C. Mi basta, mi basta; passiamo più oltra.
Se la lingua volgare è una nuova lingua da se, o pure
l'antica latina guasta, e corrotta
Quesito sesto
V. Coloro che vogliono biasimare questa lingua, moderna,
e avvilirla, i quali per l'addietro sono stati molti, e oggi
non sono pochi e tra questi alcuni di grande, e famoso
nome nelle lettere Greche, e nelle Latine, dicono, tale
essere la lingua Volgare, per rispetto alla Latina, quale la
feccia al vino, perché la Volgare non è altro che la Latina
guasta, e corrotta oggimai dalla lunghezza del tempo, o
dalla forza de' Barbari, o dalla nostra viltà. Queste sono
le loro parole formali, dalle quali può ciascuno conoscere
chiaramente, loro oppenione essere che la lingua Latina
antica, e la Volgare moderna non sieno, né sieno state
due lingue, ma una sola, cioè l'antica guasta, e corrotta.
C. E voi che dite?
V. Che elle sono due, cioè, che la Latina antica fu, e la
Volgare moderna è una lingua da sé.
C. E come risponderete alle loro ragioni?
V. Io non veggo, che alleghino ragione nessuna, anzi,
se io intendo bene le loro parole, e' mi pare che implichino
contradizione.
C. Che significa implicare contradizione?
V. Dire cose non solamente tra se contrarie, ma eziandio
contradittorie: dir cose che non possano stare insieme,
anzi tolgano, ed uccidano l'una l'altra: e brevemente,
dir sì, e no, no, e sì, d'una cosa stessa in un tempo medesimo, come fanno coloro che giuocano il giuoco delle
gherminelle, ovvero, che l'è dentro, e che l'è fuori.
C. Mostratemi in che modo contradicano a sé stessi.
V. E' dicono, che la lingua nuova Volgare è l'antica
Latina, ma guasta, e corrotta; ora voi avete a sapere che
la corruzione d'una cosa è (come ne insegna Aristotile)
la generazione d'un'altra, e come la generazione non è
altro, che un trapassamento dal non essere all'essere,
così la corruzione, come suo contrario, altro non è che
uno trapasso, ovvero passaggio dall'essere al non essere.
Dunque se la Latina si corroppe, ella venne a mancare
d'essere, e perché nessuna corruzione può trovarsi senza
generazione, benché Scoto pare che senta altramente, la
Volgare venne ad acquistare l'essere, di che segue che
la Volgare, la quale è viva, non sia una medesima colla
Latina, la qual'è spenta, ma una da sé.
C. Così pare anco a me; ma io vorrei che voi procedeste
più grossamente, e alquanto meno da filosofo, affineché
non paresse che voi, che fate professione di volere
esser lontano da tutti i sofismi, e da ogni maniera di
gavillazione, voleste stare in sul puntiglio delle parole, e
andar sottilizzando le cose, come fanno i sofisti.
V. Voglia Dio ch'io non sia pure troppo grosso, e
troppo grossamente proceda. Ditemi quello, che voi
volete inferire, e io, se saprò, vi risponderò, che non
cerco, né voglio altro, che la mera, pretta, e pura verità.
C. Io penso, che quando e' dicono guasta, e corrotta,
che non vogliano intendere della corruzione propriamente,
come avete fatto voi, ma vogliano significare
per quella parola corrotta, non corrotta, ma mutata; e
l'esempio addotto da loro della feccia del vino pare, che
lo dimostri.
V. Voi procedete discretamente, e piacemi fuor di modo
la lealtà vostra; ma secondo me ne risulterà il medesimo,
o somigliantissimo inconveniente, perché una cosa
può mutarsi, ed essere differente da un'altra cosa, o da sé
medesima, in due modi principalmente, o secondo le sostanze,
o secondo gli accidenti. Le mutazioni, e differenze
sostanziali fanno le cose non diverse, o alterate, ma altre,
perché mutano la spezie, onde si chiamano differenze
specifiche; e di quì nacque il verbo specificare, e le cose
che sono differenti tra loro di differenza specifica, si
chiamano essere differenti proprissimamente da' filosofi;
onde l'uomo per lo essere egli razionale, cioè avere il discorso,
e la ragione, la quale è la sua propria, e vera differenza,
cioè la specifica, è diverso di spezie da tutti quanti
gli altri animali, i quali, perché mancano della ragione,
e del discorso, si chiamano irrazionali. Le mutazioni,
e differenze accidentali fanno le cose non altre, ma alterate,
cioè non diverse nella sostanza, e per conseguente
di spezie, ma mutate, e variate solamente negli accidenti;
e queste sono di due maniere, perché degli accidenti
alcuni sono separabili dal loro subbietto, cioè si possono
levare, e tor via, e alcuni all'opposto sono inseparabili,
cioè non si possono torre, e levar via dal loro subbietto.
