Se la lingua volgare, cioè; quella colla quale favellarono,
e nella quale scrissero Dante, il Petrarca, e il Boccaccio,
si debba chiamare Italiana, o Toscana, o Fiorentina
Quesito decimo, e ultimo
V. Di coloro che ho letti io i quali hanno disputato questa
questione, alcuni tengono che ella si debba chiamare
Fiorentina, e questi è Messer Pietro Bembo solo; alcuni,
Toscana, e questi sono Messer Claudio Tolomei, e Messer Lodovico Dolce; alcuni, Italiana, e questi sono Messer
Giovangiorgio Trissino, e Messere Jeronimo Muzio;
perché il Conte Baldassare Castiglione sebben pare che
la tenga Toscana, nondimeno non volendo alle regole di
lei sottoporsi, confessa di non saperla, e di avere scritto
nella sua lingua, cioè nella Lombarda, la qual cosa (come
di sopra dissi) a me non par vera; non che io nieghi che
nel suo Cortegiano non sieno molti vocaboli, e modi di
dire Lombardi, ma per altro si conosce che egli lo scrisse
quanto poteva, e sapeva Toscanamente. Lasciando dunque
dall'una delle parti o come poco risoluto, o come
troppo acuto, e guardingo il Conte, dico che il Trissino,
e il Muzio sono oggi da moltissimi seguitati, il Tolomei,
e il Dolce da molti, il Bembo da pochi, anzi da pochissimi;
ciascuno de' quali allegano loro ragioni, e loro autorità,
e tutti convengono comunemente che le lingue debbano
pigliare i loro proprj, e diritti nomi da quei luoghi
ne' quali elle si favellano naturalmente, e che gli scrittori
primieri di qualunche lingua dall'uso di coloro che la
favellavano, trassero le loro scritture. Convengono ancora
che Dante, il Petrarca, e il Boccaccio siano, se non di
tempo, almeno d'eccellenza i primi scrittori che nella lingua
Volgare si ritruovino. Convengono eziandio che come
la Toscana è la più bella di tutte l'altre lingue Italice,
così la favella Fiorentina sia di tutte l'altre Toscane
la più leggiadra. Convengono medesimamente che ella si
possa nominare largamente lingua Volgare, o veramente
la lingua del Sì, ma non già Cortegiana. Convengono di
più che siccome l'Italia è una provincia la quale contiene
sotto di se molte regioni, cioè, secondo i più, e migliori,
quattordici, e ciascuna regione molte città, e castella, così
la lingua Italiana sia un genere il quale comprenda sotto
di se molte spezie, e ciascuna spezie molti individui.
Al Trissino, tostoché uscì fuori la sua epistola delle lettere
nuovamente aggiunte nella lingua Italiana, risposero
due grandissimi ingegni, Messer Claudio Tolomei Sa
nese contra l'aggiunta delle nuove lettere, e Messer Lodovico
Martelli contra il nome della lingua, e amenduni
leggiadramente, e secondo me con verità. Scrisse ancora
contra le nuove lettere Messer Agnolo Firenzuola Fiorentino,
uomo ingegnoso, e piacevole molto, ma piuttosto
in burla, e per giuoco, che gravemente, e da dovero.
Dalle quali cose nacque che Messer Giovangiorgio compose
poi, e stampò sì alcuni dubbj grammaticali, co' quali
s'ingegnò di rispondere al Pulito di Messer Claudio, e
sì un dialogo intitolato il Castellano, nel quale risponde,
ma per mio giudizio con poco fondamento, e debolissima
ragione, alla risposta del Martello, perché si morì nel
Regno, o piuttosto fu fatto morire, molto giovane, non fu
a tempo a leggerlo, non che a rispondergli; come si dee
credere che arebbe fatto, e conseguentemente tolto a me,
il quale suo amicissimo fui, quella fatica la quale or prendere
mi conviene. Ma perché questa disputa, la quale pare
alla maggior parte malagevolissima, e dubbiosa molto,
è da me giudicata piana, ed aperta, non mi parendo che
nessuno né debba ragionevolmente, né possa dubitare,
ch'ella Fiorentina non sia, e per conseguente Fiorentina
chiamare si convenga, voglio che facciamo conto per
un poco che niuno infino a qui disputato non n'abbia,
acciocché dall'autorità ingannare non ci lasciamo, e cerchiamo
solamente colle ragioni qual nome propriamente
vero, e legittimo dare le si debbia, non perché a me manchino
autorità così di antichi, come di moderni, che piuttosto
men'avanzano, come vedrete, ma perché l'autorità,
se non sono fondate in sulle ragioni, o nell'esperienza, assai
più di tutte le ragioni migliore, possono bene ingenerare
alcuna oppenione, ma fare scienza non già. Voglio
ancora, non tanto per lo essere io del lungo favellare anzi
stanco, che no, quanto perché così giudico più a proposito,
mutare per breve spazio l'ordine, e come voi avete
dimandato tanto me, così io dimandare un poco voi.
C. Come vi piace, e torna meglio.
V. Sapete voi che cosa genere sia?
C. Credo di sì: il genere è una nozione, cioè un concetto,
ovvero predicabile, o volete universale, e insomma
una voce la quale si predica, cioè si dice, di più cose, le
quali cose sono differenti tra se di spezie, e si predica nel
che, cioè essenzialmente, ovvero nella natura, e sostanza
della cosa, come questo nome animale, il quale si dice
sostanzialmente così degli uomini, come de' cani, e de'
cavalli, e di tutte l'altre spezie degli animali, perché così
è animale una formica, e una mosca, come un camello, o
uno elefante?
V. Buono. E spezie che cosa è?
C. Una voce la quale si predica di più cose, le quali cose
sono differenti tra loro non già di spezie, ma solamente
di numero, come questo nome uomo, il quale significa
Piero, e Giovanni, e Martino, e tutti gli altri uomini particolari,
come Dante, il Petrarca, e il Boccaccio, perché
tanto è uomo il Bratti ferravecchio, e lo Gnogni, quanto
il Gran Turco, e 'l Prete Janni, o volete l'Arcifanfano di
Baldacco, e il Semistante di Berlinzone; e questi particolari
uomini si chiamano da i loici individui, ovvero singolari,
perché non hanno sotto se cosa alcuna nella quale si
possano dividere, come i generi nelle spezie, e le spezie
negl'individui.
V. Che cosa sono questi individui?
C. Voi mi tentate; che so bene che voi sapete che
gl'individui non si possono diffinire, non si potendo
diffinire se non le spezie.
V. Anco il genere, e la spezie non si possono diffinire;
discrivetemi dunque, o dichiaratemi questo, come avete
fatto quegli.
C. Io non saprei altro che dirmi, se non che gl'individui
sono quei particolari ne' quali si divide le spezie, come
donna Berta, e ser Martino, e nel medesimo modo di tutti
gli altri, i quali non sono differenti tra se né di genere,
perché così è animale donna Berta, come ser Martino,
né di spezie, perché così è uomo donna Berta, come ser
Martino, ma solamente di numero, perché donna Berta
è uno, e ser Martino un altro, che fanno due.
V. A che si conoscono gl'individui l'uno dall'altro?
C. Sempre trall'uno, e l'altro vi sono alcune differenze
accidentali, perché se alcuno arà nome verbigrazia Cesare,
come io, egli non sarà da Bologna, e se pure sarà da
Bologna, non sarà degli Ercolani, e quando fusse degli
Ercolani, non sarebbe figliuolo del Cavaliere mio padre.
V. E se il Cavaliere vostro padre avesse posto nome a
tutti i suoi figliuoli Cesare?
C. Gli altri non arebbono tanto tempo, quanto io, il
quale fui il primo a nascere, sarebbono diversi o di viso,
o d'andare, o di favellare, e finalmente non sarebbono
me, né io loro.
V. Quali sono più nobili o i generi, o le spezie, o
gl'individui?
C. Gl'individui senza comparazione, se il Betti, e
l'eccellentissimo Aldobrando, quando mi lessero la loica,
non m'ingannarono; il che di tali uomini creder non
si dee; anzi la spezie è più nobile del genere, perché ella
s'avvicina più all'individuo; le spezie, e i generi sono
seconde sostanze, non sono cose, ma concetti, e non
si ritruovauo come tali nelle cose della natura, ma solo
nell'intelletto umano, dal quale sono fatte, e formate:
dove le prime sostanze, cioè gl'individui sono veramente
cose, e tali cose che tutte l'altre o sono in loro, o si predicano
di loro, ed esse non sono in nessuna, né di nessuna
si predicano.
V. A questa foggia, chi levasse gl'individui del mondo,
nell'universo non rimarrebbe cosa nessuna.
C. Nessuna, né l'universo medesimo; sebben pare che
Aristotile in un luogo dica il contrario, cioè che, levati i
generi, e le spezie, non rimarrebbero gl'individui, ma,
levati gl'individui, rimarrebbono le spezie, e i generi,
la qual cosa si debbe intendere non dell'esser vero, ma
dello intenzionale, come sanno i loici.
V. E' si dice pure che degl'individui, per lo essere
eglino sì infiniti, e sì corrottibili, non tratta né arte, né
scienza veruna.
C. Egli è il vero: ma egli è anco il vero che tutte l'arti,
e tutte le scienze furono trovate dagl'individui, e per
gl'individui, soli, perché ciò che si fa, e ciò che si dice,
si dice, e si fa dagl'individui, e per gl'individui solamente;
conciossiacosaché (come n'insegua Aristotile) gli universali
non infermano, e conseguentemente non si medicano,
ma i particolari, cioè Socrate, e Callia sono quegli
che infermano, e conseguentemente si medicano.
V. Se voi sapete cotesto, voi sapete anco che la lingua
della quale ragioniamo, si dee chiamare Fiorentina, e non
Toscana, o Italiana.
