Ma il nostro proponimento non è né di
lodare la Poesia, la quale non ha bisogno dell'altrui lode,
né di difendere i Poeti, i quali ciò non curano; però
proponetemi nuovo quesito.
Quando, dove, come, da chi, e perché ebbe origine la
lingua volgare
Quesito quinto
V. A volere che voi bene, e agevolmente tutti i capi di
questa vostra dimanda insiememente intendere possiate,
è necessario, che io mi faccia da lontano, e vi racconti alcune
cose, le quali vi parranno per avventura o soverchie,
o fuori di proposito, ma elleno alla fine non saranno né
l'uno, né l'altro. Dico dunque, che dall'edificazione della
città di Roma, la quale fu, secondoché per gli scrittori
de' tempi si può agevolmente conoscere, l'anno della
creazione del mondo tremila dugentonove, e innanziché
CRISTO Salvator nostro nascesse, settecento cinquantadue,
infino a questo presente tempo, che corre
l'anno mille cinquecento sessanta, sono passati anni duemila
trecento undici, in questo modo: sotto i sette Re
dugento quarantaquattro: sotto i Consoli infino al primo
Consolato di Giulio Cesare anni quattrocentosessantaquattro;
dal quale Giulio Cesare cominciò, fornita quella
de' Greci, la Monarchia de' Romani l'anno del mondo
tremila novecentoquattordici. Da Giulio Cesare al nascimento
di CRISTO anni quarantasei. Dal nascimento
di CRISTO, donde s'incominciano gli anni della nostra
Salute, a Filippo Imperadore trentesimo, il quale fu
il primo che prese il battesimo, anni dugento quarantasei.
Da Filippo a Costantino, il quale nell'anno trecento
trentaquattro, lasciata Roma, andò ad abitare a Bizanzio,
e dal suo nome la chiamò Costantinopoli, anni ottantaotto.
Da questo Costantino ebbe principio l'Imperio
Orientale, e poco meno che fine l'Occidentale, cioè quello
di Roma. Da Costantino a Carlo Magno anni quattrocento
sessantasette, dal quale Carlo Magno ricominciò,
e risurse l'Imperio Occidentale, il quale era stato scherno,
e preda de' Gotti, e d'altre nazioni barbare, e si trasferì
ne' Franzesi l'anno ottocento uno. Da Carlo Magno
infino a Carlo per soprannome Grosso anni settantasette.
Da questo Carlo Grosso, che fu figliuolo di Lodovico
Re de' Germani, cominciò l'Imperio ne' Tedeschi, dove
è durato meglio di secento ottanta anni, e ancora dura.
Dico oltra ciò che chi volesse considerare la vita, cioè
la durazione della lingua Romana, ovvero Latina, secondo
le quattro età dell'uomo, puerizia, adolescenza, virilità,
e vecchiezza, potrebbe dire, la sua puerizia, ovvero
fanciullezza essere stata da che ella nacque infino a Livio
Andronico, il quale fu il primo scrittore, che ella avesse,
che furono dall'edificazione di Roma anni cinquecento
quattordici, nel qual tempo fu possibile, che si trovassero
alcuni uomini, se non eloquenti, dotti; ma perché di
loro non si trovarono scritture, se non pochissime, e di
nessuno momento, il poterono gli antichi piuttosto credere,
che affermare. Vedete quanto penò la lingua Latina
innanzi non dico che ella fosse nobile, ma avesse scrittori,
e pure fu, e si chiamava Lingua. Da Livio Andronico
infino a' tempi che nacque, per mostrare quanti la lingua
Latina avesse e frutti, e fiori, Marco Tullio Cicerone, che
non arrivarono a cento quindici anni, fu l'adolescenza,
ovvero gioventudine sua, nella quale ebbe molti scrittori,
ma duri, e rozzi, e che più dovevano alla natura, che
all'arte, come furono Catone, ed Ennio, i quali però si
