DIALOGO DI MESSER BENEDETTO VARCHI INTITOLATO L'ERCOLANO, OVVERO AGLI ALBERI (Prima Seconda) V. Alle mani; dite su. C. Non dice Aristotile che quello che credono tutti, o
la maggior parte degli uomini, non è mai vano, e del tutto
falso? V. Dicelo. C. Dunque non negherete voi che il giorno di Befania
favellino le bestie. V. Anzi lo negherò, perché il detto comune non dice
ciò del giorno di Befania, ma della notte, onde possiamo
conchiudere con verità che il parlare è solamente
dell'uomo; e venire alla terza dubitazione. C. Ditene dunque, Se il parlare è naturale all'uomo. V. Che intendete voi per naturale? C. Se l'atto, e l'operazione che fanno gli uomini del
favellare, viene loro dalla natura, o pure d'altronde. V. Dalla natura senza alcun dubbio. C. Per che ragioni? V. Per due principalmente. C. Quali? V. Voi dovete sapere che la natura non dà mai alcun
fine, che ella non dia ancora i mezzi, e gli strumenti che
a quel fine conducono: e, all'opposto, quantunque volte
la natura dà gli strumenti, e i mezzi d'alcuna cosa, ella dà
ancora il fine; perché altramente così il fine conce i mezzi
sarebbono invano; e la natura non fa nulla indarno. C. Credolo; ma vorrei mi dichiaraste un poco meglio
l'una, e l'altra di queste due ragioni. V. Volentieri: il favellare fu dato agli uomini, affinché
potessero conversare, e praticare insieme: il conversare,
e praticare insieme è all'uomo naturale; dunque anco il
parlare gli viene dalla natura. C. Come vale cotesta conseguenza? V. Come, come? Se chi dà il fine, dà i mezzi; e il fine
del favellare è il praticare, e conversare l'uno coll'altro;
e il praticare, e conversare l'uno coll'altro è da natura;
dunque anco il favellare, che è strumento, e mezzo che si
pratichi, e conversi insieme, è da natura. C. Ho inteso; ma per cotesta ragione parrebbe che
anco quelli animali che pascono a branchi, e vivono
insieme, come le gregge, e gli armenti, dovessero avere
il parlare. V. Io v'ho detto di sopra che cotesti hanno in quello
scambio la voce, la quale serve loro a significare e tra se,
e agli altri, quanto loro abbisogna; ma gli uomini hanno
a sapere, e sigficare ancora quello che giova, e quello che
nuoce, cioè l'utile, e il danno; il bene, e il male; il bello, e
il brutto; il giusto, e l'ingiusto; e sopra tutto l'onesto: le
quali cose né intendono, né curano gli altri animali. C. Come no? lasciando stare le tante, e tanto maravigliose
cose che racconta Plutarco, scrittore gravissimo, in
quella operetta che egli scrisse grecamente, e intitolò: Se
gli animali bruti erano dotati di ragione; non sapemo noi
che quello elefante che fu mandato nel tempo di Lione a
Roma, sopra 'l quale si coronò poi l'Abate di Gaeta, non
voleva, giunto che fu al mare, imbarcarsi a patto nessuno,
né mai (per molto che stimolato fosse) si potè condurre
a entrare in nave, infinoché colui che n'era guardiano
non gli promise di doverlo vestire d'oro, e porgli
una bella collana al collo; e altre cose così fatte? V. Io non dico che gli animali bruti non facciano cose
maravigliosissime; come sono i nidi delle rondini, e le
tele de'ragni; e che non si muovano, e ubbidiscano alle
parole, e a' cenni di chi li minaccia, o accarezza; come
si vede ne' cani, e ne' cavalli; ma dico che fanno ciò non
per discorso, mancando essi di ragione, ma o per instinto
naturale, o veramente per consuetudine. C. Dichiarate, se vi piace, la seconda ragione. V. La natura ha dato agli uomini gli strumenti mediante
i quali si favella, dunque ha dato, ancora il fine, cioè il
favellare. C. Quai sono gli strumenti mediante i quali si favella? V. Sono molli, e importantissimi, perciocché gran faccenda
è il favellare; e come è malagevole mandar fuori la
voce, ma molto più la loquela, così è agevolissimo corromperla,
e guastarla, non altramenteché veggiamo negli
orivoli, ne' quali bisognano molti ordigni per fargli sonare,
i quali difficilmente s'accozzano, e uno poi che ne
