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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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L’Ercolano

di: Benedetto Varchi


Di quanti linguaggi, e di quali sia composta la lingua volgare Quesito settimo

V. Io so, e se io nol so, io penso di saperlo, qual cagione v'abbia mosso a dovermi fare questa dimanda; alla quale non mi pare di potervi rispondere, se io prima alcune cose non vi dichiaro. Dovete dunque sapere che ogni parlare consiste, come testimonia Quintiliano, in quattro cose, in ragione, in vetustà, ovvero antichità, in autorità, e in consuetudine, ovvero uso; ma al presente non accade che io se non della prima di queste quattro favelli, cioè della ragione. E perché la ragione delle lingue vien loro massimamente dall'analogia, e talvolta dall'etimologia, bisogna che io che cosa è propriamente etimologia, e che analogia vi dichiari: e questo non mi par di poter fare né convenevolmente, né a bastanza, se io non piglio un principio universale, e dico: Che tutte le cose che sono sotto il Cielo, o naturali, o artifiziali che elle sieno, sono composte di tutte e quattro queste cagioni; materiale, formale, efficiente, e finale, perché l'esemplare, e l'instrumentale, le quali poneva Platone, si comprendono sotto l'efficiente. La cagione materiale d'alcuna cosa è quella materia, della quale ella si fa, come il marmo, o il bronzo a una statua; la formale è quella che le dà la forma, cioè la fa essere quello che ella è, perché altramente non sarebbe più mortale, che divina, né più Giove, o Mercurio, che Pallade, o Giunone; l'efficiente è colui che la fa, cioè lo scultore; la finale è quello che muove l'efficiente a farla, o onore, o guadagno, o altro che ella sia; e questa è nobilissima di tutte l'altre. E le cose le quali non sono veramente composte di materia, e di forma, si dicono esser composte di cose proporzionali, e equivalenti alla forma, che è la principale, e alla materia, la quale è la men degna: anzi è tanto nobile la forma, che il tutto, che è composto della forma, e della materia, è men degno, che la forma sola. Stando queste cose così, dico che tutte le dizioni, ovvero parole di tutte le lingue sono composte ancora esse, e si possono considerare in elle queste quattro cagioni; la materiale sono le note, come dicono alcuni, cioè le lettere colle quali sono scritte, e notate; la formale è il significato loro; l'efficiente è colui che le trovò, o formò primieramente; ma perché le più volte gl'inventori, o formatori delle parole sono incerti, non sappiendo chi fosse il primo a trovarle, o formarle, si piglia in luogo dell'efficiente l'origine loro, cioè da che cosa, o per qual cagione fosseno così chiamate o da qual lingua si pigliassero; la finale è, come s'è tante volte detto, sprimere, e mandar fuor i concetti dell'intelletto.
C. Deh datemene un esempio.
V. Chi considerasse in alcun nome, verbigrazia, in questa voce pianeta le lettere colle quali ella è scritta, considererebbe la cagione materiale, cioè la sua materia; chi, quello che ella significa, la sua forma; chi, l'origine sua, cioè da cui fosse trovata, o perché così chiamata, o da qual lingua fosse stata presa, considererebbe l'efficiente; chi, a che fine fu trovata, la finale. Ora quando si considera la cagione materiale, cioè perché si dica più il pianeta in genere masculino, che la pianeta in femminino, come dissero alcuni antichi, e si va agguagliandola, e comparandola, mediante alcuna similitudine, o proporzione, dicendo, esempigrazia perché si dice ancora nel medesimo modo il poeta, il profeta, e altri così fatti nomi, questo è chiamato da' Latini con nome Greco Analogia, cioè proporzione: come chi dimandasse, perché si dice amare della prima congiugazione, e non amere della seconda, o d'altre congiugazioni, e se gli rispondesse, perché cotale verbo va, e si declina, come cantare saltare, notare, e altri di questa maniera, che sono della prima congiugazione, o veramente, perché questo verbo viene dal Latino, e i Latini faccendolo della prima congiugazione, dicevano così, cioè amare, e non amere. Ma chi considerasse la forma, cioè la significazione, e dimandasse, perché pianeta significa ciascuna di quelle sette stelle che così sono chiamate, segli rispondesse da un Toscano, perché questo vocabolo si tolse da' Latini, i quali l'avevano preso da un nome Greco che significa errore, ovvero da un verbo che significa errare, cioè andare vagabondo, onde pianeta non vuol dire altro che erratico, cioè vagabondo; questo si chiama da' Latini pur con nome Greco Etimologia, la qual parola tradusse, Cicerone, stando in sulla forza, e proprietà delle parole, non so quanto veramente, ora veriloquio, e talvolta notazione, e alcuni, originazione cioè ragione, e origine del nome; ma io, affinché meglio m'intendiate l'userò, come si fa ortografia, cioè retta scrittura, e altre voci Greche, nella sua forma primiera, senza mutargli nome. Queste due cagioni analogia, ed etimologia, delle quali la prima è, come s'è veduto, venendo ella dalla materia, accidentale, e la seconda, venendo ella dalla forma, essenziale, furono anticamente da molti con molte ragioni approvate. Marco Terenzio Varrone, il quale fu tenuto il più dotto uomo de' Romani ed eziandio il più eloquente, da Cicerone in fuora, ne scrisse diffusamente a Marco Tullio, come si può ancora vedere: ma io non intendo in questo luogo né d'approvarle, né di riprovarle; solo vi dirò che Platone perché teneva che i nomi fossero naturali, cioè imposti per certa legge, e forza di natura, secondo le nature, e qualità loro, ne fece gran caso, e spezialmente dell'etimologia, come si può vedere nel Cratilo; il che potette per avventura cavare dagli Ebrei, i quali tanto conto tennero della scienza de' nomi, che stimarono più questa sola, che tutte l'altre scienze insieme anziché la propria Legge scritta, dicendo, lei essere stata data da Dio a Moisè, non perché egli la scrivesse, come la Legge, ma perché si rivelasse a bocca di mano in mano a' più santi, e a' più vecchi, onde la chiamarono Cabala, mediante la quale, per forza della virtù de' nomi, e massimamente divini, si dice che operarono cose stupende, e infiniti miracoli. Ma Aristotile, il quale diceva che i nomi non erano dalla natura, ma a placito, cioè dall'arbitrio degli uomini, e che non voleva che i nomi, né altra cosa alcuna, eccetto le qualità, potessero produrre veruna operazione, se ne rideva.
C. Quale avete voi per migliore, e per più vera oppenione?
V. Domin, che voi crediate che io voglia entrare tra Platone, e Aristotile! Sappiate, che dove sì gran discepolo discorda da sì gran maestro, bisogna altro che parole a concordargli, o a trovarne la verità.
C. Io ho pure inteso dire più volte, e da uomini di profonda dottrina, che le discordie loro non consistono nelle sentenze, intendendo amenduni una cosa medesima, ma nelle parole, favellandole in diversi modi; e che il Pico scrisse, o aveva in animo di volere scrivere un'opera, e concordargli insieme, come si dice che fece già Boezio.
V. Io son d'oppenione, che in alcune cose si potrebbono talvolta concordare, ma in alcune altre non mai; benché questa non è materia nostra, però è bene trapassarla.
C. Io ricorrerò a quello che voi negare non mi potete, cioè qual sia l'oppenione vostra intorno all'etimologia.
V. Delle nostre: io credo che, se le lingue s'avessero a far di nuovo, e non nascessero piuttosto a caso, che altramente, che Platone avrebbe ragione, perché colui che ponesse i nomi alle cose, il quale ufizio è del Dialettico, doverrebbe porgli secondo le nature, e qualità loro quanto potesse il più, come è verisimile, non che ragionevole, che ne siano stati posti molti; ma perché la bisogna non va sempre così, io credo che Aristotile per la maggior parte dica vero; e se non vogliamo ingannare noi medesimi, l'etimologie sono spesse volte piuttosto ridicole che vere; onde Quintiliano, uomo di squisito giudizio, e di rara letteratura, si ride trall'altre di questa: Coeliglebs si chiama appresso i Latini uno il qual vive senza volere pigliar moglie, e l'etimologia di questo nome si dicea da un certo Grammatico essere, perché Coeliglebes voleva dire quasi Coeliglites, cioè che coloro i quali vivono senza moglie, vivono tranquilla, e beata vita, come gli Dii.
C. Io non credo che l'etimologia di cotesto nome dispiacesse oggi tanto a qualcuno, e gli paresse così falsa, quanto ella fece nel suo tempo a Quintiliano.
V. Voi sete troppo malizioso, e non ripigliate le cose a buon senso; basta, che delle etimologie antiche, o volete Greche, o volete Latine, ne sono molte forse meno vere, e più degne di riso, che le moderne Toscane di maestro Antonio Carafulla, il quale mai non fu dimandato di nessuna, che egli, così pazzo come era tenuto, non rispondesse incontanente.
C. Io ho sentito ricordarlo più volte, non vi paja fatica raccontarmene una, o due.
V. Dimandato il Carafulla, perché così si chiamasse la Girandola, rispose subitamente, perché ella gira, e arde, e dandola; e dimandato un'altra volta, onde avesse avuto il nome la Bombarda, rispose senza punto pensarvi sopra, perché ella rimbomba, e arde, e dà; voglio inferire che sopra l'etimologia non si può per lo più fare fondamento, se non debole, e arenoso da' Gramatici, non altramenteché i Dialettici, quando traggono gli argomenti dall'etimologia, sono bene probabili, ma non però pruovano cosa nessuna.
C. Come può stare che una cosa sia probabile, e non provi?
V. Ogni volta che Aristotile dice, la tal ragione esser probabile, o verisimile, o Dialettica, o Logica, vuol significare che ella non è buona, né vera ragione, perché non prova necessariamente, come debbono fare le buone, e vere ragioni; e insomma non sono da filosofi, sebbene anco i filosofi, e Aristotile medesimo argomenta talvolta dall'etimologia, della quale mirabilmente si servono gli oratori, e più ancora i poeti; onde il Bembo, che negli Asolani indusse Gismondo a rispondere a Perottino, il quale argomentando dalla ragione della voce, cioè dalla interpretazione del nome, e brevemente dall'etimologia del vocabolo, avea detto che amore essere senza amaro non poteva, alludendo, cioè avendo accennato (secondoché alcuni dicono) a quei versi del Petrarca: Questi è colui che 'l Mondo chiama Amore, Amaro, come vedi, e vedrai meglio Quando fia tuo, come nostro signore; usa nondimeno cotale argomento ne' Sonetti, come quando disse: Signor, che per giovar sei Giove detto. E Dante, nella cui opera si ritrovano tutte le cose, disse favellando di San Domenico nel dodicesimo canto del Paradiso: E perché fosse, quale era, in costrutto, Quinci si mosse spirito a nomarlo Del possessivo, di cui era tutto. E poco di sotto favellando del padre, e della madre di lui, e alludendo all'etimologia de' nomi soggiunse: O Padre suo veramente Felice O Madre sua veramente Giovanna Se 'nterpetrata val come si dice. E come poteva egli più chiaramente mostrare, l'argomento dell'etimologia potersi usare, ma non esser necessario, che quando disse: Savia non fui, avvengaché Sapia Fussi nomata, ec.? Lasciando dunque a' giureconsulti il disputare più a lungo della forza di questo argomento, conchiudiamo, che l'etimologie, sebbene servono molte volte, e arrecano grande ornamento così agli oratori, come a' poeti, non perciò provano di necessità, e meno l'analogie, sebbene, secondo loro, non solo si possono, ma si debbono formare alcune volte le voci nuove; e vi basti per ora di sapere ch'in tutte l'altre cose dee sempre prevalere, e vincere la ragione, eccettoché nelle lingue, nelle quali, quando l'uso è contrario alla ragione, o la ragione all'uso, non la ragione, ma l'uso è quello che precedere, e attendere si dee; onde Orazio non meno dottamente, che veramente, disse nella sua Poetica: Multa renascentur quae jam cecidere, cadentque Quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, Quem penes arbitrium est, et vis, et norma loquendi.
C. Io mi ricordo d'aver letto uno Jacopo Silvio, e un Carlo Bovillo, i quali trattando Latinamente della lingua Franzese fanno alcune tavole, nelle quali secondo l'ordine dell'abbicci pongono molti vocaboli, i quali, per quanto dicono, essi sono dirivati parte dalla lingua Greca, parte dall'Ebraica, parte dalla Tedesca, e parte da altri linguaggi; avetegli voi veduti? E che giudicate? Che si debba loro prestare fede, o no?
V. Io gli ho veduti, e letti, e oltra cotesti due, si vede medesimamente stampato un Guglielmo Postello, che fa il medesimo in un trattato, nel quale egli pone gli alfabeti di dodici lingue diverse; ma io, come confesso, che in tutte le lingue, e più nella nostra che in nessuna dell'altre, si trovano vocaboli di diversi idiomi, così niego che si debba dar piena fede a cotali autori.
C. Per qual cagione?
V. Prima perché per una etimologia la quale sia certa, e vera, se ne ritruovano molte incerte, e false: poi, perché coloro i quali fanno professione di trovare a ciascun nome la sua etimologia, sono bene spesso non pure agli altri etimologici, ma ancora a se stessi contrarj; oltraché egli non si ritruova voce nessuna in veruna lingua, la quale o aggiugnendovi, o levandone, o mutandovi, o trasponendovi lettere, come fanno, non possa didursi, e dirivarsi da una qualche voce d'alcuna lingua; senza che, egli non si può veramente affermare che un vocabolo, tuttoché sia d'origine Greca, e s'usi in Toscana, sia stato preso da' Greci. Verbigrazia, questa parola orgoglio è posta tra quelle degli autori che avete nominati, le duali dirivano dal Greco, e nondimeno i Toscani (per quanto giudicare si può) non da' Greci la presero, ma da' Provenzali: similmente parlare, e bravare, che io dissi di sopra esser venuti di Provenza, hanno secondo cotesti medesimi autori, l'origine Greca, e contuttociò i Toscani non dalla Greca lingua, ma dalla Provenzale è verisimile, che gli pigliassero. Né voglio che vi facciate a credere che una lingua, sebbene ha molti, non che alcuni, vocaboli d'una, o di diverse lingue, si debba chiamare di quella sola, o di tutte composta; perciocché sono tanto pochi che non fanno numero, o sono già di maniera dimesticati quei vocaboli, che sono fatti proprj di quella lingua; per non dir nulla che i cieli, e la natura hanno in tutte le cose tanta forza, che infondono, e introducono le medesime virtù in diversi luoghi, e massimamente nelle lingue, le quali hanno tutte un medesimo fine, e tutte hanno a sprimere tutte le cose, le quali sono molto più che i vocaboli non sono; dunque la lingua Fiorentina, sebbene ha vocaboli, e modi di favellare di diverse lingue non perciò si dee chiamare composta di tutte quelle delle quali ella ha parole, e modi di dire; anzi avete a sapere che se una lingua avesse la maggior parte de' suoi vocaboli tutti d'un'altra lingua, e gli avesse manifestamente tolti da lei, non per questo seguirebbe che ella non fosse, e non si dovesse chiamare una lingua propria, e da sé, soloché ella da alcun popolo naturalmente si favellasse; e se ciò che io dico, vero non fosse, la lingua Latina, non Latina, ma Greca sarebbe, e Greca, non Latina, chiamare si doverebbe.
C. Deh ditemi per cortesia alcuni di quei nomi, i quali voi credete, che in verità abbiano l'origine Greca.
V. Per tacere quelli della Religione, che sono molti, come Chiesa, Parrocchia, Cherico, Prete, Canonico, Monaco, Vescovo tomba, cimitero, battezzare, e altri assai, egli non è dubbio che di Greca origine sono bosco, basto, canestro, cofano, letargo, matto, e forse gufo, per la leggerezza sua, non essendo altro che voce, e penne, e così spada, stradiotto, schifare, svenirsi, arrabattarsi, in un attimo, e molti altri, de' quali ora non mi sovviene.
C. Malinconia, Filosofia, Astrologia, Geomanzia, Genealogia, Geografia, Etica, Politica, Fisico, Metafisica, e infiniti altri non sono Greci?
V. Sono; ma, come i Latini gli tolsero dai Greci, così i Toscani gli presero dai Latini; onde, quanto alla lingua nostra, si può dire che siano piuttosto d'origine Latina, che di Greca.
C. Questo nome, Oca, detto dai Latini, Anser, non è ella voce Greca colla compagnia dell'articolo _´__, come dice il Castelvetro a carte 37, intendendo sempre da quì innanzi della prima stampa?
