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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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L’Ercolano

di: Benedetto Varchi


C. Oh state cheto, anzi m'hanno raddoppiato la voglia di sapere così feconda lingua, però dichiaratemi. 
Da chi si debbano imparare a favellare le lingue, o dal volgo, a da' maestri, o dagli scrittori 
Quesito ottavo

V. Le parole di questa dimanda dimostrano apertamente che voi intendete delle lingue, parte vive, cioè che si favellino naturalmente, e parte nobili, cioè che abbiano scrittori famosi. Per dichiarazione della quale vi dirò pri mieramente, come tutte le lingue vive, e nobili consistono (come ne mostra Quintiliano) in quattro cose; nella ragione, nella vetustà, ovvero antichità, nell'autorità, e nella consuetudine, ovvero nell'uso. L'uso, per farci dalla principale, e più importante, ultimo in numero, ma primo in valore, è di due maniere; o del parlare, o dello scrivere. L'uso del parlare d'alcuna lingua, ponghiamo per più chiarezza della Fiorentina, è anch'egli di due maniere, universale, e particolare. L'uso universale sono tutte le parole, e tutti i modi di favellare che s'usano da tutti coloro, i quali un muro, e una fossa serra, cioè che furono nati, e allevati dentro la città di Firenze, e se non vi nacquero, vi furono portati infanti (per mettere in consuetudine, o piuttosto ritornare in uso, questo vocabolo), cioè da piccolini, e anziché favellare sapessero. L'uso particolare si divide in tre parti; perciocché, lasciando stare l'infima plebe, e la feccia del popolazzo, della quale non intendiamo di ragionare, il parlare di coloro, i quali hanno dato opera alla cognizione delle lettere, aggiugnendo alla loro natìa o la lingua Latina, o la Greca, o amendue, è alquanto diverso da quello di coloro, i quali non pure non hanno apparato lingua nessuna forestiera, ma non sanno ancora favellare correttamente la natìa; onde, come quel primo sarà chiamato da noi l'uso de' letterati, così questo secondo, l'uso, o piuttosto il misuso, degli idioti, che misurare dicevano gli antichi nostri quello che i Latini abuti, cioè malamente, e in cattiva parte usare. Tra l'uso de' letterati, e il misuso degli idioti è un terzo uso, e questo è quello di coloro, i quali, sebbene non hanno apparato nessuna lingua straniera, favellano nondimeno la natìa correttamente, il che è loro avvenuto o da tutte, o da due, o da ciascheduna di queste tre dose, natura, fortuna, industria. Da natura, quando sono nati in quelle case, o vicinanze, dove le balie, le madri, e i padri, e i vicini favellavano correttamente. Da fortuna, quando, per esser nati o nobili, o ricchi, hanno avuto a maneggiare o pubblicamente, o privatamente faccende orrevoli, e conversare con uomini degni, e di grande affare. Dalla industria, quando senza lo studio delle lettere Greche, o Latine si sotto dati alla cognizione delle Toscane, o per praticare co' letterati, o con leggere gli scrittori, o coll'esercitarsi nel comporre, o con tutte e tre queste cose insieme. E perché questi tali non si possono veramente, né si debbono chiamare idioti, né anco veramente letterati, nel significato che pigliamo letterati in questo luogo, gli chiameremo non idioti, e l'uso loro sarà quello de' non idioti.
C. Piacemi questa divisione; ma se i non idioti favellano correttamente la lor lingua natìa, che s'ha egli a cercare altro? E in qual cosa sono eglino differenti da' letterati? I quali già non faranno altro in questo caso, che favellare correttamente ancora essi.
V. Voi dubitate ragionevolmente; ma se non vi fosse altra differenza, si v'è egli questa, la quale non è mica piccola, che i letterati sanno per qual cagione dicono piuttosto così, che così, o almeno quali, o perché queste sono proprie locuzioni, e quelle improprie, e traslate, e infinite, altre cose; dove i non idioti, non sanno talvolta perché, o in che modo si debbano congiugnere insieme il verbo, e il nome; e insomma questi procedono colla pratica sola, e quelli ancora colla teorica; senzaché, sebbene ho detto che gli uni, e gli altri correttamente favellano, non perciò si dee intendere che i letterati per la maggior parte non favellino più correttamente, che gli non idioti non fanno, come gli non idioti più correttamente, che gli idioti.
C. Non si truovano di quelli, i quali sono dottissimi o in Greco, o in Latino, o in amendue questi linguaggi, e contuttociò sono forestieri, e favellano barbaramente nelle lor lingue proprie?
V. Così non sene trovassero; e il Bembo agguaglia la follia di costoro a quella di coloro, i quali bellissime, e ornatissime case murano ne' paesi altrui, e nella patria loro propria abitano male, e disagiosamente.
C. Senza dubbio cotestoro lasciano (come si dice) il proprio per l'appellativo; ma come si debbono chiamare in questa vostra divisione?
V. Come più vi piace; le parole di sopra mostrano che, quanto alla presente materia s'appartiene, si debbano chiamare idioti.
C. Io credeva che idiota volesse oggi significare volgarmente un uomo senza lettere.
V. Già non lo piglio io in altra significazione, nonostanteché appresso i Greci, onde fu preso, significhi privato.
C. E' mi pare un passerotto, o (come diceste voi dinanzi) che implichi contraddizione, che uno che sia letterato, non abbia lettere.
V. Se egli hanno lettere, e' non hanno di quelle lettere, delle quali noi favelliamo. Anco molti preti, e notaj hanno lettere, e nientedimeno nella lingua propria sono barbari, e conseguentemente idioti. Bisogna bene che voi avvertiate che nonostanteché io abbia chiamato questo uso diviso in tre, uso particolare, egli non è che non si possa, anzi si debba, chiamare uso comune, perché egli comprende in effetto tutta la città; conciossiacosaché gl'idioti sanno tutto quello che la plebe; i non idioti, tutto quello che la plebe, e gli idioti; i letterati, tutto quello che la plebe, gli idioti, e i non idioti insieme, fuori solamente alcuni vocaboli d'alcune arti, o mestieri, i quali non importano né alla sostanza, né alla somma del tutto; onde perché gli abusi, o piuttosto misusi, non sono usi semplicemente, ma usi cattivi, lasceremo da parte (seguitando l'autorità di Quintiliano) l'uso degli idioti, e diremo che il vero, e buono uso sia, principalmente quello de' letterati, e secondariamente quello de' non idioti, avvisandovi che nel favellare non si dee por mente ad ogni cosellina, anzi, come n'ammaestra Cicerone, accomodarsi in favellando all'uso del popolo, e riserbare per se la scienza; perciocché, oltraché il fare altramente, pare un volere essere da più degli altri, si fugge eziandio l'affettazione, della quale niuna cosa è più odiosa, e da doversi maggiormente schifare. Ora, per rispondere alla dimanda vostra, dico che le lingue s'hanno a imparare a favellare dal volgo, cioè dall'uso di coloro che le parlano.