andavano digrossando, e ripulendo di mano in mano, e
quanto più s'accostarono a quella veramente felicissima
età, tanto furono migliori, come si può ancora oggi vedere
in Plauto, le Commedie del quale, fuori solamente alcune
parole e modi di favellare che erano nella bocca degli
uomini di quella età, sono latinissime, e tanto proprie,
che le Muse, se fosse stato loro necessario, o venuto a uopo
il favellare, arebbono Plautinamente (come dicevano
gli antichi) favellato. E per certo poche sono in Terenzio
quelle parole, o maniere leggiadre di favellare, le quali in
Plauto non si ritrovino. Puossi ancora vedere in Tito Lucrezio
Caro, non meno puro, e pulito, che dotto, e grave
Poeta. E nel secolo che Cicerone visse, s'innalzò tanto
mercè della fertilità di quell'ingegno divino l'eloquenza
Romana, che per poco, se non vinse, come alcuni credono,
pareggiò la facondia Greca, e per certo quello senza
dubbio nessuno fu il secolo delle lettere, e degli uomini
letterati, essendo la lingua Latina, come nella sua
maturità, al colmo di quella finezza, e candidezza pervenuta
che si possa, se non desiderare, certo sperare maggiore;
come si può ancora vedere ne' Commentarj di Cajo
Cesare, e in quelle poche Storie che di Crispo Salustio
rimase ci sono, per tacere di Catullo, di Tibullo, e di
tanti altri infino al tempo di Vergilio, il quale uno combattè
con Teocrito, superò Esiodo, e giostrò di pari con
Omero. Morto indegnamente insieme colla libertà della
Repubblica Romana Cicerone, cominciò la lingua Latina,
o per essere già vecchia, o piuttosto per la proscrizione,
e morte di tanti nobilissimi cittadini, a mutarsi, non
a poco a poco cadendo, come avea ella fatto nel salire,
ma quasi precipitando a un tratto, perché in minore spazio,
che non sono centocinquanta anni si cangiò tanto da
se medesima, che ella né pareva, né era più quella dessa:
il che come conobbero, così testificarono prima Seneca,
maestro di Nerone, e poi Cornelio Tacito, con alcuni altri,
i quali nondimeno, qualunche cagione a ciò fare gli
movesse, vollero scrivere piuttosto nella corrotta lingua
del secolo loro, che ingegnarsi d'imitare, e ritornare alla
sua degnità primiera l'incorrotta del secolo di Cicerone,
e così andarono gli scrittori sempre di male in peggio,
infinoché i diluvj delle nazioni oltramontane vennero a
inondare l'Italia, e spegnere insieme coll'uso della lingua
la potenza dell'Imperio di Roma. E qui bisogna sapere,
che il primo de' Barbari, che passasse in Italia dopo la
declinazione dell'lmperio, fu Radagasso Re de' Gepidi,
il quale condusse con esso seco dugentomila Gotti, dico
Gotti, perché cosi si chiamano comunemente, ancoraché
fussino di diverse nazioni, e i Gotti medesimi divisi
in tre parti, in Ostrogoti, in Visigoti, e in Ippogoti, cioè
Gotti Orientali, Occidentali, e vagabondi. Costui dopo
l'aver fatto molti danni, fu da Stillicone Vandalo Capitano
d'Onorio, con tutta quella gente, sconfitto, preso, e
morto ne' monti di Fiesole, che voi vedete colà, l'anno
della Salute Cristiana quattrocento otto. Il secondo fu
Alarico Re de' Visigoti, il quale aveva fedelmente servito
l'Imperadore; ma tradito da Stillicone il giorno della
Pasqua, lo ruppe il dì seguente, e andatosene per lo sdegno
di cotale tradimento a Roma, la prese, e saccheggiò
nell'anno quattrocento tredici, che fu appunto il millesimo
centesimo sessagesimo quinto della sua edificazione.