V. Il Silvio trall'altre mette ancora cotesta in due luoghi, e forse in tre, ma io ne dubito.
C. Perché?
V. Perché l'articolo Greco masculino, che noi diciamo il, si scrive da' Greci con o piccino a lor modo, e a nostro con o chiuso, e noi pronunziamo oca con o grande a lor modo, e a nostro con o aperto; oltraché la lettera _, cioè eta, sebbene si pronunzia oggi per i, si debbe senza alcun dubbio pronunziare per e aperto; onde s'avrebbe a proferire non oca per a, ma oche per e; per non dir nulla, che così fatte etimologie non mi hanno ordinariamente a dare molto.
C. Lasciamole dunque stare, e venendo al primo intendimento nostro, ditemi di quante, e quali lingue voi pensate che sia principalmente composta la Volgare.
V. Di due; della Latina, e della Provenzale.
C. Io non istarò a dimandarvi in che modo della Latina? Perciocché, oltraché le parole del Bembo lo mi dichiararono, a me pare che parole da noi si favellino le quali dal Latino discese siano, come cielo, terra, dì, notte, vita, morte, arte, natura, arme, libri, corpo, mani, piedi, ornare, portare, edificare, e altri infiniti così nomi, come verbi; ma bene vi dimanderò in che modo della Provenzale?
V. Il medesimo Bembo nel medesimo libro vi può ancora in cotesto larghissimamente, e con verità satisfare, ogni volta che di leggerlo vi piacerà, e vi doverrà piacere quanto prima potrete, se vi diletta, come mostrate, di sapere in quante, e quali cose i primi Rimatori Toscani si valessero de' Trovatori Provenzali; che Trovatori si chiamavano Provenzalmente, anziché quella lingua si spegnesse, i Poeti come trovare, poetare: ancoraché alcuni della somiglianza del suono ingannati, non Trovatori, ma Trombadori scrivono; e non solo i Rimatori, ma i Prosatori ancora di Toscana si servivano delle voci, e de' modi del favellare Provenzale, come si può vedere sì negli altri, e sì massimamente nel Boccaccio, il quale molti usa di quei vocaboli che racconta il Bembo.
C. Io vorrei così sapere quali e quanti sono quei nomi che il Bembo racconta per Provenzali.
V. Mano a dirvegli: Obliare, poggiare, rimembrare, assembrare, badare, donneare, riparare, o piuttosto, ripararsi, gioire, calere, guiderdone, arnese, soggiorno, orgoglio, arringo, guisa, uopo, chere, cherere, cherire, caendo, quadrello, onta, prode, talento, tenzona, gaio, snello, guari, sovente, altresì, cioè medesimamente, dottare, cioè temere, dottanza, e dotta, cioè paura, a randa, cioè appena, bozzo, cioè bastardo, gaggio, landa, ammiraglio, smagare, drudo, marca, vengiare, per vendicare, giuggiare, per giudicare, apprecciare, inveggiare, per invidiare, scoscendere, cioè rompere, bieco, croio, forsennato, tracotanza, oltracotanza, trascotato, cioè trascurato, lassato, scevrare, cioè sceverare, gramare, oprire, cioè aprire, ligio, tanto, o quanto, cioè pure un poco, alma, cioè anima, fora, cioè sarebbe, ancidere per uccidere, augello per uccello, primiero, cioè primo, conquiso, cioè conquistato, avia, solia, e credia, e così di tutti gli altri in luogo d'avea, solea, e credea, ha, cioè sono, avea, era, o erano, ebbe, fu, o furono, io amo meglio, cioè io voglio piuttosto. Dice ancora che i fini de' nomi amati dalla Provenza termina- no in anza, come pietanza, pesanza, beninanza, malenanza, allegranza, dilettanza, ovvero in enza, come piacenza, valenza, e fallenza.
C. Voi m'avete toccato l'ugola; deh se ne sapete più; raccontatemene degli altri.
V. Affanno, e affannare, angoscia, e angoscioso, avvenente, altrettale, voce usata dal Boccaccio nella Teseide più volte, e da altri antichi autori, che vale della medesima qualità, come altrettanto, della medesima quantità; benché oggi si possa dire che ella sia piuttosto perduta, che smarrita; assiso, assai, almeno, anzi, appresso, cioè dopo, allontanarsi, abbandonare, abbracciare, assicurare, balia, per podestà, battaglia, per conflitto, ovvero giornata; che oggi si dice fatto d'arme; bisogna nome, e bisognare verbo, brama, e bramare, biasimo, e biasimare, battere, bastare, banco, bianco, brullo, e bastone, onde bastonare: cammino, cioè viaggio, coraggio per cuore, cortese, e cortesia, benché Dante dica nel Convivio, ciò esser venuto dalle corti, e cortesia, non significare altro che uso di corte, onde nacque il verbo corteggiare, per seguitare le corti, e corteseggiare, per usar cortesia. E similmente sono nomi, e verbi Provenzali cavaliere, cavalcare, combattere, cominciare, e cangiare, destriero, dannaggio, diporto, dirittura, cioè giustizia, drappi, danza, e danzare, desire, e desirare, che si dice ancora disio, e disiare, dimandare, fianchi, per quello che i Latini dicevano latera, feudo, folle, follia, onde folleggiare, franco, e francamente, fino, e fine, usato da quella lingua spessissime volte, come fine amore: forza, e forzare, forte, cioè assai, come disse il Petrarca: Io amai sempre, e amo forte ancora. E così finalmente guercio per quello che da' Latini era chiamato strabo: gagliardo, e gagliardia, inverno, incenso per quello che i Latini dicevano thus; legnaggio in luo- go di prosapia, lealtà, o leanza, e leale, lasso, e lassare, lontano, lagnare, e lusingare, maniera, montagna, mogliere, mancia, mattino, menzogna, e menzognere, martire, malvagio, membranza, e membrare, megliorare, mescolare, meraviglia, e meravigliare, scritto per e, e non per a; ma, cioè sed; mai, cioè unquam; mentre cioè donec; paura, paruenza, perdono, paraggio, pregione, e pregioniero, scritti colla lettera e, e non colla i; piacente, piagnere, parere, però, cioè ideo, o qua propter; roba, e rubare, ricco, ricchezza, o riccore, rossignuololo, che altramente si dice lusignuolo; senno, soccorso, strano, sguardo, e sguardare, schermire, saper grado, scampare, tomba, testa, torto, cioè ingiustizia, trovare, toccare, tenzonare, travaglio, e travagliare, trastornare, ovvero, frastornare, trapassare, tosto, e tantosto, e molti altri, che mi sono fuggiti della memoria. I modi del favellare cavati da' Poeti Provenzali sono non pochi, come dare la preposione in a' gerundj che forniscono nella sillaba do, onde il Petrarca disse: In aspettando un giorno. E quello che i Latini dicono: parum abfuit, quin moreretur; dicono i Toscani Provenzalmente: per poco non morì; come si vede spesse volte nel Boccaccio, ma ora non mi sovvengono, né è il tempo di raccontargli tutti.
C. Molto m'avete soddisfatto; ma egli in raccontando voi queste voci, mi sono nati più dubbj.
V. Quale è il primo?
C. Molte delle voci, che voi avete per Provenzali raccontate, sono poste dagli altri qual per Greca, qual per Latina, qual per Ebrea, o per di qualche altra lingua.
V. Già vi dissi di sopra, che questi etimologici bene spesso non si riscontrano l'uno coll'altro. Pantufola, per quella sorta di pianelle che oggi alquanto più alte dell'altre si chiamano mule, diriva, secondo cotestoro, dal Greco; ma altri d'altronde le derivano, come il Ca- rafulla da pié in tu fola; e anco può essere che, avendo le cose in se diverse proprietà, questi ne consideri una, e da quella la dirivi, e quelli un'altra, e da quella voglia che detta sia; onde non è maraviglia che alcun nome in alcuna lingua abbia l'articolo del genere del maschio, e in un'altra quello della femmina, o all'opposto.
C. Il mio secondo dubbio è, perché voi fate che i Toscani abbiano pigliate coteste voci da' Provenzali, e non i Provenzali da i Toscani; non sarebbe egli possibile che i Toscani avessero alcuna di coteste stesse voci non da' Provenzali preso, ma da quelle medesime lingue dalle quali le pigliarono i Provenzali?
V. Sarebbe, e anco che la Provenza n'avesse prese alcune dalla Toscana; ma perché i Rimatori Provenzali furono prima de' Toscani, perciò si pensa che essi abbiano dato, e non ricevuto, cotali voci. Ecco Dante nostro favellando di Guido Guinizelli, vostro Bolognese disse: Quand'io udii nomar se stesso il padre Mio, e degli altri miei miglior, che mai Rime d'amore usar dolci, e leggiadre. Dove chiamandolo Padre, cioè maestro, e precettore suo, e degli altri suoi migliori, viene a confessare ingenuamente che egli, e eglino da lui imparato aveano.
C. Dunque sarà pur vero, che la mia lingua tenga il principato tra tutte l'altre d'Italia.
V. Guido sebbene fu da Bologna, scrisse nondimeno Provenzalmente, e anco, se fu, non rimase il primo, conciossiacosaché Guido Cavalcanti gli entrò innanzi: non vi ricorda che il medesimo Dante disse: Così ha tolto l'uno all'altro Guido La gloria della lingua, e tale è nato Che l'uno, e l'altro caccerà del nido?
C. Ora, che voi me l'avete rammentato, me ne ricordo. Ma in cotesto luogo profetizza Dante del Petrarca, come vogliono alcuni, che di già avea diciassette anni, o pure intende di sé medesimo, come penso io?
V. Come pensate voi, perché sebbene Dante era astrologo, egli non sapeva perciò indovinare. Ma, tornando a Guido nostro, egli stesso confessa che Arnaldo Daniello Provenzale fu miglior fabbro del parlar materno, dicendo di lui: Versi d'amore, e prose di romanzi Soverchiò tutti, e lascia dir gli stolti, Che quel di Lemosì credon ch'avanzi.
C. Chi fu quello di Lemosì, se voi il sapete?
V. Io ho in un libro Provenzalmente scritto molte Vite di Poeti Provenzali, e la prima è quella di Giraldo chiamato di Bornello, che è quegli di cui favella Dante in questo luogo, e di chi intese il Petrarca, quando nella rassegna che egli fa de' Poeti Provenzali nel quarto capitolo d'Amore, scrisse: E 'l vecchio Pier d'Alvernia con Giraldo. La qual vita io tradussi già in volgare Fiorentino, avendo animo di seguitare di tradurre tutte l'altre; il che poi non mi venne fatto, ancoraché sieno molto brevi, e l'ho in questo scannello che voi quì vedete.
C. Poiché elle sono sì corte, e che l'avete tanto a mano, non vi parrà fatica di recitarlami.
V. Noi uscimo troppo, e troppe volte del ragionamento nostro, pure a me non importa.
C. Egli importa bene a me, che così vengo ad imparare più, e diverse cose, però cavatela fuora, e leggetela, che siate benedetto.
V. Giraldo di Bornello fu di Lemosì, della contrada, e paese di Caposduello, d'un ricco castello del Conte di Lemosì, e fu uomo di basso affare, ma letterato, e di gran senno naturale, e fu il miglior poeta che nessuno altro di quelli che erano stati innanzi a lui, e che venissero dipoi; onde fu chiamato il Maestro de' Trovatori, cioè de' Poeti, e così è ancora oggi tenuto da tutti quelli che intendono bene, e sottilmente le cose, e i componimenti d'Amore. Fu forte onorato dagli uomini grandi, e valenti, e dalle gentildonne che intendevano gli ammaestramenti delle sue canzoni. La guisa, e maniera sua di vivere era così fatta: egli stava tutto il verno per le scuole, e attendeva ad apparare lettere; e la state poi sen'andava per le Corti de' gran maestri, e menava con seco duoi cantori, i quali cantavano le canzoni che egli aveva composte. Non volle pigliar mogliera mai, e tutto quel che guadagnava, dava a' suoi parenti poveri, e alla chiesa di quella villa ov'egli era nato, la qual villa, e chiesa si chiamava, e ancora si chiama, San Gervagio.
C. Ora intendo io assai meglio la cagione la quale mosse Dante a scrivere quelle parole: . . . . . e lascia dir gli stolti, Che quel di Lemosì credon ch' avanzi. E perché il Petrarca, il quale, secondoché voi dite, si servì anch'egli de' Poeti Provenzali in molte cose, non solo scrisse ne' Trionfi: Fra tutti il primo Arnaldo Daniello Gran maestro d'amor, ch'alla sua Terra Fa ancora onor con dir pulito, e bello; ma ancora nella canzone che comincia: Lasso me, ch'io non so 'n qual parte pieghi; l'ultimo verso di ciascuna stanza della quale è il primo verso d'alcuna canzone di poeta nobile, elesse fra tut- ti gli altri il principio d'una di quelle d'Arnaldo, il quale non recito, perciocché, oltraché non intendo la lingua Provenzale, credo che cotali parole, come diceste voi poco fa, sieno scorrettamente scritte. Ma tornando a' miei dubbj, il terzo è, perché voi non avete fatta menzione alcuna della lingua Toscana antica chiamata Etrusca, né d'alcuna delle voci Aramee; e pure so che sapete che alcuni de' vostri affermano indubitatamente che l'antica scrittura Etrusca fu la medesima che l'Aramea, e che la lingua Fiorentina che si parla oggi, è composta d'Etrusco antico, di Greco, di Latino, di Tedesco, di Franzese, e di qualcuna altra simile a queste, ma che il nerbo è l'Arameo in tutto, e per tutto; e mediante queste cose pruovano certissimamente, secondoché essi affermano, la città di Firenze, e la favella Fiorentina essere stata molte, e molte centinaja d'anni innanzi a Roma, e alla lingua Latina.
V. Questo è il passo dove voi, secondo me, volevate capitare; ma non vi verrà fatto, se io non m'inganno, quello che per avventura pensavate. Dico dunque, rispondendo al vostro dubbio, che io non feci menzione della lingua Etrusca, perché io tengo per fermo che ella insieme coll'imperio d'Etruria fusse spenta da' Romani, o almeno molto innanzi che Firenze s'edificasse; né perciò niego che alcuna delle sue voci non potesse esser rimasa in qualche luogo, a qualche terra, o monte, o fiume, ma non tante, che possano far numero non che essere il nerbo dilla lingua Fiorentina.
C. E alla parte dove affermano, la lingua di Firenze essere prima stata della Romana, che rispondete?
V. Avendovi io detto di sopra l'oppenione mia sopra ciò, non ho che rispondervi altro.
C. Le voci che essi per Aramee, o per Ebraiche adducono, credetele voi tali?
V. Già v'ho detto che d'alcune si può, e d'alcune si debbe credere di sì, perché Alleluja che significa lodato Dio, Osanna, che vuol dire, salva ti priego, e Sabaoth, cioè esercito, tutte e tre usate da Dante, e così Ammenne, e alcune altre sono Ebraiche, non rimase nella nostra lingua dagli Aramei, ma venutevi, mediante la religione della Scrittura Sacra; e come di questo non ho dubbio, così mi pare esser certo che, mezzo, nodo, annodo, assillo, carbone, finestra, cateratte, caverne, garrire per isgridare, e alcune altre che pongono per Ebree, ovvero Aramee, siano manifestamente Latine.
C. E alle ragioni allegate da loro che rispondete?
V. Voi vorreste cavarmi di bocca qual cosa, ma egli non vi riuscirà; dico che non mi pajono buone.
C. State fermo: Messer Annibale nella prima Stanza del suo Comento sopra la sua Canzone dice queste proprie parole: Ed oltre di questo, come a cosa segnata del tuo sacro nome: alludendo all'Etimologia Ebrea di questo vocabolo Farnese, nella qual lingua dicono che significa Giglio. Ecco che, per l'autorità del vostro Caro, l'etimologie vagliono, e le parole Toscane discendono dall'Ebree.
V. Prima che io vi risponda, dovete sapere che Messer Lodovico a carte 76, riprende il Caro, dicendo che Pharnes, che così lo scrive esso, non è vocabolo Ebreo, né significa in lingua alcuna Giglio, ma che in lingua Assiriana, o Caldaica significa Pastore.
C. Io sapeva benissimo che il Castelvetro lo riprendea, ma non so già come lo potrete difender voi.
V. Non v'ho io detto tante volte che l'intendimento mio è difendere il Caro nelle cose sue proprie, cioè nella Canzone, non nel Comento, il quale non è suo?