C. Dunque un forestiere non potrà mai favellar bene Fiorentinamente, se egli non viene a Firenze?
V. Non mai; anzi non basta il venire a Firenze, che bisogna ancora starvi, e di più conversare, e badarvi: e molte volte anco non riesce, perché Messer Lodovico Domenichi è stato in Firenze quindici anni continui, e con tutte le cose sopraddette non ha ancora apparato a parlare Fiorentinamente.
C. Egli sa pure Fiorentinamente scrivere.
V. Noi ragioniamo del parlare, e non dello scrivere.
C. Deh, poiché noi siamo qui, ditemi qualcosa ancora dell'uso dello scrivere.
V. Deh no, che io ho riserbato questa parte nella mia mente a un altro luogo, e tempo.
C. Deh sì, ditemene alcuna cosa.
V. Che vorreste voi sapere? Poiché io non vi posso negare cosa nessuna.
C. Se una lingua si può bene, e lodevolmente scrivere da uno, il quale da coloro che naturalmente la favellano, appresa non l'abbia.
V. Voi non sentiste mai favellare naturalmente la lingua Latina, e pure di molte volte Latinamente scritto m'avete.
C. Io non dissi Latinamente, ma bene Latinamente; poi io intendeva delle lingue vive affatto, e insomma della Fiorentina, non delle mezze vive; che ben so, per tacere di coloro che ancora vivono, che oltra il Bembo, il Sadoletto, il Longolio, il Polo, e alcuni altri, Messer Romulo Amaseo, e Messer Lazzaro da Basciano, e alcuni altri scrivevano bene, anzi ottimamente la lingua Latina.
V. Non sapete voi che, per tacere del Bembo, il quale stette più anni in Firenze da bambino col padre, che v'era ambasciatore, e poi vi fu più volte da se, che molti hanno scritto, e scrivono fiorentinamente i quali non videro mai Firenze? E tra questi fu per avventura uno, Messer Francesco Petrarca. Ma lasciamo lui, che nacque di madre, e di padre Fiorentini, e da loro è verisimile che apparasse la lingua; Messer Jacopo Sanazzaro, quando compose la sua Arcadia, non era, ch'io sappia, stato in Firenze mai.
C. Voi vedete bene che (come dicono alcuni) vi sono delle parole non Fiorentine, e delle locuzioni contra le regole, perché egli, oltra l'aver detto: Anzi gliel vinsi, e lui nol volea cedere. ponendo lui, che è sempre obliquo, in vece d'egli, ovvero ei, che sempre è retto, egli non intese la forza, e la proprietà di questo avverbio, affatto, quando disse: Vuoi cantar meco? Ora incomincia affatto.
V. È vero, ma volete voi che sì poche cose, e tanto piccioli errori, e massimamente in un'opera così grande, così nuova, e così bella facciano che ella si debbia non dico biasimare, come fanno molti, ma non sommamente lodate, anzi ammirare? Non vi ricorda di quello che disse Orazio nella sua Poetica? Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis Offendar maculis quas aut incuria fudit, Aut humana parum cavit natura ec. Non disse egli ancora nella medesima Poetica, che, non che altri, Omero alcuna volta sonniferava? benché quel luogo sia da alcuni diversamente inteso, e dichiarato. Non devemo noi più maravigliarci, e maggiormente commendarlo, che egli, essendo forestiero, scrivesse nell'altrui lingua e in verso, e in prosa così bene, e leggiadramente, che prendere maraviglia, e biasimarlo, che egli in alcune poche cose, e non di molto momento, fallasse? E poiché sono sdrucciolato tanto oltra per compiacervi, sappiate che io tengo impossibile che uno, il quale non sia nato in una lingua, o da coloro che nati vi sono, apparata non l'abbia, o viva affatto, o mezza viva che ella sia, possa da tutte le parti scrivervi dentro perfettamente, se già in alcuna lingua lauti scrittori non si trovassero che nulla parte di lei fosse rimasa indietro, la qual cosa è piuttosto impossibile, che malagevole.
C. Dunque, per lasciare dall'una delle parti Virgilio, e gli altri che potettero imparare la lingua Latina o in Roma, o da' Romani uomini, tutti coloro che hanno scritto Latinamente dopoché la lingua Latina si perdé, hanno scritto imperfettamente?
V. Io per me credo di sì; e mi pare esser certo che se Cicerone, o Salustio risuscitassero, e sentissero alcuno di noi, quantunque dotto, ed eloquente, leggere le loro Opere medesime, che eglino a gran pena le riconoscerebbero per sue; e chi leggesse loro eziandio l'Opere Latine del Bembo, non che quelle del Pio, non creda io che fossero da loro altramente intese, che sono da noi il Petrarca, o il Boccaccio, quando da un Franzese, o da un Tedesco mezzanamente attalianato si leggono.
C. Con quali ragioni, o autorità potreste voi provare che così fosse come voi dite?
V. Con nessuna, perché delle cose delle quali non si può far pruova, né venire al cimento, bisogna molte volte, per difetto di ragioni, e mancamento d'autorità, starsene alle conghietture.