Gli accidenti inseparabili sono, come verbigrazia
l'essere camuso, cioè avere il naso piatto, e schiacciato,
essere monco, o menno, essere cieco da natività, o zoppo
di natura; e le cose, che sono differenti tra sé, mediante
cotali accidenti inseparabili, si dicono essere differenti
propriamente; onde chi è di naso aquilino, chi ha le mani,
o il membro naturale, chi vede lume, chi cammina dirittamente,
è ben differente da quei di sopra che mancano
di queste cose, non già proprissimamente, e di spezie,
perché tutti sono uomini, ma propriamente, cioè negli
accidenti, come chi ha un frego, o alcuna margine che
levare non si possa, è differente in questo accidente da
tutti gli altri, che non l'hanno. Gli accidenti separabili,
sono come esser ritto, o stare a sedere, favellare, o tacere,
perché uno che cammina, è differente da uno che stia
fermo, o ancora da sé medesimo; così uno quando cavalca,
è differente da sé medesimo, o da un altro, quando va
a pié, ma perché chi sta cheto, può favellare, e chi favella,
star cheto, si chiamano cotali accidenti separabili, e le cose
che tra se sono per tali accidenti diverse, e differenti,
si chiamano differenti, e diverse comunemente.
C. Datemene di grazia un poco d'esempio.
V. Il vino (per istare in sull'esempio posto da loro)
quando piglia la punta, o diventa quello che i Latini chiamavano
vappa, o lora, e noi diremmo cercone, si muta, ed
è differente da se stesso, quando era buono, ma non già
secondo la sostanza; perché non solo gli rimane la sostanza
del vino, ma ancora il nome, chiamandosi vino forte, o
vin cattivo, o altramente; e sebbene mutasse il nome, basteria
che gli rimanesse la sostanza; ma quando diventa
aceto, si muta, ed è differente da se medesimo secondo
la sostanza, perché avendo mutato spezie, non è, e non si
chiama più vino; onde non può, mediante alcuno medicamento,
ritornare mai più all'esser primiero, per quella
cagione medesima che i morti non possono risuscitare;
dove quegli altri vini potrebbono mediante alcuna concia
ritornare per avventura buoni, come gli uomini infermi
possono ritornar sani. Stando queste cose così, io vorrei
che voi, o eglino, mi diceste di qual mutazione intendono,
quando, dicono, la lingua nostra essere la medesima
lingua antica, ma guasta, e corrotta, cioè mutata in
questa popolare; perché non potendo essi intendere di
mutazione, e differenza sostanziale, che fa le cose altre,
e non alterate, o diverse, perché contradirebbero a loro
stessi, è necessario, che intendano di differenza, e mutazione
accidentale, la quale fa le cose diverse, o alterate, e
non altre, non mutando la spezie, o sia separabile cotale
accidente, o sia inseparabile; del ché segue che eglino
sieno nel medesimo errore, che prima.
C. E perché?
V. Perché vogliono, che una cosa sia uomo, e non sia
razionale.
C. In che modo?
V. Voi l'avreste a conoscere da voi medesimo, mediante
la diffinizione, e divisione delle lingue. Ditemi, la lingua
Latina intendesi ella da noi, e si favella naturalmente;
o pure bisogna impararla?
C. Impararla, e con una gran fatica, pare a me, e
mettervi dentro di molto tempo, e studio, e a pena che
egli riesca.
V. Dunque la lingua Latina è altra, non diversa, o
alterata.