C. Se io il so, io non so di saperlo.
V. Facciamo a far buon giuochi, e non ingannarci da
noi a noi. Se il genere si predica di più spezie, egli non
può trovarsi che con lui non si trovino insiememente più
spezie; e se la spezie si predica di più individui, ella, senzaché
più individui si trovino, trovare non si può. Dunque
se la lingua Italiana è genere, come ella è, e come
tutti confessano, bisogna di necessità che abbia più spezie,
e che ciascuna spezie abbia necessariamente più individui,
e che ciascuno individuo abbia alcuna differenza,
e proprietà, mediante la quale si distingua, e conosca
da ciascuno altro. Oltraché se i generi, e le spezie sono
universali, gli universali non sono altro che i particolari
stessi, e i singolari medesimi, cioè gl'individui universalmente
considerati. Onde è necessario che, trovandosi la
lingua Italica come genere, e la Toscana come spezie, si
trovino ancora i suoi individui; per non dire che, se ciò
che si dice, e ciò che si fa, si fa, e si dice per gl'individui,
agl'individui si dee por nome principalmente, e non alle
spezie, e a' generi. Se voi mi dimandaste d'alcuna pianta,
come ella si chiamasse, e io vi rispondessi albero, o frutto,
questa si chiamerebbe cognizione generica, la quale è
sempre incerta, e confusa; se vi rispondessi un pero, questa
cognizione sarebbe specifica, la quale è anch'ella confusa,
e incerta, ma non tanto, quanto la generica; se vi rispondessi
un pero del signore, o bergamotto, o piuttosto
il tal pero del tal padrone, nel tale orto, colle tali qualità
che lo distinguessero da tutti gli altri individui della
sua spezie spezialissima, questa si chiamerebbe particolare,
cioè vera, e propria cognizione, e solo in questo
caso non vi rimarrebbe più che dubitare, e conseguentemente
che dimandare. Se un Principe mandasse chiedendo
a chicchesia cento animali, e aggiugnesse ancora
d'una spezie medesima, non saperrebbe colui, se non in
genere, quello che mandare gli dovesse, cioè animali, ma
non già se uomini, o cavalli, o pecore; ma se mandasse
a chiedere cento uomini, già saperrebbe colui in ispezie
che mandargli, ma non già perfettamente, come se dicesse:
mandami i tali, e i tali; così né più, né meno a chi dicesse:
Dante scrisse in lingua Italiana, s'arebbe a dimandare
di qual regione d'Italia; e a chi dicesse: il Petrarca
compose il suo Canzoniere in lingua Toscana, s'arebbe
a dimandare di qual città di Toscana; ma se dicesse, in
Fiorentina, sarebbe fornito il lavoro.
C. In quante regioni, o lingue, e in quali dividono tutta
l'Italia?
V. In quattordici; nella Ciciliana, Pugliese, Romana,
Spuletina, Toscana, Genovese, Sarda, Calavrese, Anconitana,
Romagnuola, Lombarda, Viniziana, Furlana, e
Istriana.
C. E ciascuna di coteste regioni non comprende diverse
città, e castella?
V. Comprende.
C. E tutte hanno alcuna differenza tra loro nel parlare?
V. Tutte.
C. E di tutte si compone la lingua Italiana secondo
loro?
V. Di tutte.
C. Seguitate di dimandar voi; che io per me son bello,
e chiaro.
V. Se uno volendovi chiamare per alcun suo bisogno,
dicesse, o animale, che direste voi?
C. Che fosse uno animale egli.
V. E se dicesse uomo?
C. Crederrei che non sapesse, o si fosse dimenticato il
mio nome.
V. E se, Cesare?
C. Risponderei graziosamente, e bene.
V. Il somigliante accade nella nostra lingua materna;
perché chi la chiama Fiorentina, la chiama Cesare, chi
Toscana, uomo, chi Italiana, animale; il primo la considera
come individuo, il secondo, come spezie, e il terzo,
come genere; onde il primo solo la chiama particolarmente,
e propriamente, e per lo suo vero, legittimo, e diritto
nome. Né per questo niego che le cose, e in ispezialità
le lingue, non si possano chiamare, e non si chiamino
alcuna volta, dalla spezie, e alcuna ancora dal genere,
ma dico, ciò farsi impropriamente, e che cotali cognizioni
sono incerte, e confuse, e conseguentemente imperfette.
Onde quei filosofi che tenevano che il primo Motore
non conoscesse gl'individui, ma solamente le spezie, furono,
e sono meritamente ripresi, perché tal confusione,
essendo incerta, e confusa, mostrarrebbe in lui, il quale
è non perfetto, ma la perfezione stessa, e la cagione di
tutte le perfezioni, imperfezione.
C. A me pare che tutti cotesti vostri argomenti siano
efficacissimi, ma non già che provino l'intendimento vostro
principale.
V. Perché?
C. Perché pruovano bene che le lingue non si debbiano
chiamare né dal genere, né dalla spezie principalmen-
te, ma dagl'individui; onde io come confesserò che la lingua
che si favella in Firenze, si debba chiamare Fiorentina,
e non Toscana, o Italiana, così dirò anche che quella
che si favella a Siena, o a Pisa, o a Perugia si debbiano
chiamare Senese, Pisana, e Perugina, e così di tutte
l'altre.
V. Voi direste bene; ma che volete voi per questo
inferire?
C. Che se Dante, e gli altri non iscrissero in lingua né
Italiana, né Toscana, non perciò seguita che scrivessero
in Fiorentino, e non avendo scritto in Fioretitino, la lingua
colla quale scrissero, non si potrà, né dovrà chiamare
Fiorentina; il che è quello che voi intendevate da principio
di voler provare.
V. Oh, ve dove ella l'aveva! se eglino scrissero in lingua
o Italiana, o Toscana, o Fiorentina, e voi confessate
che non iscrissero né in Toscana, né in Italiana, dunque
seguita necessariamente che scrivessero nella Fiorentina.
C. Seguita, e non seguita; seguita a chi vuole andare
per la ritta, e considerare solamente la verità: ma a chi
vuole camminare per i tragetti, e gavillare, non seguita.
V. Perché?
C. Perché potrebbe dire, loro avere scritto, non vo'
dire nella Norcina, né nella Bergamasca, ma nell'Aretina,
o nella Sanese, o in alcuna dell'altre, se non d'Italia, di
Toscana.
V. Egli si truova bene di coloro che dicono, la lingua
Fiorentina essere più brutta dell'altre, come il Vellutello,
o meno corretta, come il Muzio; ma niuno si truova che
dica, Dante, il Petrarca, e 'l Boccaccio avere scritto in lingua
Lucchese, o Pisana, o finalmente in altra lingua che
o Volgare, o del Sì, o Cortegiana; delle quali favelleremo
poi; o Fiorentina, o Toscana, o Italiana.
C. Se alcuno non l'ha detto, non è che nol potesse dire;
e se 'l dicesse, che direste voi?
V. Direi che se il cielo rovinasse, si pigliarebbono
di molti uccelli, ma perché egli non rovinerà, non si
piglieranno. La ragione vuole che essendo stati tutti e
tre Fiorentini, e non essendo Firenze inferiore a nessuna
altra città d'Italia, essi scrivessero nella lingua loro bella,
e buona, e non nell'altrui, che forse non son tali.
C. La ragione vuole molte volte molte cose, le quali
non si fanno poi come vuol la ragione. Chi perseverasse
di dire ostinatamente che a loro non parve bella, e buona
la lingua Fiorentina, e che scrissero in quella d'Arezzo, o
dell'Ancisa, o di Certaldo, e forse di Prato, o di Pistoja,
o di San Miniato al Tedesco; che fareste voi?
V. Riderei; benché fossero più degni di compassione
che di riso; e voi che fareste?
C. Quel medesimo: ma ditemi, vale questa conseguenza
la quale io ho sentito fare a più d'uno? La lingua Fiorentina
si favella in Firenze, Firenze è in Toscana, Toscana
è in Italia, dunque la lingua Fiorentina è Toscana, e
Italiana.
V. Perché non aggiugnere ancora: E l'Italia è in Europa,
e l'Europa nel Mondo, dunque la lingua Fiorentina si
può chiamare ancora Europea, e Mondana, come diceva
Socrate di se stesso. Questa ragione mi par somigliante a
quella di quell'uomo dabbene il quale avendo la più bella
casa che fosse in via Maggio, diceva d'avere la più bella
casa che fosse nel mondo, e lo provava così: Di tutte
e tre le parti del mondo l'Europa è la più bella. Di tutte
le provincie d'Europa l'Italia è la più bella. Dì tutte le
regioni d'Italia la Toscana è la più bella. Di tutte le città
di Toscana Firenze è la più bella. Di tutti e quattro i
quartieri di Firenze Santo Spirito è il più bello. Di tutte
le vie del quartiere di Santo Spirito via Maggio è la più
bella. Di tutte le case di via Maggio la mia è la più bella.
Dunque la mia è la più bella casa di tutto 'l mondo.
C. Potenza in terra! Questo è un bizzarro argomento;
io non vorrei per buona cosa non averlo imparato; ma
domin s'e' valesse, ora che s'è ritrovato il mondo nuovo,
dove di ragione si debbono trovare di molte maremme?
Ma, fuor di baja, perché non vale questa conseguenza:
Firenze è in Toscana, e conseguentemente in Italia, dunque
la lingua Fiorentina è Toscana, e conseguentemente
Italiana?
V. Chi vi dice che ella non vaglia? Non v'ho io
detto più volte che la lingua Fiorentina, come spezie è
Toscana, e come genere Italiana, siccome voi sete uomo,
e animale, e come voi sete anco corpo, e sostanza, così
la lingua Fiorentina e ancora d'Europa, e del Mondo;
perché tutti i generi superiori infino al generalissimo, il
quale è sempre genere, e non mai spezie, si predicano
di tutti i generi inferiori, e di tutte le spezie, e di tutti
gl'individui.
C. Dunque come Platone si può chiamare e uomo, e
animale, e corpo, e sostanza, ma non già all'opposto, così
la lingua Fiorentina si potrà chiamare Toscana, e Italiana,
e d'Europa, e Mondana.
V. Già ve l'ho conceduto.
C. Dunque dicono il vero coloro che affermano, la
lingua Fiorentina essere e Toscana, e Italiana.
V. Il vero.
C. Perché dunque volete voi che ella si chiami Fiorentina?
V. Perché ella è; e l'inganno sta che le cose si debbono
chiamare principalmente dagl'individui, e essi le chiamano
dalle spezie, e da' generi, come chi chiamasse voi
o uomo, o animale, e non Conte Cesare, come propriamente
doverebbe.