C. Che ne sapete voi? Egli è pure stampato sotto 'l suo nome.
V. Io lo so da Messere Annibale proprio, il quale non ho per uomo che dicesse di non aver fatto quello che egli fatto avesse; e chi lo stampò sotto il suo nome, chiunche si fosse, fece errore, e meriteria piuttosto gastigo, che biasimo. Dico ancora, quando bene quel Comento fosse stato mille volte d'Annibale, posciaché egli nella sua Apologia dice così chiaramente che egli non è suo, che doveva bastar al Castelvetro, perché quel Comento è o suo, o no; se non è suo (come io credo), non doveva il Castelvetro volergliele attribuire a ogni modo contra la verità, e la voglia sua: se è suo (il che non credo), qual maggior vittoria poteva avere il Castelvetro, che sentire l'avversario suo ridirsi, e mentre sé medesimo?
C. Sì, se gli altri l'avessero saputo.
V. La verità ha tanta forza, che a lungo andare non può celarsi; poi a Messer Lodovico doveva bastare di saperlo egli; che a cor gentile, e generoso basta ben tanto, non sapete voi che se un soldato dice a un altro: Tu hai detto che io son traditore; e colui nieghi d'averlo detto, che sopra tal querela, o detto, o non detto che l'abbia, non può combattersi? Oltraché a me pare che chi n'avesse voglia, e non avesse altra faccenda, potrebbe così agevolmente quel Comento difendere, come la Canzone.
C. Così ho sentito dire da altri; ma difendetelo un poco voi da quelle due cose nelle quali lo riprende il Castelvetro, cioè che Pharnes non sia Ebreo, e con significhi Giglio.
V. Io ho detto chi n'avesse voglia, e non avesse altro che fare; io per me non ne ho voglia, e ho dell'altre occupazioni. Ma non vedete voi medesimo da voi stesso, che il comentatore di quella canzone non afferma nessuna di quelle due cose, ma dice, dicono, e chi dice, dicono, non vuole che si creda a se, ma si rimette alla verità, e a coloro che sanno, o possono sapere, mediante la cognizione di cotale lingua, se quello che egli dice, è vero, o no?
C. Io conosco che voi dite bene, ma perché il Castelvetro dice che ancora nella canzone s'accenna cotale etimologia, credete voi in verità, che Pharnes significhi Giglio in alcuna lingua?
V. Io non vo' dire quello che io non so, avendo di sopra detto di credere che tutte le parole in alcuna lingua possano significare alcuna cosa; credo bene clic Pharnes, significhi Pastore, per l'autorità addotta dal Castelvetro del Maestro Giacob; non credo già che voi crediate che Messer Annibale creda che la nobilissima Casa de' Farnesi venisse di Giudea; ma i poeti si servono d'ogni cosa, e dovunche possono, vanno scherzando, e tirando acqua al lor mulino; ma considerate un poco, che leggiere cose sono queste, e se vi pare che meritino d'esser tanto, e così sottilmente considerate, quasiché portino il pregio: io son certo che Messer Annibale senza farne parola confesserebbe, anzi ha di già confessato, che non intende la lingua né Assiriana, né Caldaica, e perciò di questo non solo non vorrebbe contendere col Castelvetro, ma gli cederebbe, quanto dicesse.
C. Dunque Messere Annibale in questo si chiamerebbe vinto dal Castelvetro?
V. Chiamerebbesi, perché no? e anche per avventura gli direbbe, come dicono i fanciulli in Firenze: Abbimi un calcio. Ma entriamo a ragionare di cose, che se non altro sopportino almeno la spesa.
C. Qual tenete voi che sia il verbo principale, cioè la basa, e il fondamento della lingua Fiorentina?
V. La lingua Fiorentina o per essere ella stata l'ultima, cioè dopo l'Ebrea, la Greca, e la Latina, o per grazia, e favore de' cieli, non solo ha parole (come s'è detto), ma alcuni modi, e maniere di favellare le quali si convengono, e si confanno colle maniere, e modi di favellare di tutte e tre le lingue sopraddette; ma ancora una certa peculiare, o speziale, o particolare proprietà, come hanno tutte l'altre lingue, la quale è quella che io dico non potersi imparare, se non da coloro che son nati, e allevati da piccioli in Firenze; e vi dirò più oltre che questa proprietà natìa è tale che non solo ogni città, ogni castello, ogni borgo; il qual borgo è parola de' Tedeschi; e ogni villa l'ha diversa l'una dall'altra, ma ancora ogni contrada, anzi ogni casa, e mi fareste dire, ciascuno uomo; sicché quando io ho detto, o dirò, che la lingua Fiorentina è propriamente quella che si favella dentro le mura di Firenze, non vi mettendo, non che altro, i sobborghi, non vi paja che io la ristringa troppo.
C. A me pare infin da ora, stando le cose come voi dite, che piuttosto l'allarghiate; che ben so che in Bologna, mia carissima, e onoratissima patria, si favellava di due linguaggi, per tacere dell'altre nelle quali si favellava di più di tre.
V. Ben dite; ma dovete ancora sapere che nessuna arte, e nessuna scienza considera i particolari, perciocché essendo infiniti, non si possono sapere; e certe minuzie parte non possiamo, e parte non dobbiamo curare; e anche il proverbio dice, che chi tutto vuole nulla ha; bastavi che quella proprietà naturale di coloro che nascono in Firenze, o ne' suoi contorni, ha forza maravigliosa, e si potrebbe chiamare la basa propria, e il fondamento particolare della lingua di Firenze, intendendo della lingua semplice, cioè di, quella che si favella, o favellava naturalmente; perché la lingua nobile di Firenze, cioè quella che si scriveva, o si scrive, aveva, ed ha, per basa, e fondamento, oltre la proprietà detta, molte parole, e modi di favellare non pur Latini, ma Provenzali, e ancora d'altre lingue, ma in ispezialità della Greca, e dell'Ebraica.
C. Raccontatemene, vi prego, qualcuna.
V. La lingua Volgare ha gli articoli, i quali non ha la Latina, ma sibbene la Greca, i quali articoli sono di grandissima importanza, e apparare non si possono, se non nelle culle, o da coloro che nelle zane, cioè nelle cune, apparati gli hanno, perché in molte cose sono diversi dagli articoli Greci così prepositivi, come suppositivi; e in alcuni luoghi, senzaché ragione nessuna assegnare se ne possa, se non l'uso del parlare, non solo si possono, ma si debbono porre: e in alcuni altri, per lo contrario, non so- lo non si debbono, ma non si possono, usare; perché dove i Greci gli mettono innanzi a tutti i nomi proprj, o masculini, o femminini che siano, i Toscani se non a' femminini non gli mettono, perché dicono bene la Ginevra, e la Maria, ma non già il Cesare, o il Benedetto: e chi dicesse io miro Arno, o Mugnone, senza articolo, direbbe bene, ma non così chi dicesse io miro Tevero, o Aniene, cioè Teberone, le quali differenze non conoscono tutte l'orecchie.
C. Le mie sono di quelle; però arei caro mi dichiaraste questa singolare proprietà, e il modo di conoscere gli articoli, e le altre cose necessarie a bene intendere la vostra lingua.
V. Troppo lunga sarebbe, e fuora del proposito nostro cotale materia, la quale è propria del grammatico; e sebbene mi ricordo averne già trattato lungamente nell'Accademia degli Infiammati di Padova, sono nondimeno tanti anni, che io non me ne ricordo più.
C. Seguitate dunque quelle proprietà, le quali avevate incominciato.
V. Così i Greci, come i Latini declinano i nomi, o sostantivi, o agghiettivi che siano, cioè gli torcono, e variano di caso in caso, altramente profferendoli nel genitivo, e altramente nel dativo, e negli altri casi, perché il nominativo non è caso, e però tanto i Latini, quanto i Greci lo chiamavano retto, dove gli Italiani non gli diclinano, ma gli mutano solamente in quel modo che fanno gli Ebrei, dal singulare, chiamato il numero del meno, al plurale, chiamato il numero del più, mediante gli articoli; perché (come sapete) dicono nel numero del meno il Monte, e in quello del più i Monti; e così di tutti gli altri.
C. E' par pure che mutino ancora gli articoli così nel numero singolare, come nel plurale; conciossiacosaché nel genitivo, chiamato il caso patrio, ovvero paterno, perché significa ordinariamente possessione, si dice di, o del, e nel dativo a, o al, e così degli altri.
V. Cotesti non sono articoli, ma si chiamano segni de i casi.
C. Questa vostra lingua ha più regole, più segreti, e più ripostigli, che io non arei mai pensato; ma tirate dietro al ragionamento vostro.
V. Noi non avemo comparativi, eccettoché quattro Latini, migliore, peggiore, ovvero piggiore, maggiore, e minore, ma in vece de' comparativi usiamo i nomi positivi, ponendo loro dinanzi l'avverbio più, come, più dotto, più prudente, e più savio; il che fanno ancora gli Ebrei, e mettiamo loro dopo non il caso allativo, come facevano i Latini, ma il genitivo, a guisa de' Greci, dicendo: I Romani furono non solamente più forti, ma eziandio più gravi di tutte l'altre nazioni.
C. Cotesto mi pare piuttosto superlativo, che comparativo.
V. È vero, ma non già a rovescio: I Fiorentini sono più eloquenti, che i Bergamaschi, è comparazione, ma non può esser superlazione: ma, i Fiorentini sono più eloquenti di tutti i Lombardi, è superlazione, ma può essere ancora comparazione: e quel modo di favellare, che noi usiamo tutto il dì: Dio vi conceda quel bene che voi disiderate maggiore, o il maggiore, è, se non cavato da' Greci, usato da loro; e quell'altro che noi diciamo: questa cosa è più manifesta che mestier faccia che se ne disputi; o come disse il Boccaccio: Perciocché egli è più giovane che per le leggi non è conceduto, è così de' Greci, come de' Latini: è ben proprio de' Volgari il dire alcuna volta più migliore, o via peggiore; e così il dire: io farei per te troppo maggiore cosa che questo non è, modo usato dal Boccaccio infinite volte, ancoraché i Latini usassero, molto migliore, e molto peggiore.
C. La lingua Volgare ha ella superlativi?
V. Hagli; e gli usa variamente in quel modo che facevano così i Greci, come i Latini, perciocché alcuna volta si pone il superlativo senza nessuno caso dopo sé, come il tale è dottissimo, alcuna volta colla proposizione tra; come tra, ovvero fra tutte le donne la tale è bellissima, e alcuna con, oltra, come il Boccaccio: Fiorenza oltra ogni città bellissima, e talvolta, senza modo, o fuori di misura, come si truova spesse volte nel Boccaccio, il quale disse ancora: E per virtù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo. E come Cicerone mostrò che il comparativo posto dopo il superlativo era di maggior forza, dicendo: Scito, te mihi esse carissimum, sed multo fore cariorem, così disse il Boccaccio a quel ragguaglio: Pietro lietissimo, e l'Agnolella più. È ben proprio de' Toscani porre dopo il superlativo un positivo, come usa assaissime volte il Boccaccio, dicendo: bellissima, e vaga, santissima, e buona, e altri tali senza novero: e quello che i Latini non dicono, o radissime volte, disse il Boccaccio: E oltra ciò sii ottimo parlatore. E tuttoché ora non mi sovvengano esempi d'autori approvati, nondimeno s'usa oggi di dire alla guisa de' Greci, e de' Latini: Il tale è dottissimo di tutti gli eloquenti, e eloquentissimo di tutti i dotti.
C. Voi usaste di sopra il superlativo, ponendogli innanzi l'avverbio molto, e io intesi ieri già ch'avendo voi scritto: Al molto Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signor Duca, ne fuste ripreso, e molti si fecero beffe de' fatti vostri; fu egli vero?
V. Verissimo.
C. Avevano ragione, o torto?
V. Questo è un dimandar l'oste se egli ha buon vino. Volete voi che io faccia come i giudici di Padova, i quali per parer savj davano contra se stessi?
C. Egli ve ne fu ancora uno il quale, udite ambe le parti separatamente, e parendogli che ciascuna di loro avesse ragione, tenendosi beffato da loro, diceva sgridandogli: "Levatemivi dinanzi, perché avete ragione tutti e due, e volete le beffe di me"; sicché dichiaratevi.
V. Quella locuzione non solamente è assai buona, ma eziandio molto ottima, cioè ottimissima, come si dice alcuna volta, perché non solamente i Greci, e i Latini spessissime volte l'usavano, per l'esempio de' quali non sarebbe disdetto l'usarla a noi, ma Giovanni Villani, e tutti gli altri Toscani antichi ne sono pieni, come vi posso mostrare in una lettera scritta in quei tempi da me a questo effetto, e però di questo non dirò altro. Dirò bene che i Toscani, in vece del superlativo, si servono molte volte a guisa degli Ebrei, i quali mancano de' superlativi, come fanno ancora i Franzesi, del positivo raddoppiato, dicendo: il tale è dotto dotto, cioè dottissimo, va tosto tosto, o pian piano, cioè tostissimo, o pianissimamente; benché i Franzesi, come alcuna volta i Greci, come si vede nel soprannome Trimegisto, triplicano, cioè pongono, l'avverbio tre volte, dicendo in vece di dire, al grandissimo, al tre volte grande. Si scontrano ancora i Toscani cogli Ebrei in questo, che non hanno seguendo la natura, più che due generi, cioè quello del maschio, e quello della femmina, dove così i Greci, come i Latini hanno ancora il neutro, cioè un genere il quale non è né maschio, né femmina.
C. Come, non avete voi 'l neutro? Non dite voi, che è quello, cioè che cosa è quella; e tieni a mente quello che io ti dico, cioè questa cosa, e altri somiglianti?
V. Abbiamogli; ma basta, che gli articoli nostri non sono se non masculini, e femminini, dove i Greci hanno ancora il neutro; e i Latini, perché mancano d'articolo, si servono in quella vece del pronome dimostrativo hoc, diverso da hic masculino, e da haec femminino, come _& Greco da , e da _. Manca ancora la lingua nostra de' supini, come fanno i Greci, e gli Ebrei, ma si serve in quello scambio, come essi fanno, degl'infiniti, perché dove i Latini dicono eo emptum, i Toscani dicono, come i Greci, e gli Ebrei, io vo a comperare; e così di tutti gli altri.
C. Cotesti sono i supini in um, che significano azione; ma che dite voi di quelli che finiscono in u, i quali significano passione?
V. Il medesimo; perché quello che i Latini dicono, mirabile visu, o difficile dictu, i Toscani dicono maraviglioso a vedere, o malagevole a dirsi, o come disse il Boccaccio, gravi a comportare.
C. Dove, o perché, avete voi lasciato i gerundj?
V. I Greci, e gli Ebrei non hanno gerundj, e i Toscani n'hanno solamente uno, cioè quello che finisce nella sillaba do, del quale si servono molto più, e più leggiadramente, che non fanno i Latini del loro, perché non solo l'usano in voce attiva, e passiva, e colla preposizione in, e senza, come i Latini, ma ancora in questa guisa: egli mi mandò dicendo, colui lo mandò pregando, ovvero minacciando, e in altri cotali leggiadrissimi modi: e di più se ne servono in luogo del participio attivo, o neutro del tempo presente, o preterito imperfetto, come: egli lo trovò dormendo, cioè mentre che dormiva: io mi feci male ruzzando, cioè mentre scherzava, e altri infiniti.
C. E del gerundio in dum come fanno?
V. Servonsi in quello scambio del verbo, perché dove i Latini, e i Greci ancora, ma avverbialmente, dicono legendum est, o eundum est, i Volgari dicono: s'ha a leggere, o andare, e quello che i Latini dicono, eo ad cælignandum, i Toscani dicono, come i Greci, io vo a cenare. Usa ancora la lingua Italiana concordare il numero singulare col numero plurale, come fanno gli Ebrei, e i Greci ancora, e massimamente gli Ateniesi, all'idioma de' quali è simigliante la lingua nostra, come la Latina all'Eolica.
C. Gli Ateniesi, per quanto mi par ricordare, fanno ciò solamente ne' nomi neutri, e voi non avendo nomi neutri, non so come possiate far questo a imitazione degli Ateniesi.
V. Quello che voi dite, è vero negli oratori, ma i poeti l'usano ancora ne' nomi che neutri non sono. In qualunche modo, a noi non dà noja, perché il Boccaccio disse: Già è molti anni (forse seguendo Dante) in luogo di sono; e parmi mille anni, e le parve mille anni; e il Petrarca disse: Per bene star si scende molte miglia. E in Firenze si dice a ogn'ora: e' non è ancora venti ore, in luogo di sono.
C. Io aveva sentito biasimare cotesti luoghi, come scorretti, o barbari, perché non s'usavano nella lingua Latina; come quell'altro che voi usate più che sovente, dimandando ad alcuno: volete voi nulla? Perché proferendogli niente, pare che lo beffiate; onde nacque il Sonetto di Messer Niccolò Franco, che comincia: Tu mi dimandi sempre s'io vo' nulla, Come desideroso di dar nulla. Sia per sempre risposto: Io non vo' nulla; Che non mi manca, grazia di Dio, nulla. e tutto quello che segue.