C. Messer sì.
V. Dunque non è la medesima.
C. Messer no.
V. Dunque la lingua Latina antica non è la Volgare
guasta, e corrotta, cioè mutata.
C. No.
V. Dunque la lingua Latina, e la Volgare non sono
una, ma due lingue, una mezza viva, perché si scrive, e
non si favella, e l'altra viva affatto, perché si scrive, e si
favella naturalmente.
C. Così sta, né può, per quanto intendo io, stare
altramente: ma veggiamo un poco: e' danno un altro
esempio, dicendo che la Volgare è la medesima che la
Latina, ma essere avvenuto alla Latina, come avverrebbe
a un fiume bello, e chiaro nel quale si facesse sboccare
uno stagno pieno di fango, o un pantano di acqua marcia,
e puzzolente, il quale intorbidandolo, tutto lo guastasse,
e corrompesse.
V. Degli esempli se ne potrebbero arrecare pur assai,
ma come la più debole pruova, e il più frivolo argomento
che si possa fare, è l'esemplo, così il confutare gli esempli,
e il riprovargli è molto agevolissimo; e Messer Lodovico
Boccadiferro, vostro cittadino, e mio precettore, che
fu eccellentissimo filosofo, usava dire che tutti gli argomenti
del sicut, ovvero del come, zoppicavano, perché in
tutti si truova alcuna diversità; ma torniamo al caso nostro.
Se l'acqua di quel fiume, nel quale si fosse sgorgato
un pantano, o uno stagno, si fosse mutata tanto, e in modo
corrotta, che avesse variato la sostanza, ella, e conseguentemente
quel fiume, sarebbe altra, e non alterata, o
diversa, essendosi mutata sostanzialmente; ma se si fosse
mutata accidentalmente, ella, e 'l fiume sarebbero alterati,
e non altri, e per conseguenza i medesimi, sebbene in
quello, o per quello accidente sarebbono da quello, che
erano prima diversi; come, per non partire dall'esemplo
di sopra, se noi versassimo sopra un boccale di vino un
fiasco, o due d'acqua, quel vino infino che rimanesse vino,
sarebbe alterato, e non altro, ma chi ve ne mettesse
sopra un barile, il vino sarebbe altro, e non alterato, benché
altro comprenda alterato, perché non sarebbe più vino,
ma acqua.
C. Io vorrei così sapere, perché cotestoro, essendo
tanto letterati, ed eloquenti nella lingua Greca, e Latina,
quanto voi dite, allegano ragioni, e adducono argomenti,
ed esempli, che con tanta agevolezza si possono, e così
chiaramente ribattere, e confutare.
V. A loro non dee parere, e forse non è, come a voi.
C. E a voi non pare così?
V. Pare; perché, se non mi paresse, non lo direi, ma
e' mi pare anco che più non solo verisimile, ma eziandio
più ragionevole sia che egli erri un solo, ancoraché non
del tutto per avventura ignorante, che tanti, e tanto
dotti: però bastivi avere l'oppenione mia, e tenetela
per oppenione, e non per verità, infinattantoché troviate
alcuno il quale sappia, possa, e voglia darvela meglio, che
io non fo, e con più efficaci, e vere ragioni ad intendere.
C. Così farò; ma ditemi intanto l'oppenione vostra
perché voi credete che eglino alleghino cotali ragioni,
argomenti, ed esempli.
V. Ista quidem, vis est; forse perché non hanno delle
migliori: forse non dicono come l'intendono; forse
l'intendono male; e poiché voi potete, e volete sforzarmi,
a me pare che molti, e forse la maggior parte degli odierni scrittori, vadano dietro non agli insegnamenti de' filosofi,
che cercano solamente la verità, ma agli ammaestramenti
de' retori, a cui basta, anzi è proprio, il verisimile.
Ma lasciamo che ognuno scriva a suo senno, e diciamo
essere possibile che come una sorte di retori antichi
si vantavano del fare a lor posta, mediante la loro eloquenza,
del torto ragione; e della ragione torto, così volessono
far costoro, o almeno per mostrare l'ingegno, e la
facondia loro, pigliassino a biasimare quello che, se non
merita, pare a molti che meriti d'essere lodato.
C. E come si può lodare una cosa che meriti biasimo,
o biasimare una che meriti loda?