C. Io sono capacissimo di quanto dite, e conosco che
dite vero; ma per nettare tutti i segni, e non lasciare,
non che dubbio, sospizione di dubbio, vi voglio di tutto
quello che ho sentito addurre in contrario, e di che ho
dubitato io, dimandare. Perché dunque, come si dice,
comprendendo tutta la provincia, la lingua Franzese, e
la lingua Spagnuola, e così dell'altre tali, non si può dire
ancora la lingua Italiana?
V. Voi tornate sempre a quel medesimo: chiunque la
chiama così, seguita un cotale uso di favellare, e la chiama
impropriamente, cioè dal genere; perché voi avete a
sapere che in tutta la Francia quanto ella è grande, non
è castello alcuno, non che città, o villa a lor modo,
nel quale non si favelli diversamente, ma coloro i quali
scrivono in Franzese, che oggi non sono pochi, non
solo uomini, ma donne ancora, scrivono nella Parigina,
come nella più bella, e più regolata, e più atta a rendere
onorati i suoi scrittori che alcun'altra. E nelle Spagne
avviene il medesimo; anzi vi sono lingue tanto diverse,
che non intendono l'una l'altra, e conseguentemente non
sono diverse, ma altre, come è quella che da' Vandali, i
quali, occuparono già la Spagna, si chiama ancora con
vocabolo corrotto Andoluzza. E gran parte della lingua
Spagnuola ritiene ancora oggi della lingua de' Mori, da'
quali fu posseduta, e signoreggiata poco meno che tutta
grandissimo tempo, cioè infinoché 'l Re Ferrando, e la
Reina Isabella, di felicissima, e immortale memoria, ne
li cacciarono; ma sola la Castigliana v'è in pregio, e in
quella, come più leggiadra, e gentile, sono molti, e molto
eccellenti scrittori.
C. Il Lazio era pure, ed è, una regione d'Italia, come la
Toscana nel quale erano più città, e castella, delle quali,
come fu poi del mondo, era capo Roma, e pur la lingua
colla quale favellavano, e scrivevano, non si chiamava
Romana, ma Latina.
V. Voi lo sapete male. Appresso gli scrittori antichi
si truova così sermo Romanus, come sermo Latinus, e
auctores Romani, come Latini, e forse più volte. E
se nol volete credere a me, udite Quintiliano, il quale
avendo fatto, e dato il giudizio degli Scrittori Greci, e
volendo fare, e dare quello de' Latini, scrisse nel decimo
libro quelle parole: Idem nobis per Romanos quoque
auctores ordo ducendus est. E poco di sotto: Adeo ut
ipse mihi sermo Romanus non recipere videatur, illam
solam concessam Atticis Venerem. Udite il medesimo
nell'ottavo: Ut oratio Romana plane videatur, non civitate
donata. E Properzio, favellando dell'Eneida, mentre si
fabbricava da Vergilio, scrisse:
Cedite Romani scriptores, cedile Graii,
Nescio quid majus nascitur Iliade.
E Marziale, avendo posto tra' suoi un bellissimo, ma
disonestissimo epigramma di Cesare Augusto, soggiunse
di suo, ma non mica con quella purità, e candidezza di
lingua:
Absolvis lepidos nimirum, Auguste, libellos,
Qui scis Romana simplicitate loqui.
E non solamente la chiamavano dalla spezie Latina,
ma dal genere Italiana.
C. Questo non sapeva io.
V. Imparatelo da Orazio, che disse nel primo libro de'
sermoni nella settima satira:
At Græcus postguam est Italo perfusus [aceto
Persius exclamat, ec.
Che vuole significare altro questa metafora, bagnato
d'aceto Italiano, se non tocco, e morso dall'acutezza del
parlare Italiano? Imparatelo ancora da Ovidio, il quale
scrisse, nel quinto libro di quell'opera che egli intitolò de
Tristibus, cioè delle cose meste, e maninconose:
Ne tamen Ausonioe perdam commercia [linguæ,
Et fiat patrio vox mea tuta sono,
Ipse loquor mecum, ec.
Chiamavasi ancora appresso i medesimi poeti Romulea
da Romulo, come la Greca Cecropia da Cecrope Re
degli Ateniesi, e Argolica dalla città d'Argo. Né voglio
lasciare di dire che i Romani, servendosi nelle loro guerre
de' Latini, gli chiamavano non sottoposti, ma compagni;
laonde non fu gran fatto, che per mantenersegli amici
accomunassero loro, come già fecero l'lmperio, il nome
della lingua.
C. Io ho letto in non so chi de' vostri che i Romani in
un certo modo sforzavano i loro sudditi, per ampliare la
sua lingua, a favellare Latinamente.
V. Anzi niuna delle terre suddite poteva Latinamente
favellare, a cui ciò per privilegio, e speziale grazia stato
conceduto non fosse. Udite le parole di Tito Livio nel
quarantesimo libro: Cumanis eo anno petentibus permissum
ut publice Latine loquerentur, et præligconibus Latine
vendendi jus esset. Cotesto che voi dite aver letto fu
poi quando la lingua andava in declinazione; e al tempo
degli Imperadori; e perché sappiate, tenevano gli antichi
così Greci, come Latini, la cosa delle lingue in maggior
pregio, e più conto ne facevano che oggi per avventura
non si crederebbe. A Pindaro per lo avere egli in una sua
canzone lodato incidentemente la città d'Atene fu dagli
Ateniesi, oltra molti, e ricchissimi doni, diritto pubblicamente
una statua, e avendo inteso che i Tebani suoi cittadini
per lo sdegno, o piuttosto invidia presa di ciò, condennato
l'aveano, gli mandarono incontanente il doppio
più di quello che egli per conto di cotale condennagione
era stato constretto a pagare; e io, se stesse a me, conforterei
chi può ciò fare, che non solo a' Toscani concedesse,
ma eziandio a tutti gl'Italiani il nome della lingua
Fiorentina, soloché essi cotal benefizio da lui e dalla sua
città di Firenze riconoscere volessero.
C. Cotesto sarebbe ragionevole. Ma ditemi, gl'Italiani
non intendono tutti il parlare Fiorentino?
V. Diavol'è; perché volete voi che, se noi non intendiamo
i Nizzardi, e alcuni altri popoli d'Italia, essi intendano
noi? Udite quello che scrisse il Florido, mortalissimo
nemico della lingua Volgare: Nec enim in tota Italia,
si hac lingua utaris, intelligere. Quid enim si Apuliam,
aut Calabriam concedas, et vernaculo hoc idiomate loquare?
nælig omnes te Syrophoeligcenicern, aut Arabem arbitrentur.
E poco di sotto soggiugne: Quid si in Siciliam,
Corsicam, aut Sardiniam naviges? et vulgarem hanc linguam
crepes? non magis mehercule sanus videberis, quam
qui insanissimus. Ma ponghiamo che tutti gl'Italiani intendano
il parlar Fiorentino, che ne seguirà per questo?
C. Che in tutta Italia sia una medesima lingua naturale.
V. Voi non vi ricordate bene della divisione delle lingue,
che vi ricordereste che non basta intendere una lingua,
né favellarla ancora, a volere che si possa chiamare
lingua natìa; ma bisogna intenderla, e favellarla naturalmente,
senza averla apparata da altri, che dalle balie
nella culla.
C. Il Castelvetro, il Muzio, e tanti altri confessano, anzi
si vantano, d'averla apparata non dalle balie, e dal volgo,
ma solamente da' libri.
V. Tutti cotestoro vengono a confessare, o accorgendosene,
o non sene accorgendo, che la lingua non è loro.
C. Io dubito che voi vorrete che essi si diano la sentenza
contro da se medesimi.
V. Non ne dubitate più; che nelle cose chiare non hanno
luogo i dubbj. Dice il Trissino stesso, nella sua Sofonisba
avere imitato tanto il Toscano, quanto si pensava
dal resto d'Italia potere essere facilmente inteso: dal che
seguita, come bene gli mostrò il Martelli, la Toscana lingua
essere tanto dall'altre Italiane dissimile, che non è
per tutta Italia intesa.
C. Questo è un fortissimo argomento; che gli rispose
il Trissino nel suo Castellano?
V. Ne verbum quidem; e che volevate voi ch'egli rispondesse?
Ma notate queste parole nelle quali afferma
per verissimo tutto quello che io ho detto: E più dirò che
quando la lingua si nomina come genere, e a genere comparata,
non si può dirittamente per altro che per il nome
del genere nominare, come è la lingua Italiana, lingua Spagnuola,
lingua Francese, e simili; e quando come specie, e
a specie comparata si nomina, si dee per il nome della specie
nominare, come è lingua Siciliana, lingua Toscana, lingua
Castigliana, lingua Provenzale, e simili; ma quando
poi come individuo, e a individuo comparata si nomina,
per il nome dell'individuo si dice, come lingua Fiorentina,
lingua Messinese, lingua Toletana, lingua Tolosana, e
simili, e chi altramente fa, erra.
C. A me pare che egli dica il medesimo appunto che
dite voi, o voi appunto il medesimo che dice egli: e dubiterei
che non faceste come i ladri; se non negasse che
gli antichi non iscrissono, e oggi non si scrive Fiorentinamente,
né Toscanamente, ma solo in lingua Italiana,
perché lo fece egli?
V. Andate a indovinarla voi; bisognerebbe che fosse
vivo, e dimandarnelo; se già non s'ingannò, o volle ingannarsi,
nelle cose, e per le ragioni che si diranno; ma
considerate quanta forza abbia la verità. Messer Claudio
mentreché si sforza di provarla Toscana, e non Fiorentina,
la pruova, mediante le sue ragioni, Fiorentina, e non
Toscana.
C. Queste mi pajono gran cose in tale, e tanto uomo,
chente, e quale lo predicate voi; ma come si pruova che
egli faccia il contrario di quello che egli intende di fare?
V. Non voglio che sia creduto a me, ma a Messer Jeronimo
Muzio, il quale nella lettera al Signor Rinato Trivulzio
dice queste parole: Né voglio lasciare di dire che
se quelle città, per parlare piú che l'altre Fiorentinamente,
meglio parlano, a me sembra ch'egli ispezialmente si potesse
risolvere che ella lingua Fiorentina si dovesse nomi-
nare. Che il Dolce ancora, trasportato dalla verità, mentre
vuole, farla Toscana, la faccia Fiorentina, udite le parole
del medesimo Muzio nella lettera a Messer Antonio
Cheluzzi da Colle, dove favellando del Dolce, dice che
per le ragioni che egli allega, ella piuttosto si dovrebbe
chiamare Fiorentina, che Toscana.