manchi, o si guasti; il che agevolissimamente addiviene;
l'orivolo si stempera, e non suona più, o, se pure suona,
suona inordinatamente, e con tristo suono. C. Di giazia raccontatene qualcuno. V. Sono contento: Il polmone, la gola, l'arteria,
l'ugola, il palato, la lingua, i denti dinanzi, la bocca, e
le labbra: parte de quali sono principali, e parte concorrono
come ministri. C. I bruti non hanno ancora essi tutte coteste cose? V. Messer no, ma hanno solamente quelle che bastano
a poter formare la voce, se già non sono mutoli, come i
pesci, i quali perciò mancano del polmone, e non hanno,
si può dire, lingua; che tutte le lingue non sono atte a
sprimere le parole, ma l'umana solamente, o più l'umana
che tutte l'altre, così per la forma, ovvero figura sua,
come per alcune altre qualità. C. Se io concedo che il parlare sia na turale agli uomini,
mi pare esser costretto a concedere una cosa la quale
è manifestamente falsissima, e ciò è, che tutti gli uomini
favellino d'un medesimo linguaggio. V. Come così? C. Ditemi, tutti gli uomini non sono d'una spezie
medesima? V. Sono; e tutte le donne ancora. C. Ditemi più oltra, tutto quello che conviene per natura
a uno individuo, cioè a un particolare d'alcuna spezie,
come all'uomo divenir canuto nella vecchiaja, non
conviene egli anche di necessità a tutti gli altri individui
di quella medesima spezie? V. Conviene senza dubbio nessuno: onde: Aristotile
volendo provare che tutte le stelle erano di figura rotonda,
se ne spacciò molto dottamente, e con grandissima
brevità, dicendo: La Luna è tonda, dunque tutte le stelle
son tonde. C. Come sta dunque questa cosa, che il parlare sia
naturale agli uomini, e che tutti gli uomini non favellino
d'una lingua stessa, e colle medesime parole? V. Dirollovi: il favellate è ben comune, e naturale a
tutti gli uomini; ma il favellare più in un linguaggio che
in un altro, e piuttosto con queste parole, che con quelle,
non è loro naturale. C. Donde l'hanno adunque? V. O dal caso, nascendo chi in questa; e chi in quella
città; o dalla propria volontà, e dallo studio loro, apparando
piuttosto questa lingua, che quella, o quella, che
questa; onde Dante, il quale pare a me che sapesse tutte
le cose, e tutte le dicesse, lasciò scritto nel 26. canto del
Paradiso queste parole:
Opera naturale è ch'uom favella:
Ma così, o così, natura lascia
Poi fare a vuoi, secondo che v'abella. C. Se il favellare è proprio, e particolare dell'uomo,
perché non favella egli sempre, siccome il fuoco cuoce
sempre, e le cose gravi sempre vanno allo 'ngiù? V. Perché l'uomo non ha da natura il favellare, come
il fuoco di cuocere, e le cose gravi d'andare al centro; ma
ha da natura il poter favellare; siccome il suo proprio
non è il ridere, ma il poter ridere, perché altramente
riderebbe sempre, come sempre il fuoco scalda, e sale
all'insù. C. Se l'uomo ha la potenza del favellare da natura,
perché non favella egli tosto che egli è nato? V. Perché, oltraché gli strumenti per la tenerezza, e
debilità loro non sono ancora atti, è necessario che egli
prima oda, e poi favelli; e per questa cagione tutti coloro
che nascono sordi, sono necessariamente mutoli, onde
hanno ben la voce, ma non già la favella, e ber questo
possono ben gracchiare, e cinguettare, ma parlare non
già. C. Io ho pur letto che si son trovati di quelli i quali
favellarono il primo giorno che nacquero, e di quelli i
quali essendo stati molti anni mutoli ebbero poscia la
favella. V. Cotesti sono casi o mostrosi, o miracolosi, o almeno
rarissimi, e straordinarj, e noi ragioniamo di cose naturali,
e ordinarie; che ben so quello che racconta Erodoto
del figliuolo di Creso; né è gran fatto, non che impossibile, che alcuni accidenti repentini producano effetti
maravigliuosi, e, se non contra, almeno fuori di natura:
benché Aristotile nella terza sezione al ventisettesimo
problema pare che ne renda la ragione naturalmente.