V. Non dite come si può? Perché egli si può, e s'usa
pur troppo: ma che egli non si doverrebbe.
C. Intendo, che ciò si faccia con qualche garbo, e in
guisa che ognuno non conosca manifestamente l'errore,
e lo 'nganno.
V. Io intendo anch'io così, perché dovete sapere non
esser cosa nessuna in luogo veruno, da Dio ottimo, e
grandissimo in fuori, la quale non abbia alcuna imperfezione;
ma lasciamo stare le cose del Cielo. Come tutte
le cose sotto la Luna, qualunche, e dovunche siano, hanno
in se alcuna parte di bene, e di buono, e ciò viene loro
dalla forma; così tutte hanno ancora alcuna parte di male,
e di cattivo, e ciò viene loro dalla materia; e quinci è,
che sopra ciascuna cosa si può disputare pro, e contra, e
conseguentemente lodarla, e biasimarla, e chi fa meglio
questo, colui è tenuto più eloquente, e più valente degli
altri.
C. La verità non è però se non una.
V. No, ma io v'ho detto che i retori non pure non
considerano, ma non hanno a considerare la verità, ma
il verisimile; e chi ricercasse da' retori la verità, farebbe il
medesimo errore che chi si contentasse della probabilità
ne' filosofi.
C. Non potrebbe un retore, trattando qualche materia,
dire la verità, e dirla ornatamente?
V. Potrebbe, ma dove dicesse la verità, sarebbe filosofo,
e non retore, e dove favellasse ornatamente, sarebbe
retore, e non filosofo.
C. Non potrebbe un filosofo dir la verità, e dirla
ornatamente?
V. Potrebbe, ma quando parlasse ornatamente, sarebbe
retore, e non filosofo, e quando dicesse la verità, sarebbe
filosofo, e non retore.
C. Io non posso né vincerla con esso voi, né pattarla,
pure egli mi pareva ricordare che lo esemplo forse de'
poeti, e non degli oratori, de' quali è l'entimema, e che a'
dialettici fosse proposto, non a' retorici, il probabile.
V. E' vero, favellando propriamente, ma non pertanto
possono i retori, e tutti, gli altri scrittori servirsi, e sovente
si servono degli esempli; e la rettorica (dice Aristotile)
è un pollone, ovvero rampollo della dialettica, nonostanteché
altrove la chiami parte; ma ora non è il tempo
di squisitamente favellare, e dichiarare queste cose per
l'appunto.
C. Seguitate dunque il ragionamento principale.
V. Io mi sono sdimenticato a qual parte io era.
C. La lingua Volgare essere una lingua da sé, e non la
Latina antica, guasta, e corrotta.
V. Ah ah sì. Volete voi vedere, e conoscere quale è la
lingua Latina antica corrotta, e guasta? Leggete Bartolo.
C. Cotesto non farò io, che voglio piuttosto credervi.
V. E considerate il suo favellare, ovvero scrivere, e
il medesimo dico di quello di molti altri dottori così
di leggi, come di filosofia: guardate tutti i contratti de'
notai.
C. E anco cotesto, s'io non impazzo, non farò.
V. Ponete mente a certi viandanti Oltramontani o paltonieri,
o nobili che sieno, quando chieggono da mangiare
agli osti, o dimandano della strada di Roma.