Il terzo fu Attila Re degli Unni, il quale ucciso Bleba, o
Bleda, suo fratello occupò solo il Regno. Costui, al quale
erano sottoposti il Re de' Gepidi, e il Re degli Ostrogoti,
fatta una innumerabile, e poderosissíma oste, s'affrontò
nella Francia ne' campi chiamati Catelauni coll'esercito
Romano, al quale erano confederati, e congiunti i Gotti,
e altri popoli di diverse nazioni, e fu rotto con tanta occisione,
che alcuni scrivono che in quel conflitto furono
tagliati a pezzi cento ottantamila corpi, e alcuni dugento
sessantamila; certo è, che non fu mai più orribile, e più
sanguinosa giornata da grandissimo tempo innanzi. Perché
tornatosene in Ungheria, e fatto un nuovo esercito
calò in Italia l'anno quattrocento cinquanta, e prese dopo
tre anni Aquilegia. Prese, e disfece ancora Vicenza,
Verona, Milano, Pavia, e molte altre città, e il medesimo
arebbe fatto di Roma, se non che persuaso dalle preghiere
di Papa Leone, se ne tornò in Ungheria: donde volendo
ritornare in Italia, si morì una notte senza esser veduto, affogato dal sangue che in abbondantissima copia gli
usciva del naso. Il quarto fu Genserico Re de' Vandali,
il quale chiamato da Eudosia, moglie già di Valentiniano
Imperadore, si partì dell'Affrica, e venne in Italia, dove
presa, e saccheggiata Roma si ritornò vittorioso, e carico
di preda tra' Mori. Il quinto fu Odoacre Re de' Turcilingi,
e degli Eruli, il quale l'anno quattrocento settanta uno
si fece Re d'Italia, e la signoreggiò quattordici anni. Il sesto
fu Teodorico Re degli Ostrogoti, il quale, mandato
in Italia da Zenone Imperadore, perché dal Re Odoacre
la liberasse, rotto prima valorosamente presso ad Aquilegia,
e poi ucciso fraudolentemente Odoacre, che l'aveva
ricevuto per compagno del Regno in Ravenna, se ne fece
signore l'anno quattrocento ottantacinque. Il settimo
fu Totila, il quale creato da' Gotti, che erano sparsi
per l'Italia, loro Re contra Belisario capitano di Giustiniano
Imperadore l'anno cinquecento quarantatre assediò
l'anno cinquecento quarantaquattro la città di Firenze,
la quale soccorsa dalle genti Imperiali, che si trovavano
in Ravenna, fu liberata. Totila l'anno cinquecento
quarantacinque prese Napoli, e l'anno cinquecento quarantaotto
Roma, la quale egli non solamente saccheggiò,
ma disfece in gran parte, dimanieraché rimase disabitata;
e il medesimo fece di molte altre città, tralle quali (secondo
Giovanni Villani, benché molti credono altramente)
fu la città di Firenze, poi Arezzo, Perugia, Pisa, Lucca,
Volterra, Luni, Pontriemoli, Parma, Reggio, Bologna,
Imola, Faenza, Forlì, Forlimpopoli, Cesena, e molte altre,
onde egli fu, e volle esser chiamato Totila Flagello di
Dio, benché Giovan Villani, e alcuni altri attribuiscono
queste rovine ad Attila, ma le storie dimostrano chiaramente,
ciò non potere essere stato vero, se non di Totila,
il quale, avendo Belisario uomo d'incredibile valore,
prudenza, e bontà racquistato Roma, e fortificatola con
incredibile diligenza l'anno 549. tostoché egli fu partito
d'Italia, v'andò a campo, e l'ebbe l'anno 552. e contra quello che aveva fatto prima, s'ingegnò di rassettarla,
e di farla abitare. Ma Narsete Eunuco uomo di gran
valore mandato da Giustiniano in luogo di Belisario lo
sconfisse, e uccise, e dopo lui vinse Teia suo successore,
nel quale fornì il Regno degli Ostrogoti in Italia l'anno
555, la quale eglino avevano posseduta 70 . anni alla fila.