Ma conchiudiamo oggimai che come il favellare ci
viene dalla natura, così il favellare o in questa lingua, o
in quell'altra, e piuttosto con parole Latine, che Greche,
o Ebraiche, procede o dal caso, o dallo studio, e dalla
volontà nostra. C. Quanto alla quarta dubitazione, vorrei mi dicesti:
Se la natura poteva fare che tutti gli uomini favellassino in
tutti i luoghi, e in tutti i tempi d'un linguaggio solo, e colle
medesime parole. V. Dite prima voi a me, se ella, potendo ciò fare, dovea
farlo. C. Chi dubita di cotesto? V. Io per uno. C. Come è possibile che voi, il quale solevate vino, e
ora solete morto amare tanto, tanto ammirare il Reverendissimo
Cardinal Bembo, dubitiate ora di ciò? Non vi ricorda
egli che il proemio delle sue Prose fatte a Monsignor
M. Giulio Cardinal de' Medici non contiene quasi
altro che questo? V. Sì, ricorda: ma io mi ricordo anche, e voglio a voi
ricordare, che io non amai, non ammirai, e non celebrai
tanto già vivo, e ora non amo, non ammiro, e non celebro
morto il Reverendissinto Cardinal Bembo, quanto
la rara dottrina, l'inestimabile eloquenza, e l'incredibile
bontà sue, giunte con una umanità, con una cortesia, e
con una costumatezza piuttosto inudita, che singolare;
né per tutte queste cose mi rimasi, né rimarrei di non dire
liberamente quello che a me paresse più vero, quando
l'opinione mia discordasse dalla sua: ben' è vero che sappiendo
io per isperienza quanto egli era diligente, e considerato
scrittore, e quanto pesasse, e ripesasse ancora
le cose menomissime che egli affermare voleva, vo adagio a credere che in così fatto giudizio ingannato si sia;
e perciò presupponendo, per l'autorità sua, che la natura,
delle mondane cose producitrice, e de suoi doni sopra
esse dispensatrice, dovesse porre necessità di parlare
d'una maniera medesima in tutti gli uomini, rispondo
alla dimanda vostra, che ella ciò fare non poteva. C. Per qual cagione? V. Perché la natura fa sempre ogni volta ch'ella può,
tutto quello che ella debbe: né crediate a patto veruno,
che ella quando fa uno stornello, non facesse più volentieri
un tordo, o altro più perfetto uccello, se la materia
lo comportasse. C. Io non ho dubbio di cotesto: ma, quanto al Bembo,
dico che il credere all'autorità le quali sopra le ragioni
fondate non sono, non mi par cosa molto sicura, né da
uomini che cerchino d'intender la verità delle quistioni. V. Voi dite il vero; ma il Bembo allega in prò del suo
detto molte ragioni, e molto probabili, come può vedere
ciascuno che vuole. C. Verché dunque dubitavate? V. Dubitava, perché quello che non può essere, non
fu mai, e mai non sarà. C. Che volete voi dire? V. Quello che disse Dante, il quale sapea che dirsi,
sopra i versi allegati poco fa:
Che nullo affetto mai razionabile
Per lo piacere uman che rinovella,
Seguendo il Cielo, sempre fu durabile, C. Hovvi inteso: voi volete dire, con Dante, che nullo
affetto razionabile (che affetto debbe dire, e non effetto,
come dicono alcuni), cioè nessun desiderio umano;
perché solamente gli uomini; avendo essi soli la ragione,
si chiamano razionabili, ovvero ragionevoli; può essere
eterno, cioè durare sempre; anzi per più vero dire non
può non mutarsi quasi ogni giorno, perciocché gli uomini di dì in dì mutano voglie, e pensieri; e ciò fanno, perché
sono sottoposti al cielo, e il cielo non istà mai in uno
stato medesimo, non istando mai fermo; onde variandosi
egli, è giuocoforza che anco i pensieri, e le voglie degli
uomini si vadano variando; e questo è quello che dovette
voler significare Omero, padre di tutti i poeti, quando
disse che tale era la mente degli uomini ogni giorno, quale
giove, cioè Dio ottimo, e grandissimo, concedeva loro.