V. Sappiate, che nulla nel volgar Fiorentino vuol dire alcuna volta qual cosa, perché due negazioni appresso noi non affermano, come appresso i Latini, ma niegano, come appresso i Greci, e gli Ebraici; e tanto è a dire in Fiorentino: e' non v'è nessuno, quanto: e' non v'è alcuno, ovvero persona.
C. Io per me non direi mai a uno datemi nulla, quando volessi da lui qualche cosa.
V. Né io; perché non istarebbe bene.
C. Se nulla significa qual cosa, come voi dite, perché non istà bene?
V. Io non dico che nulla voglia significare semplicemente qual cosa, ma alcuna volta; come chi dimanda, hai tu nulla? o evvi nulla? vuol dire, hai tu, o evvi qual cosa? E in tal caso il dimandato può rispondere, non avendo, o non vi essendo niente, nulla, o nonnulla, come più gli pare. E quando il Petrarca disse: Che ben può nulla, chi non può morire; poteva dire può nonnulla, o non può nulla; e quando disse: Nulla è al mondo, in ch'uom saggio si fide; poteva dire nulla non è al mondo: e sappiate, che Fiorentinamente non si direbbe con una negativa sola: io ne farò nulla, ma con due: io non ne farò nulla: e io non ho a far nulla, cioè cosa del mondo, con esso teco. E se alcuno volendo significare d'essere scioperato, dicesse: io ho che far nulla, in luogo di dire: io non ho che far nulla, o veramente, covelle, sarebbe in Firenze o non inteso, o uccellato.
C. E da chi s'hanno a imparare cosi minute, e sottili differenze, e nondimeno necessarie?
V. Da' legnajuoli, se non volete da' setajuoli, o lanajuoli di Firenze; e vi sono di quelle che niuno può insegnarle, se non un lungo uso, e una continua pratica, perché o non vi sono regole, o non vi si sono trovate ancora.
C. Ditene uno esempio.
V. Perché si scrive il numero plurale di questo nome, cieco, aspirato, cioè colla lettera h, e il plurale di questo nome Greco, si scrive tenue, cioè senza aspirazione?
C. Io per me non so, se si debba profferire Greci senza aspirazione, o veramente Grechi con ella.
V. Greci senza essa.
C. Per qual ragione?
V. Perché in Firenze è una via, la quale si chiama da tutti il Borgo de' Greci senza h, non de' Greci coll'h.
C. E non avete alcuna ragione migliore di cotesta?
V. Nessuna altra, non che migliore, ma sappiate che niuna può essere migliore di questa.
C. O perché?
V. Perché le lingue consistono (come s'è detto) nell'uso di chi le favella.
C. O se in Firenze si cominciasse a dire il contrario, non Greci, ma Grechi, come anderebbe la bisogna?
V. Arebbesi a dir Grechi, e non Greci, e massimamente nel favellare, che nello scrivere sarebbe per avventura un'altra faccenda, e spezialmente se ne' libri antichi si trovasse cotal nome scritto senza la lettera h, onde si potesse manifestamente conoscere il favellare di quei tempi averlo pronunziato senza aspirazione.
C. E se i Lucchesi, e i Pisani, e alcune altre città pronunziassero Grechi, e non Greci, a chi sarebbe a credere, o a' Fiorentini soli, o a tante altre città così di Toscana, come fuori?
V. A' Fiorentini; presupposto esser vero quello che niuno niega, cioè, la lingua Fiorentina esser più bella di tutte l'altre Italiane.
C. E perché questo?
V. Perché in ogni genere debbe essere, secondoché ne insegna Aristotile, una cosa prima, e più degna, la quale sia la misura, e 'l paragone di tutte le cose che sono sotto quel genere: ora, se tutti s'accordano che il volgar Fiorentino sia più degno, e più regolato di tutti gli altri, certa cosa, che a lui si debbe ricorrere. E come si potrebbe, o donde aver mai, oltra infinite altre cose, se egli si debbe profferire, e per conseguenza scrivere, Monaci, o Monachi, Cherici, o Cherichi, Canonici, o Canonichi, e altri mille, se non si ricorresse alla pronunzia Fiorentina? Ognuno pronunzia nel numero del meno: io odo, tu odi, e in quello del più, noi udimo, ovvero, udiamo, voi udite; ma ognuno non sa perché l'o si muti in u; similmente, ciascuno pronunzia nel singulare: io esco, tu esci, e nel plurale, noi uscimo, ovvero, usciamo, voi uscite, ma non ciascuno sa la cagione perché ciò si faccia, e perché nella terza non si dice: udono, ma odono, e non uscono, ma escono. Buono, quando è positivo, si scrive per u liquida innanzi l'o; ma quando è superlativo, non si può, e non si dee né profferire, né scrivere buonissimo, come fanno molti forestieri, ma bisogna per forza scrivere, e pronunziare bonissimo senza la u liquida. Restanci solamente gli affissi, i quali non ha né la lingua Greca, né la Latina, ma sì l'Ebraica, ma (per quanto posso giudicare io) non sì compiutamente, né tanto leggiadramente, come noi. Ma perché la materia degli affissi, quanto è bella, e necessaria a sapersi, tanto è lunga, e malagevole a insegnarsi, fia bene lasciarla andare; e tanto più, che ella a chi insegna le lingue, e non a chi tratta delle lingue, s'appartiene; onde conchiudendo dico che la lingua Volgare sebbene ha di molti vocaboli, e di molte locuzioni d'altri idiomi, è però composta principalmente della lingua Latina, e secondariamente della Provenzale.
C. Voi m'avete innamorato (come si dice), e poi vene volete andare; io non l'intendo così.
V. A voi sta il proporre; dimandate di quello che più vi aggrada, e io vi risponderò.
C. Che cosa sono affissi?
V. Affissi si chiamano certe particelle, le quali s'affigono, cioè si congiungono nel fine delle dizioni in guisa che della dizione, e di loro si fa una parola sola sotto uno accento medesimo, come dammi, cioè dà a me, dillomi, o dilmi, cioè dillo a me, darotelo, o darolloti, o darolti per sincopa, cioè te lo darò, o lo ti darò, e più volgarmente, lo darò a te; e altri di cotale maniera.
C. Quanti sono questi affissi, ovvero quelle particelle che si chiamano, o che producono gli affissi?
V. Diciotto appunto.
C. Quali sono?
V. Mo, ma; to, ta; so, sa; la, le; li, lo; il, le, mi, ti, si, vi, ci, ne.
C. Come si dividono queste diciotto particelle, che noi chiameremo per più brevità, e agevolezza affissi?
V. In due parti principalmente, perché alcune d'esse s'affigono solamente a' nomi, e alcune solamente a' verbi.
C. Quante, e quali sono quelle che s'affigono solamente a' nomi?
V. Le prime sei, le quali si possono chiamare pronomi possessivi, cioè mo, ma; to, ta; so, sa; che in somma non voglion dire altro che mio, mia; tuo, tua; suo, sua.
C. In che modo s'affigono elleno?
V. Dicesi, Fratelmo, in vece di dire fratel mio: Sirocchiama, o Mogliema, in luogo di sirocchia mia, o moglie mia: Fratelto, e Figliuolto, in iscambio di fratel tuo, e figliuolo tuo: Sirocchiata, per sirocchia tua, Signorto, signor tuo, e Signorso, che disse Dante, cioè signor suo: Ziesa, che vale sua zia.
C. Direbbesi, a questo ragguaglio, sorellama, o sorellata?
V. Se la proporzione valesse, sì; ma io v'ho detto di sopra che l'analogia vale quanto ella può, e non più, e brevemente è nata dall'uso, e l'uso è il padre e il maestro, e il padrone delle lingue; e perché in Firenze non si dice nel favellare, e gli Scrittori non hanno detto, che sappia io, né sorellama, né sorellata, l'analogia non ha tanta forza, che ella possa senza l'uso introdurre simili vocaboli.
C. Truovansene più di cotesti otto?
V. A mala pena si truovano questi, perché l'ultimo non è di città, ma di contado; è ben vero che in alcuni luoghi d'Italia si dice matrema, e forse patremo, e altri così fatti, i quali non essendo Fiorentini, e per lo più parlare di volgo, non vi conforterei a usargli.
C. Quanti, e quali sono quelli che s'affigono solamente a' verbi?
V. Tutti gli altri dodici, i quali divideremo in due parti, ne' primi sei, cioè la, le, li, lo, il, le un'altra volta, i quali chiameremo pronomi relativi; e ne' secondi sei, cioè mi, ti, si, ci, vi, ne, i quali chiameremo pronomi primitivi.
C. I primi sei pajono piuttosto articoli, che pronomi.
V. È vero, e così sono chiamati da alcuni, perché anco appresso i Greci gli articoli prepositivi si pongono per li pospositivi; ma questo non importa; basta che noi c'intendiamo.
C. Dichiaratemi i primi sei o pronomi, o articoli, o prepositivi, o pospositivi che chiamare si debbiano a uno a uno.
V. La prima cosa, voi dovete sapere che questa particella la si trova, come tutte l'altre undici, posta in due modi, o innanzi al verbo, come io la vidi, o dopo il verbo, come vidila, cioè vidi lei. Nel primo modo non si possono chiamare veramente affissi, come quelli del secondo, ma impropriamente; ora io vi dirò che questo affisso la, o articolo, o pronome che lo vogliate chiamare, o innanzi, o dopo il verbo che egli sia, mai non si truova se non nel genere femminino significante o lei, o quella, secondo la cosa che egli referisce, e nel numero singulare, e nell'accusativo, come la vidi, o vidila, cioè vidi lei, o quella cosa che va innanzi, ed è riferita da lui; onde il Petrarca, parlando di Madonna Laura, disse: Poi la rividi in altro abito sola, Tal ch'io non la conobbi, ec. E il medesimo Petrarca nella medesima Canzone grande: E se quì la memoria non m'aita, Come suol fare, scusinla i martiri. E altrove: Della tua mente amor, che prima aprilla. La seconda particella le, è anch'ella sempre di genere femminile, ma si truova così nel numero del più, come in quello del meno; in quello del meno non si truova in altro caso che nel dativo, o innanzi al verbo, o dopo il verbo, che ella si trovi; come io le diedi, ovvero, diedile; cioè diedi a lei, o veramente a quella cosa che è ita innanzi. Il Petrarca: Anzi le dissi' l ver pien di paura. Il medesimo: E un pensier che solo angoscia dalle. Dove 'l primo le significa a lei, ed è preposto al verbo, e riferisce Madonna Laura; e il secondo, posposto al verbo, significa dà a lei, e referisce la mente del Petrarca. Ma nel numero del più non si truova se non nell'accusativo, o innanzi, o dopo il verbo, che ella sia; come io le vidi, o veramente, vidile, intendendo di donne, o d'altre cose che precedono; onde il Boccaccio: Pirro, ec. cominciò a gittar giù delle pere, e mentre le gittava. E il Petrarca: Alle lagrime triste allargai 'l freno, E lasciale cader come a lor parve. E Dante nel dodicesimo dell'Inferno: Laonde morte prima dipartille, cioè dipartì quelle. La terra particella li, o piuttosto gli, non si truova se non nel genere del maschio, così nel numero picciolo, come nel grande; nel numero picciolo non si trova se non nel dativo, o innanzi il verbo, o dopo, come gli diede, o diedegli, cioè diede a lui. Petrarca: Però al mio parer non gli fu onore. E altrove: Cotanto l'esser vinto gli dispiacque. Nel numero grande non si truova se non nell'accusativo, come gli vidi, o vidigli. Petrarca: Poi ch'io gli vidi in prima.
C. E' mi par pur ricordare d'aver letto, non che sentito favellare, un modo così fatto: io gli mostrai, o mostragli, in vece di mostrai loro.