C. Se voi seguitate di così fare, voi non ci metterete
troppo di bocca, né di coscienza; ma io vorrei sapere se
voi confessate che nella lingua Fiorentina sieno vocaboli,
e modi di dire dell'altre città, e lingue di Toscana, e
d'Italia; ma innanziché rispondiate, vi do tempo a considerare
la risposta, perché questo è forse tutto il fondamento
del Trissino, e di molti altri.
V. Non occorre che io la consideri, perché a cotesta
parte vi risposi di sopra. quando vi dissi di quanti, e quali
linguaggi ella era composta, e ora vi confesso di nuovo
che ella ha vocaboli non solo di Toscana, o d'Italia, ma
quasi di tutto il mondo.
C. Io mene ricordava, ma voleva vedere se il raffermavate
senza la stanghetta; ma poiché raffermato l'avete, vi
dico, per un argomento del Trissino, che questa lingua
non può chiamarsi né Fiorentina, né Toscana, ma bisogna
chiamarla per viva forza, e a marcio dispetto Italiana.
V. Chi ha la verità dal suo, non ha paura d'argomento
nessuno; ma quale è questo argomento che voi fate sì
gagliardo?
C. Uditelo da lui stesso colle parole sue medesime:
Le spezie con altre spezie mescolate non si possono tutte
insieme col nome d'alcuna spezie nominare, ma bisogna
nominarle col nome del genere; verbigrazia, se cavalli,
buoi, asini, pecore, e porci fosseno tutti in un prato, non
si potrebbono insieme né per cavalli, né per buoi, né
per nessuna dell'altre spezie nominare, ma bisogna per il
genera nominargli, cioè animali, che altrimenti vero non
si direbbe.
V. Quegli argomenti i quali si possono agevolmente, e
senza fatica nessuna abbattere, e mandare per terra, non
si deono chiamare né forti, né gagliardi. Io dimando voi,
se quei cavalli, buoi, asini, pecore, e porci che fossono a
pascere, o a scherzare in su quel prato, fossero di diverse
persone, se si potrebbono chiamare d'un padron solo.
C. Rispondetevi da voi; che io non lo direi mai.
V. E se uno gli comperasse tutti, o gli fossero donati
da' loro signori, potrebbonsi chiamare d'un solo?
C. E anche a cotesto lascerò rispondere a voi; ma dove
volete voi riuscire? E che ha da fare questa dimanda
coll'argomento delle pecore, e de' porci del Trissino?
V. Più che voi non credete; perché, come alcuno può
far suo quello che è d'altri, così una lingua può, accettandogli,
e usandogli, far suoi quei vocaboli che sono stranieri.
Vedete errori che commettono otta per vicenda
gli uomini grandi! E quanto prudente, e giudiziosamente
n'ammaestrò, Aristotile, che da coloro i quali scrivono
per mantenere, e difendere una loro oppenione, ci devemo
guardare. La lingua Romana era composta non dico
per la maggiore, ma per la sua grandissima parte, di
vocaboli, e modi di dire Greci, e nientedimeno mai Greca
non si chiamò, ma Romana sempre, perché a Roma,
e non in Grecia, naturalmente si favellava; e se nol volete
credere a me, ascoltate le parole di Quintiliano nel
primo libro: Sed hæc divisio mea ad Græcum sermonam
præligcipue pertinet, nam maxima ex parte Romanus inde
conversus est.
C. Io non so, se io m'avessi creduto questo ad altri che
all'autorità di sì grande, e giudizioso uomo, perché si suol
dire che il tutto, o la maggior parte tira a se la minore; il
che veggo non aver luogo nelle lingue; e ora considero
che, se ciò fosse vero, così la Spagna, e la Francia, come
Italia, non arebbono lingue proprie. Ma il Trissino usa
un altro esempio in volendo mostrare che la lingua non
si potrebbe chiamare Fiorentina, quando vi fossero entro
non che tante, e tante, ma pur due parole sole forestiere;
dicendo che se fra cento Fiorini d'oro fossero due grossi
d'argento solamente, non si potrebbe dire con verità,
tutti quelli essere fiorini.
V. Gli esempli non mancano mai, ma furono trovati
per manifestare le cose, non per provarle, onde non servono
a oscurare le chiare, ma chiarire le oscure. Ditemi
voi, se quei due grossoni d'argento per forza d'archimia,
o arte di maestro Muccio diventassero d'oro, non si potrebbono
eglino chiamare poi tutti fiorini?
C. Sì; ma l'arte di maestro Muccio sono bagattelle, e
fraccurradi, e l'archimia vera non si truova.
V. Le lingue n'hanno una, la quale è verissima, e senza
congelare mercurio, o rinvergare la quinta essenza, riesce
sempre; perciocché ogni volta che accettano, e mettono
in uso qualsivoglia parola forestiera, la fanno divenire
loro.
C. Non si può negare, ma elle non saranno mai così
proprie, come le natie.
V. Basta, che elle saranno o come i figliuoli adottivi,
che pure sono legittimi, e redano, o come quei forestieri
che sono fatti o da' Principi, o dalle Republiche cittadini,
i quali col tempo divengono bene spesso degli Anziani,
e de' più utili, e più stimati della città. Non sapete voi
che per una legge sola d'Antonino Pio tutti gli uomini
ch'erano sotto l'Imperio Romano, furono fatti cittadini
Romani?
C. Sì so; ma Antonino era Imperatore, e lo poteva fare;
dove il Trissino negando ciò della lingua Toscana, non
che della Fiorentina, dice queste parole: Dico prima, che
io non so pensare per qual cagione la lingua Toscana debba
avere questo speciale, ed amplo privilegio di prendere i
vocaboli dell'altre lingue, e fargli suoi, e che l'altre lingue
d'Italia poi non debbiano avere libertà di prendere i vocaboli
d'essa, e fargli loro. Né so rinvenire per che causa le
parole che ella piglia dall'altre lingue d'Italia, non debbia-
no ritenere il nome della loro propria lingua, dalla quale
sono tolte, ma debbiano perderlo, e chiamarsi Toscane. Né
mi può ancora cadere nell'animo che i vocaboli che sono a
tutte, le lingue comuni, come Dio, amore, cielo, terra, acqua,
aere, fuoco, sole, luna, stelle, uomo, pesci, arbore, e
altri quasi infiniti, debbiano piuttosto chiamarsi della lingua
Toscana, che dell'altre che parimente gli hanno, i quali
senza dubbio di niuna lingua d'Italia sono proprj, ma sono
comuni di tutte, ec.
V. A tutte e tre coteste, non so con che nome chiamarmele,
è agevolissimo il rispondere: perché, quanto alla
prima, non è vero che solo alla Toscana, poiché Toscana
la chiama, è conceduto questo amplo sì, ma non già speziale,
privilegio ma a tutte quante l'altre lingue non pure
d'Italia, ma fuori; e se i Vicentini per lor fortuna, o industria,
(e così intendo di tutti gli altri popoli) avessono
avuto la lor lingua così bella, e così regolata, o l'avessero
così regolata, e così bella fatta mediante la dottrina, e
l'eloquenza loro, e così nobile mediante i loro scrittori,
come si vede essere la Fiorentina, chi può dubitare che
ella nel medesimo pregio sarebbe, e il medesimo grido
avrebbe che la Fiorentina? La quale se non d'altro, l'ha
almeno tolto loro del tratto, o a vostro modo, della mano;
e il proverbio nostro dice che Martino perdé la cappa
per un punto solo. Quanto alla seconda, è medesimamente
non vero che le parole tolte da qualsivoglia lingua,
sebbene pigliano il nome di quella che le toglie, non ritengono
ancora quello della lingua dalla quale sono tolte;
perché Filosofia, Astrologia, Geometria, e tanti altri,
sebbene sono fatti, e divenuti della lingua, non è che ella
non li riconosca da' Latini, come i Latini gli riconoscevano
da i Greci. E che vuol dire che tutto il dì si dice:
questa è voce Greca, questo è nome Latino; questo
vocabolo è Provenzale, questa dizione si tolse dalla lingua
Ebrea, questo modo di dire si prese da' Franzesi, o
venne di Spagna?
C. Queste sono cose tanto conte, e manifeste, ch'io
non so immaginarmi, non che rinvenire, perché egli le
dicesse.
V. E anco avete a sapere che le lingue, e la forza loro
non istanno principalmente ne' vocaboli soli, che non
significano, si può dir, nulla, non significando né vero,
né falso; ma ne' vocaboli accompagnati, e in certe proprietà,
e capestrerie (per dir così) delle quali è la Fiorentina
lingua abbondantissima; e niuno il quale sia senza
passione, negherà che, come la Latina è più conforme
all'Eolica, che ad alcuna altra delle lingue Greche, così la
Fiorentina è più conforme, e più somigliante all'Attica; e
per vero dire, la città di Firenze e quanto alla sottigliezza
dell'aria, e conseguentemente all'acume degl'ingegni,
e quanto agli ordinamenti, e molte altre cose ha gran somiglianza,
e sembiante stella colla città d'Atene. Quanto
alla terza, e ultima cosa, cioè alla comunità de' vocaboli,
egli è necessario che io per iscoprirvi questo o errore,
o inganno, e farvi affatto capace di tutta la verità, mi
distenda alquanto. Dovete adunque sapere che il Trissino
volendo mostrare ch'egli si trovava una lingua comune
a tutta Toscana, e un'altra comune a tutta Italia, e che
questa ultima è quella nella quale scrissero Dante, e gli
altri buoni Autori, dice, seguitando l'autorità di chiunche
si fosse colui il quale compose il libro della Volgare
Eloquenza Latinamente, benché egli afferma che fosse
Dante, queste parole proprie: perciocché, siccome della
lingua Fiorentina, della Pisana, della Sanese, e Lucchese,
Aretina, e dell'altre, le quali sono tutte Toscane, ma differenti
tra se, si forma una lingua che si chiama lingua Toscana,
così di tutte le lingue Italiane si fa una lingua che
si chiama lingua Italiana, e questa è quella in cui scrissero
i buoni Autori, la quale tra gli altri cognomi si nomina
lingua Illustre, e Cortegiana, perciocché, s'usa nelle corti
d Italia, e con essa ragionano comunemente gli uomini illustri,
e i buoni cortigiani. E in un altro luogo volendo
provare il medesimo, allega le medesime parole di quello
Autore, ma tradotte così: Questo Volgare adunque, che
essere Illustre, Cardinale, Aulico, Cortigiano avemo dimostrato,
dicemo esser quello che si chiama Volgare Italiano,
perciocché, siccome si può trovare un volgare che è proprio
di Cremona, così se ne può trovare uno che è proprio di
Lombardia, e un altro che è proprio di tutta la sinistra parte
d'Italia; e siccome tutti questi si ponno trovare, così parimente
si può trovare quello che è di tutta Italia; e siccome
quello si chiama Cremonese, e quell'altro Lombardo, e
quell'altro di mezza Italia, così questo che è di tutta Italia,
si chiama Volgare Italiano, e questo veramente hanno usato
gl'illustri dottori che in Italia hanno fatto poemi in lingua
volgare, cioè i Siciliani, i Pugliesi, i Toscani, i Romagnuoli,
i Lombardi, e quelli della Marca d'Ancona, e della
Marca Trivigiana.