Ma ditemi che bene o quale utilità seguita dalla varietà,
e diversità di tante lingue che anticamente s'usarono, e
oggi s'usano nel mondo? V. Nell'universo deono essere, come mostra il suo nome,
tutte quelle cose le quali essere si possono; e niuna
cosa è tanto picciola, né così laida, la quale non conferisca,
e non giovi alla perfezione dell'universo; per non
dir nulla, che la varietà, se non sola, certo più di tutte
l'altre cose, ne leva il tedio, e toglie via il fastidio che in
tutte quante le cose a chi lungamente l'esercita suole naturalmente
venire. Egli è il vero che se fosse uno idioma
solo, noi non aremmo a spendere tanti anni, e tanti in
apprendere le lingue con tanta fatica; ma, dall'altro lato,
noi non potremmo per mezzo delle scritture, o velete di
prosa, o volete di versi, acquistare grido, e farci immortali;
come tutti gli animi generosi disiderano; conciossiacosaché
i luoghi sarebbono presi tutti; e come (per cagione
d'esempio) Vergilio non arebbe potuto agguagliare
Omero, così a Dante non sarebbe stato conceduto pareggiare
l'uno, e l'altro; e il medesimo dico di tutti gli altri
o Oratori, o Poeti che in diverse lingue sono stati eguali,
o poco inferiori l'uno all'altro. E chi sarebbe mai potuto
nella medesima lingua non dico trapassare, ma avvicinarsi
collo scrivere o ad Aristotile, o a Platone? Perché,
conchiudendo, dico che la natura non poteva, né forse
deveva, fare per tutto 'l mondo un linguaggio solo. C. Se ciascuno uomo nasce con una sua propia, e naturale
favella, come dicono alcuni, (che è la quinta dubitazione) m'avviso quasi per certo quello che voi siate per
dirne. V. Che? C. Che ella è cosa da ridersene, e farsene beffe. V. Gli altri (come si dice), si sogliono apporre alle tre,
ma voi vi sete apposto alla prima. Come può nascere ciascuno
con una favella naturalmente propria, e particolare,
che tutti nasciamo sordi, e per conseguenza mutoli,
rispetto all'indisposizione degli strumenti che come mezzi
a favellare si ricercano? Il che è tutto l'opposito della
dubitazione. A questo si aggiugne, che prima fa di mestieri
apparare quello che s'ha a dire, e poi dirlo; senzaché,
se ciò fosse vero, non pure la potenza del favellare,
ma il favellare stesso, dalla natura, e non dall'arte, e industria
nostra, sarebbe, e non solamente il principio, e i
mezzi, ma eziandio il fine, e il componimento, cioè l'atto
stesso del favellare; e le parole medesime ci sarebbono
naturali; del che di sopra si conchiuse il contrario. Ora,
se quello è vero, questo di necessità viene ad essere falso,
perché sono contrarj; e i contrarj possono bene essere
amenduni falsi, ma ameudue veri non già. Oltraciò ne
seguiterebbe che niuno fosse mutolo, ancorché nascesse
sordo; per non dire che questa favella propria, e naturale
si sarebbe qualche volta sentita in chicchesia; dove ella
non s'è mai sentita in nessuno: argomento certissimo
che ella non è. C. E' dicon pure che Erodoto racconta nelle sue storie
di non so qual Re d'Egitto, il quale fece condurre due
bambini, tostoché furon nati, in un luogo diserto, e quivi
segretamente allevargli, senzaché alcuno favellasse loro
mai; e che eglino in capo di quattro anni condotti dianzi
a lui, dissero più volte questa parola Be e, la qual parola
in lingua Frigia dicono che significa pane: e solo per
questo argomento fu dichiarato che quelli di Frigia erano
i primi, e più antiche uomini del mondo. V. Il Boccaccio arebbe aggiunto ancora, o di maremma,
come fece quando volle provare che i primi, e più
antichi uomini del mondo erano i Baronci di Firenze che
stavano a casa da Santa Maria Maggiore. C.. Secondo me, voi volete inferire che quella
d'Erodoto, non ostanteché fosse padre della storia Greca,
vi pare più novella che storia. Ma ditemi per vostra
fede, se un fanciullo s'allevasse in luogo segreto, e riposto,
dove egli non sentisse mai favellare persona alcuna
in modo niuno, parlerebbe egli poi, e in qual linguaggio? V. Egli per le cose dichiarate di sopra non parlerebbe
in altro linguaggio, che in quello de' mutoli. C. E quale è il linguaggio de' mutoli? V. Lo star cheti, o favellare con cenni. C. E i mutoli non hanno la voce? V. Si, ma non hanno il sermone, al quale si ricercano
più cose, che alla voce; perché, sebbene (come dice Aristotile)
chiunche favella, ha la voce, non però si converte,
che chiunche ha la voce, favelli; in quel modo che tutti
gli uomini hanno naturalmente due piedi, ma non già
si rivolge, che tutti gli animali che hanno due piedi, siano
uomini. C. Non potrebbe egli servirsi della voce, se non altramente,