L'ottavo fu Alboino Re de' Longobardi, il quale avendo
vinto i Gepidi fu invitato, e sollecitato al dover venire
in Italia da Narsete, dove si condusse con grandissimo
numero di Longobardi, e ventimila Sassoni, e altri popoli,
insieme colle mogli, e figliuoli loro, l'anno 572. e questi
la possederono successivamente, se non tutta, la maggior
parte sotto diversi Re, e trenta Duchi 204 . anni,
cioè infino al 776 . quando dopo Pipino suo padre venne
in Italia, alle preghiere di Papa Adriano, Carlo Magno,
il quale gli sconfisse, e ne menò Desiderio, loro ultimo
Re insieme colla moglie, e co' figliuoli prigione in
Francia. Né voglio, che voi crediate che in quelli 368 .
anni, che corsero dal 408 . che fu morto Radagasso, al
776 . che fu preso, e menato in Francia Desiderio, scendessero
nell'Italia, e la corressero solamente quei tanti,
e sì diversi popoli, ch'io ho come principali raccontato,
perché vi discesero ancora i Franchi, i quali furono quelli,
che diedero il nome alla Francia, e altre barbare nazioni;
come si può vedere da chi vuole, nel libro de' tempi,
che lasciò scritto Matteo Palmieri, il quale m'è paruto
di dover seguitare. Fra tante miserie, e calamità, quante
dalle cose dette potete immaginare voi piuttosto, che
raccontare io, di tanti mali, danni, e sterminj, quanti sofferse
sì lungamente in quelli infelicissimi tempi la povera
Italia, ne nacquero due beni, la lingua Volgare, e la città
di Vinegia, Repubblica veramente di perpetua vita, e
d'eterne lodi degnissima.
C. Cari mi sono stati senza fallo nessuno, e giocondi
molto cotesti tre discorsi vostri: ma voi non mi avete
dichiarato, né quando, né come particolarmente, cioè in
che tempo, e in qual modo appunto, spenta, o corrotta
la lingua Latina, si generasse, e nascesse la Volgare.
V. Io il vi dichiarerò ora, e se potessi in tutte l'altre
vostre dimande così bene soddisfarvi, come io posso in
questa, a me per certo si scemerebbe, anzi leverebbe
del tutto una gran fatica, e un gran pericolo, che mi
soprastanno, e voi vi potreste chiamare compiutamente
pago, e contento. Udite dunque quello, che risponde a
cotesta stessa dimanda nel primo libro delle sue Prose il
Bembo medesimo:
Il quando (rispose Messer Federigo) sapere appunto, che io mi
creda, non si può, se non si dice, che ella cominciamento pigliasse
infino da quel tempo, nel quale cominciarono i Barbari ad entrare
nell'Italia, e ad occuparla, e secondoché essi vi dimorarono, e
tenner pié, così ella crescesse, e venisse in istato. Del come, non
si può errare a dire, che essendo la Romana lingua, e quella de'
Barbari tra se lontanissime, essi a poco a poco or une, or l'altre
voci, e queste troncamente, e imperfettamente pigliando, e noi
apprendendo similmente delle loro, se ne formasse in processo di
tempo, e nascesse una nuova, la quale alcuno odore e dell'una,
e dell'altra ritenesse, che questa Volgare è che ora usiamo, la
quale se più somiglianza ha colla Romana, che colle Barbare avere
non si vede, è perciocché la forza del natìo cielo sempre e molta,
e in ogni terra meglio mettono le piante, che naturalmente vi
nascono, che quelle, che vi sono di lontan paese portate. Senzaché
i Barbari, che a noi passati sono, non sono stati sempre di nazione
quelli medesimi, anzi diversi, e ora questi Barbari la lor lingua