C. Per la medesima ragione, e colla stessa proporzione
credo io che egli arebbe potuto dire che si fosse potuto
trovare una lingua comune a tutta Europa, e un'altra
comune a tutto 'l mondo; ma che ne pare a voi?
V. A me pare che tutte le parole sopraddette siano
vane, e finte, e in somma, come le chimere, alle quali
in effetto non corrisponde cosa nessuna. Il Trissino
medesimo vuole che non solo tutte le città di Toscana, e
tutte le castella, e tutte le ville abbiano nel parlare alcuna
differenza tra loro; il che è vero; ma eziandio ciascuna
via, ciascuna casa, e ciascuno uomo: il che s'è vero,
non è considerabile in una lingua, né si dee mettere in
conto. Ora io vorrei sapere quando, dove, come, e da
chi, e con quale autorità fu formata quella lingua che si
chiama lingua Toscana, e così quando, dove, come, e da
chi, e con quale autorità di quattordici regioni, ciascuna
delle quali ha tante città, tante castella, tanti borghi, tante
vie, tante case, e finalmente tanti uomini, tutte, e tutti
diversamente parlanti, si formasse quella lingua che si
chiama lingua Italiana.
C. E' mi pare di ricordarmi che egli risponda a cotesta
obbiezione, faccendo dire a Messer Giovanni Rucellai,
Castellano di Castel S. Agnolo, queste parole:
Palla mio fratello ha qualche vocabolo, e modo di dire, e pronunzia
differente dalla mia, per le quali le nostre lingue vengono ad
essere diverse. Rimoviamo adunque quegli vocaboli, e modi di
dire, e pronunzie diverse, e allora la sua lingua, e la mia saranno
una medesima, e una sola. Così i Certaldesi hanno alcuni vocaboli,
modi di dire, e pronunzie differenti da quelli di Prato, e quelli
di Prato da quelli di San Miniato, e di Fiorenza, e così degli altri
lochi Fiorentini; ma chi rimovesse a tutti le differenti pronunzie,
modi di dire, e vocaboli che sono tra loro, non sarebbono allor
tutte queste lingue una medesima lingua Fiorentina, e una sola?
[FIL. Sì sarebbono. [CAST. A questo medesimo modo si ponno
ancora rimuovere le differenti pronunzie, modi di dire, e vocaboli
alle municipali lingue di Toscana, e farle una medesima, e una
sola, che si chiami lingua Toscana; e parimente rimovendo le differenti
pronunzie, modi di dire, e vocaboli che sono tralla lingua
Siciliana, la Pugliese, la Romanesca, la Toscana, la Marchiana, la
Romagnuola, e l'altre dell'altre regioni d'Italia, non diverrebbono
allora tutte una istessa lingua Italiana? FIL. Sì diverrebbono,
ec.
V. Questa è una lunga tiritera; e quando io concedessi
che ciò fosse possibile a farsi, non perciò seguirebbe che
egli fatto si fosse.
C. Basta che, se egli non s'è fatto, si potrebbe fare.
V. Forseché no.
C. Domin fallo, che voi vogliate negare, ciò essere
possibile.
V. Non io non voglio negare che sia possibile.
C. Se è possibile, dunque si può fare.
V. Cotesta conseguenza non vale.
C. Come non vale? quale è la cagione?
V. La cagione è, che molte cose sono possibili a farsi,
le quali fare non si possono.
C. Questa sarà bene una loica nuova, o una filosofia
non mai più udita. Come è possibile che quello che è
possibile a farsi, non si possa fare?
V. Ella non è così nuova, né tanto inaudita, quanto
voi vi fate a credere, e bisognerebbe che io vi dichiarassi
le possibilità, o potenze loice; ma io lo vi farò toccar con
mano con uno esemplo chiarissimo per non mi discostare
tanto, né tante volte dalla materia proposta. Ditemi, è
egli possibile che due uomini, essendo in sulla cupola,
o in qualunche altro luogo, e versando un sacco per
uno pieno di dadi, è possibile (dico) che quelli d'un
sacco caggendo in terra si rivolgessero in guisa, che tutti
fossero assi, e quegli di quell'altro tutti sei?
C. È possibile, e niuno può negarlo; credo bene, anzi
sono certissimo che non avverrebbe mai; così volete dir
voi, potersi chiamare possibile, ma non essere, che di tutte
le terre di Toscana, e di tutte quelle d'Italia si rimuovano
tutte le pronunzie, tutti i vocaboli, e tutti i modi di
dire; e in vero questa cosa si può più immaginare colla
mente, o dire colle parole, che mettersi in opera co' fatti:
benché quando ancora si potesse fare per l'avvenire, a voi
basta che ella non sia stata fatta insin qui. Ma state a udire;
egli per provare questo suo detto dice in un altro luogo
queste stesse parole: Perciocché, siccome i Greci delle
loro quattro lingue, cioè dell'Attica, della Ionica, della Dorica,
e dell'Eolica, formano un'altra lingua che si dimanda
lingua Comune, così ancora noi della lingua Toscana,
della Romana, della Siciliana, della Viniziana, e dell'altre
d'Italia ne formiamo una comune, la quale si dimanda Italiana.
E della medesima sentenza pare che sia il Castiglione,
scrivendo nel primo libro del suo Cortegiano queste
parole: Né sarebbe questo cosa nuova, perché delle quattro
lingue che avevano in consuetudine i scrittori Greci, eleggendo
da ciascuna parole, modi, e figure, come ben lor veniva,
ne facevano nascere un'altra che si diceva Comune,
e tutte cinque poi sotto un sol nome chiamavano lingua
Greca.
V. Quando le ragioni di sopra non militassero, le quali
militano gagliardissimamente, a cotestoro risponde il
Bembo nel primo libro delle sue Prose con queste parole
poste nella bocca di Messer Trifone Gabriele: Che siccome
i Greci quattro lingue hanno, alquanto tra se differenti,
e separate, delle quali tutte una ne traggono, che niuna
di queste è, ma bene ha in se molte parti, e molte qualità
di ciascuna; così di quelle che in Roma per la varietà delle
genti che, siccome fiumi al mare, vi corrono, e allaganvi
d'ogni parte, sono senza fallo infinite, sene genera, ed escene
questa che io dico, cioè la Cortigiana. E poco di sotto,
volendo ribattere così frivolo argomento, fa che Messer
Trifone risponda che oltraché le lingue della Grecia erano
quattro, come dicea, e quelle di Roma tante, che non
si numerarebbero di leggiere, delle quali tutte formare, e
comporne una terminata, e regolata non si potea, come
di quattro s'era potuto; le quattro Greche nella loro propria
maniera s'erano conservate continovo, il che aveva
fatto agevole agli uomini di quei tempi dare alla quinta
certa qualità, e certa forma. Voi vedete le lingue Greche
non erano se non quattro, e il Bembo a gran pena concede
che di loro sene facesse una Comune, pensate come
arebbe conceduto che di tutte le lingue Italiane, che sono
tante che è un subbisso; poiché il Trissino vuole che
ciascuno abbia la sua differenziata da quella di ciascuno
altro; come arebbe conceduto, dico, che di tante centinaja
di migliaja, e forse di milioni, sene fosse potuto fare
una sola? Ma io, che non intendo frodarvi di cosa nessuna,
voglio dirvi anco in questo liberamente l'oppenione
mia. Io non credo che quello che dicono così grandi uomini,
e tanto dotti ancora nelle lettere Greche, sia vero,
sebbene hanno ancora dalla parte loro eziandio de' Greci
medesimi. Io per me credo che la lingua Comune con
solo non nascesse dal mescolamento delle quattro pro-
prie, come dicono essi, e per conseguente fosse dopo, e
come figliuola loro; ma che ella fosse la base, e il fondamento,
e per conseguente prima, e come madre di tutte;
e così pare non pur verisimile, ma necessario che sia;
perché la Grecia ebbe da principio una favella sola, che
si chiamava la lingua Greca, poi dividendosi in più parti,
e principalmente in quattro, ciascuna delle quattro o
aggiunse, o levò, o mutò alcuna cosa alla lingua comune,
onde ne nacquero quelle quattro, le quali si chiamavano
non lingue propriamente, ma dialetti, e ciascun dialetto
era composto di due parti, cioè della lingua comune, e
di quelle proprietà che esse aveano oltra la lingua comune,
che si chiamavano propriamente idiomi: sebbene cotali
vocaboli talvolta si scambiano, pigliandosi l'uno per
l'altro, e l'altro per l'uno. Vedete oggimai voi per quanti
versi, e con quante ragioni si mostri chiarissimamente,
e quasi dimostri impossibile cosa essere, trovarsi una
lingua, la quale sia propriamente o Toscana, o Italiana.
C. Tanto ne pare a me; ma ditemi ancora: un Fiorentino,
il quale fosse stato a Lucca, e favellasse mezzo Fiorentino,
e mezzo Lucchese, e un altro che fosse stato a
Roma, e favellasse mezzo Fiorentino, e mezzo Bergamasco,
volli dire Romanesco, in qual lingua direste voi che
costoro favellassero?