almeno come i bruti? V. Potrebbe, chi ne dubita? Anzi se avesse sentito
o cantare uccelli, o belare pecore, o ragghiare asini, e,
non che altro, fischiare i venti, o stridere i gangheri;
s'ingegnerebbe di contraffargli, e potrebbe anco mandar
fuori qualche voce, la quale in qualche lingua significasse
qualche cosa. C. Dunque non è vero che egli (come molti si fanno a
credere) favellasse in quella lingua che si parlò prima di
tutte l'altre del mondo? V. Male potrebbe favellare nella prima lingua del
mondo, se non favellasse in lingua nessuna. C. E se s'allevassero più fanciulli insieme in quella maniera,
senzaché sentissero mai voce umana, favellerebbono
eglino in qualche idioma? V. Quì bisognerebbe essere piuttosto indovino, che
altro: pure, io per me credo che eglino favellerebbono,
formando da se stessi un linguaggio nuovo, col quale
s'intenderebbono fra loro medesimi. C. Restaci la sesta, e ultima dubitazione, cioè, Qual fu
il primo linguaggio che si favellò, e quando, e dove, e da
chi, e perché fosse dato. V. Tutte queste cose sono agevoli a sapere secondo
la certezza de' Teologi Cristiani, perciocché il primo
linguaggio del mondo fu quello del primo uomo, cioè
d'Adamo, lo quale gli diede Messer Domeneddio tosto
che egli l'ebbe formato nel Paradiso terrestre, o dove
egli se 'l formasse, affinché per mezzo delle parole potesse
(come si disse di sopra) quei pensieri, e sentimenti
mandar fuori che egli aveva dentro racchiusi, e insomma
palesare ad altri quello che teneva celato in sé; perché
non essendo l'uomo né tanto perfetto, e spirituale quanto
gli angeli, né così imperfetto, e materiale come gli animali,
gli fu necessario un mezzo col quale facesse intendere
l'animo, e la mente sua agli altri uomini, e questo fu
il favellare. C. Perché diceste voi, secondo la certezza de' Teologi
Cristiani? V. Dissilo, perché, secondo l'oppenione de' Filosofi
Gentili, e massimamente de' Peripatetici, i quali pongono
il mondo ab eterno, né vogliono che mai avesse principio,
non solo non si può sapere, ma non si dee anco
cercare, qual linguaggio fosse il primo, conciossiaché essendo
sempre stato uomini, sempre necessariamente s'è
favellato; onde niuno può dire chi fosse il primo a favellare,
né di qual linguaggio favellasse. Similmente non si
dee cercare, né si può sapere, né quando, né dove fosse
dato quello che mai in nessun luogo particolare, né in
nessun tempo dato non fu. Puossi solamente sapere che
la natura diede all'uomo il favellare in quel modo, e per
quelle cagioni le quali di sopra raccontate si sono. C. Io vorrei sapere ancora tre cose d'intorno a questa
materia: la prima, quale fosse il linguaggio d'Adamo: la
seconda, quanto egli durasse: la terza, ed ultima, quando,
come, dove, da chi, e perché nascesse la diversità, e
la confusione de' linguaggi. V. Quanto alla prima, e seconda dimanda vostra, sono
varie l'oppenioni; imperocché sono alcuni, i quali vogliono
che Adamo insieme co' suoi discendenti favellasse
quella propia lingua la quale in processo di tempo fu
da Eber nominata prima Eberea, e poi, levatane la sillaba
del mezzo, Ebrea: e di questa sentenza pare che fosse
Santo Agostino nel terzo, e quarto capitolo del diciassettesimo
libro della Città di Dio; e che questa fosse quella
lingua nella quale Moisè scrisse la Legge sopra il Monte
Sinai, e colla quale favellano ancora oggi tra loro gli
Ebrei. Altri dicono che non l'Ebrea, ma la Caldea fu la
prima lingua che si favellasse; le quali due lingue però sono
tra loro somigliantissime. Altri scrivono, che, come la
prima terra che fosse abitata, fu la Scitia, così per conseguenza
la prima lingua fosse la Scitica: e altri altramente.
Né mancano di coloro i quali vogliono provare che la lingua
la quale oggidì favellano tra loro i Giuei, non è quella
antica colla quale parlò Adamo, e nella quale fu scritta
la Legge di Moisè, allegando che Esdra sommo Sacerdote
degli Ebrei, quando per tema che ella non si perdesse,
o per qualunche altra cagione, fece dopo la servitù
Babbilonica riscrivere la Legge in settantadue volumi,
variò non solamente la lingua da quello che ella era anzi
la servitù, ma eziandio mutò l'alfabeto, trovando nuove
lettere, e nuovi punti. Dante, non si contentando, per
quanto si può presumere, di nessuna di queste oppenioni,
e volendo sotto colore d'appararla egli, insegnare altrui
la verità, induce nel ventiseiesimo canto del Paradi
so, allegato già due volte da noi, Adamo stesso, il quale
dimandato da lui di questo dubbio, gli risponde così:
La lingua ch'io parlai, fu tutta spenta
Innanzi che all'opra inconsumubile
Fosse la gente di Nembrot intenta.