C. E quali sono queste conghietture che voi avete?
V. Io so molto io, voi mi serrate troppo; la prima cosa noi non conosciamo la quantità delle sillabe, cioè se elle sono brevi, o lunghe naturalmente, come facevano i Latini. Noi pronunziamo l'aspirazioni, perché nel medesimo modo né più, né meno profferimo noi Latinamente habeo, quando è scritto coll'h, e significa io ho, che abeo senza aspirazione, quando significa io mi parto, e pure in quel tempo, e in quella lingua si pronunziavano diversamente, come dimostra quel nobilissimo epigramma di Catullo: Chommoda dicebat, si quando Commoda vellet Dicere, et Hinsidias Arrius Insidias etc. Noi avemo perduto l'accento circunflesso, il quale in un medesimo tempo prima innalzava, e poi abbassava la voce. Noi Latinamente pronunziando non facciamo distinzione, né differenza dell'e, ed o chiuso coll'e, ed o aperto, e nondimeno v'è grandissima. Noi non potemo sapere se i Latini pronunziavano Florenzia per z, come facciamo noi, o Florendia, come dicono che facevano i Greci, o Florentia per t, come profferimo noi il nome della mercatantia. Chi può affermatamente dire con verità che noi in favellando, o scrivendo Latinamente, non diciamo molte cose in quel modo quasi che gli schiavi, o le schiave Italianamente favellano? Perché si pronunzia in Latino questo nome Francesco nel nominativo non altramente che se fosse aspirato, e nel genitivo senza aspirazione? Perché è differente il verbo peccare nel presente dello indicativo dal futuro dell'ottativo, ovvero dal presente del soggiuntivo? Il nominativo singulare di questo nome vitio si scrive nel medesimo modo, e colle medesime lettere appunto, che il genitivo plurale di questo nome vite, e non è dubbio che la pronunzia era diversa, e differente. Il nome species non dispiaceva a Cicerone nel numero del meno, ma in quello del più sì, perché l'orecchie sue non potevano patire il suono di specierum e speciebus, ma voleva in quello scambio che si dicesse formarum, et formis; la differenza del qual suono, se non fosse stata avvertita da lui, nessuno oggi, che io creda, conoscerebbe. Dice Quintiliano, che distingueva coll'orecchio, quando un verso esametro forniva in ispondeo, cioè aveva nella fine amendue le sillabe lunghe, e quando, in trocheo, cioè la prima lunga, e l'altra breve; il che oggi non fa, che io sappia, nessuno. Il medesimo afferma che conosceva la differenza tra 'l _ Greco che i Latini scrivevano per ph, e lo f Latino, il che a questi tempi non si conosce. Io ho letto con gran piacere le giocondissime lettere che tu m'hai mandato. Quas ad me jucundissimas literas dedisti, legi summa voluptate, diranno alcuni, e alcuni altri: literas quas ad me dedisti jucundissimas, summa legi voluptate, e altri altramente; tantoché e possibile che nel volere variare le clausule, e tramutare le parole per cagione del numero, si scrivono oggi cose in quel tempo ridicole; come chi scrivesse nella lingua nostra: Le giocondissime che tu lettere m'hai mandato con sommo io ho letto piacere; e in altri modi simili, e forse più stravaganti; e tanto più, che l'orazione Latina più assai, che la volgare non è, circondotta essere si vede, cioè atta a potersi circondare, e menare in lungo, mutandola in varie guise, e diverse faccie dandole, per farla, o mediante il numero, più sonora, o mediante la giacitura più riguardevole.
C. Quando io tutte coteste cose che voi piuttosto accennato avete che dichiarato, v'ammettessi, e facessi buone, le quali molti per avventura vi negherebbono, elle procedono tutte solamente, quanto alla lingua Latina, la quale è mezza morta; ma come proverreste voi nelle lingue vive, che coloro i quali non vi sono nati dentro, o nolle hanno apparate da chi le favella, non potessero, cavandole dagli autori, scriverle perfettamente?
V. Io v'ho detto che voglio ragionare oggi del favellare, e non dello scrivere; nel quale scrivere sono altrettanti dubbj, e forse più, che nel favellare.
C. Ditemi questo solo, e non più.
V. E' bisogna distinguere, perché altra cosa è il prosare, e altra il poetare; e poetare si può Fiorentinamente almeno in sette maniere tutte diverse.
C. Che mi dite voi?
V. Quello che è, e non punto più, anzi qual cosa meno. La prima, e principale è quella di Dante, e del Petrarca: La seconda quella di Luigi, e di Luca Pulci. La terza, come scrisse il Burchiello, che fu Poeta anch'egli. La quarta, i Capitoli del Bernia. La quinta, i Sonetti d'Antonio Alamanni. Oltra questi cinque modi, cene sono due da cantar cose pastorali, uno in burla, come la Nencia di Lorenzo de' Medici, e la Beca di Luigi Pulci; e l'altro da vero: e questo si divide in due, perché alcuni scrivono l'Egloghe in versi sciolti, come sono quelle di Messer Luigi Alamanni, e di Messer Jeronimo Muzio, e di molti altri; e alcuni, in versi rimati: e questo si fa medesimamente in due modi, o con rime ordinarie, o con rime sdrucciole, come si vede nel Sanazzaro.
C. Perché diceste voi, anzi qual cosa meno?
V. Perché, oltraché questi stili si mescolano l'uno coll'altro, talvolta da chi vuole, e talvolta da chi non sene accorge, e per tacere delle Feste, Farse, e Rappresentazioni, e molte altre guise di poemi, come le Selve, e le Satire, egli si scrive ancora da alcuni in bisticci.
C. Che cosa è scrivere in bisticci?
V. Leggete questa Stanza che è nel Morgante la quale comincia: La casa cosa parea bretta, e brutta, o tutta quella pistola di Luca Pulci che scrive Circe a Ulisse: Ulisse o lasso, o dolce amore, io moro, e saperretelo; la qual cosa fa oggi Raffaello Franceschi meglio, e più ingegnosamente, o almeno ridevolmente, di loro. Ora voi avete a sapere che nelle marniere nobili, cioè nella prima, e nell'ultima delle sette, possono i forestieri così bene scrivere, e meglio, come i Fiorentini, secondo la dottrina, e l'esercitazione di ciascuno; perché alcuno quanto arà migliore ingegno, maggiore dottrina, e sarà più esercitato, tanto farà o Fiorentino, o straniero che egli sia, i suoi componimenti migliori; ma nell'altre cinque maniere non già. E che ciò sia vero, ponete mente, che differenza sia da' Capitoli fatti da' Fiorentini, massimamente dal Bernia, che ne fu trovatore, e da Messer Giovanni della Casa, a quelli composti dagli altri di diverse nazioni, che veramente potrete dire, quelli essere stati fatti, e questi composti.