V. O in nessuna, o in due, o in una sola imbastardita.
C. Il Trissino disse che il primo parlerebbe Toscano, e
il secondo Italiano, e così vuol provare che si ritruovino
la lingua Toscana, e l'Italiana.
V. Gentil pruova; io so bene che già in non so qual
terra di Cicilia si favellava mescolatamente, e alla rinfusa
Greco, e Latino, e oggi in Sardigna, o in Corsica, che
si sia, da alcuni si favella volgarmente il meglio che
possono, e da alcuni più addentro dell'Isola Latinamente
il meglio che sanno. Ma le lingue mescolate, e bastarde,
che non hanno parole, né favellari, proprj non sono
lingue, e non sene dee far conto, né stima nessuna, e chi
vi scrivesse dentro sarebbe uccellato, e deriso, se già nol
facesse per uccellare egli, e deridere altri; come fece quel
nuovo pesce che scrisse ingegnosissimamente in lingua
Pedantesca, che non è né Greca, né Latina, né Italiana,
la Glottocrisia contra Messer Fidenzo.
C. Quando io la lessi, fui per ismascellare delle risa.
Ma Dante scrisse pure la canzone in lingua trina.
V. Alcuni dicono che ella non fu di Dante; ma fosse
di chi si volesse, ella non è stata, e non sarà gran fatto
imitata.
C. Avete voi esemplo nessuno alle mani, mediante il
quale si dimostrasse così grossamente ancora agli uomini
tondi, che Dante, e gli altri scrissero in lingua Fiorentina?
V. Piglinsi le loro opere, e leggansi alle persone idiote,
e per tutti i contadi di Toscana, e di tutta Italia, e vedrassi
manifestamente che elle saranno di gran lunga meglio
intese in quegli di Toscana, e particolarmente in quello
di Firenze, che in ciascuno degli altri; dico non quanto
alla dottrina, ma quanto alle parole, e alle maniere del
favellare.
C. Messer Lodovico Martelli usò cotesto argomento
proprio contra il Trissino; ma egli nel Castellano lo niega,
affermando che le donne di Lombardia intendeano
meglio il Petrarca, che le Fiorentine; che rispondete voi?
V. Che egli scambiò i dadi; ma come colui che non devea
essere troppo solenne barattiere, non lo fece di bello,
ma sì alla scoperta, che ogni mezzano non dico mariuolo,
o baro, ma giucatore l'arebbe conosciuta, e fattogli rimettere
su i danari. Il Martello intende naturalmente e
degl'idioti, e de' contadini, e il Trissino piglia le gentildonne,
e quelle che l'aveano studiato; che bene gli arebbe,
secondoché io penso, conceduto il Martello che più
s'attendeva; e massimamente in quel tempo, alla lingua
Fiorentina in Lombardia, e meglio s'intendea da alcuno
particolare, che in Firenze comunemente. Ma facciasi
una cosa, la quale potrà sgannargli tutti; piglinsi scritture
o in prosa, o in, verso scritte naturalmente, e da persone
idiote di tutta Italia, e veggasi poi, quali s'avvicinano più
a quelle de' tre maggiori nostri, e migliori; o sì veramente
coloro che dicono che la lingua è ltaliana, scrivano o in
verso, o in prosa, ciascuno nella sua propria lingua natìa,
e allora vedranno qual differenza sia dall'una all'altra, e
da ciascuna di loro a quelle eziandio degl'idioti Fiorentini,
ancora quando scrivono, o dicono all'improvviso.
Io non voglio por qui gli esempli d'alcuni componimenti
che io ho di diverse lingue Italiane, sì per non parere di
voler contraffare in cosa non necessaria i Zanni, e sì perché
io credo che ciascuno s'immagini, e vegga coll'animo
quello che io non dicendo mostro per avventura meglio,
che se io lo dicessi.
C. Ciascun bene non è egli tanto maggiore, quanto egli
maggiormente si distende?
V. E'.
C. Non è più nobile il tutto, che una sua poca parte?
V. E'.
C. Non è maggior cosa, e più onorata esser Re di tutta
Italia, che Signor di Toscana, e di Firenze?
V. E'.
C. Per tutte e tre queste ragioni vuole il Muzio che la
lingua si debbia piuttosto chiamare Italiana, che Toscana,
o Fiorentina.
V. Quanto alla prima vi rispondo che sarebbe bene
che tutti gli uomini fossero buoni, e virtuosi, ma per questo
non segue che siano; se fosse bene che la lingua Fiorentina
si distendesse per tutta Italia, e a tutti fosse natìa,
non voglio disputare ora; ma ella non è. Quanto alla seconda,
egli è ben vero che Firenze è picciola parte di Toscana,
e menomissima d'Italia, come d'un tutto, e conseguentemente
meno nobile di loro: ma la lingua Fiorentina,
la quale è accidente, non è parte della lingua Toscana,
né dell'Italiana, come d'un tutto, ma come d'una spezie,
e d'un genere; e voi sapete quanto gl'individui anco-
ra degli accidenti, i quali se sono in alcuno subbietto, non
si predicano di sulbbietto alcuno, sieno più nobili che le
spezie, e i generi non sono, le quali, e i quali non si ritruovano
altrove che negli animi nostri. Quanto alla terza,
ed ultima, maggior cosa per me sarebbe, e più onorata
che io fossi Conte, o qualche gran Barbassoro, ma se
io non sono, non debbo volere chiamarmi, o essere chiamato
per non mentire, e dar giuoco alla brigata, come farebbe
se uno che fosse Re di Toscana sola, si chiamasse
o volesse essere chiamato Re d'Italia.
C. Ma che rispondete voi a quello esemplo che egli allega
nelle lettere a Messer Gabriello Cesano, e a Messer
Bartolomeo Cavalcanti con queste parole? A me pare
che nella Toscana sia avvenuto quello che suole avvenire
in quei paesi dove nascono i vini più preziosi, e che
i mercatanti forestieri i migliori comperando, quegli se ne
portano, lasciando a' paesani i men buoni: così, dico, è a
quella regione avvenuto, che gli studiosi della Toscana lingua
dall'altre parti d'Italia ad apprender quella concorrono,
in maniera che essi con tanta leggiadria la recano nelle
loro scritture, che tosto tosto potremo dire che la feccia di
questo buon vino alla Toscana sia rimasa.
V. Risponderei, se egli intende che in Firenze non si
favelli meglio che in ciascuna di tutte l'altre città d'Italia,
e di Toscana, ciò non esser vero; ma se egli intende che si
trovino de' forestieri, i quali non solamente possano scrivere,
ma scrivano meglio de' Fiorentini, cioè alcuno forestiero,
d'alcuno Fiorentino, lo confesserò senza fune.
Dico di Firenze, e non di Toscana, perché egli nella medesima
lettera testimonia che tutto quello che egli dice
di Toscana, dice ancora conseguentemente di Firenze, e
a ogni modo quell'esemplo non mi piace, perché non mi
pare né vero, né a proposito; e volentieri intenderei da
lui, il quale io amo, ed onoro, e spenderei ancora qualcosa
del mio, se quel tosto tosto s'è ancora adempiuto, e ve-
rificato, e chi coloro sieno, i quali adempiuto, e verificato
l'hanno.
C. Che vi pare della Lettera al Signor Rinato Trivulzio
contra l'oppenione di Messer Claudio?
V. Che egli non la scrisse né con quel giudizio, né con
quella sincerità che mi suol parere ch'egli scriva l'altre
cose.
C. Per quali cagioni?
V. Non importando elle alla verità della nostra disputa,
non accade che io le vi racconti, e tanto più che io intendo
non di quelle che appartengono alla dottrina, nelle
quali non approvo né l'una, né l'altra, ma al modo, e
modestia dello scrivere.
C. Se io m'appongo di due, o di tre confesserete voi?
V. Perché no?
C. Io penso che non vi piacciano quelle parole. E già
detto vi ho che egli è cosa stata scritta da un Toscano:
né quell'altre poco di sotto: Vi dirò adunque con più
parole quello che con un solo motto a me pareva d'avere
a bastanza espresso; e manco quell'altre, giucando pure
sopra il medesimo tratto: Or che vene pare infino a qui?
Non mi sono io bene risoluto che un Toscano abbia scritto
quel libretto?
V. Voi vi sete apposto; perché non so che conseguenza
si sia: un Toscano ha scritto della lingua Toscana, e
Italiana, e ha giudicato in favore della Toscana; dunque
ha giudicato o male, o con passione. A questo ragguaglio
né gli Ateniesi, né i Romani, né alcuno altro popolo
arebbono potuto scrivere delle lingue loro in comparazione
dell'altre, se non o male, o con passione. Che più?
Il Muzio è Italiano, e ha scritto in favore della lingua Italiana
contra la Toscana; dunque ha scritto male, o con
passione.
C. Anco quello esemplo di Dio, che ne' cieli sparga le
grazie all'Intelligenze, non crede che vi piaccia, né che vi
paja troppo a proposito, e che vi stia anzi a pigione, che
no.
V. Ben credete.
C. Né anco che egli dica che Pistoja non è stata compresa
da Messer Claudio in Toscana, credo che vi soddisfaccia.
V. Non certo, conciossiacosaché Messer Claudio la
comprende, se non nominatamente, almeno senza dubbio
nessuno in quelle parole: E l'altre vicine; sicché
l'autorità di Messer Cino non ha da dolersi. Ma entriamo
in cose di maggiore utilità; che io riprendo mal volentieri
i nimici, e le persone idiote, non che gli uomini
dotti, e amicissimi miei.
C. Venghiamo dunque; ch'omai n'è ben tempo; alle
autorità che allegano per la parte loro.
V. Quali sono?
C. Dante primieramente la chiama spesse fiate Italiana,
o Italica, sì nel Convivio, e sì massimamente nel libro
della Volgare Eloquenza.
V. Quanto al Convivio, Messer Lodovico Martelli risponde
che egli così larghissimamente la nomina, quasi
a dimostrare dove è il seggio d'essa, ovvero che egli
s'immagina che dicendo l'Italica lingua, s'intenda quella
lingua, la quale è Imperatrice di tutte l'Italiane favelle.