Ora, se Adamo medesimo confessa che la lingua che
egli parlò, si spense tutta, e venne meno innanziché
Nembrotto cominciasse a edificare la torre, e la città di
Babbilonia, certissima cose è che la lingua nella quale fu
scritta la Legge, e colla quale favellano gli Ebrei d'oggidì,
non è quella antica colla quale favellò Adamo. C. Fermatevi di grazia un poco: io mi voglio ricordare
che Dante stesso nella fine del sesto capitolo del primo
libro di quell'opera la quale egli scrisse latinamente, e intitolò,
De Vulgari Eloquentia, dice dirittamente il contrario,
cioè che con quella lingua che parlò Adamo, parlarono
ancora tutti i suoi posteri fino all'edificazione della
torre di Babello, la quale s'interpreta la torre della confusione;
e di più, che quella istessa lingua fu ereditata da'
figliuoli d'Eber, che diede il nome agli Ebrei, e rendene
anco la cagione, dicendo ciò essere stato fatto, affine che
il Redentor nostro GESÙ CRISTO, il quale dovevo nascere
di loro, usasse, secondo l'umanità, della lingua della
grazia, e non di quella della confusione, onde a me pare
che questa sia una grandissima, e manifesta contraddizione,
e da non doversi tollerare a patto nessuno in un
uomo di meno che di mezzana dottrina, non che in un
Dante, il quale fu e poeta, e filosofo, e teologo singolarissimo. V. Aggiugnete ancora, e astrologo eceellentissimo, e
medico. C. Tanto meglio; come sta dunque questa cosa? Egli è
quasi necessario (secondo me) che l'una di queste due
opere non sia di Dante: e perché si sa di certo che
la Commedia fu sua, resta, che il libro della Volgare
Eloquenza fosse d'un altro. V. Così rispose M. Lodovico Martelli al Trissino C. E il Trissino che gli rispose? V. Avendo allegato Dante, il quale nel suo Convivio
promette di voler fare cotale opera, allegò il Boccaccio,
il quale nella sua Vita di Dante scrive che egli la fece. C. Non sono mica piccioli, né da farsene beffe questi
argomenti: ma il Libro che voi dite scritto in Lingua
Latina da Dante trovasi egli in luogo alcuno? V. Io ver me non l'ho mai veduto, né parlato con nessuno
che veduto l'abbia; e vi narrerò brevemente tutto
quello che io ho da diverse persone inteso di questo fatto:
voi poi, come prudente, e senza passione, piglierete
quello che più vero, o più verisimile vi parrà; che io
non intendo di volere per relazione d'altrui fare in alcun
modo pregiudizio a chiunche si sia, e meno alla verità,
la quale sopra tutte l'altre cose amare, e onorare si dee.