ci hanno recata, ora quegli altri, in maniera che ad alcuna delle
loro grandemente rassomigliarsi la nuova nata lingua non ha
potuto. Conciossiaché e Francesi, e Borgognoni, e Tedeschi, e
Vandali, e Alani, e Ungheri, e Mori, e Turchi, e altri popoli venuti
vi sono, e molti di questi più volte, e Goti altresì, i quali una
volta trall'altre 70 . anni continui vi dimorarono. Successero a'
Goti i Longobardi, e questi primieramente da Narsete sollecitati,
siccome potete nell'istorie aver letto ciascuno di voi, e fatta una
grande, e maravigliosa oste, colle mogli, e co' fgliuoli, e colle
loro più care cose vi passarono, e occuparonla, e furonne per più
di dugento anni posseditori. Presi adunque e costumi, e leggi
quando da questi Barbari, e quando da quegli altri, e più da quelle
nazioni che posseduta l'hanno più lungamente, la nostra bella,
e misera Italia cangiò insieme colla reale maestà dell'aspetto
eziandio la gravità delle parole, e a favellare cominciò con servile
voce, la quale di stagione in istagione a' nipoti di que' primi
passando, ancor dura, tanto più vaga, e gentile ora, che nel
primiero incominciamento suo non fu, quanto ella di servaggio
liberandosi ha potuto intendere a ragionare donnescamente.
C. Del quando, e del come, poiché di loro maggiore
contezza avere non si può, resto io, come debbo, alle parole
d'un sì grande uomo soddisfattissimo. Ma ditemi, vi
prego, più particolarmente alcuna cosa del dove, cioè in
qual parte appunto, spenta, o corrotta la Latina, nascesse
la Volgare lingua.
V. Dovunque pervennero, e allagarono cotali innondazioni;
perciocché non solamente in tutta l'Italia, ma
eziandio in tutta la Francia, chiamata prima Gallia, e poco
meno che in tutte le Spagne si mutarono per lo discorrimento
di tanti Barbari lingue, e costumi.
C. Così credeva ancora io; ma per lasciare dall'uno de'
lati così le Spagne, come la Francia, se la lingua la quale
era prima Latina, diventò Volgare in tutte, e in ciascuna
delle parti d'Italia, perché volete voi che ella pigliando il
nome piuttosto da Firenze, che forse in quel tempo non
era, che da qual s'è l'una dell'altre città d'Italia, si chiami
Fiorentina piuttosto, che Toscana, o Italiana?
V. O io non ho saputo dire, o voi non m'avete inteso.
Tutte le lingue, le quali naturalmente si favellano, in
qualunche luogo si favellino, sono Volgari, e la Greca, e
la Latina altresì, mentreché si favellarono, furono Volgari;
ma come sono diversi i vulgi che favellano, così sono
diverse le lingue che sono favellate, perciocché altro
è il volgare Fiorentino, altro il Lucchese, altro il Pisano,
altro il Sanese, altro l'Aretino, e altro quello di Perugia.
C. Dunque quanti saranno i volgari, tante saranno le
lingue?
V. Già ve l'ho io detto.
C. Dunque quante città sono in Italia, tante sono le
lingue?
V. Cotesto no.
C. Per qual cagione?
V. Perché anco molte castella hanno i volgari diversi,
e per conseguenza le lingue.
C. Io credo che voi vorrete dire a mano a mano, che il
parlare di Montevarchi, o di San Giovanni, o di Figghine,
o forse ancora quello di Prato, il quale è più vicino a
Firenze, sieno diversi dal Fiorentino, perché di quello
dell'Ancisa, onde discese il Petrarca, non mi pare che si
possa, o si debba dubitare.