Ma perché queste sono oppenioni solo da semplici
congetture procedenti, io direi piuttosto che egli la chiamò
così dal genere; il che esser vero, o almeno usarsi, dimostrammo
di sopra; e massimamente che Dante stesso
nel medesimo Convivio dice più volte d'avere scritto
ora nella sua naturale, e ora nella sua propria, e ora nella
sua prossimana, e più unita loquela; e si vede chiaro
ch'egli intende, della Fiorentina, come mostrano Messer
Lodovico, e Messer Claudio, ancoraché 'l Trissino lo nieghi.
E chi vuole chiarirsi, e accertarsi di manieraché più
non gli rimanga scrupolo nessuno, legga il nono, il decimo,
l'undecimo, il dodicesimo, e tredicesimo capitolo
del Convivio. E chi vuole credere piuttosto al Boccaccio,
che a Dante proprio, legga il XV. libro delle Genealogie
sue, dove egli dice, benché Latinamente, che Dante scrisse
la sua Commedia in rime, e in idioma Fiorentino; e il
medesimo Boccaccio nella Vita di Dante dice espressamente
che egli cominciò la sua Commedia in idioma Fiorentino,
e compose il suo Convivio in Fiorentin Volgare:
e Dante stesso scrisse nel X. Canto dell'Inferno d'essere
stato conosciuto da Farinata per Fiorentino solamente
alla favella, dicendo:
O Tosco, che per la città del foco
Vivo ten vai così parlando onesto,
Piacciati di restare in questo loco:
La tua loquela ti fa manifesto
Di quella nobil patria natìo
Alla qual forse fui troppo molesto.
Dove si conosce manifestamente ch'egli distingue
la loquela Fiorentina da tutte l'altre; ed è da notare
che egli disse prima Tosco per la spezie, poi discende
all'individuo per le cagioni dette di sopra lungamente, e
nel trentatreesimo fa dire al Conte Ugolino queste proprie
parole:
Io non so chi tu sie, né per che modo
Venuto se' quaggiù, ma Fiorentino
Mi sembri veramente, quand'i' t'odo.
Non dice né Italiano, né Toscano, ma Fiorentino, e
nel venzettesimo distinse il Lombardo dal Toscano:
Udimmo dire: O tu, a cui io drizzo
La voce, che parlavi mo Lombardo
Dicendo: Isso ten va, più non t'aizzo.
Quanto all'autorità del libro de Vulgari Eloquio, già s'è
detto, quell'opera non essere di Dante, sì perché sareb-
be molte volte contrario a se stesso, come s'è veduto, e
sì perché tale opera è indegna di tanto uomo. E chi crederà
che Dante chiamando i Toscani pazzi, insensati, ebbri,
e furibondi, perché s'attribuiscono arrogantemente
il titolo del Volgare illustre, voglia provare tante cose, e
mostrare che niuna città di Toscana ha bel parlare con
due parole sole, dicendo così: I Fiorentini parlano, e dicono:
Manichiamo, introcque non facciamo altro; i Pisani:
Bene andomio gli fanti di Fiorenza per Pisa; i Lucchesi: Fo
voto a Dio, che ingassaria cielo comuno di Lucca; i Sanesi:
Onche rinegato avessi io Siena; gli Aretini: Vuo tu venire
ov'elle.
C. Oltraché io credo che queste parole siano scorrette,
e mal tradotte, queste mi pajon cose che se pure fossero
state scritte da lui, non sarebbono sue, come diceste voi.
V. Ditemi che egli stesso usa quelle medesime parole
che egli biasima, e riprende ne' Fiorentini, dicendo in
una canzone:
. . . . . Ch'ogni senso
Cogli denti d'Amor già si manduca.
e nella Commedia:
Noi parlavamo, e andavamo introcque.
C. Quanto al Petrarca, quando vogliono mostrare
ch'egli stesso confessa d'avere scritto in lingua Italiana,
allegano questi versi:
Del vostro nome, se mie rime intese
Fusser sì lunge, avrei pien Tile, e Battro,
La Tana, il Nilo, Atlante, Olimpo, e Calpe.
Poiché portar nol posso in tutte quattro
Parti del mondo, udrallo il bel paese
Ch'Appennin parte, e 'l mar circonda, e l'Alpe.
Il bel paese partito dall'Appennino, e circondato dal
mare, e dall'Alpe non è né Firenze, né Toscana, ma Italia;
dunque la lingua, colla quale il Petrarca scrisse, non è né
Fiorentina, né Toscana, ma Italiana.
V. Messer Agnolo Colozio, uomo di gran nome, quando
insegnò, questo colpo al Trissino, non si devette ricordare,
questo argomento non valere: questa lingua
s'intende in Italia, dunque questa lingua è Italiana; perché
la lingua Romana s'intendeva in Francia, e in Ispagna,
e non era per questo né Spagnuola, né Franzese; e il
meglio sarebbe stato che il Petrarca cercando d'acquistar
grazia da Madonna Laura avesse detto: poiché io non
posso portare il nome vostro in tutto 'l mondo, io farò sì,
che egli sarà udito nel contado, e distretto dì Firenze, o
nelle maremme di Pisa, e di Siena.
C. Ella, sarebbe stata delle sei; ma eglino allegano
ancora quel verso de' Trionfi:
Ed io al suon del ragionar Latino.
sponendo Latino, cioè Volgare Italiano.
V. Il Dolce dice che il Petrarca intende in cotesto
luogo l'antica lingua Latina, e non la moderna Volgare,
della quale niuna cognizione Seleuco avere poteva, e
quando avesse inteso della Volgare, l'arebbe nominata
pel genere; il che si concede talvolta a' prosatori, non
che a' poeti.
C. Che risponderebbono eglino a quel Sonetto del
Petrarca?
S'io fussi stato fermo alla spelunca
Là dov'Apollo diventò profeta,
Fiorenza avria forse oggi il suo poeta,
Non pur Verona, Mantova, ed Arunca.
V. Risponderebbono, come fa il Muzio, che egli intende
delle sue opere non Volgari, ma Latine, le quali egli
stimava più, e chiamava quelle ciance.
C. Perché non dell'une, e dell'altre? Quasi Catullo,
e gli altri nobili poeti non chiamino i lor componimenti
per modestia, o per un cotale uso, ciance: e io per me,
poiché egli scrisse ciò Volgarmente, e non Latinamente,
credo che egli intendesse piuttosto delle Volgari, che
delle Latine.
V. Ognuno può tirare queste cose dove egli vuole, e
interpetrarle secondoché meglio gli torna.
C. Del Boccaccio non credo io che nessuno dubiti, dicendo
egli da se nel proemio della quarta giornata chiarissimamente,
che ha scritto le sue Novelle in Volgare
Fiorentino.
V. Anzi sì; Messer Claudio disse così non perché egli
non iscrivesse in lingua Toscana, ma perché le donne che
egli introduceva a parlare; erano tutte Fiorentine.
C. Questo è un pazzo mondo.
V. Pazzo è chi gli crede; e il Trissino per abbattere
questa autorità con un'altra del medesimo Boccaccio,
quasi botta risposta, allega questi versi nel fine della
Teseide:
Ma tu, o libro primo, alto cantare
Di Marte fai gli affanni sostenuti
Nel volgar Lazio mai più non veduti;
i quali ne' libri stampati si leggono così:
Ma tu, mio libro primo, a lor cantare
Di Marte fai gli affanni sostenuti
Nel volgare, e Latin non più veduti.
Del che par che seguiti che la lingua si possa chiamare
ancora per lo nome d'Italia; il che non si niega, anzi è
necessario così fare, quando si vuol nominare pel genere.
Vedete ora se mi mancano, o m'avanzano autorità; e
quando per autorità avesse a valere, io direi del Bembo,
come Marco Tullio di Catone.
C. Io mi fo gran maraviglia che allegando il Bembo
tante volte, e tanto indubitatamente, non solo che Dante,
il Petrarca, il Boccaccio, e gli altri buoni, autori scrissero
nella lingua Fiorentina anticamente, ma ancora che
tutti coloro, i quali, oggi scrivono leggiadramente, scrivono
in lingua Fiorentina, e che la Fiorentina a tutti gli
altri Toscani, e italiani è straniera, coloro che tengono
altramente, e vogliono sostenere la contraria parte, non
facciano mai menzione alcuna di lui, come se non fosse
stato al mondo, e non fosse stato il Bembo, cioè compito,
e fornitissimo di tutte le virtù.
V. Così si vive oggidì: anzi Messer Claudio l'induce
nel suo dialogo a tenere, e difendere che ella si debba
chiamare Volgare; il che non so quanto sia lodevole, e
tanto più essendoci di mezzo gli scritti suoi. Anche Messere
Sperone pare che faccia che il Bembo la chiami Toscana;
onde se il suo libro delle Prose non si trovasse,
potrebbe credere ciascuno, ancora il Bembo essere stato
nella comune erranza, e oppenione, non si trovando nessuno
di quegli che ho letto io, il quale la chiami assolutamente,
e risolutamente per lo suo proprio, vero, legittimo,
e diritto nome, cioè Fiorentina, se non egli; della
quale veramente verissima, e liberalissima testimonianza
gli debbe avere non picciolo, e perpetuo obbligo il comune,
e tutta la città di Firenze.
C. Ditemi ora perché a voi non dispiace che ella si
chiami Volgare, come fa alla maggior parte degli altri.
V. Perché tutte le lingue che si favellano, sono Volgari;
e la Greca, e la Latina, mentre si favellavano, erano Volgari;
e il volgo, onde ell'è detta, nel fatto delle lingue non
solo non si dee fuggire, ma seguitare, come coll'autorità
di Platone vi mostrai poco fa. Oltracciò avete a sapere
che Dante, e gli altri Antichi nostri la chiamarono Volga-
re, avendo rispetto non al volgo, ma alla Latina, che essi
chiamavano Grammaticale, onde tutte le lingue che non
sono Latine, o Grammaticali, si chiamavano, e si chiamano
Volgari; e vedete che oggi anco la Greca, perché
non è più quale era, si chiama Volgare. Devete ancora
sapere che quanti sono i volgi che parlano diversamente,
tanti sono i Volgari; onde altro è il Volgare Fiorentino,
e altro quello di Siena; benché essendo oggi Firenze,
e Siena sotto un Prencipe medesimo, potrebbono questi
due Volgari, con qualche spazio di tempo, divenire un
solo. E perché anco la Franzese, e la Spagnuola, e tutte
le altre che oggidì si favellano, sono Volgari, vogliono
alcuni che quando si dice Volgare senza altra aggiunta,
s'intenda per eccellenza del Fiorentino.