C. I Capitoli del Mauro, e quelli d'alcuni altri sono pure tenuti molto dotti, e molto belli.
V. Già non si biasimano per altro, se non perché sono troppo dotti, e troppo belli, e insomma non anno quella naturalità, e Fiorentinità (per dir così) la quale a quella sorta di componimenti si richiede, Messer Mattio Franzesi mio amicissimo avanzò tanto il Molza nello scrivere in burla, quanto il Molza, che fu non meno dotto, e giudizioso, che amorevole, e cortese, avanzò lui nel comporre da buon senno.
C. Io vi dirò il vero, quando io potessi scrivere nelle maniere nobili, io non credo che io mi curassi troppo dell'altre.
V. Cene sono degli altri; voglio bene che sappiate che anco nelle maniere nobili così di prose, come di versi occorrono molte volte alcune cose che hanno bisogno della naturalità Fiorentina; ma perché queste cose appartengono allo scrivere, e non al favellare, vogliomi riserbare a dichiararle un'altra volta.
C. Or non fuste voi indovino; poiché volete fuggire appunto in quel tempo, e a quel luogo nel quale è il pericolo, e dove bisogna star fermo.
V. Che cosa sarà questa?
C. Io ho penato un pezzo per condurvi a questo passo, sicché ora non pensate uscirmi delle crani, e scappare sì agevolmente. Udite quello che dice il Bembo nel primo libro delle sue Prose.
V. Che cosa?
C. Tutto il contrario di quello che dite, e accennate di voler dir voi.
V. Che?
C. Che gli vien talora in oppenione di credere che l'essere a questi tempi nato Fiorentino, a ben volere Fiorentino scrivere, non sia di molto vantaggio; talché, secondo queste parole del Bembo vostro, la vostra Fiorentinità sta piuttosto per nuocere che per giovare.
V. Avvertite, ch'egli dice, a questi tempi, cioè (per farla grassa, e più a vostro vantaggio che si può) quando il Magnifico Giuliano fratello di Papa Leone era vivo, che sono più di quaranta anni passati; nel qual tempo la lingua Fiorentina, comeché altrove non si stimasse molto, era in Firenze per la maggior parte in dispregio; e mi ricordo io, quando era giovanetto, che il primo, e più severo comandamento che facevano generalmente i padri a' figliuoli, e i maestri a' discepoli era che eglino né per bene, né per male, non leggesseno cose volgare (per dirlo barbaramente, come loro); e maestro Guasparri Mariscotti da Marradi, che fu nella gramatica mio precettore, uomo di duri, e rozzi, ma di santissimi, e buoni costumi, avendo una volta inteso in non so che modo che Schiatta di Bernardo Bagnesi, ed io leggevamo il Petrarca di nascoso, ce ne diede una buona grida, e poco mancò che non ci cacciasse di scuola.
C. Dunque a Firenze in vece di maestri che insegnassero la lingua Fiorentina, come anticamente si faceva in Roma della Romana, erano di quelli i quali confortavano, anzi sforzavano, a non impararla anzi piuttosto a sdimenticarla?
V. Voi avete udito, e ancora oggi non vene mancano, e credete a me che non bisognava né minor bontà, né minor giudizio di quello dell'Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signor Duca mio padrone. Avvertite ancora che il Bembo dice: Non sia di molto vantaggio; le quali parole dimostrano che pure vene sia alcuno.
C. Io comincerò a credere che voi o siate, o vogliate diventare sofista.
V. Oimè no; ogni altra cosa da questa in fuori.
C. Poiché quello che il Bembo disse per modestia, è da voi interpetrato come se fosse stato detto per sentenza. Non mostrano le parole che egli usa di sotto, e le ragioni ch'egli allega, l'oppenione sua essere che un Fiorentino abbia nello scrivere Fiorentinamente disavvantaggio da un forestiere? ma quando bene nol dicesse, fate conto che lo dica, o che il dica io, e rispondetemi.
V. Un Fiorentino, data la parità dell'altre cose, cioè posto che sia d'eguale ingegno da natura, d'eguale dottrina per istudio, e d'eguale esercitazione, mediante l'industria, non arà disavvantaggio nessuno, ma bene alcun vantaggio da uno che Fiorentino non sia, nel Fiorentinamente comporre; e questa è cosa tanto conta, e manifesta per se, che io non so come da alcuno sene possa, o debba dubitare.
C. Che risponderete voi alle ragioni che egli allega?
V. Che dice il vero che i Fiorentini, avendo la lor lingua da natura, non la stimavano, e che parendola loro sapere, nolla studiavano, e che attenendosi all'uso popolaresco, non iscrivevano così propriamente, ne così riguardevolmente come il Bembo, e degli altri.
C. Voi non m'avete inteso bene. Io vo' dire che quando i Fiorentini pigliano la penna in mano, per occulta forza della lunga usanza, che hanno fatto nel parlare del popolo, molte di quelle voci, e molte di quelle maniere di dire che si parano mal grado loro dinanzi, che offendono, e quasi macchiano le scritture, non possono tutte fuggire, e schifare il più delle volte.
V. Io voglio tralasciare qui l'oppenione di coloro i quali tengono che così si debba scrivere appunto, come si favella; il che è manifestamente falsissimo; ma vi dirò solo che il parlare Fiorentino non fu mai tanto impuro, e scorretto, che egli non fosse più schietto, e più regolato di qualsivoglia altro d'Italia, come testimonia il Bemho stesso; perché dunque quella occulta forza dell'uso del favellare popolesco non dee così tirare i Lombardi, e i Viniziani o nel favellare, o nello scrivere come i Toscani, e i Fiorentini? e tirandogli, gli tirerà a men corretto, e più impuro volgare.
C. Io non saprei che rispondermivi, se già non dicessi che la differenza la quale è dal parlare de' forestieri allo scrivere Fiorentinamente, è tanto grande, che agevolmente conoscere la possono, e per conseguenza guardarsene, il che non potete far voi per la molta vicinanza che è del parlar vostro allo scrivere.