C. Di cotesti ho io uditi, e conosco che dite il vero.
V. Dovete ancora sapere che, sebbene la lingua Latina
per tante discorrimenti de' Barbari si spense quanto
al favellare, non perciò mancò mai che da qualcuno non
si scrivesse; ora se ella insino al tempo di Cornelio Tacito,
scrittore di storie diligentissimo, e verace molto, e di
Seneca, grandissimo Filosofo nella setta degli Stoici, era
mutata tanto da sé medesima, quanto scrivono, pensate
quello che ella era poi ne' tempi de' Gotti, e de' Longobardi,
e quali devevano essere le scritture di coloro che
scrissero Latinamente infino a Dante, e al Petrarca, i quali,
e massimamente il Petrarca, si può dire che non solo la
rivocassino da morte, alla quale fu molte volte vicina, ma
la ripulissero, e ringentilissero ancora; e tuttavia se Dante
avesse seguitato di scrivere il suo Poema, come egli lo
cominciò, Latinamente:
Infera Regna canam, mediumque,
imumq. tribunal,
infelice lui, e povera la lingua nostra, che non voglio usare
parola più grave, e nondimeno la colpa sarebbe più de'
tempi stata, che sua, perché la lingua Latina era, come s'è
detto, in quella stagione poco meno che morta affatto. E
se eglino risuscitare la potettero, o almeno fare che ella
non morisse, non poterono, perché ella le sue vergogne
non mostrasse, coprirla abbastanza, non che ornatamente
vestirla: e così andò, se non ignuda, stracciata, e
rattoppata, mantenendosi nondimeno, anzi crescendo, e
avanzandosi infino all'età sopra la nostra, o piuttosto sopra
la mia, essendo voi ancora giovane, anzi garzone, e
molto più al principio della vita vostra vicino, che io lontano
dal fine della mia, e tra gli altri, a cui ella molto debbe,
fu principalmente Messer Giovanni Pontano da Spelle,
benché, per lo essere egli stato gran tempo ai servigj
dei Re d'Aragona, sia creduto Napoletano. Questi molto
l'accrebbe nel suo tempo, e le diede fama, e riputazione,
tantoché finalmente dopo, o insieme coll'Accademia prima
di Cosimo, e poi di Lorenzo de' Medici, a cui non pure
le lettere così Greche, come Latine, ma eziandio tutte
l'arti, e discipline liberali infinitamente debbono, nacquero
il Bembo, e il Sadoletto, e alcuni altri; i quali nella
mia età e co' versi, e colle prose a quella altezza la condussero
che poco le mancava a pervenire al suo colmo, e,
come ella avea quelle degli altri trapassato, così alla perfezione
del secolo di Marco Tullio arrivare. Né mancano
oggi di coloro, i quali con molta lode sua, e non picciola
utilità nostra, brigano, e s'affaticano di condurlavi.
C. Tutto mi piace; ma se la lingua Volgare, come voi
mostrato avete, è una lingua da se non solo alterata, ma
altra dalla Latina, egli è forza che voi concediate che ella
(come essi dicono) sia una corruzione, e un pesceduovo
fatto di mille albumi, essendo nata dalla mescolanza, e
confusione di tante lingue, e tanto barbare.
V. Andiamo adagio, perché in questo pesceduovo di
tanti albumi furono ancora di molte tuorla. Io non niego,
che ella sia; dico bene, che ella non si dee chiamare
corruzione.
C. Dunque volete voi che quello che è, non sia.
V. Anzi non voglio che quello che non è, sia.
C. Io non v'intendo.
V. Io mi dichiarerò; ma non dite poi, che io vada sottilizzando,
e stiracchiando le cose, e brevemente fatemi
ogn'altra cosa, che Sofista, perché io ho più in odio
questo nome, che il male del capo; voi volete sapere
l'oppenioni mie, e io le vi voglio dire, ma non posso,
né debbo dirlevi, se non quali io l'ho, non volendo ingannarvi,
come io non voglio, e in quella maniera che io
giudico migliore. Sappiate dunque che il medesimo Aristotile,
il quale dice, che mai cosa alcuna non si corrompe,
che non ne nasca un'altra, dice ancora che cotale atto
non si dee chiamare corruzione, ma generazione, perciocché, oltraché i nomi si hanno a trarre dalle cose più
perfette, e non dalle più imperfette, la natura non intende,
e non vuole mai corruzione alcuna per sé, ma solamente
per accidente, volendo ella solamente, e intendendo
per se le generazioni. Dunque la mutazione della lingua
Latina nella Volgare non si dee chiamar corruzione,
ma generazione.
C. Voi m'avete liberato, e sviluppato da un grande intrigo,
conciossiacosaché io non sapeva come rispondere
a coloro, i quali, seguitando l'oppenione comune chiamano
la lingua che oggi si favella, non solamente corruzione,
ma laidissima, e dannosissima corruzione, essendo
ella nata di tante, e tanto barbare, e orribili favelle, e inoltre
testimoniando le miserie nostre, e la servitù d'Italia;
e di più affermavano che d'un mescuglio, anzi piuttosto
guazzabuglio di tante strane lingue era impossibile, che
una ornata, o composta se ne fosse, la quale o bella, o
buona chiamare si potesse.