C. Cotesto non è fuor di ragione; ma chi la chiamasse
la lingua del Sì?
V. Seguiterebbe una larghissima divisione che si fa
delle lingue nominandole da quella particella, colla quale
affermano, come è la lingua d'hoc, chiamata da' Volgari
lingua d'oca, perciocché hoc in quella lingua tanto significa,
quanto __´_ nella Greca, ed etiam, o ita nella Latina,
e nella nostra sì: e perciò Dante disse:
Oh Pisa vituperio delle genti
Del bel paese là dove 'l Sì suona, ec.
C. Il Castelvetro, e molti altri che non sono Fiorentini,
né Toscani, la chiamano spesse volte la lingua loro,
dicendo nostra: giudicate voi che possano farlo?
V. Che legge, o qual bando è ito che lo vieti loro? E se
nol potessono fare, come lo farebbono? E, per dirvi da
dovero l'oppenione mia, tutti coloro che si sono affaticati
in apprenderla, e l'usano, crederei io che potessero, se
non così propriamente, in un certo modo chiamarla loro,
e che i Fiorentini non solo non dovessero ciò recarsi a
male, ma ne avessero loro obbligo, e negli ringraziassero,
perché le fatiche, e opere loro non sono altro che trofei,
e onori di Firenze, e nostri.
C. Perché non volete voi che ella si chiami Cortigiana?
V. Perché questa fu una oppenione del Calmeta, il
quale era il Calmeta, e fu riprovata con efficacissime
ragioni prima dal Bembo, e poi dal Martello, poi dal
Muzio, e poi da Messer Claudio, e brevemente, da tutti
coloro che fanno professione, e sono intendenti delle
cose Toscane.
C. Resta per ultimo che mi diciate quale è stata la cagione
che i Fiorentini, essendo veramente padroni, e giustamente
signori di così pregiata, e onorata lingua, come
voi, secondo quel poco che so, e posso giudicare io, avete
non pure mostrato, ma, per quanto comporta la materia,
dimostrato, l'abbiano quasi perduta, e i forestieri
sene siano poco meno che insignoriti; perciocché in tutti
gli scritti che vanno attorno così Latini, come Volgari,
dovunque, e quantunque occorre di nominarla, si chiama
spessissime volte Italiana, e spesse Toscana, ma Fiorentina
radissime, e piuttosto non mai; è ciò proceduto
dalla negligenza de' Fiorentini, o dalla diligenza de' forestieri?
Chiamo forestieri così i Toscani, come gl'Italiani
per distinguergli dai Fiorentini.
V. Dall'una cosa, e dall'altra; perciocché la sollecitudine
de' forestieri per doversi acquistare così alto dono
non è stata picciola, e la trascuraggine de' Fiorentini in
lasciarlosi torre è stata grandissima.
C. Nasceva ciò dal non conoscerlo, o dal non pregiarlo?
V. Così da questo, come da quello; conciossiacosaché
i letterati uomini ammirando, e magnificando le lettere
Greche, e le Latine, onde potevano sperare di dover trarne
e onori, e utili, dispregiavano co' fatti, e avvilivano le
Volgari come disutili, e disonorate: e gl'idioti non le conoscendo;
e veggendole dispregiare, e avvilire da coloro,
i quali credevano che le conoscessero, non potevano né
amarle, né stimarle; di manieraché tra per questo, e per
le mutazioni, e rovine della città di Firenze, era la cosa
ridotta a termine che, se per ordinamento de' cieli non
veniva il Duca Cosimo, si spegnevano in Firenze insieme
colle scienze non pur le lettere Greche, ma eziandio
le Latine; e le Volgari non sarebbero risorte, e risuscitate
come hanno fatto. Ma egli dietro il lodevolissimo, e
lodatissimo esempio de' suoi onorabilissimi, e onoratissimi
Maggiori in verdissima età canutamente procedendo,
oltra l'avere in Firenze con ampissimi onori, e privilegj
due Accademie, una pubblica, e l'altra privata, ordinato,
riaperse dopo tanti anni lo Studio Pisano, nel quale
i primi, e più famosi uomini d'Italia in tutte l'arti liberali
con grossissimi salarj in brevissimo tempo condusse,
affinché così i forestieri, come i Fiorentini che ciò fare
volevano, potessero insieme con tutte le lingue tutte
le scienze apprendere, e apparare. E di più perché molti
acuti ingegni del suo nobilissimo, e fioritissimo Stato
dalla povertà rintuzzati non fossono, anzi potessero anch'essi
mediante l'industria, e lo studio loro a' più eccelsi
gradi de' più sublimi onori innalzarsi, instituì a sue spese
con ordini maravigliosi un solennissimo Collegio nella
Sapienza stessa; le quali comodità, piuttosto sole che
rare in questi tempi, e piuttosto divine che umane, sono
state ad infiniti uomini, e sono ancora, e sempre saranno
d'infiniti giovamenti cagione. Laonde io per me credo,
anzi tengo per certissimo, che quanto durerà il mondo,
tanto dureranno le lodi, e gli onori, e conseguentemente
la vita del Duca Cosimo. E nel vero la somma prudenza,
la singulare giustizia, e l'unica di lui....
C. Se voi sapete che in tutto è orbo chi non vede il
Sole, non entrate ora in voler raccontarmi quelle cose,
le quali sono per se più che chiarissime, e notissime a
ciascheduno, non che a me, che l'ammiro, ed osservo
quanto sapete voi medesimo; ma piuttosto, posciaché
i Fiorentini sono con quella sicurtà che si corrono le
berrette a' fanciulli zoppi, stati spogliati del nome della
lor lingua, ditemi, se ciò è avvenuto loro o per forza, o di
nascoso, o pur per preghiere.
V. In nessuno di cotesti tre modi propriamente.
C. Dunque non hanno che proporre interdetto nessuno,
mediante il quale possano per la via della ragione ricuperarne
la possessione, ed essere di tale, e tanto spoglio
reintegrati.
V. Io non ho detto che siano stati assolutamente, ma
quasi poco meno che spogliati; e voi pur sapete che le
possessioni delle cose ancora coll'animo solo si ritengono.
C. Se dicessero che i Fiorentini non curando, anzi dispregiando
la lor lingua, se ne fossero spodestati da se
medesimi, e che le cose, le quali s'abbandonano, non sono
più di coloro, i quali per qualunque cagione, per non
più volerle, l'hanno per abbandonate, ma di chiunche le
truova, e se le piglia, che rispondereste voi?
V. Che dicessero quasi il vero, e che a gran parte
de' Fiorentini fosse bene investito; se non che la lingua
è comune a tutti, cioè a ciascuno; e in Firenze sono
stati d'ogni tempo alcuni, i quali l'hanno pregiata, e
riconosciuta, e voluta per loro.
C. E se dicessero d'averla prescritta, o usucatta colla
lunghezza del tempo, cioè fattola loro col possederla
lungamente, che direste?
V. Che producessero testimonianze fedeli, e pruove
autentiche maggiori d'ogni eccezione, prima, d'averla
posseduta pacificamente senza essere stata interrotta la
prescrizione, e in oltra, che mostrassino la buona fede, e
con che titolo posseduta l'avessero; e all'ultimo bisogno,
quando pure le cose pubbliche, e comuni prescrivere col
tempo, o pigliare coll'uso si potessero, allegherei insieme
con quella delle XII. Tavole la legge Attilia (per tacere
quella di Lucio, e di Plauzio).
C. Voi non avete da dubitare che si venga a questo;
e perciò, lasciato questa materia dall'una delle parti, disidero
che mi narriate alcuna cosa dell'Accademia, nella
quale intendo che furono sì gran tempo tante discordie,
e così gravi contenzioni.
V. Questo non appartiene al ragionamento nostro; elle
furono tali che colle parole di Vergilio, o piuttosto della
Sibilla, vi dico, ne quaere doceri.
C. Ditemi almeno; il che al ragionamento nostro si
conviene; se ella ha giovato, o nociuto alla lingua Fiorentina.
V. Come non si può negare che l'Accademia le abbia
giovato molto, così si dee confessare da chi non vuole
uccidere il vero, che alcuni dell'Accademia le abbiano
nociuto non poco.
C. Chi sono cotesti Accademici?
V. Che avete voi a fare de' nomi? Non basta (come
disse Calandrino) sapere la virtù? Costoro; il numero
de' quali, se arrivava, non passava quello delle dita che
ha nell'una delle mani ciascuno uomo; mentreché con
buona volontà; che così voglio credere; ma non forse con
pari giudizio, cercavano (siccome stimo io) d'acquistarle
benevolenza, e riputazione, l'hanno fatta divenire e appresso
i Fiorentini, e appresso i forestieri parte in odio, e
parte in derisione.
C. In che modo, e per quali cagioni?
V. Ragioneremo di cotesto più per agio, e a miglior
proposito. Bastivi di sapere per ora che dalle costoro
scritture, nelle quali non era osservanza di regole, e pareva
che il principale intendimento loro non fosse altro che
biasimare il Bembo, chiamandolo ora invidioso, ora arrogante,
ora prosuntuoso, e talvolta con altri nomi somiglianti,
presero i forestieri argomento, e si fecero a credere
che in Firenze non fosse né chi sapesse la lingua
Fiorentina, né chi curasse di saperla; donde nacque......
Voleva il Varchi seguitare più oltra quando Don Silvano
Razzi, già Messer Girolamo Razzi, Monaco degli Agnoli,
tutto trafelato comparse quivi, e così trambasciato disse
che il Reverendissimo Padre Don Antonio da Pisa Generale
dell'Ordine di Camaldoli, e 'l Reverendo Don Bartolomeo
da Bagnacavallo Priore del Munistero degli Agnoli
erano addietro, che venivano per istarsi due giorni con
Messer Benedetto. Il perché riserbando il favellare dello
scrivere a un'altra volta, discendemmo subitamente tutti
e tre per andare ad incontrare Sue Reverenze. E così
ebbe fine innanzi al fine il Ragionamento delle Lingue.
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