V. Mettetevi pure anche cotesto, perché tutti quanti in
alcune cose sono diversi dal Fiorentino, avendo o varie
pronunzie, o varie parole, o varj modi di favellare, che
siccome sono loro proprie, così sono diverse da quelle
de' Fiorentini, i quali sebbene l'intendono, non però le
favellano, e conseguentemente cotali parole, o pronunzie
sono diverse dalle loro: ben'è vero, che la diversità e la
differenza non è né tanta, né tale che non si possano, chi
sottilissimamente guardare non la vuole, sotto la lingua
Fiorentina comprendere, perché altramente bisognerebbe
non dividere le lingue, ma minuzzarle, non farne parti,
ma pezzi, e brevemente non distinguerle, ma stritolarle,
e farne minuzzoli.
C. L'oppenione di Messer Jeronimo Muzio è in questa
parte del dove molto dalla vostra diversa.
V. Me ne sa male, ma qual'è la sua oppenione?
C. Che il nascimento della lingua Volgare, la qual'egli
vuole a tutti i patti, che si chiami Italiana, non fosse in
Toscana, ma in Lombardia, nella quale i Longobardi tennero
principalmente lo scettro più di 200 . anni; e quindi
di luogo in luogo stendendosi s'ampliasse per tutta
l'Italia, e che la Toscana fosse degli ultimi paesi, dove
questa lingua penetrasse; nella quale Toscana, ritrovandosi
ella fra i Romani, che più del Latino ritennero che
gli altri uomini Italiani, e i Lombardi, che più del Barbaro
participarono, venne fatto fra questi due estremi una
mescolanza più che altrove bella, e leggiadra: confessa
bene che la Toscana le ha dato alcun'ornamento, e forse
molti, ma non già tutti, ma che questo non basta a doverla
far chiamare altramente che Italiana; anzi si maraviglia
de' Toscani, e pare che gli riprenda, i quali non contenti
che ella degni d'essere loro cittadina, vogliono senza ragione
involarla a coloro di chi ella è propria, e usurparlasi
per naturale. E perché non paja ch'io trovi, e canti, le
sue parole proprie nella Lettera al Signor Rinato Trivulzio
favellando de' Toscani sono queste: Ma siccome fra
loro si può dire, che ella ha avuto l'ornamento, così ardisco
io d'affermare che ella fra loro non ebbe il nascimento:
di che non so con qual ragione vogliano involarla a coloro
tra' quali ell'è nata, e da' quali ella è a loro passata:
e può ben loro bastare assai, che ella degni d'essere loro
cittadina, senza volerlasi usurpare ancor per naturale.
V. Queste sono parole molto grandi, e da niuno altro
dette, delle quali nondimeno può ciascuno credere quello,
che più gli pare.
C. Voi che ne credete? E che vi pare che credere se ne
debbia?
V. Dove sono le storie di mezzo, non occorre disputare,
e più di sotto nel luogo suo si confuteranno assai,
per quanto stimo, agevolmente tutte le ragioni da lui in
quella lettera allegate.
C. Confutate intanto questa, e ribattetela, la quale è
dirittamente contraria all'oppenione vostra; che se egli
disse così de' Toscani, pensate quello arebbe detto, o sia
per dire, de' Fiorentini!
V. Io ho il Muzio per uomo non solamente dotto, ed
eloquente, ma leale, che appresso me molto maggiormente
importa, e credo che egli dicesse tutto quello che
egli credeva sinceramente, ancoraché quando stette una
volta trall'altre in Firenze, dove io con mio gran piacere
conversai molto seco in casa la Signora Tullia Aragona,
furono da certi dette cose di lui d'intorno a' suoi componimenti
per lo non potere egli per l'essere forestiero scrivere
bene, e lodatamente nell'idioma Fiorentino, le quali
non senza cagione, e ragione lo mossero a sdegno, onde
egli contra quei tali, parendogli che fossero, come per avventura
erano, mossi da invidia, compose, e mandò alla
Signora Tullia, donna di grandissimo spirito, e bellissimo
giudizio, questo Sonetto che voi udirete:
Donna, l'onor de' cui bei raggi ardenti
M'infiamma 'l core, ed a parlar m'invita,
Perché mia penna altrui sia malgradita,
L'alto vostro sperar non si sgomenti.