V. Cotesto è fuori della lingua; e quando Dante disse: E mentre che di là per me si stette, Io gli sovvenni, ec. Quello gli, che significa i Cristiani, è accusativo, sebben pare che sia dativo, e ancora, quanto alla grammatica, potrebbe essere. La quarta particella lo è sempre di genere maschile, e non si truova nel numero maggiore, ma sempre nel minore, e quasi sempre nell'accusativo; come: io lo vidi, o vidilo, cioè vidi lui, o quello. Petrarca: Pigro da se, ma 'l gran piacer lo sprona. E altrove: Sasselo Amor, con cui spesso ne parlo. E Dante: E dolcemente sì, che parli, accolo, cioè accogli lui, come bene fu dichiarato dal Reverendissimo Bembo, e prima da Benvenuto da Imola sopra Dante, in quello stesso luogo. Ho detto, quasi sempre, perché si ritruova alcuna volta ancora nel dativo, come quando il Boccaccio disse: D'ogni quantità che il Saladino il richiese, lo servì, e il Saladino poi interamente lo soddisfece. Nonostanteché alcuni vogliano che ancora in questo luogo lo sia non dativo, ma quarto caso. La quinta particella il non si truova se non nel genere del maschio, nel numero del meno, e nell'accusativo: e quasi sempre preposta al verbo. Il Petrarca: Cieco non già, ma faretrato il veggo. E altrove: Amor per sua natura il fa restio. E quando la lettera, la quale precede il, è vocale, in tal caso si leva la vocale i, e vi si pone in quella vece l'apostrofo di sopra. Petrarca: S'io 'l dissi mai, ec. Ho detto preposta al verbo quasi sempre, e non assolutamente, perché alcuni vogliono che si possa ancora posporre, come: dissil? cioè dissilo io; ma in cotale esempio si può dire che vi sia piuttosto la particella lo priva della sua vocale, che la il, levata la i. Della sesta, e ultima particela de' sei articoli, ovvero pronomi relativi, la quale è posta anco nel secondo luogo, favelleremo, parlato che arò delle sei particelle ultime, cioè mi, ti, si, vi, ci, ne, le quali sono, siccome i pronomi, donde elle dirivano, d'amendue i generi, cioè del maschio, e della femmina, secondo la persona che favella, o preposte, o posposte che siano al verbo. Dico pertanto che la mi non si truova se non nel numero singulare, come anco la ti, sua compagna; e solamente in due casi nel dativo, e nell'accusativo; nel dativo significa a me, come mi diede, o diedemi. Il Petrarca: Né mi vale spronarlo, o dargli volta. E altrove: Piovommi amare lagrime dal viso. in luogo di piovonomi, cioè piovono a me; onde alcuni lo scrivono colla lettera n, e alcuni con due m, come ancora sommi accorto, cioè mi sono accorto, nel singulare, e: Sommi i begli occhi vostri Euterpe, e Clio, nel plurale, cioè, sono a me; il che si scrive medesimamente da alcuni per n, e da alcuni per due m. Ove è da notare, che il mi in sommi accorto, sebben'è affisso, cioè congiunto col verbo, non perciò è né dativo, né accusativo, né altro caso, onde non significa né a me, né me, ma è posto dopo il verbo quello che ordinariamente si suol porre dinanzi, perché tanto è a dire sommi accorto, quanto io mi sono accorto, tempo preterito perfetto del verbo io m'accorgo: la qual cosa non si può bene intendere da chi non sa che i verbi nella lingua Italiana si diclinano semplicemente, cioè senza avere alcuna particella dinanzi a loro, come io leggo, io scrivo, e alcuni hanno necessariamente innanzi a se nella prima persona del singulare mi, nella seconda ti, e nella terza si; come io mi dolgo, tu ti duoli, colui si duole; e questi hanno necessariamente nel plurale nella prima persona ci, nella seconda vi, e nella terza si; come noi ci lagnamo, voi vi lagnate, e coloro si lagnano; e ciascuna di queste come si pongono ordinariamente innanzi a' verbi, così, quando ad altri piace, si possono porre dopo, come dolgomi, duolti, per sincopa da duoliti, e duolsi, lagnamoci, lagnatevi, lagnansi; le quali cinque particelle colla ne della quale si favellerà poco appresso, poste in cotali modi, sebbene sono affisse a' verbi, e vanno sotto un medesimo accento, non sono però d'alcun caso, né significano persona nessuna, onde non si possono chiamare veramente affissi. Alcuni altri verbi sono in quel mezzo, cioè possono avere, e non avere la particella mi, secondoché a colui che favella, o che scrive, torna meglio; perciocché tanto viene a dire io vivo, quanto io mi vivo, o veramente vivomi, sebbene questo ultimo ha una certa maggiore non so se forza, o vaghezza; onde Petrarca disse: Vorremi a miglior tempo essere accorto, poteva anco dire, quanto al modo del favellare, ma non già quanto alla leggiadria: Vorrei a miglior tempo essermi accorto. E così quando disse: Vivrommi un tempo omai, che al viver mio, poteva dire vivrò, o mi vivrò; e quando il Bembo scrisse: Morrommi, e tu dirai, mia fine udita, scrivendo a Messer Bernardo Capello, poteva dire, quanto alla grammatica, mi morrò, o io morrò, ma non già quanto alla grazia. Voglio inferire che cotali particelle in cotali modi poste non sono veramente affissi, e se pur sono non sono casi, né significano persone, onde non mai, o radissime volte, si pone loro dinanzi il pronome significante la persona che favella; perché si dice: Stavami un giorno solo alla finestra, e non io stavami, come si dice io stava, e io mi stava; come il Petrarca: Io mi vivea di mia sorte contento: e quando pure porre vi si dovesse, piuttosto si direbbe stavami io, che io stavami; onde il Petrarca: Qual mi feci io, quando primier m'accorsi, e non qual fecimi io. Ma per tornare donde partii, mi significa alcuna volta me, nel quarto caso, come mi tenne, o tennemi. Dante: Fecemi la divina potestate, cioè fece me; e il Petrarca: . . . . . Fecemi, oimè lasso, D'uom, quasi vivo, sbigottito sasso. E il medesimo: Gittàmi stanco sopra l'erba un giorno: cioè gittai me, benché in questo luogo sarà per avventura migliore sposizione mi gittai; perché nel significato, nel quale lo piglia quì il Petrarca, non si dice io getto, ma io mi getto, e così non sarebbe affisso, e se pur fosse, sarebbe di quelli senza caso, o persona; ma questo poco importa. Quello che voi avete a notare è, che ogni volta che il mi è veramente affisso, cioè congiunto dietro al verbo, e va sotto un medesimo accento con esso lui, i poeti mutano, quando bene loro torna, la vocale i in e, e dicono non parmi, ma parme; non valmi, ma valme, e così degli altri, come si può vedere in quel sonetto: L'aura serena che fra verdi fronde Mormorando a ferir nel volto viemme, Fammi risovvenir quando, Amor diemme ec. E altrove: Che scrivendo d'altrui, di me non calme, cioè non mi cale, o non cale a me. Avete ancora da notare, che come n'avvertisce il Reverendissimo Bembo, egli non si può alcuna volta usare gli affissi, ancoraché altri volesse, ma è necessario che si pongano i pronomi interi, e co' loro accenti proprj; e ciò avviene ogni volta che egli si debbe rispondere segnatamente ad alcuno pronome o precedente, o sussequente, come quando il Petrarca disse: Ferir me di saetta in quello stato, E a voi armata non mostrar pur l'arco; dove non poteva dire ferirmi affissamente, e con uno accento solo, per cagione di quel pronome a voi, a cui rispondere si doveva; similmente quando disse: Gli occhi, e la fronte, con sembiante umano Baciolle sì, che rallegrò ciascuna, Me empié d'invidia l'atto dolce, e strano, non poteva dire coll'affisso mi empié, o empiemmi, come manifestamente si conosce. La particella ti non è differente in cosa nessuna dalla mi, perché così si dice ti die, o diedeti, come ti fece, o feceti, cioè diede a te, o fece te, salvo che la ti da' poeti antichi non si trova mutata in te, come la mi in me, perché non si dice consolarte, e confortarte, come consolarme, e confortarme; ho detto negli antichi, perché ne' moderni si truova altramente; e il Bembo stesso, che dà questa regola, e si maravi- glia che concedendosi il dire onorarme, non si conceda per l'analogia dire onorarte, nonostante che l'affermi per buona, usò nondimeno il contrario; quando nel Madrigale che comincia: Che ti val saettarmi, s'io già fore, disse: Amor ferendo in guisa a parte a parte, Che loco a nuova piaga non può darte: e nel vero darte, dirte, farte, e gli altri tali hanno un non so che, se non più leggiadro, meno volgare; e usando cotale locuzione il Bembo, che fu sì mondo, e schifo poeta, non so chi debba o peritarsi, o sdegnarsi d'usarla. La particella si, oltra l'altre molte, e diverse significazioni sue, si piglia nel proponimento nostro, cioè quando è congiunta a' verbi, in quattro modi: perché alcuna volta non opera cosa nessuna, ed è non altramenteché se ella non vi fosse, come chi dimandasse alcuno: che fa il tale? e colui gli rispondesse, vivesi; che tanto è, quanto vive, perché il verbo vivo è uno di quelli, il quale può mancare della particella mi, dicendosi nel medesimo significato appunto, io vivo, e io mi vivo; alcuna volta dimostra, quel verbo esser tale che non può stare senza essa, come: che fa il tale? Stassi, cioè si sta; che in questo caso non basterebbe dire sta semplicemente; alcuna volta dà a divedere, il verbo essere passivo, e ciò tanto nel numero del meno, quanto in quello del più, come: il cielo si muove, ovvero muovesi: e le virtù si lodano, ovvero lodansi; è ben vero che nel numero singulare la si diventa talvolta appresso i Poeti se, ma non già nel plurale. Il Petrarca: De qua' duo' tal romor nel mondo fasse: in vece di fassi. Alcuna volta significa il verbo essere impersonale, come a chi dimandasse, che si fa? si rispondesse, godesi, cantasi, e altri tali; gli esempj sono tanto spessi, così appo i prosatori, come i rimatori, che non occorre allegarne; oltraché la si in nessuno di questi quattro modi è veramente affisso, perché non riferisce né casi, né persone; ma quando questa si riferisce il pronome se, il quale pronome non ha nominativo, allora è veramente affisso, come chi dicesse: se il tale si dà, o dassi a credere d'essere amato; cioè dà a credere a se; o veramente: il tale si loda, o lodasi, cioè loda se; e nel numero del più: coloro s'attribuiscono, o attribuisconsi più del dovere, cioè attribuiscono a se medesimi; il che si dice ancora a loro stessi. Noterete ancora che i poeti ogni volta che torni bene alla rima, mutano la si in se, e dicono in luogo di celebrarsi, celebrarse. Il Petrarca: E per farne vendetta, o per celarse. Il medesimo: Che nostra vista in lui non può fermarse. E questo si dee intendere sempre nel numero del meno, e non mai in quello del più, il quale finisce sempre (come s'è detto) in i. Il Petrarca ne' Trionfi: Non con altro romor di petto dansi Duo' leon feri, o due folgori ardenti, Ch'a cielo, e terra, e mar dar luogo farsi. cioè si fanno, o fanno a se, o a loro; né vi maravigliate che io vada così minutamente, e particolarmente distendendomi, perché la materia degli affissi (come vi dissi nel principio) è non meno utile, che difficile. E, per tacere degli altri minori, Messer Jacopo Sanazzaro, uomo di tanto ingegno, dottrina, e giudizio, si lasciò alcuna vol- ta o sforzato dalle rime sdrucciole, le quali nel vero sono malagevolissime, o per altra cagione, trasportare troppo nella sua Arcadia, e quando trall'altre disse una volta: Due tortorelle vidi il nido farnosi, non so vedere in che modo egli cotale affisso si componesse; e più per discrezione intendo quello che significar voglia, che per regola. Ma tornando al ragionar nostro, restanti queste due particelle ci, e vi, le quali sono del numero del più, e si pongono così per lo dativo, come per l'accusativo, e non hanno tra loro altra differenza, se non che ci, più de' prosatori, che de' poeti, è prima persona, e significa o a noi nel terzo caso, o noi nel quarto; e vi è seconda, e significa o a voi, o voi. Il Petrarca: Con lei fuss'io da che si parte il Sole, E non ci vedesse altri che le stelle. E il Boccaccio disse: Egli non sarà alcuno che veggendoci, non ci faccia luogo, e lascici andare. Nelle quali parole il primo, e l'ultimo ci significano noi, e il ci del mezzo a noi; e bisogna che voi guardiate a non iscambiare, come hanno fatto molti, perché ci significa alcuna volta quì, come là: Quì dove mezzo son, Sennuccio mio, Così ci fussi io intero, e voi contento. E alcuna volta dimostra, il verbo a cui ella è posta innanzi, essere di quelli che si diclinano con la mi innanzi, come quando il Boccaccio disse: Noi ci siamo avveduti ch'ella ogni dì tiene la cotale maniera; perché non si dice mai, io avveggo senza mi, ma sempre io m'avveggo, con essa. Vi, quando è terzo caso, e' significa a voi. Dante: E io vi giuro, se di sopra vada. Quando è quarto, e' significa voi. Il medesimo: Tra color non vogliate ch'io vi guidi; E il Petrarca: Certo, se vi rimembra di Narcisso. Il medesimo: Nel bel viso di quella che v'ha morti. Ma bisogna che avvertiate, perciocché alcuna volta vi è avverbio, e significa quivi. Petrarca: Nessun vi riconobbi, ec. E alcuna volta a luogo. Il medesimo: Ch'io v'aggiugneva col pensiero a pena. Ne' quai luoghi vi non è propriamente affisso, non significando né casi, né persone; onde sebbene si dice starvi, e andarvi, cioè in quello, e a quel luogo, non però si direbbe starve, o andarve, se non molto licenziosamente, come si potrebbe dire, se fossero veri affissi, per quello esempio del Petrarca: Donne mie, lungo fora a raccontarve. Né vi prenda maraviglia, se troverete qualche volta alcuna di queste monosillabe (per così chiamarle), la quale vi paja stare oziosamente, e di soverchio, perciocché la proprietà del parlare Fiorentino porta così; e se elleno, quanto al sentimento appartiene, non operano alcuna cosa, operano nondimeno quanto alla vaghezza, e alla leggiadria. Restaci la particella ne, la quale molte, e mol- to diverse cose significa, e di cui, chi bene servire, e valere se ne sa, può grandemente arricchirne, e illustrarne i componimenti suoi così di verso, come di prosa; onde a me non parrà fatica l'aprirvela, e quasi snocciolarlavi più brevemente che saperrò; e tanto più che il Castelvetro, per lo non intendere, secondoché io stimo, la proprietà di lei, la quale egli chiama vicenome disaccentato, né so io perché, conciossiaché niuna sillaba, non che dizione, possa trovarsi, né profferirsi senza accento, sebbene non tuttavia le si segna di sopra, non solo riprende il Caro due volte a carte 46. e 47. di quello in che egli merita loda, non riprensione, ma ancora se ne fa beffe, dicendo che per guardare, e riguardare fissamente ch'uomo faccia, non troverrà mai altra gravidezza di sentimento nella particella ne, che quello che ha dato egli: e lo vuole di più mostrare fagnone, soggiugnendo: Quantunque il Caro faccia vista di credere altramente; le quali cose quanto siano false da quelle che io dirò, potrete chiaramente comprendere. Avete dunque a sapere che questa particella, o monosillaba ne, si pronunzia, e si scrive alcuna volta coll'e aperto, e dicesi né, e alcuna volta coll'e chiuso, e dicesi ne; quando ella si scrive, e pronunzia coll'e aperto, ella è avverbio di negazione, e significa propriamente quello che i Latini dicevano nec, ovvero neque, donde si vede che ella è cavata, cioè non, o veramente e non. Il Petrarca: Né mi vale spronarlo, o dargli volta. E alcuna volta si raddoppia né più né meno, come facevano i Latini la nec, o la neque, e ciò così ne' nomi; Petrarca: Non ebbe tanto né vigor, né spazio. e altrove: Né per volger di ciel, né di pianeta. come ne' verbi; il medesimo: Né sa star sol, né gire ov'altri il chiama. E altrove: Lagrima ancor non mi bagnava il petto, Né rompea 'l sonno ec. E talvolta pur coll'esempio de' Latini si replica più fiate, come si può vedere nel Sonetto: Orso, e' non furon mai fiumi, né stagni. E ha questa particella né sì gran forza di negare, che posta in una medesima clausula, quelle parole che per se medesime affermerebbero, niegano per vigore di lei, come quando il Boccaccio disse: Nel quale mai né amore, né pietà poterono entrare. Dove mai, che per se stesso ordinariamente afferma, per vigore della particella né niega: come ancora in quell'altro luogo, favellando della dolcezza, e amorevolezza di voi altri Signori Bolognesi: Mai di lagrime, né di sospiri fosti vaga. E più chiaramente quando disse: E comandolle che più parole, né romor facesse. E ancora: Acciocché egli senza erede, né essi senza Signor rimanessero. E quando la parola che seguita, comincia da lettera vocale, le si aggiugne dopo la consonante d, secondo l'uso della nostra lingua, per ischifare il cattivo suono. Il Petrarca: Ned ella a me per tutto 'l suo disdegno. Alcuna volta né non è avverbio che nieghi, ma una di quelle congiunzioni che i Latini chiamavano disgiuntive, o piuttosto sottodisgiuntive, come aut, vel, e sive, cioè o, ovvero, o veramente. Il Petrarca: Primach'io truovi in ciò pace, né tregua. E altrove: Se gli occhi suoi ti fur dolci, né cari. E altrove: Onde quanto di lei parlai, né scrissi. Significa eziandio posta dinanzi alla congiunzione ancora quello che i Latini dicevano ne quidem, come: io non ti crederei mai, né ancora se tu giurassi: numquam tibi crederem, ne si jurares quidem. Usasi spesso nel parlare cotidiano posta avanti alla parola vero per avverbio che dimandi, in cotal guisa: Dante è un grave, e dotto Poeta, ne' vero? cioè, non è egli vero tutto quello che io dico di Dante? E in niuna queste maniere la particella né non è, e non si può chiamare affisso; ma quando ella si scrive, o pronunzia coll'e chiuso, allora si può considerare in due modi, perciocché o si pone in luogo della preposizione in, o serve a' verbi. Quando si pone in luogo della preposizione in, la quale si serve così al quarto caso, come al sesto, bisogna sapere che ciò si fa perché dopo la in non può ordinariamente seguitare articolo nessuno; laonde sempreché non seguiti articolo, si dice in, e non altramente, come: in cielo, in terra, in mare, io spero in Dio, tu sei in città, colui si sta in villa e altri infiniti; ma quando seguita l'articolo, allora in vece della in si pone una di queste voci, nello, nel, o negli, ne i, o ne' nella, o nelle. Nello si scrive da alcuni per due l, e con uno accento solo, come se fosse una parola, e da alcuni con uno solamente, come se fossero due parole: particella ne, e lo articolo lo; e l'una, e l'altra scrittura credo si possa di- fendere, ma la prima, come più agevole, e più conforme alla pronunzia Fiorentina, mi piace più. Nello dunque, favellando nel numero singulare, si pone ogni volta che la voce la quale seguita, comincia o da alcuna delle lettere vocali, o dalla consonante s che abbia dopo se una, o più consonanti. Gli esempj vi sieno: nell'ordine, nello specchio, nello straordinario, e così, nello andare, nello stare, nello strascinare; ma quando la parola comincia da una delle consonanti, o pure da due di quelle, le quali non hanno innanzi la s, e mediante la r si liquefanno, come tra, e fra, allora non si dice nello intero, ma nel per abbreviamento, come: nel cielo, nel mare, nel trattato, e così, nel fare, nel framettersi ec. Ma nel numero del più, se la parola che seguita, comincia o da una vocale, o dalla s con una, o più consonanti (come s'è detto) allora non si dice nel, ma nelli con due l, o piuttosto negli colla g, che si scrivono, e pronunziano da alcuni come due parole, e da alcuni, come una; del che non mi par da far caso; come, negli antri, negli spazj, negli affari, negli stravolgimenti ec. Ma se la voce che seguita, comincia da una consonante sola, o anco da due, soloché siano di quelle che si liquefanno, allora si dice non nelli, o negli, ma o nei, chi con una voce, e chi con due, o ne' senza la i, la quale alcuni segnano di sopra coll'apostrofo, e alcuni no; ma perché necessariamente intendere vi si dee, a me par meglio di segnarla, come, ne i campi, o ne' campi, ne i ragionari, o ne' ragionari; e s'alcuna volta si truova come in Dante, negli passi, e altri così fatti, è ciò avvenuto, perché gli antichi ponevano alcuna volta lo articolo lo, non solamente quando seguitava alcuna vocale, o due consonanti, come lo amore, e lo spirito, ma eziandio semplicemente in luogo dell'il, nelle parole ancora di più d'una sillaba, come lo passo, onde conseguentemente dicevano nel plurale gli passi, come negli spiriti, e non ne' spiriti. Le quali cose sebbene da molti ancora di coloro che fanno professione della lingua, osservate non sono, non è che osservare non si debbiano da chi vuole correttamente, e regolatamente scrivere. Quando i nomi sono di genere femminino, allora nel singulare si dice in qualunche lettera cominci la dizione che seguita, nella, e nel plurale, nelle, le quali medesimamente si scrivono da alcuni, come una parola sola, con due l, e da alcuni come due, con una sola, siccome nelle città, ne le città, e così di tutti gli altri. Né d'intorno a questo mi resta altro che dirvi, se non che la ne si pone alcuna volta in vece della preposizione contra, come quando il Boccaccio disse: Avendo alcuno odio ne' Fiorentini; come si fa ancora la in, così in buona parte, cioè verso. Il Petrarca: In me movendo de' begli occhi i rai, come in rea, cioè contra. Il medesimo: Ajace in molti, e poi in se stesso forte.