V. Piacemi che voi andiate cercando di salvare la capra, e i cavoli, come si dice, benché io non so, se eglino volessono essere per cotal modo salvati; ma ricordatevi della parità dell'ingegno, dottrina, e esercitazione.
C. Quanto al giudizio, può un forestiere così bene giudicare i componimenti Toscani, come un Fiorentino?
V. Io v'ho detto di sopra che tanto si giudica bene una cosa, quanto ella s'intende.
C. Io ven'ho dimandato perché Quintiliano, il quale fu secondoché scrivono alcuni, Spagnuolo, diede buon giudizio di tutti i poeti non solo Latini, ma Greci; che ne dite voi?
V. Che volete voi che io ne dica, se non bene? Se il giudizio suo fu buono, come in verità mi pare, è segno certissimo, che egli l'intendeva bene.
C. Vo' dire che egli non era però Romano, e anco non so ch'egli fosse stato in Grecia.
V. Ondunque si fosse, egli nacque, fu allevato, e tenne scuola pubblica molti anni in Roma, e se non andò in Grecia, oltraché i Greci andavano a Roma, molto meglio arebbe fatto ad andarvi, in quanto al potere meglio intendere la lingua Greca, e più perfettamente giudicare gli scrittori d'essa.
C. Dunque è possibile che alcuno giudichi bene d'una lingua nella quale egli non sia nato, né l'abbia apparata da coloro che naturalmente la favellano?
V. Io lo vi replicherò un'altra volta. Quanto è possibile che egli l'intenda, tanto è possibile che egli la giudichi; onde se non può intenderla perfettamente, non può anco perfettamente giudicarla da se; dico, da se, perché potrebbe riferire il giudizio d'altri: ma io voglio avvertirvi d'uno errore di grandissima importanza, e oggi comune a molti, il quale è, che ogni volta che hanno conchiuso esser possibile che alcuno possa fare alcuna cosa, subito credono, e vogliono, che altri creda ch'egli la faccia; e non si ricordano che il proverbio dice che dal detto al fatto è un gran tratto.
C. Datemene uno esempio.
V. Alcuno vi dirà che il tale, o il quale compone un'opera la quale pareggierà di leggiadrìa, e di numero, verbigrazia, gli Asolani del Bembo, e conoscendo alla cera che io non lo credo, mi dimanderà, se ciò è possibile; e perché io non posso negargli, ciò esser possibile, vorrà che io creda che quello che è possibile ad essere, sia, o debba essere a ogni modo.
C. Cotesta è una vaga, e pulita loica.
V. Per mia fe sì.
C. Ma torniamo al caso nostro. Il Castelvetro nella sua risposta a carte 94 di quella in quarto foglio che si stampò prima, e 148 di quella in ottavo che si stampò ultimamente, confessa di non aver beuto quel latte della madre, o della balia, né appreso dal padre, o dal volgo in Firenze la lingua vulgare, ma essersi sforzato d'impararla, da' nobili scrittori; e coll'autorità, e parole stesse del Bembo par, che voglia mostrare che in impararla non si richiegga di necessità il nascimento, e l'allevamento in Firenze, né il rimescolamento, per usar le sue proprie parole, colla feccia del popolazzo; che ne dite voi?
V. Così lo potessi io scusare negli altri luoghi, come io posso in cotesto nel quale egli procede, e favella modestamente.
C. In che modo lo difenderete voi?
V. Primieramente quello che egli dice, si può intendere dello scrivere, e non del favellare, e quando bene s'intendesse del favellare, a ogni modo direbbe vero; perciocché l'essere egli nato, e allevato a Modona, non gli toglie che non possa sapere (come dice egli) alcuna cosa, non pur d'altro, della lingua volgare ancora. Poscia egli allega l'oppenione del Bembo, scrivendo le parole di lui medesimo, senza interporvi il giudizio suo; perché viene a riferirsi, e appoggiarsi all'autorità del Bembo, onde il Bembo viene ad aver fallato, e non il Castelvetro (se fallo è cotale oppenione, come io credo).
C. Che direte dunque di Messere Annibale?
V. Che dove Messer Lodovico si può scusare, il Caro si dee lodare.
C. Quale è la cagione?
V. Perché l'oppenione sua è la migliore, come s'è conchiuso di sopra; poi Messer Annibale non riprende il Castelvetro semplicemente, ma come colui che voglia fare della lingua Fiorentina, e dell'altre il Gonfaloniere, il Satrapo, il Macrobio, l'Aristarco, e gli altri tanti nomi che si truovano sparsamente nella sua Apologia: le quali cose niega il Caro, e con verità che si possano fare da uno il quale o non sia nato, o non abbia praticato in Firenze: e quando mille volte fare si potessero, ne seguirebbe bene che il Castelvetro fare le potesse, ma non già che le facesse. Leggete quello che dice di questo fatto Messer Annibale a faccie 151 e molto più chiaramente a faccie 167 le cui parole sono queste, nelle quali sono ristrette in somma, e racchiuse in sostanza tutte le cose che infin quì di questa materia dette si sono; però consideratele bene: Vedete, Gramatico, e favellator Toscano che voi sete! E forse che non presumete di farne il maestro, e d'allegarne anco l'uso, come se vi foste nato, o nodrito dentro, e che l'usanza, e 'l modo tutto con che sene dee ragionare, e scrivere, fosse compitamente nelle sole osservanze che voi solo n'avete fatte, non v'accorgendo che per fare una profession tale, non basta che voi ne sappiate le voci solamente, né la proprietà di ciascuna di esse, che bisogna sapere anco in che guisa s'accozzano insieme, e certi altri minuzzoli, come questi che si son detti, i quali non si trovano nel vostro Zibaldone, né anco in su i buoni libri talvolta. L'osservazion degli autori è necessaria, ma non ogni cosa v'è dentro; e oltra quello che si truova scritto da loro, è di più momento, e di più vantaggio che non pensate, l'avere avuto mona Sandra per balia, maestro Pippo per pedante, la Loggia per iscuola, Fiesole per villa, aver girato più volte il coro di Santa Riparata, seduto molte sere sotto 'l tetto de' Pisani, praticato molto tempo per Dio, fino in Gualfonda, per sapere la natura d'essa.
