli disse con quel suo fare calmo e schietto:

"Bene, amico mio!"

XV

Alberto fu insolitamente mattiniero. Tornando dalla sua passeggiata, udí suonare il piano, ed entrò nel salotto.

Trovò Velleda al pianoforte; com'egli apparve sull'uscio le ultime note sembrarono trasalire.
"Oh, il signor Alberto!"
E gli stese la mano con calma perfetta.
Ei s'assise accanto a lei, e stette ad ascoltare.
"Non lo sa?" diss'ella dopo alcuni istanti, e senza smetter di suonare "aspetto la mamma, oggi."
"Oh! L'avremo per qualche tempo con noi?"
"Per un giorno. È venuta a prendermi."
"Va via?"
"Sí."

"Quando?"

"Domani."

"Cosí presto!"

"È piú di un mese che son qui."

Alberto tacque, ed ella continuò a suonare.

"Che pezzo è codesto?" domandò infine.

"Uno studio di Liszt. Le piace?"

"Sí... molto..."

Egli si alzò, e si mise a guardare fuori della finestra. Poi tornò a sedersi al medesimo posto, e dopo alcuni istanti di silenzio le disse: "Ci rivedremo?".

"Ma... sí..."

Egli non disse piú nulla; anche il pianoforte si tacque. Rimasero zitti, immobili, senza guardarsi.

Ad un tratto si udirono dei passi vicino all'uscio.

"Lasciatemi" esclamò Velleda bruscamente dandogli per la prima volta del voi.

Entrò Gemmati, serio, freddo; scambiò due o tre parole colla contessina, poi prese Alberti pel braccio, e lo condusse fuori con un pretesto.

Dopo alcune centinaia di passi, Gemmati alzò gli occhi in viso al suo amico per la prima volta gli disse:

"Son venuto a cercarti per dirti una cosa. Domani vado via."

Alberto parve un istante colpito da quell'improvviso annuncio; ma ad un tratto avvampò in viso e rispose masticando un sorriso:

"Accompagni la contessina Manfredini?"

"Vado solo:" rispose freddamente Gemmati; "partirò stasera."

"Oh, fai pure il tuo comodo!"

Gemmati, dopo una lieve pausa, riprese:

"Dunque l'hai fatta?"

"Cosa?"

"Quella cattiva azione."

"Luigi!" gridò Alberto.

"Non andare in collera, perché in tal modo mi dai ragione; vedi, io che non ho torto non andrò in collera: se gridi, griderò piú alto di te quello che la tua coscienza ti dice sottovoce; se tenti di picchiarmi, picchierò piú forte. Partirò stasera, perché non voglio stare a vedere certe scene; tu mi fai rabbia, e quella povera bambina mi fa pietà; le mie parole non son giovate a nulla; almeno non vedrò coi miei occhi... Se avrai la forza di essere quello che sei stato sempre, un galantuomo, verrò ad abbracciarti e a domandarti scusa... Se no... non ci rivedremo piú; addio!"

 


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Ultimo Aggiornamento: 13/07/05 23.51