Avete dunque a sapere, che M. Giovangiorgio, Trissino
Vicentino, uomo nobile, e riputato molto, portando oppenione
che la lingua nella quale favellarono, e scrissero
Dante, il Petrarca, e il Boccaccio, e colla quale favelliamo,
e scriviamo oggi noi, non si devesse chiamare né
Fiorentina, né Toscana, né altramente che Italiana; e dubitando
di quello che gli avvenne, cioè di dovere trovar
molti i quali questa sua oppenione gli contraddicessero,
tradusse (non so donde, né in qual modo se gli avesse)
due libri della Volgare Eloquenza, perché più o non ne
scrisse l'autore d'essi, chiunche si fosse, o non si trovano,
e sotto il nome di M. Giovambatista d'Oria Genovese
gli fece stampare, e indirizzare a Ippolito Cardinal de'
Medici; il qual Messer Giovambatista io conobbi scolare
nello Studio di Padova, e, per quanto poteva giudicare
io, egli era uomo da potergli tradurre da sé. C. A che serviva al Trissino tradurre, e fare stampare
quell'opera? V. A molte cose; e fra l'altre a mostrare che la lingua
vostra, cioè la Bolognese, era la più bella lingua, e la più
graziata di tutta Italia. C. Voi volete la baja, e dubito che non aggiugniate
poi, come poco fa diceste che soggiunse il Boccaccio, o
di maremma. V. La baja volete voi: Dante, o qualunche si fosse
l'autore di quei libri, scrisse così, anzi quanto lodò la
lingua Bolognese, tanto blasimò la Fiorentina. C. Guardate che egli non si volesse vendicare, col tor
loro la lor lingua propia, dell'esilio che a torto (secondoché
testimonia Giovan Villani nelle sue storie) gli fu dato
da' Fiorentini. V. Io non so, né credo cotesto: so bene che egli scrisse
che il volgare illustre non era né Fiorentino, né Toscano,
ma di tutta Italia; anzi (quello che è più) scrive che
i Toscani per la loro pazzia insensati, arrogantemente se
l'attribuivano, e molte altre cose dice peggiori che queste
non sono, come intenderete poco appresso quando
m'ingegnerò di chiaramente mostrarvi che la lingua della
quale, e colla quale si ragiona, è, e si dee così chiamare,
lingua Fiorentina, come voi Cesare Ercolani. C. Egli mi pare ognora mille d' intendere le ragioni che
avete da produrre in mezzo sopra cosa tanto, e da tanti
in contrario creduta, e disputata; ma seguite intanto il
ragionamento vostro. V. Io, perché udiate piuttosto quello che tanto desiderate,
non voglio dire ora altro d'intorno a questa materia. C. Ditemi, vi prego, innanziché più oltra passiate, se
voi credete che quell'opera dell'Eloquenza Volgare sia
di Dante, o no. V. Io non posso non compiacervi, e però sappiate che
dall'uno de' lati il titolo del libro, la promessa che fa Dante
nel Convito, e non meno la testimonianza del Boccaccio,
e molte cose che dentro vi sono, le quali pare che
tengano non so che di quello di Dante, come è dolersi
del suo esilio, e biasimar Firenze, lodandola, mi fanno
credere che egli sia suo; ma, dall'altro canto, avendolo io
letto più volte diligentemente, mi son risoluto meco medesimo,
che se pure quel libro è di Dante, che egli non
fosse composto da lui. C. Voi favellate enigmi; come può egli essere di Dante,
se non fu composto da lui? V. Che so io; potrebbelo aver compro, trovato, o esserli
stato donato; ma, per uscire de' sofismi, i quali io ho
in odio peggiormente che le serpi, il mio gergo vuor dir
questo, che se quel libro fu composto da Dante, egli non
fu composto né con quella dottrina, né con quel giudizio
che egli compose l'altre cose, e massimamente i versi,
e in ispezie l'opera grande, cioè la Commedia; perciocché
oltra la contradizione della quale avete favellato voi,
vi se ne trovano dell'altre, e di non minore importanza, e
vi sono molte cose parte ridicole, e parte false, e insomma
tutta quella opera insieme è (per mio giudizio) indegna,
non che di Dante, d'ogni persona ancoraché mezzanamente
letterata. C. Di grazia ditene qualcuna. V. Ecco fatto: primieramente egli (per non andar
troppo discosto) dice nel primo capitolo che i Romani,
e anco i Greci avevano due parlari, uno volgare, il quale
senza altre regole imitando la balia s'apprendeva, e uno
gramaticale, il quale se non per ispazio di tempo, e
assiduità di studj si poteva apprendere; poi soggiugne,
che il volgare è più nobile, sì perché fu il primo che
fosse dall'umana generazione usato, e sì eziandio perché
d'esso, o veramente con esso, tutto il mondo ragiona;
e sì ancora per essere naturale a noi, dove quell'altro è
artifiziale. C. Sicuramente, se egli dice coteste cose, abbia pur
lodato Bologna quanto egli vuole, io non crederò mai
che di bocca di Dante fossero uscite cotali scempiezze;
e non sarebbe gran fatto che la disputa che nacque tra
M. Lionardo d'Arezzo, uomo per altro ne' suoi tempi