C. Queste mi paiono molto efficaci, e molto vere parole; ma se Messere Annibale è da Civitanuova, o (secondoché vuole il Castelvetro) da San Maringallo, terre amendue nella Marca d'Ancona, come scrive egli così puro, e così Fiorentinamente, come si vede che fa? E onde ha imparato tanti motti, tanti proverbj, e tanti riboboli Fiorentini, quanti egli usa per tutte le sue composizioni?
V. A Messer Annibale, se egli non ebbe né mona Sandra per balia, né maestro Pippo per pedante, non mancò niuna dell'altre condizioni che egli medesimo dice es- ser necessarie a chi vuol ben favellare, o leggiadramente scrivere nella lingua Fiorentina.
C. Riconoscesi in lui, o ne' suoi scritti quel non so che di forestiero, come negli altri che Fiorentini non sono, la qual cosa il Castelvetro, imitando Pollione, chiamerebbe peravventura Sanmaringallità?
V. Voi volete la baja, e io non voglio rispondervi altro, se non che egli è di maggiore importanza che voi forse non credete, avere usato, e praticato in Firenze: e se il Castelvetro si fosse talvolta rimescolato colla feccia del popolazzo Fiorentino, egli non arebbe prima detto, e poi voluto mantenere, che panno tessuto a vergato fosse ben detto; né che consolare, né consolazione in quel sentimento che egli lo piglia, si potessero comportare, non che si dovessero lodare; e arebbe sentito infino a' fanciugli che non sono ancora iti all'abbaco, né sanno schisare, dire sempre cinque ottavi, e non mai le cinque parti dell'ottavo, come usa egli più volte. A quanti ha mosso riso, e a quanti compassione, quando egli a carte 95 tentando di difendersi da Annibale, il quale a facce 151 dice, che una volta, che il Castelvetro fu a Firenze egli v'imparò piuttosto di fare a' sassi, e d'armeggiare, che di scrivere, risponde, volendolo riprovar falso, che non solamente non imparò d'armeggiare quella volta che egli fu in Firenze, ma che non fu mai in Firenze in età da imparar d'armeggiare, e da travagliare la persona in esercizj giovenili, come aveva fatto prima in altre terre; e non si avvede, come arebbe fatto, se si fosse rimescolato colla feccia del popolazzo di Firenze, che egli, mentreché vuole scusarsi dell'armeggiare, armeggia tuttavia; perché (come si dichiarò di sopra) quando si vuol dire in Firenze a uno: Tu non dai in nulla, tu t'avvolpacchi, e insomma tu sei fuor de' gangheri, segli dice per una così fatta metafora: tu armeggi.
C. Certo che io non avea avvertito cotesto, e per la mia parte, di simil cose lo scuserei, perché cotali parole non si truovano ordinariamente scritte ne' libri, e massimamente degli autori nobili.
V. Il medesimo farei ancora io, solo che non volesse stare in sulla perfidia, e mantenere d'aver ben detto, anzi confessare che se il rimescolarsi col popolazzo non è necessario allo scrivere, è almeno utile al favellare, e per non istare ora fuor di proposito a raccontarle a una a una, sappiate, che di tutte le prime dieci opposizioni che egli fece contra la Canzone di Messere Annibale, egli, se fosse stato pratico in Firenze, non n'arebbe fatta nessuna, perché tutte quelle parole che egli riprende, non solo si favellano, ma si scrivono ancora da tutti coloro i quali o scrivono, o favellano Fiorentinamente, crome al suo luogo si mostrerà, e tanto chiaro, che niuno non potrà, secondoché io stimo, non maravigliarsi di chi arà creduto altramente.
C. Se io potessi aspettare a cotesto tempo, io non v'arei dato oggi questa briga; ma egli d'intorno a questa materia dell'imparar le lingue non mi resta se non un dubbio solo, però dichiaratemi anche questo.
V. Ditelomi.
C. Il Caro a fac. 31. narra come Alcibiade dice appresso Platone d'avere imparato dal volgo di ben parlare Grecamente; e che Socrate approva il volgo per buon maestro, e per laudabile ancora in questa dottrina, e che per voler far dotto uno in quanto al parlare, bisogna mandarlo al popolo. Ora io vi dimando non se queste cose son vere, perché essendo dì Platone, le credo verissime, oltraché di sopra sono state dichiarate da voi; ma dimandovi se Platone le dice.
V. Dicele tutte a capello, perché?
C. Perché le parole usate dal Castelvetro a car. 6. nella prima impressione, e a 10. nella seconda mene facevano dubitare, dicendo egli così: Posto che fosse vero che queste cose si dicessero tutte appo Platone; perché messe, egli in dubbio le cose chiare?
V. Io non vi saprei dire altro, se non che, come dissi ancora di sopra, il Castelvetro, si va ajutaudo colle mani, e co' pié, e come quegli che affogano, s'appiccherebbono (come si dice) alle funi del cielo, usa tutte quelle arti che sa, e può, non solo per iscolpar se, ma per incolpare Annibale; oltraché il modo dello scrivere sofistico è così fatto.
C. Non pensava egli, che almeno gli uomini dotti, de' quali si dee tener maggior conto ben per l'un cento, che degli altri, avessono, leggendo Platone, a conoscere l'arte, e l'astuzia usata da lui?
V. Io non so tante cose; voi volete pure che io indovini; la quale arte io non seppi mai, né so fare al presente.
C. Io non voglio che voi indoviniate, ma solo che mi diciate l'oppenione vostra.
V. Eccoci all'oppenipne mia. La mia oppenione è che ognuno dica e faccia, faccia e dica tutto quello che meglio gli torna, e che tutto il mondo sia colà, per non dire che il precetto de' retori è che chi ha 'l torto in alcuna causa, vada aggirando se, e altrui, e per non venirne al punto mai, favelli d'ogn'altra cosa, e metta innanzi materia assai per isvagare i giudici, e occupargli in diverse considerazioni. Tutti i dotti non sono atti ad andare a leggere Platone, e intanto gli altri stanno sospesi, e i volgari se la beono. Non dice egli ancora che quando tutte quelle cose fossino vere, non può comprendere quello che Annibale si voglia conchiudere? Come quasi non fosse manifestissimo e per la materia, della qunale si ragiona, e per le parole così di sopra, come di sotto, che Messer Annibale vuole non solamente conchiudere, ma conchiude efficacemente, che le parole usate da lui nella sua Canzone, e riprese dal Castelvetro nelle sue opposizioni, sono in bocca del volgo, ed essendo in bocca del volgo, sono intese, ed essendo intese, non sono quali dice il Castelvetro, e per conseguente non meritano riprensione, del che viene che ingiustamente sieno state riprese, e biasimate dal Castelvetro.