C. Prima che procediate più oltre, non vi gravi dichiararmi alcuni dubbj; il primo de' quali è questo: voi avete detto che alcuni scrivono nello con due l, come se fosse una voce sola, e alcuni con una, come se fossero due voci; e che il primo, come più agevole, e più conforme alla pronunzia Fiorentina, vi piace più. Ora egli mi pare d'aver letto il contrario, cioè, che sia meglio scriverlo, come due dizioni, con una l sola; e alcuni vogliono, e danno ciò per regola, che nelle prose si debbia scrivere nello, come una dizione sola, e nelle rime ne lo, come due; come ancora dello, e de lo, allo, e a lo, e gli altri; e che queste particelle nel, e del si debbiano scrivere coll'apostrofo, cioè ne 'l, e de 'l, e così degli altri.
V. Il patto posto tra noi è ch'io vi dica liberamente l'oppenione mia, e di poi lasci giudicare, e risolvere a voi. Non voglio già mancare di dirvi quel proverbio parermi verissimo: Chi troppo s'assottiglia, si scavezza. E che ben facevano per mio giudizio i Pretori Romani, i quali delle cose menomissime non rendevano ragione. E in somma io per me vorrei, come disse dottamente, e giudiziosamente Messer Annibale, la briglia, non le pastoie, il digiuno, non la fame, l'osservanza, non la superstizione; il che io vi dico non tanto per rispondervi a quello di che dimandato m'avete, quanto per non vi rispondere a molte cose delle quali mi potreste per avventura dimandare, come è quella che pure colle parole di Messer Annibale m'è uscita di bocca, se si debbe scrivere non le pastoie, colla lettera n, o nolle pastoie, con due l; e così di tutte l'altre somiglianti, le quali o non caggiono sotto regola, o non vi sono ancora state fatte cadere; e anco sapete che tutte le regole patiscono eccezione. Ecco io v'ho detto che quando la parola che seguita, comincia da vocale, egli non si dice in, nel numero del meno, ma nello: se la voce è masculina, e nella, se femminina; e pure il Petrarca disse: Pommi'n Cielo, od in Terra, od in Abisso. In tutte le cose vale più che altro il giudizio, e la discrezione: io spero in Dio, sta benissimo: io spero in Dio del Cielo, no.
C. Avvertite che io intendo che il Castelvetro non vuole che si dica benissimo.
V. Diciamo dunque ben bene, o ottimamente, per non far quistione di sì piccola cosa.
C. Ditemi da vero, se benissimo è ben detto.
V. Non solamente bene, ma benissimo.
C. Perché?
V. Perché così si favella in Firenze, e perché così usano oggi tutti quelli che Fiorentinamente scrivono; sebbene il Boccaccio noll'usò egli. Ma, tornando al caso nostro, non è questa buona, e vera regola data dal Bembo, che a tutte le dizioni le quali cominciano dalla consonante s che abbia dopo sè alcuna, o più altre consonanti, si debbia porre dinanzi la vocale i ogni volta che la dizione precedente termina in consonante; com'il maggior Poeta: Non isperate mai veder lo cielo. e il più leggiadro: Per iscolpirlo immaginando in parte. E similmente ne i nomi non si dice in scrittura, che troppo sarebbe aspro cotal suono, ma in iscrittura; e nondimeno, non che gli altri, il Petrarca stesso usò molte volte altramente, come là: E se di lui forse altra donna spera, Vive in speranza debile e fallace. E quante volte disse non spero, in luogo di non ispero? Io v'ho detto ancora che quando seguita l'articolo, non si può dire in, ma è necessario dire nello, nella, e pur disse il Petrarca: Ma ben ti prego che 'n la terza spera Guitton saluti, Messer Cino, e Dante, Franceschin nostro, e tutta quella schiera. e altrove: Il dì sesto d'Aprile in l'ora prima.
C. Egli non vi debbe ricordare che il Bembo vostro la seconda volta che fece ristampare le sue Prose, che fu nel 1538 v'aggiunse cotesti due versi, e disse che eglino correttamente scritti non erano, perché il primo doveva dire: Ma ben ti prego nella terza spera. e il secondo: Il dì sesto d'Aprile all'ora prima.
V. Io me ne ricordo d'avanzo, e vi dico, che ne favellai col Bembo stesso, e gli allegai, oltra molti luoghi di Dante, infiniti esempj di tutti gli autori moderni non solamente Italiani, e Toscani, ma eziandio Fiorentini, come fra gli altri il Signor Luigi Alamanni, e Messer Lodovico Martelli. Al che egli con quella incomparabile sua benignità mi rispose che tutto sapeva, ma che aveva dato la regola generale vera, e buona, e lasciato l'eccezioni a discrezione de' leggitori, ancoraché cotale locuzione per patto nessuno non gli piacesse; del che fu certissimo argomento che egli, il quale nelle sue rime alcuna volta usata l'aveva, la levò; il che fu cagione che io, il quale posta l'aveva una fiata nelle mie, la rimossi, e rimutai. Né perciò voglio che crediate che io, quando bene mi tornasse, non l'usassi, dico quando ancora non si ritrovasse in Dante, o negli antichi scrittori tante volte, quanto ella vi si ritrova; perché, come io v'ho detto, e dirò più volte, l'uso è quello che tutto può, e tutto vale nelle lingue. E io non credo aver letto alcun rimatore moderno di qualunque nazione, il quale più volte cotal locuzione usato non abbia. Ma quali sono gli altri dubbi vostri?
C. Seguitate pur il ragionamento incominciato, che i miei dubbj per le cose che detto avete, parte sono sciolti, e parte non sono più dubbj, detto che voi m'arete due cose. La prima, se come negli antichi, e ne' moderni scrittori si truova in la dinanzi a' nomi, così si truova eziandio in lo davanti a' verbi, come in lo stare, in lo andare, in vece di nello stare, e di nello andare. La seconda, perché, se nella si dee scrivere (secondoché voi dite) con due l, come una dizione sola, Dante disse sì in altri luoghi, e sì nel ventesimo settimo canto del Purgatorio: Questo è diviso spirito che ne la Via d'andar su ne drizza senza prego.
V. Quanto alla prima delle vostre dimande, io non mi ricordo d'aver mai letto in approvato Autore in lo dinanzi al verbo, e però, sebbene l'analogia pare che lo conceda, io, infinoché alcuno di qualche fama in lo scrivere suo non l'usasse, non ardirei di porlo nelle mie scritture. Quanto alla seconda, o io v'ho detto, o io almeno ho voluto dirvi, che queste, come alcune altre minutezze, non essendo diterminate, sono indifferenti, cioè si possono nell'una guisa, e nell'altra, secondo che meglio torna, usare da chi scrive, e massimamente nelle rime, per cagione delle quali mutò Dante molte volte gli accenti, talché dove era prima l'acuto, si scriveva, e profferiva il grave, e quello ch'era prima grave, rimaneva acuto: Percoteansi insieme, e poscia pur lì. E altrove: Mossimi, e 'l Duca mio si mosse per lì. E più chiaramente nel XXX. canto del Paradiso: La cieca cupidigia, che v'ammàlia, cioè ammalìa, che i Latini dicevano fascinare; sebbene fascinare è proprio quello che noi diciamo far mal d'occhio. Ma queste nel vero si possono piuttosto chiamare licen- zie, che modi ordinarj di favellare, de' quali noi parliamo al presente.
C. Quello che diceva, o voleva dire io, mi pare che più consista nel levare una consonante, che in trasportare l'accento.
V. I poeti Toscani, e massimamente Dante, seguitando le figure così de' Greci, come de' Latini, levano talvolta non solo una sillaba delle dizioni, ma una consonante sola, come quando Dante disse: E venne serva la città di Baco, in vece di Bacco, e talvolta l'aggiugnevano. Il medesimo Dante: Ebber la fama, che volentier mirro, in vece di miro.
C. Il Vellutello spone in cotesto luogo mirrare dalla mirra, quasi volesse dire, imbalsimare, e conservare: e alcuni non solo approvano così ridicola interpretazione, ma si fanno beffe di Dante.
V. Lasciate fare, e dire a ognuno quello che vuole, e guardatevi voi di non creder loro.
C. Così farà, per quanto basteranno le mie forze; ma ripigliate il ragionamento vostro.
V. Quando la particella ne serve a i verbi, ella si pone alcuna volta davanti, e alcuna di dietro ad essi. Quando ella si pone davanti, ciò avviene in due modi, perché alcuna volta ella non significa, e non riferisce né persone, né casi; e alcuna volta riferisce, e significa così l'uno, come gli altri. Quando ella non riferisce né persone, né casi, ella si pone molte volte più per dar grazia, e ornamento alle scritture, e per un cotal modo di parlare, che per bisogno che elle n'abbiano, come quando il Petrarca disse: . . . . . . .Però n'andai Secur senza sospetto, onde i miei guai ec. E il Boccaccio parlando di Ser Ciappelletto, poiché fu morto, disse: Quello a guisa d'un corpo santo nella Chiesa maggiore ne portarono. E la cagione è, perché egli non si dice solamente io vo, tu vai, ma ancora, io ne vo, tu ne vai, e di più io me ne vo, tu te ne vai, onde poteva ancor dire, secondoché si legge in alcuni testi, m'andai, in vece di men'andai; e così si dice io vengo, io ne vengo, io me ne vengo, nel medesimo significato; onde nasce che quello che i Latini non posson dire nel modo imperativo, cioè nella maniera che comanda, se non con una parola, cioè veni, i Toscani possono dirlo con otto.
C. Questa mi pare una grande abbondanza, ma quali sono eglino?
V. Vieni, o vien, vieniti, o vienti, vienine, o vienne, vienitene, o vientene, e forse sene troverrebbero due altre, chi sottilmente andarla ricercando volesse; ma, ripigliando dove lasciai, quando il Boccaccio disse: Ma tra tanti che nella mia Corte n'usano. E tra' quali ne fu uno. E né più, né meno ne farà: la particella ne, quanto al sentimento, non v'ha che fare cosa del mondo; come ancora là: Il quale senza arrestarsi sene venne a casa. Similmente in queste parole: A volerne dire quello che io ne sento, bastava dire: a voler dire quello che io ne sento, o a volerne dire quello che sento, o a voler dirne quello che sento; ma l'uso porta molte volte, che ella si raddoppi, come, a voler dirne quello che io ne sento. Quando ella poi riferisce persone, e casi, o cose che le vadano innanzi, ella si truova, parlando del numero singulare, in due casi solamente, nel genitivo, e nell'allativo; se nel genitivo, significa o di lui masculino, o di lei femminino, o di quello neutro, cioè di quella cosa; come chi, favellando o d'uno uomo, o d'una donna, o d'una qualche cosa, dicesse: io ne sono informato, o io ne resto soddisfatto. Se nell'allativo, significa o da lui, o da quella cosa, come chi intendendo o da uomo, o da donna, o da alcuna altra cosa di genere neutro, dicesse: egli ne seguirono infiniti beni. Alcuna volta l'antecedente, cioè quello che va innanzi, e che si debbe riferire dalla ne, è singulare, e ciò non ostante che la ne, come se plurale fosse, lo riferisce, come si può vedere in queste parole del Boccaccio: Con lo aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne potevano. E quello che è più da notare, è, che l'antecedente è alcuna volta tutta una parte, o una sentenza intera, come quando il Boccaccio disse, pur di ser Ciappelletto favellando: E, se egli si pur si confessa, i peccati suoi son tanti ec., che il simigliante ne avverrà; dove ne significa, e referisce, di quel suo confessarsi ne avverrà il somigliante, cioè sarà gittato a' cani, e il Petrarca in questo medesimo modo disse leggiadramente: Quando io fui preso, e non mene guardai. E il medesimo in un altro luogo più chiaramente, ma non già con minore leggiadria: Onde nel petto al nuovo Carlo spira La vendetta, ch'a noi tardata nuoce, Sicché molti anni Europa ne sospira. Dove la ne non riferisce né Carlo, né spira, e vendetta particolarmente; ma significa che l'Europa per l'indugio di cotal vendetta ha sospirato molt'anni, e ancora sospira, il che voglio che da voi si tenga a mente, perciocché avendo il Caro nella sua Canzone usato la particella ne in questa medesima significazione, fu a gran torto non solo ripreso, e biasimato, ma deriso, e uccellato dal Castelvetro. La ne nel numero maggiore riferisce indifferentemente tutti li obliqui, e alcuna volta il retto, cioè il nominativo, e significa maschio, femmina, e neutro. Nel nominativo disse il Boccaccio: Quinci levatici alquanto n'andrem sollazzando; ma più certamente quando disse: Noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto più tosto abbandonate. Il qual modo tuttavia è tanto rado, quanto spessi gli altri. Nel genitivo disse il medesimo, favellando Bruno, e di Calandrino: E da parte di lei negli faceva, cioè dell'ambasciate da parte della Niccolosa. Nel dativo: Perciocché il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo. Nell'accusativo, ovvero quarto caso: Sole in tanta afflizione n'hanno lasciate. Nell'allativo, ovvero sesto caso: Di quello alcuni rami colti ne le fece una ghirlanda.
C. Voi non date esempj se non di prosa; sarebbe mai che non a' poeti, ma solo agli oratori fossero cotesti modi di favellare conceduti?
V. Niente, anzi voglio che sappiate che poche sono quelle cose, anzi pochissime, le quali siano concedute agli oratori, e non a' poeti, dove a' poeti ne sono molte, anzi moltissime concedute, le quali si niegano agli oratori.
C. E perché hanno gli oratori ad aver questo disavvantaggio?
V. Perché, come vi dissi di sopra, i poeti, intendendo di quelli da dovero, sono altro che baje; e quantunque abbiano il campo largo, e spazioso, a volere che senza intoppo, e felicemente correre lo possano, fa loro mestiere di molte cose, e non mica picciole, né tali, che sene possa trovare a ogni uscio. Se volete degli esempi de' poeti, aprite, e leggete o Dante, o 'l Petrarca, i quali ne sono pieni; e a me pare molte volte di gettare via il tempo in allegargli, sì perché son chiari da per se, e sì perché ora non è il proponimento nostro insegnare la gramatica, la quale, quanto è necessaria, tanto è fastidiosa; onde passando alla ne, quando si pone dietro a' verbi, vi dico, ciò in due modi potere, e solere avvenire, perciocché alcuna volta non riferisce né persone, né casi; e alcuna volta riferisce, questi, e quelle; quando non riferisce né persone, né casi, si pone piuttosto per ripieno, che per altro, come fece Dante quando disse: Ch'a farsi quello per le vene vane. cioè va, o ne va, e ancora più chiaramente in quel terzetto: Che non era la calle onde saline Lo Duca mio, e io appresso soli, Come da noi la schiera si partine.
C. In cotesti luoghi a me pare che la ne stia molto oziosamente, e non operi cosa nessuna, e insomma non serva ad altro che a far la rima.