Rabbiosa invidia i velenosi denti
Adopra in noi mentre il mortale è in vita:
Ma sentirem sanarsi ogni ferita,
Come diam luogo alle future genti.
Vedransi allor questi intelletti loschi
In tenebre sepolti, e 'l nostro onore
Vivrà chiaro, ed eterno in ogni parte:
E si vedrà che non i fiumi Toschi,
Ma 'l ciel, l'arte, lo studio, e 'l santo Amore
Dan spirito, e vita a i nomi, ed alle carte.
La sentenza di questo Sonetto pare a me che sia verissima.
C. E a me; ma e' mi pare ancora che voi fuggiate la
tela.
V. A voi sta bene cotesta traslazione: a me, che non
son giostrante, bastava dire, il ranno caldo.
C. Attendete pure a menare il can per l'aja; ma se
non dite altro, io per me crederò che la lingua materna,
o paterna de' Fiorentini sia loro non originale, come
credete voi, ma venuta loro di Lombardia, come pruova
il Muzio.
V. Cotesto non voglio io, che voi facciate, se prima
non udite e le sue ragioni, e le mie, le quali affineché meglio intendere possiate, e più veramente giudicarle, riducendole
in alcuna forma di sillogismo, dirò così: Le lingue
si debbono chiamare dal nome di quei paesi, ovvero
luoghi, dove elle nascono; la lingua Volgare non nacque
in Toscana, ma vi fu portata di Lombardia, dunque la
lingua volgare non si debbe chiamare Toscana, ma Italiana.
Primieramente la conclusione di questo sillogismo è
diversa dalle premesse, e conseguentemente non buona,
perché la conchiusione doveva essere solamente: Dunque
la lingua Volgare non si debbe chiamare Toscana,
ma Lombarda.
C. È vero; ma che rispondereste voi a cotesta conseguenza?
V. Lo lascerò giudicare a voi.
C. E a chi dicesse: La lingua Volgare non nacque in
Toscana; poi conchiudesse: Dunque la lingua Volgare
non si debbe chiamare Toscana; che risponderete voi?
V. Che so io; prima gli dimanderei donde ella venne,
e rispondesse quello che egli volesse, perché tutti confessano,
la lingua Toscana essere la più bella, e più leggiadra
di tutte l'altre, si verrebbe al medesimo impossibile,
o inconveniente.
C. È vero, ma chi dicesse: Ella nacque in Lombardia,
dunque è Lombarda, e volesse stare in su questa perfidia,
che ella fosse Lombarda, dove ella nacque, che fareste
voi.
V. Come quei da Prato, quando piove.
C. Che fanno quei da Prato, quando piove? E che
volete voi dire?
V. Vo' dire, che ve lo lascerei stare, se dicesse ciò come
voi dite, non per intendere, ma per contendere.
C. E a chi dicesse ciò non per contendere, ma per
intendere.
V. Negherei la minore, cioè la lingua Toscana non
essere originale alla Toscana.
C. E come lo provereste?
V. Il provare toccherebbe a lui, che chi afferma, non
chi niega, debbe provare.
C. Ponghiam caso che toccasse a voi, che direste?
V. Direi, lei esser falsa.
C. Perché?
V. Per due cagioni, la prima delle quali è, che egli non
si ricerca necessariamente a volere che un popolo muti la
sua lingua, che coloro i quali sono cagione di fargliele
mutare, dimorino tra loro più di 200 . anni, né altro
tempo diterminato, ma bastare che vi stieno tanto, che
si muti, la qual cosa per diverse cagioni può e più tardi, e
più per tempo avvenire; la seconda ragione è, che io direi
non esser vero semplicemente quello che semplicemente
afferma il Muzio, e ciò è, ch'i Barbari stessino poco
tempo in Toscana, o vi facessino poco danno, o non vi
si approssimassino, e lo proverei mediante le storie.