V. Io non dubitava in coteste cose, ma il fatto non istà costì; il punto è questo. Messere Annibale afferma, che Alcibiade dice d'avere imparato dal popolo di ben parlare, e Messer Lodovico lo niega, dicendo che egli non dice di ben parlare, ma di parlare solamente, volendo inferire che dal popolo si può bene imparare a favellare, ma non già a favellar bene: e per provar questo suo detto allega che Platone usò il verbo _____´_____, il quale usò ancora Tucidide nel medesimo significato, cioè per favellar Greco semplicemente, non per favellar bene, e correttamente Greco.
C. In questo sta la differenza loro; a questo bisogna che rispondiate per Messere Annibale.
V. Il verbo _____´_____ non significa appresso Platone favellare semplicemente, come afferma il Castelvetro, ma bene, e correttamente favellare, come dice il Caro.
C. In che modo lo provate?
V. Quello che non è dubbio, non ha bisogno d'esser provato; l'uso stesso del favellare lo prova sufficientemente. Chi dice: il tale insegna cantare, o sonare; o sì veramente: Io ho imparato a leggere, o scrivere; vuol significare, e significa, che colui insegna bene, e che egli ha bene imparato; perché chi fa male una cosa, o non bene, non si chiama saperla fare, conciossiaché ognuno sappia giucare, e perdere. E se chi favella, o scrive semplicemente, non si dovesse intendere così, non bisognerebbe che noi avessimo altro mai né in bocca, né nella penna che questo avverbio bene.
C. Cotesta ragione mi par qualcosa, ma ella non m'empie affatto; perché si dice pure: la gramatica è un'arte di ben parlare, e di correttamente scrivere.
V. È vero che egli si dice da coloro, che non sanno più là; ma egli non si doverrebbe dire, perché nelle buone, e vere diffinizioni non entra ordinariamente bene, per la ragion detta.
C. E' si dice pure: la retorica è un'arte la quale insegna favellar bene.
V. Voi siete nella fallacia dell'equivoco, cioè v'ingannate per la diversa significazione de' vocaboli. Bene non si piglia in cotesto luogo, come lo pigliamo ora noi, ma vuol dire pulitamente, e con ornamento; e poi se Platone non avesse inteso del ben favellare, non arebbe soggiunto, come egli fece, che gli uomini volgari in questa dottrina son buoni maestri, e rendutone la ragione, dicendo, perché hanno quello che deono avere i buoni maestri.
C. Voi diceste, non è molto, che non la ragione si debbe attendere principalmente nelle lingue, ma l'uso; onde pare che tutta questa disputa si debba ridurre all'uso. Come hanno usato gli Scrittori Greci questo verbo?
V. Tutti coloro i quali hanno cognizione della lingua Greca, sanno che _____´_____ s'interpetra per bene, e correttamente favellare.
C. A questo modo il Castelvetro non arebbe cognizione della lingua Greca, e pure nella sua risposta allega tane volte tante parole Greche, e par che voglia ridersi di Messere Annibale, e riprenderlo come colui a chi non piacciano le parole Greche.
V. Io non so se il Castelvetro intende, o non intende, la lingua Greca; so bene che in questo luogo, e in alcuni altri che sono nel suo libro, egli o nolla intese, o non volle intenderla.
C. Qual credete voi piuttosto di queste due cose?
V. In verità che io credo, in questo luogo, che egli non volesse intenderla.
C. Che vi muove a così credere?
V. Che 'l Budeo stesso ne' suoi Commentarj della Lingua Greca in quel luogo dove egli dichiara il verbo _____´_____, lo mostra, allegando il medesimo esemplo che allega il Castelvetro di Tucidide.
C. Gran cosa è questa!
V. E' vi parrà maggiore quest'altra.
C. Quale?
V. Aristotile nel terzo libro della Retorica, trattando della locuzione oratoria, usa questo medesimo verbo, dicendo (poiché 'l Castelvetro vuole che s'alleghino le parole Greche) _&´_ _'___´_ _ ´_& _´___!& _& _____´_____.
C. Io per me arò più caro che mi diciate volgarmente il sentimento.
V. Il sentimento è nella nostra lingua, che il principio, ovvero capo, e fondamento della locuzione, o volete del parlare, è il bene, e correttamente favellare.
C. Donde cavate voi quel bene, e correttamente?
V. Dalla natura delle cose, dalla forza del verbo, e dall'usanza del favellare. Che vorrebbe significare, e che gentil modo di dire sarebbe: Il principio, o il capo, o il fondamento della locuzione è il favellare?
C. Queste sono cose tanto chiare, che io comincio a credere, come voi, che la risposta fosse fatta da beffe, e che il Castelvetro intendesse questo luogo così agevole, ma non lo volesse intendere. Coloro che tradussero la Retorica in Latino, confrontansi eglino con esso voi.
V. Messer no; ma io con esso loro. Udite come lo 'nterpetró, già sono tanti anni, Messer Ermolao Barbaro, uomo per la cognizione delle lingue, e per la dottrina sua, di tutte le lodi dignissimo: Caput vero, atque initium elocutionis est emendate luqui. Vedete voi che egli non dice semplicemente parlare, come afferma il Castelvetro, ma emendatamente, cioè correttamente favellare, come lo prese il Caro?
C. Io vi dico che voi mi fate maravigliare.
V. E io vi dico che voi sareste buono per la festa de' Magi. Un altro, credo Tedesco, che ha ultimamente tradotto, e comentato la Retorica, del cui nome non mi ricordo, dice queste parole: Supra indicatum est, quatuor partibus elocutionem constare, quarum initium, ac caput est in quavis lingua purè, emendatèque loqui. A costui non parve tanto sporre il verbo Greco correttamente favellare, ma v'aggiunse ancora puramente, e non solo nella Greca, ma in qualsivoglia altra lingua. Messere Antonio Majoragio, uomo d'incredibile dottrina, e incomparabile eloquenza, nella sua leggiadrissima traduzione della sua Retorica, dice così: Initium autem, et fundamentum elocutionis est emendate loqui. Avete voi veduto che tutti gli interpetri spongono il verbo _____´_____, non semplicemente favellare, ma correttamente favellare?