V. Egli non vi par male; voglio nondimeno che sappiate che in quei tempi si favellava così, anzi si diceva ancora mene, tene, per me, e te, sine per sì affermativa, tene per te, o togli, e molti altri così fatti, purché la sillaba, dietro alla quale s'aggiugneva cotal particella, avesse l'accento acuto sopra se, come fene in luogo di fee, o di fece, perdene, in vece di perdé, o perdette, come si può vedere nell'antiche scritture, e nelle moderne lingue, perché ancora oggi sono in Firenze nelle bocche de' fanciulli, e di cotali grossolani che fanciullescamente favellano, queste, e altre somiglianti parole; ma perché elle già furono dal Petrarca, e oggi sono rifiutate dall'uso de' migliori, non è dubbio che si debbono fuggire non solo nello scrivere, ma ancora nel favellare, quando nuovo uso nolle introducesse. Ma quando la ne posta dietro a' verbi riferisce le persone, e i casi, e per conseguenza è veramente affisso, ella riferisce alcuna volta il numero del meno, e alcuna volta quello del più, e in amendue riferisce tutti i generi, e tutte le persone, ma nel singulare riferisce solamente il genitivo, e l'allativo, e nel plurale tutti e quattro gli obliqui, come chi parlando o d'un maschio, o d'una femmina, o d'una cosa neutra, dicesse abbine, o abbiatene discrezione, ovvero compassione, cioè di lui, o di lei, o di quella tal cosa in genere neutro; e il Petrarca disse: Qual colpo è da sprezzare, e qual d'averne Fede, ch'al destinato segno tocchi. Nel sesto caso pur del numero minore, come chi dicesse: né da uomo, né da donna, né da cosa mortale bisogna sperare veri beni, ma pigliarne quello, che altri può. Nel genitivo plurale: questi sono vostri figliuoli, o figliuole, o altra cosa neutra, abbiatene cura da voi. Nel dativo: danne, o dinne. Nell'accusativo: empine, o ingombrane dell'amor tuo. Nell'allativo: dalle cose divine non dee l'uomo rivolgere gli occhi, o discostarsene; i quali esempj sono frequentissimi, e più apparenti non solo appo i prosatori, ma eziandio appresso i rimatori. Il Petrarca: Ricorditi che fece il peccar nostro Prender Dio, per scamparne, Umana carne. E altrove: Po ben puoi tu portartene la scorza. E in un altro luogo: E portarsene seco ec. E Dante: Per recarne salute a quella fede; dove pare che ne significhi di quivi, o di là, o come formò egli stesso, linci, cioè di quel luogo; come anco il Petrarca disse: Potea innanzi a lei andarne ec. cioè di quì; e in altri modi somiglianti.
C. Alla buona, che Messer Annibale seppe che dirsi, quando a carte 110 della sua Apologia avvertì il Castelvetro che dovesse mirar bene alla pregnezza di quella particella ne, mostrandogli che queste sono gioje, non quelle che egli vanamente, e senza alcun frutto, anzi bene spesso con non piccol danno considera. Ma voi, per quanto mi par di vedere, l'avete fatta sgravidare, e spregnare.
V. Figliare dovevate dire, o piuttosto partorire, quanto alla lingua, ma quanto alla verità non abortare, o disperdersi, come dite voi altri, ma sconciare; imperocché fino a quì avete veduto solamente gli affissi scempj, e non i doppj, i quali come sono più leggiadri, così sono ancora più faticosi, e in essi ha la particella ne la sua parte. Della quale non vi voglio dire altro, se non che ella di sua natura è tanto schifa, e ha così in odio la vocale i, che mai non la vuole, né la pate avanti di se, anzi sempre la muta, e rivolge nell'e chiusa in tutte queste particelle dette di sopra, mi, ti, si, ci, vi, le quali postele dinanzi divengono necessariamente me, te, se, ce, ve; e il medesimo dico delle particelle la, le, li, lo, gli, tanto nel maggior numero, quanto nel minore.
C. Voi mi fate maravigliare; ma, per dirne il vero, io non intendo ancora questi affissi, né gli scempj, né i doppj, e vi scongiuro che vi piaccia dichiararmegli minutamente, come solete fare quando volete.
V. Già la maraviglia da altro non procede, che dal non intendere, conciossiaché chi sa le cagioni delle cose, non ne prende maraviglia; ma, per dirvelo alla Greca, noi facciamo troppi parerghi, cioè usciamo troppo spesso di proposito.
C. A me giova più di queste digressioni, che d'altro.
V. Tal sia di voi. Io per me mi consolo che non doverrà esser minor fastidio a voi l'ascoltare, che a me tedio, non vo' dir fatica, il raccontare cose le quali, avvengadioché sieno utilissime, anzi necessarissime a sapersi non hanno però in se né diletto mentre s'apparano, né leggiadria quando s'insegnano. Porgetemi dunque l'orecchie, e state attento, che sentirete una ricchezza di lingua maravigliosa, ricordandovi prima che io chiamo affissi proprj ogni volta che le particelle che gli fanno, sono dopo il verbo; e improprj quelli i quali hanno le particelle da cui sono fatti, dinanzi. Affissi doppj sono quelli dove intervengono le particelle che sono o pronomi, o relativi; gli scempj quelli, ne' quali elle non intervengono, come più chiaramente vi mostrerranno gli esempj. Cominciando dunque dagli scempj parte proprj, e parte improprj, dirò così: Io dono me a te, Io mi ti dono, Io mi dono a te, Donomi a te, Io ti dono me, Donomiti. Di questi sei modi di favellare, il primo è ordinario, e non vi sono affissi, e chi dicesse io a te dono me, o a te me dono, o dono a te me, non farebbe affissi. I tre seguenti sono affissi improprj, il quinto è affisso proprio; il sesto e ultimo, proprissimo.
C. Piacemi; ma perché lasciate voi l'affisso improprio: Io ti mi dono, e il proprissimo donotomi?
V. Perché l'uso, dal quale dipende ogni cosa, non gli ha accettati. Io dono me a colui, Io me gli dono, Io mi dono a colui, Io gli mi dono, Donomegli, Donoglimi, Donomigli non s'usa, e meno io me dono, se non se forse in contado. Io dono me a voi, Io mi dono a voi, Io vi dono me, Donomi a voi, Donomivi, Donovimi, e io vi mi dono non par che s'usino. Io dono me a coloro, o a loro, o loro, o ad essi, o a quelli, o a quegli, Donomi a coloro.
C. Questo modo è molto povero, rispetto agli altri; ma perché non si dice egli con affisso improprio, io me gli dono, o gli mi dono, o con proprio, donoglimi?
V. Perché cotesti sono del numero del meno, dove io gli vi raccontai. Ma fornito il pronome della prima persona, passeremo a quello della seconda. Tu doni te a me, Tu mi ti doni, Tu ti doni a me, Doniti a me, Tu mi doni te, Donimiti, Tu ti mi doni, o Donimiti, non sono in uso. Tu doni te a colui, Tu doni te a noi, Tu ti doni a colui, Tu ti doni a noi, Tu gli doni te, Tu ti ci doni, Tu te gli doni, Doniti a noi, Tu gli ti doni, Donitici, Doniti a colui, Donigliti, Donitegli, Donitigli non si dice. Tu ci ti doni, e Doniciti, non s'usano: come non s'usano ancora, Tu ne ti doni, donitene, doneniti, e se altri tali si possono formare; perché non basta l'analogia senza l'uso. Tu doni te a coloro, Tu ti doni a coloro, Doniti a coloro, Tu te gli doni, o donitegli, o gli ti doni, sono del singulare, come s'è veduto; onde finita la prima, e seconda persona del singulare, passeremo alla terza. Colui dona se a me, Donasi a me, Colui si dona a me, Donamisi. Colui mi si dona, Si mi dona, me si dona, e donasimi, ordinariamente non si dicono. Colui dona se a te, Colui ti si dona, Colui si dona a te, Donasi a te, Colui ti dona se, Donatisi, Si ti dona, e donasiti, non s'usano. Colui, o egli, dona se a colui, Egli si dona a colui, Donasegli, Egli gli si dona, Donaglisi. Donaglisi, non par che si dica.
C. Perché non dite voi ancora colui dona se a se?
V. Cotesta reciprocazione si può fare quanto all'immaginazione, ma quanto al vero, e all'uso del parlare, non pare che possa accadere, e perciò non l'ho posta; che similmente poteva io dire: io dono me a me, e altri cotali. Colui dona se a noi, Donasi a noi, Colui si dona a noi, Donacisi, Colui ci dona se, Donasici, Colui ci si dona, Se ne dona, ne si dona, se ne dona, donasene, in questo sentimento non si truovano usate, che sappia io. Colui dona se a voi, Colui vi si dona, Colui si dona a voi, donasi a voi, Colui vi dona se, Donavisi. Si vi dona, e donavisi, non si truovano. Colui, o egli dona se a coloro, Colui si dona a coloro, Donasi a coloro. Ora finito il numero minore, passeremo al maggiore. Noi doniamo, o doniam noi a te, Noi ci doniamo a te, Noi ti doniamo, o doniam noi, Non ti ci doniamo, o doniam, Doniamoci, o doniamoci a te, Doniamotici, o doniamtici, Doniamone a te, Ne ti doniamo, Noi ne doniamo a te, Noi ne ti doniamo, Doniamociti, e se altri tali formare se ne possono, non sono in uso, al quale è forza ubbidire. Noi doniamo, o doniam noi a colui, Noi ci doniamo a colui, Noi cegli doniamo, o doniam, Doniamoci, o doniamci a colui, Doniamocegli, o doniamcegli, Doniamoglici, o doniamglici. Noi ne doniamo, Doniamone in questo significato non s'usano. Noi doniamo, o doniam noi a voi, Noi ci doniamo a voi, Noi vi doniamo, o doniam noi, Noi vi ci doniamo, o doniam, Doniamoci a voi, Doniamovici, o doniamvici. Noi ne doniamo a voi, Noi ci vi doniamo, Doniamone a voi, Doniamo, o doniamcivi, non par che siano in uso. Noi doniamo, o doniam noi a coloro, Noi ci doniamo a coloro, Doniamoci, o doniamci a coloro. Noi ne doniamo, o doniamone a coloro, in questa cotale significazione non si favella, e meno si scrive. Voi donate voi a me, Voi vi donate a me, Voi mi vi donate, Donatevi a me, Donatemivi. Donatevimi, o voi vi mi donate, non s'usano. Voi donate voi a colui, Voi vi donate a colui, Voi vegli donate, Voi gli vi donate, Donatevegli. Donateglivi, non si dice. Voi donate voi a noi, Voi vi donate a noi, Voi vi ci donate, Donatevici. Donatecivi, e ci vi donate, non si dice, né vi donate a noi, in questo significato. Voi donate voi a coloro, Voi vi donate a coloro,Donatevi a coloro. A questo esimo, come dicevano gli antichi cioè a questo ragguaglio, e con questa proporzione potrete formare tutti gli affissi scempj proprj, e improprj in tutti gli altri modi, persone, e tempi di tutti gli altri verbi; e perciò trapasseremo a doppj così proprj, come improprj nel medesimo verbo per maggiore agevolezza vostra. Io lo dono a te, Io il ti dono, Io te lo dono, o tel dono, Donolo a te, Io lo ti dono, Donotelo, Io il dono a te, Donoloti, o donolti. Io lo dono a lui, o a colui, Io il dono a lui, Io lo gli dono, Io gliele dono, o gliel dono, Donogliele, o donogliel. Donologli, o donolgli, s'usano di rado, e piuttosto non mai.
C. Perché dite voi nel terzo modo, io gliele dono, che par di genere femminino, non masculino, o neutro, e non, io glielo dono, e nel quinto piuttosto donogliele, che donaglielo?
V. Per una proprietà così fatta della nostra lingua, alla quale vi bisogna por mente, perché molti c'errano. Dovete dunque sapere che gliele com'è doppia, così rappresenta due casi, o innanzi, o dopo il verbo, che si ponga; prima il dativo, ma singulare solamente, sia di che genere si vuole, poi l'accusativo così singulare come plurale, sia medesimamente di qual genere si vuole; onde non si può dire, chi vuole correttamente favellare: piglia, verbigrazia, questo fiorino, il quale è d'Alessandro, o dell'Alessandra, e rendiglielo, perché bisogna dire rendigliele, né favellerebbe regolatamente chi dicesse: queste cose sono d'Alessandro, e dell'Alessandra, toi rendigliele, perché si dee dire rendile loro, intendendo di tutti e due: similmente chi dicesse: togli que' danari, che sono d'Alessandro, o dell'Alessandra, e rendiglieli, fallerebbe, perché è necessario dire rendigliele. Gli esempj del Boccaccio allegati da Monsignor Bembo nelle sue Prose dimostrano ciò chiaramente, e sono questi tre: Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che se io n'avessi alcuno alle mani, che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi. E altrove: Paganino da Monaco ruba la moglie di M. Ricciardo di Chinzica, il quale sappiendo dove ella è, va, e divenuto amico di Paganino, raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele concede. E altrove: Avvenne ivi a non gran tempo, che questo Catalano con un suo carico navicò in Alessandria, e portò certi falconi pellegrini al Soldano, e presentogliele. Dicesi ancora per accorciamento gliel. Il Boccaccio: Trattosi un anello di borsa, da parte della sua donna gliel donò. E così gliel graffiò, gliel disse, e altri; ma io essendomi sdebitato di quanto vi promisi di sopra in quanto a questa particella gliele, seguiterò gli altri affissi, che il medesimo dice il Bembo della particella ne, come gnene, però non ne faremo più lungo sermone: Io lo dono a voi, Io il dono a voi, Io il vi dono, Io velo dono, o vel dono, Donovelo, Io lo vi dono, Donolovi, o . Io lo dono a coloro, Io il dono a coloro, Donolo a coloro. Io glielo, o glieli dono, non si dice per le ragioni suddette. Tu lo doni a me, Tu il doni a me, Donilo a me, Tu melo doni, Donimelo, Tu lo mi doni, Donilomi, o donilmi. Tu lo doni a colui, Tu il doni a colui, Donilo a colui, Tu gliele doni, Donigliele, Tu lo gli doni, Donilogli, Tu lo doni a noi, Tu il doni a noi, Tu ce lo doni, Donilo a noi, Tu lo ci doni, Donicelo, Tu ne lo doni, Doniloci. Donilne, e altri tali non sono in uso. Tu lo doni a coloro, Tu il doni a coloro, Donilo a coloro, Colui lo dona a me, Colui il dona a me, Donalo a me, Colui il mi dona, Donamelo Colui me lo dona, Donalomi, o donalmi. Colui lo dona a te, Colui il dona a te, Colui il ti dona, Colui telo dona, o tel dona, Colui lo ti dona, Donatelo, Donalo a te, Donoloti, o donalti. Colui, o egli, lo dona a colui, Egli il dona a colui, Donalo a colui, Colui lo dona a noi, Colui il dona a noi, Colui ne lo dona, Colui il ci dona, Donalo a noi, Colui celo dona, Donacelo, Colui lo ci dona, Donaloci, o donalci. Donalone, e altri così fatti non si dicono. Colui lo dona a voi, Colui il dona a voi, Colui lo vi dona, Colui il vi dona, Donalo a voi, Colui ve lo dona, Donalovi, o donalvi. Colui lo dona a coloro, Colui il dona a coloro, Donalo a coloro, Noi lo doniamo a te, Noi il doniamo a te, Noi il ti doniamo, o doniam, Noi telo, o tel doniamo, o doniam, Doniamolo a te, Doniamotelo, o doniamtelo, Doniamoloti, o doniamolti. Noi lo doniamo a colui, Noi il doniamo a colui, Noi gliele doniamo, o doniam, Noi lo gli doniamo, o doniam, Doniamolo a colui, Doniamologli, Doniamogliele, o gliele doniamo. Noi lo doniamo a voi, Noi il doniamo a voi, Noi velo doniamo, o doniam, Noi lo vi doniamo, o doniam, Doniamolo a voi, Doniamovelo, o doniamvelo, Doniamolovi, o doniamolvi, Noi lo doniamo a coloro, Noi il doniamo a coloro, Doniamolo, o doniamolo a coloro. Voi lo donaste a me, Voi lo mi donate, Voi il donate a me, Donatelo a me, Voi melo, o mel donate, Donatemelo, Donatelomi, o donatelmi. Voi lo donate a colui, Voi il donate a colui, Donatelo a colui, Voi gliele donate, Donategliele, Voi lo donate a noi, Voi lo ci donate, Voi il donate a noi, Voi nelo donate, Voi celo, o cel donate, Donatelo a noi, Voi lo gli donate, Donatecelo, o donatenelo. Donateloci, o donatelci, Lo ne donate, e altri così fatti molti non si truovauo. Voi lo donate a voi (per dirvi anco uno esempio di questa reciprocazione). Voi il donate a voi, Voi lo vi donate, Voi il vi donate, Donatelo a voi, Voi velo donate, Donatevelo, Donatelovi, o donatelvi. Voi lo donate a coloro, Voi il donate a coloro, Donatelo a coloro, Coloro lo donano a me, Coloro il donano a me, Coloro melo donano, Coloro il mi donano, Coloro lo mi donano, Donanomelo, o donanmelo, Donanolomi, o donanolmi. Coloro lo donano a te, Coloro il donano a te, Coloro telo, o tel donano, Coloro il ti donano, Coloro lo ti donano, Donanolo, o donanlo, o donallo a te, Donanolti, e simili sono troppo duri a pronunziare. Coloro lo donano a colui, Coloro il donano a colui, Coloro gliele donano, Donanlo a colui, Donanogliele, o donangliele, Lo gli donano, e altri son fuori uso. Coloro lo donano a noi, Coloro il donano a noi, Coloro il ci donano, Coloro celo, o cel donano, Coloro lo ci donano, Coloro nelo donano, Donanolo, o donanlo a noi, Donancelo, Donanoloci, o donanolci. Coloro lo donano a voi, Coloro il donano a voi, Coloro velo donano, Coloro il vi donano, Coloro lo vi donano, Donanolo, o donanlo a voi, Donanovelo, o donanvelo, Donanolovi, o donanlovi. Coloro lo donano a coloro, o a quegli, Coloro il donano a quegli, Coloro donanolo, o donarlo a quegli. Voi mediante questi esempj potrete formare tutti gli altri da voi, i quali sono infiniti, e anco ritrovare, se io per la fretta, o per lo fastidio n'avessi o lasciati, o traposti: né crediate che tutti quelli che si possono formare, si possano anco usare, perché bisogna l'uso, e 'l giudizio dell'orecchio, e vi gioverebbe più un poco di pratica, che quante regole vi potessi dare; che a chi è versato ne' buoni autori, gli vengono detti, e scritti che egli non sene accorge. E il Sanazzaro, trattone alcuni, i quali sono poco regolati, o troppo licenziosi, per la gran difficoltà (come dissi di sopra) delle rime sdrucciole, n'usa nelle sue Canzoni dell'Arcadia molti, e molto belli.