C. Perché dite voi semplicemente?
V. Perché se in Toscana non dimorò lungo tempo una
nazione sola, come i Longobardi in Lombardia, ve ne
dimorò nondimeno successivamente ora una, e quando
un'altra, o i capi, e rettori, e anco perché, essendo i
barbari o in tutta, o nella maggior parte padroni d'Italia,
bisognava, che ciascun popolo per poter conversare, e
fare le bisogne sue, s'ingegnasse, anzi si sforzasse, di
favellare per essere intesi nella lingua di coloro, da cui
bisognava, che intesi fossero.
C. Questo non ha dubbio; ma se Firenze in quei
tempi era stata disfatta da Totila, come di sopra voi
accennaste, e testimonia Giovan Villani, come potette
ella corrompere, e mutare la sua lingua?
V. L'oppenione di molti è, che Firenze mai disfatta
non fosse; e, se pure fu disfatta, non fu disfatta in guisaché
ella non s'abitasse: poi quando bene fosse stata distrutta
in guisaché abitata non si fosse, i cittadini di lei
abitavano sparsamente per le ville d'intorno, e nelle terre
vicine, e bisognando loro procacciarsi il vitto, o altre
cose necessarie, erano costretti andare ora in questa città,
ed ora in quella eziandio fuori di Toscana, e civanzarsi
il meglio che potevano, ricorrendo, e servendo a coloro
che n'erano padroni, e signori. E chi sa che al tempo
di Totila, il quale dicono, senza provarlo, che ne fu il distruttore,
Firenze non avesse già, se non in tutto, in parte
mutato la lingua? Perché, seguitando il ragionamento,
che voi m'interrompeste, dico, che sebbene Radagasso
non si fermò in Toscana, come afferma il Muzio, egli vi
si fermarono le sue genti, perché la moltitudine de' prigioni
fu in sì gran numero, che si vendevano a branchi,
come le pecore, per vilissimo prezzo, onde ciascuno che
volle, che molti dovettero volere, potette comperarne; e
così se ne riempie, per non dir l'Italia, tutta Toscana: oltra
ciò ancoraché i Longobardi facessero la loro residenza
in Pavia, eglino però crearono trenta Duchi, e di quì
cominciò il nome di Duchi, i quali governavano le terre
a loro sottoposte: e Desiderio quando fu fatto Re de'
Longobardi, era Duca di Toscana; e, se vorrete leggere
le storie de' Gotti, troverrete essere verissimo tutto quello,
che io v'ho narrato, e molto più, sì di tutta Toscana, e
sì particolarmente di Firenze.
C. Io non dubito di cotesto, ma vorrei sapere, perché
la mescolanza, che si fece in Firenze di queste lingue,
fosse (come afferma il Muzio) più bella, e più leggiadra,
che altrove.
V. Oh voi dimandate delle gran cose, ma io vi risponderò
come vi si viene; per la medesima, che le mescolanze
dell'altre città furono men belle, e men leggiadre di
quella di Firenze.
C. Non guardate a quello si viene a me, ma a quello,
che s'aspetta a voi, e ditemi quello, che voi volete dire.
V. Vo' dire, che queste cose non si possono né sapere
a punto, né dire affermatamente. Forse fu quella che
racconta nella sua lettera il Muzio; e forse perché i Fiorentini,
come sottili, e ingegnosi uomini che sono, e furo
no sempre, seppero meglio, e più tosto ripulirla, che gli
altri popoli; e forse correva allora sopra Firenze una costellazione
così fatta, perché dal cielo, e non d'altronde,
ci vengono tutti i beni.
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