C. Io vi dico di nuovo, che voi mi fate maravigliare.
V. E io di nuovo vi dico che voi sareste buono per la festa de' Magi. Conoscete voi Messer Piero Vettori?
C. Come, s'io lo conosco? Non sapete voi che quando io fui quì l'altra volta con fratelmo, noi andammo in Firenze a posta solamente per vederlo, e parlargli? E chi non conosce Messer Piero Vettori? Il quale mediante l'opere che si leggono tante, e sì belle di lui, è celebrato in tutto 'l mondo non solo per uomo dottissimo, ma eziandio eloquentissimo, oltra la nobiltà, la bontà, l'umanità, e tante altre lodevolissime parti sue.
V. Cotesto stesso, cioè Messer Piero Vettori medesimo, il quale non è ancora tanto celebrato, quanto egli sarà, e quanto meritano le singularissime virtù sue, ne' Commentarj che egli fece sopra i tre libri della Retorica d'Aristotile, traducendo, e interpetrando il luogo Greco allegato di sopra, dice queste proprie parole: Initium, id est solum, ac fundamentum elocutionis, et quod magnam in primis vim ad eam commendandam habet, est Graeco sermone rette uti, ac pure, emendateque loqui; id enim significat _____´_____. Considerate, che a sì grande uomo non parve abbastanza l'aver tradotto il verbo _____´_____, usar bene il sermon Greco, che soggiunse, e favellare puramente, e correttamente, e per maggiore espressione, affinché nessuno potesse dubitarne v'aggiunse, perché così significo il verbo _____´_____ , cioè rettamente, puramente, e correttamente favellare. Che dite voi ora?
C. Dico che non mi maraviglio più; e dubito che molti non abbiano a dubitare che voi siate d'accordo col Castelvetro, il quale a sommo studio abbia detto cose tanto manifestamente false, affinché voi aveste che rispondergli senza fatica nessuna. Egli nonmi par già che voi gli rendiate il cambio, perciocché se voi difenderete tutte le altre cose come voi avete fatto questa, io non so vedere quello che egli s'abbia a poter rispondere, onde sarà costretto o confessare la verità, o tacere.
V. Voi dite in un certo modo il vero, e in un altro ne siete più lontano che 'l Gennajo dalle more. Se 'l Castelvetro fosse di quella ragione che vo' dire io, e che forse volete intender voi, prima egli non arebbe fatte quelle opposizioni così deboli, così sofistiche, così false, né tanto dispettosamente; poi, perché ogn'uomo erra qualche volta, non doveva tanto, né per tante vie, instigare Messere Annibale a rispondergli; e alla fine quando vide le risposte, che nel vero sono lealissime, e contengono in sostanza quasi tutte le risposte che alle risposte sue dare si possono, egli doveva acquietarsi, e cedere alla verità. E se pur voleva o vendicarsi delle ingiurie dettegli, o mostrare che non era quale lo dipigneva il Caro, poteva con bella occasione comporre un'opera, nella quale arebbe potuto fare l'una cosa, e l'altra. Né dico questo per insegnare a lui, ma per avvertir voi; e anco, se gli pareva di poter difendere alcuna delle sue opposizioni, poteva farlo, pigliando quella, o quelle tali, e lasciare star l'altre, dove, avendo egli voluto mostrare che tutte le cose dette da lui erano state ben dette, e ognuna di quelle di Messere Annibale male, ha fatto (se io non m'inganno affatto) poco meno che tutto il contrario, perché come io ho difesa questa, così spero in Dio che difenderò quasi tutte l'altre, e per cotal modo, cioè così chiaramente, che ognuno che vorrà, potrà conoscere quanto egli fosse leggiermente, e ingiustamente ripreso. Né per tutto ciò crediate voi che o egli non abbia a rispondere, o molti non debbiano credergli; perché troppo sarebbe felice il mondo, se la maggior parte degli uomini volessero o conoscere il migliore, o non appigliarsi al piggiore. Né crediate anco che io non conosca che il Caro potrà, e forse doverrà, se non male, almeno poco tenersi di me soddisfatto; e nel vero, se io avessi preso a difendere lui, io non solamente poteva, ma doveva, secondo l'uso moderno, più gagliardamente difenderlo. Non dico, quanto al confutare le ragioni del Castelvetro, perché in questo per tutto quel poco che si distenderanno il sapere, e poter mio, m'ingenerò con ogni sforzo di non mancare né di studio, né di diligenza; ma quanto al modo del procedere, nel quale arebbono voluto molti che io, senza cercar mai di scusare, o difendere, o lodare il Castelvetro, avessi, come fece Messere Annibale contra lui, ed egli contra Messere Annibale, atteso sempre ad accusarlo, ad offenderlo, e a biasimarlo, lasciando indietro tutte queste cose, che per la parte di Messere Annibale non facessero. Ma oltraché la natura m'invita, e l'usanza mi tira a fare altramente, io (come scrissi da principio a Messere Annibale) ho preso a difender non lui, ma le sue ragioni, cioè la verità, dalla quale, per quanto potrò conoscere, non intendo mai di partirmi. Confesso, quando a questo cimento, e paragone venire si dovesse, d'essere molto più, anzi senza comparazione, affezionato al Caro, che al Castelvetro. E contuttociò voglio che questa mia buona volontà serva, come io sono certissimo che egli si contenta, non a nuocere ad altri, ma solamente a giovare a lui, dovunche possa giustamente. Ma conchiudiamo oggimai, che le lingue si debbono imparare a favellare da coloro che naturalmente le favellano, e da' Maestri ancora, quando se ne potessero avere in quel modo, e per quelle ragioni che si sono dichiarate di sopra, leggendo ancora di quegli scritto- ri di mano in mano, i quali sono riputati migliori. E non aspettate ch'io vi faccia più di queste dicerie, ch'io veggo che il tempo ne mancherebbe.


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Ultimo Aggiornamento:
14/07/2005 23.50

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