C. Io ho tante cose che domandarvi, che non so io stesso da quale mi debbia incominciare prima, e ho una gran paura di non isdimenticarlemi. Ditemi innanzi tratto, perché negli affissi proprj o scempj, o doppj si raddoppia alcuna volta la loro lettera, e alcuna volta no; conciossiacosaché voi pronunziavate poco fa ora diedemi con uno m solo, e ora dièmmi, o donómmi con due; e così dicevate talvolta donòlo, e talvolta donòllo, e molti altri somiglianti. Donde viene questa differenza, e a che ho io a conoscere quando debbo profferire, o scrivere in un modo, e quando nell'altro? Datemene alcuna regola, mediante la quale io possa, conoscendo cotale diversità, camminare sicuramente senza smarrirmi.
V. Ogni volta che il verbo, a cui gli affissi congiugnere si debbono, fornisce in lettera vocale, e ha l'accento acuto sopra l'ultima sillaba, la prima lettera dell'affisso si dee in cotal caso necessariamente raddoppiare, altramente si rimane semplice; e quinci è, che nel tempo presente si pronunzia, e si scrive vivomi con una m, e non vivommi con due, cioè io mi vivo, e nel futuro, ovvero avvenire, vivrommi con due, e non vivromi con uno, cioè mi viverò, così moromi, e morrommi, così dimmi, e dammi nel singolare, ditemi, e datemi nel plurale. Somigliantemente dallomi, e dillomi nel numero del meno, e datelomi, e ditelomi, o datelmi, e ditelmi nel numero del più, in luogo di datemelo, e ditemelo. E nel medesimo modo di tutti gli altri affissi, come staviti in camera, e statti da te: colui già davasi, e ora dassi un bel tempo; in vece di si dà, o dà a se. Facci buon viso, come già facevici: èvvi a noja, come già eravi, lo star solo? Dinne, se mai dicestine il vero; e altri infiniti.
C. Onde cavò il Bembo questa regola?
V. Dalle scritture Fiorentine, penso io.
C. E le scritture Fiorentine donde la cavarono?
V. Da coloro che Fiorentinamente favellavano; e anco l'arte, e l'ingegno di chi scrive in cotali locuzioni giova non poco. E, per rispondervi innanzi che mi domandiate, vi dico, che quando Dante scrisse nel XI
V. canto del Paradiso: Nel fare a te quel che tu far non vuomi, all'affisso non vuomi, è levata una sillaba del mezzo, per quella figura che i Latini chiamano Grecamente sincopa, cioè incisione, ovvero tagliamento, e questa è la vocale i, perché la parola intera si dee scrivere vuoimi, o voglimi, onde l'accento (come bene n'avvertisce il Bembo) è bene in sull'ultima sillaba, ma egli vi è non propriamente, ma come in sulla penultima, dovendosi pronunziare vuoimi; e così quando il medesimo fece dire a Stazio: E per paura chiuso Cristian fumi, fumi è posto in luogo di fuimi, cioè mi fui.
C. Egli disse pure nel XIII. del Paradiso, favellando di San Francesco: Ruppe il silenzio ne' concordi numi Poscia la luce, in che mirabil vista Del poverel di Dio narrata fumi; dove non pare che vaglia cotesta ragione che voi avete detta.
V. Anzi potrebbe valere, perché i nostri antichi dicevano fue, come si vede tante volte non solo in Dante medesimo, ma eziandio nel Petrarca: ma quando ciò non fosse, non importerebbe molto, conciossiacosaché Dante usi alcune volte di non raddoppiarla, perché avendo detto in un luogo regolatamente: Volseci in su colui che sì parlonne, disse in un altro fuor di regola: Perché lo spinto che di pria parlómi, in luogo di parlommi; se già alcuno non volesse dire anche quì che gli antichi dicevano parlóe, trovóe, andóe, e così di tutti gli altri; e altrove: Finche 'l tremar cessa, ed ei compiési, in vece di compiéssi, cioè si compié; e anco quì si potrebbe dire, che gli antichi nostri dicevano compiéo, come fèo, rompèo, e tanti altri; e altrove: E tal candor di quà giammai non fuci, in luogo di fucci, cioè fue quì, ovvero ci fue; e altrove: Virgilio, a cui per mia salute diemi, cioè mi diè, o diemi, in luogo di diemmi; e altrove: Dio lo si sa qual poi mia vita fusi, cioè si fu, o fuesi, in luogo di fussi.
C. Perché avete voi detto nel dar la regola, quando il verbo fornisce in vocale? E quali sono quei verbi, che in vocale non finiscono?
V. Non solo tutti i verbi, ma tutte le persone di tutti i verbi forniscono ordinariamente nella lingua Toscana in alcuna delle vocali, quando si pronunziano intere, ma l'uso gli profferisce molte volte mozzi, o tagliati, come cantiam, e non cantiamo, aman, e non amano, e allora non vale la regola, perciocché non si raddoppia la consonante, dicendosi cantiamlo con una l solo, che più stare non vene possono: similemente amanlo, sanlo, sanvi, e altri assai.
C. Non si potrebbe egli dire, che coteste voci, oltraché la pronunzia non soffera che la consonante si raddoppj, sono poste in luogo delle loro intere? Come amiamolo, amanolo, sannolo, sonovi?
V. Non solo si potrebbe, ma si doverrebbe; e per questa cagione, cioè perché rappresentassero più manifestamente i loro interi, scriverei io piuttosto sanlo con nl, che sallo con due l; il che è chiaramente singulare; e fanlo piuttosto che fallo, come usano di scrivere alcuni; e danmi in luogo di dannomi, e non dammi con due m.
C. Dunque voi scrivereste piuttosto sonmi quando significa sonomi, che sommi, come fanno quasi tutti?
V. Sì io, quando gli altri ci s'accordassero; che da me solo non oserei cosa nessuna.
C. Non sapete che la lettera n non si può trovare dinanzi alla m, ma è necessario che si converta in essa, e così dinanzi alla lettera l è forza, che si converta in l, e così di tutte l'altre somiglianti?
V. Sollo nella lingua Latina, ma nella Toscana non veggo questa necessità, e massimamente ne' casi posti di sopra, e dovunche si fuggisse l'anfibologia, cioè l'oscuro, e dubbio parlare; perché molti si potrebbon fare a credere, veggendo scritto non fanlo, ma, fallo, che fosse nome, e non verbo insieme coll'affisso.
C. La sentenza il potrebbe, e doverebbe mostrar loro.
V. Cotesto sarebbe proprio mettere il carro innanzi a' buoi, perché non a sentenza le parole, ma le parole hanno a mostrare la sentenza. E che quello che io dico, sia vera nella lingua nostra, vedete che Dante lasciò scritto: Facciangli onore, ed esser può lor caro. in luogo, di faccianogli, dove lasciò la lettera n senza convertirla in g, o in l.
C. Tenete voi che Dante, e gli altri antichi scrivessero correttamente, e secondo le regole dell'ortografia?
V. Cotesta è un'altra faccenda; io per me credo di no; ma questo per ora non fa caso; basta che Dante in un altro luogo scrisse: Dichiareranlti ancor le cose vere, in luogo di dichiarerannoloti, cioè te lo, o lo ti dichiareranno, e insomma il, o lo dichiareranno a te, che tutti questi significano una cosa medesima, come poco fa vi diceva.
C. Io so cotesto; ma io vorrei sapere se tra loro è differenza, e se v'è, (come par ragionevole) con qual regola, o legge si può conoscere.
V. Differenza v'è senza alcun dubbio, e talvolta molta, non già quanto al sentimento, ma quanto alla vaghezza, e leggiadria del parlare; ma io altra legge, o regola recare non vi saprei, se non quella stessa che disse il Bembo.
C. E quale fu cotesta?
V. Il giudizio degli orecchi, e a coloro massimamente, i quali sotto il cielo di Firenze nati, o allevati non sono; perché a' Fiorentini la natura stessa, e la proprietà del parlare insegnano agevolmente molte cose che gli altri con difficultà capiscono; e perciò disse il Bembo che questo modo di parlare: Tal la mi truovo al petto, è propriamente uso di Firenze, laddove, tal me la trovo al petto, Italiano sarebbe piuttosto, che Toscano, essendo men vago; similmente: Io le mi strinsi a' piedi pur del Petrarca, è più gentilmente detto, che non è, Io me le strinsi a' piedi: E facciamisi udir pur come suole, ha più grazia, che se avesse detto: e mi si faccia udir; e parimente: Se non tal ne s'offerse, che disse Dante, è più grazioso, che se avesse detto, tal se n'offerse; le quali sottilità conosce, e giudica più l'orecchro, che altre cosa. Perciocché qual ragione si può rendere perché Dante dicesse nel X
V. del Purgatorio: Non ti fia grave, ma fieti diletto, facendo nel primo l'affisso improprio, e nel secondo il proprio, e massimamente potendo senza fatica nessuna fargli amendue proprj, dicendo: Non fieti grave, ma fieti diletto, o fare il primo proprio, e l'altro improprio col dire: Non fieti grave, ma ti fia diletto; cose che tutte stanno nell'arbitrio, e nel giudizio del componente, onde il Sanazzaro disse in un luogo: A quella cruda, che m'incende, e struggemi. e in un altro: E con un salto poi t'apprendi, e sbalzati; ponendo nel primo luogo l'affisso improprio, e il proprio nel secondo; e altrove disse: Vedi il Monton di Frisso, e segna, e notalo; dove al primo verbo segna non pose l'affisso, parendogli che bastasse, come nel vero fa, porlo al secondo, ovvero all'ultimo, cioè al verbo nota. Piacquegli ancora nella fine di quelle rime che egli nell'ultimo luogo della sua Arcadia divinamente tradusse dal Meliseo del Pontano, dire in persona di lui: I tuoi capelli, o Filli, in una cistula Serbati tengo, e spesso, quando io volgoli Il cor mi passa una pungente aristula, ponendo il pronome io dinanzi all'affisso proprio volgoli, il che come di sopra vi notai, si suole usare di rado.
C. Io aveva sentito, come di sopra vi dissi, biasimare sconciamente l'Arcadia, e perciò non mi curava di leggerla; ora avendolami voi cotanto lodata, la voglio vedere a ogni modo; ma affineché io non m'ingannassi, piacciavi farmi avvertito, quali sono quelli affissi che in ella diceste essere poco regolati, e parte troppo licenziosi.
V. Chi biasima sconciamente le rime a sdrucciolo del Sanazzaro, debbe acconciamente lodare quelle del Serafino. Io per me non le leggo mai senza somma maraviglia, e dilettazione.
C. Io ho pure inteso che elle non piacevano al Bembo vostro.
V. Al Bembo mio Signore non dispiacevano quelle del Sanazzaro, ma non gli piacevano le rime sdrucciole, o (come dice egli alcuna volta) sdrucciolose.
C. Sapetene voi la cagione?
V. No certo; ma io credo che lo movesse più d'altro il non essere state usate dal Petrarca, lo quale pareva che egli intedesse di volere imitare in tutto, e per tutto.
C. Il Petrarca non fece però Stanze; e il Bembo nondimeno compose quelle che voi, e gli altri lodate tanto.
V. Non so dirvi altro, se non che, quanto a me, io ho un grande obbligo al Sanazzaro, e il medesimo giudico che debba fare la nostra lingua, la quale, mercè di lui, ha una sorte di poema, il quale non hanno né i Greci, né i Latini, né forse alcuno idioma che sia.
C. Che dite? Non hanno i Greci Teocrito, e i Latini Vergilio?
V. Hannogli, ma non con versi a sdrucciolo, i quali portano conesso seco tanta malagevolezza, che al Sanazzaro si può agevolmente perdonare se egli, costretto dalla rima, formò contra le regole starnosi, e fermarnosi, quando dovea dire starsi, e fermarsi; e licenziosamente disse offendami in luogo d'offendemi, e vuolno fuor di rima, in vece di vogliono, e incitassimi per inciterebbemi, e alcuni altri, come: Cantando al mio sepolcro allor direteme: Per troppo amare altrui sei ombra, e polvere, E forse alcuna volta mostrerreteme; e altrove: Ma chi verrà che de' tuoi danni accertice?
C. Leggieri biasimi mi pajono cotesti a petto alle gravi lode, che voi gli date. Ma ditemi, gli affissi congiungonsi mai con altre parti, che co' verbi, e con quegli otto verbi che raccontaste?
V. Congiungonsi co' gerundj. Petrarca: Faccendomi d'uom vivo un lauro verde E altrove: Standomi un giorno solo alla finestra. E il Boccaccio: Portandosenela il lupo. E alcuna volta cogli avverbi; che, sebben mi ricordo, il Boccaccio disse dintornomi.
C. Ricorderebbevi egli d'alcuno affisso usato da' poeti con alcuno vago, e più riposto sentimento?
V. Bisognerebbe pensarci; se già non voleste intendere come felse, in luogo di se lo fece, cioè lo fece a se; e felce in iscambio di lo ci fece, o il fece a noi; o dielce in vece di dielloci, o diello, o o diede a noi; e Dante disse dicerolti per dicerolloti, cioè lo ti dirò, o il ti dirò, o dirollo a te, ovvero dirolloti, e più volgarmente dicerollo, o lo dirò a te, e insomma te lo dirò; disse ancora Dante: uscicci mai alcuno, cioè uscì mai alcuno di qui, e altrove: Trasseci l'ombra del primo parente, cioè trasse di qui; e avvertite di non ingannarvi, come molti fanno, i quali pigliano per affissi quelli che affissi non sono, come quando Dante disse: Vassi in San Leo ec. dove vassi, non è affisso, ma impersonale in quel modo che Vergilio disse: Itur in antiquam sylvam. cioè si va, onde il medesimo Dante altrove: E dimanda se quinci si va suso. È ancora impersonale, e non affisso tutto quel verso: Più v'è da bene amare, e più vi s'ama. Similmente quando disse: E dentro della lor fiamma si geme L'agguato del caval ec. si geme non è affisso, né ancora se dicesse gemesi, perché la si in questo luogo non fa altro che dimostrare il verbo essere passivo, come ancora là: Che la parola appena s'intendea. E qualche volta non opera la si cosa nessuna. Dante: Ch'ei si mi fecer della loro schiera. E quando disse: Dove per lui perduto a morir gissi, gissi non è affisso, ma significa si gì, come là: Ed ei sen gì, come venne, veloce; cioè sen gio. Le quali cose sebbene sono notissime per se stesse, tuttavia egli non si potrebbe credere, quanto alcuni (dico ancora di coloro che fanno regole, e' vocabolisti) s'ingannino in esse.
C. I prosatori non hanno anch'essi alcuni affissi o strani, o segnalati?
V. Io lessi già in uno antico libro de' Frati Godenti della vostra terra scritto l'anno 1327. e postillato tutto di mano propria del Reverendissimo Bembo, il quale mi prestò per sua cortesia Messer Carlo Gualteruzzi da Fano, uomo delle cose Toscane assai intendente, mettilevi, cioè mettivele, lascialivi, tranele fuori, etto', cioè e toi, traline, lane trai, gli vi si rasciughi entro, soffiagliene, solesselo, cioè lo solesse, doglionti, lo ne guaristi, vuolela per la vuole, berela per berla, e molti altri così fatti; ma, se mi volete bene, usciamo oggimai di questi affissi, che mi pare anzi che no, che noi ci siamo confitti dentro, e credo vi sieno già buona pezza venuti a noja così bene, come a me.


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Ultimo Aggiornamento:
13/07/2005 22.29

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