V. Il medesimo della Latina dire si potrebbe, perciocché
ancora essa fu quasi una medesima corruzione, anzi
generazione, dalla Greca, e da altre lingue.
C. Quando vi si concedesse cotesto, si potrebbe rispondere,
che la lingua Greca, e l'altre non erano barbare,
come quella de' Goti, e de' Longobardi, oltraché i
Greci non vinsero, e spogliarono i Romani dell'Imperio,
ma furon vinti, e spogliati da loro; onde Roma non ne
perdé la maggioranza, come al tempo di questa nuova
lingua, anzi l'acquistò.
V. Per rispondervi capopié, gran danno veramente fu
per l'Italia, che il Dominio, e l'Imperlo de' Romani si
perdesse; ma avendo egli avuto qualche volta principio,
doveva ancora avere necessariamente fine, quando che
fosse. Il fine che li poteva venire in altri tempi, e modi,
piacque a' cieli che venisse allora, e in quello; e anco,
se volemo considerare le cagioni propinque, sene furono
cagione essi medesimi coll'ambizione, e discordia loro; e
se la lingua Greca non è barbara, che dell'altre non voglio
affermare, come una cosa buona non produce sempre
cose buone, così non sempre le triste, cose triste producono;
e chi non sa, che si trovano molte cose, le quali
sole, e da sé sono cattivissime, e mescolate con altre
divengono non buone, ma ottime? La teriaca, che noi
chiamiamo utriaca, la quale è sì presente, e potente antidoto,
non è ella composta di serpi, e altre cose velenosissime?
E anche la lingua de' Goti, onde si cominciò a
corrompere la Latina, e generarsi la nostra, non fu tanto
barbara, quanto per avventura credono alcuni, posciaché
Ovidio, il quale fu confinato, e morì tra' Geti, che
poi furono chiamati Goti, o Gotti, vi compose dentro
(come testimonia egli medesimo) quattro libri delle lodi
d'Augusto; e molti di quei Re Goti, e Longobardi furono
uomini non solo nell'arme, che di questo non ha dubbio
nessuno, ma ancora ne' governi politici, eccellentissimi,
come Teodorico. Ma, se io v'ho a dire il vero, queste
non sono cose essenziali, e chiunche si crede provare
con argomenti estrinseci la verità delle cose, è in quel
medesimo errore che i Gentili, i quali volendo provare
(secondoché racconta Aristotile) che i loro Dii erano, argomentavano
così: I mortali edificano tempj, e fanno sacrifizio
agli Iddii; dunque gl'Iddii sono. Sappiate, Messer
Cesare mio, che chi volesse stare in su queste beccatelle,
e andar dietro a tutto quello che dire si potrebbe,
non finirebbe mai, e saria peggio che quella canzone
dell'uccellino; perché si potrebbono addurre infinite ragioni
le quali, se non fossino, parrebbono a proposito, e
se non avessero l'essenza, arebbono almeno l'apparenza
della verità.
C. Dunque a chi volesse sofisticare, non mancherebbe
mai né che proporre, né che rispondere?
V. Non mai in eterno; e non crediate che sia nuova
questa maladizione, perché è antichissima. Considerate
in quanti luoghi, e con quali parole gli beffano tante volte, e riprendono così Platone, come Aristotile, mostrando
evidentemente non solo di quanta vergogna siano alle
lettere, ma eziandio di quanto danno al mondo; e con
tutto ciò sempre sene trovarono.
C. Io aggiugnerò questa volta da me, secondo l'usanza
vostra, e sempre sene troveranno, posciaché nell'Universo
debbono sempre, e necessariamente tutte le cose trovarsi.
V. Tutte quelle, delle quali egli è capevole, e che
conferiscono, cioè giovano, o al mantenimento, o alla
perfezione sua. Ma conchiudendo oggimai diciamo, la
lingua nostra Volgare essere lingua nuova da se, e non la
Latina antica guasta, e corrotta, e doversi chiamare non
corruzione, ma (come s'è dimostrato) generazione.
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