di gran dottrina, e 'l Filelfo, fosse uscita di quì; né
so immaginare, come alcuno si possa dare a vedere di
far credere a chiunche si sia che i Romani favellassero
Toscanamente, come facciamo noi, e poi scrivessero in
Latino, o che i Greci avessero altra lingua che la Greca. V. Non disputiamo le cose chiare, e ditemi che Dante,
se cotale opera di Dante fosse, contradirebbe un'altra
volta manifestissimamente a se medesimo, perciocché
egli nel Convito, il quale è opera sua legittima, afferma
indubitatamente, e più volte, che il Latino è più nobile
che il volgare, quanto il grano, più che le biade, facendo
lungamente infinite scuse, perché egli comentò le sue
Canzoni piuttosto in volgare che in Latino. C. Io per me, senza volerne udir più, mi risolvo, e
conchiuggo che quell'opera non sia di Dante. V. E così dicono, e credono molti altri: e quello che
muove me grandissimamente, è l'autorità del molto Reverendo
Don Vincenzio Borghini Priore dello Spedale
degl'Innocenti, il quale essendo dottissimo, e d'ottimo
giudizio così nella lingua Greca, come nella Latina, ha
nondimeno letto, e osservato con lungo, e incredibile
studio le cose Toscane, e l'antichità di Firenze diligentissimamente,
e fatto sopra i poeti, e in ispezialità sopra
Dante, incomparabile studio; né può per verso alcuno
recarsi a credere che cotale opera sia di Dante, anzi, o
si ride, o si maravigilia di chiunche lo dice, come quegli
che, oltra le cagioni dette afferma non solo non aver
mai potuto vedere, né manco udito che uomo del mondo
veduto mai abbia, per moltissima diligenza che usata
se ne sia, il proprio libro Latino, come fu composto da
Dante; onde quando e' non ci fosse altro rispetto (dice
egli), che mille ce ne sono, l'averlo colui così a bella posta
celato, farà sempre con ogni buona ragione sospettare
ciascuno, che o e' lo abbia tutto finto a gusto suo, pigliando
qualche accidente, e mescolandoci qualche pa
rola di quei tempi, per meglio farlo parere altrui di Dante,
o che, se pure e' l'ebbe mai, egli l'abbia anco mandato
fuora, come è tornato bene a lui, e non come egli stava. C. Così crederò io da quì innanzi. Ma trapassiamo
omai alla terza, e ultima dimanda, che io feci, cioè,
Quando, dove, come, da chi, e perché nascesse la diversità,
e confusione de' linguaggi. V. Questa è cosa notissima per la Bibbia e anco Giuseppo
nelle sue storie dell'Antichità la racconta, cioè, che
Nembrotto nipote di Noè, essendo in ispazio già di circa
a duemila anni cresciuta la malizia, e malvagità degli
uomini, cominciò per la sua superbia a edificare una torre,
la cui cima voleva che toccasse il cielo, o per non avere
ad aver più paura de' diluvj, o per poter contrastare
a Dio; e di quì per avventura ebbe origine la favola de'
Giganti, quando soprapposto un monte all'altro cercarono
di torre il Regno a Giove, e cacciarlo del cielo. Basta,
che Dio per punire l'insolenza, e stoltizia di Nembrotto,
e quella di coloro i quali creduto gli aveano, e gli prestavano
ajuto a cotale opera, i quali erano concorsi d'ogni
parte molti, discese dal cielo in quel modo che racconta
Santo Agostino nel luogo di sopra allegato, e fece di
maniera, che quanti diversi esercizj erano in quella fabbrica,
che furono settantadue, tanti vi nacquero diversi
linguaggi: onde se un maestro di cazzuola chiedeva, verbigrazia,
calcina, o sassi, i manovali gli portavano rena,
o mattoni; e se un maestro d'ascia addimandava legni o
aguti, gli erano portati sassi, o calcina, dimanieraché non
intendendo l'un l'altro, furono costretti d'abbandonare
l'opera: e ritornandosi alle lor case, si sparsero per tutto
il mondo. C. Fornite queste sei, primaché io vi proponga innanzi
dubitazioni nuove, arei caro che mi raccontaste tutti quei
verbi, coi lor composti, e dirivativi, i quai significano favellare,
o al favellare, o al suo contrario in qualunche modo,
ancorché di lontano, o propriamente, o per translazione appartengono, e quelli massimamente i quali; come
vostri proprj, più nella bocca del volgo Fiorentino, o
nell'uso degli scrittori burlevoli si ritrovano, che nel parlare
degli scienziati, o ne' libri degli autori nobili, senza
guardare che vi paressero o bassi, o plebei. V. Tutti no, essendo eglino in numero quasi innumerabile;
ma quelli che mi verranno non solamente nella
memoria, ma eziandio in bocca, di mano in mano. C. Così s'intende; e non vi paja fatica soggiugnere, o
porre innanzi la dichiarazione di tutti quei i quali voi
penserete ch'io per esser forestiere in questa lingua, e si
può dire novizio in cotale studio, non intenda; e quanti
più me ne direte, e più dalla comune intelligenza lontani,
tanto mi farete maggiore il piacere. V. E' saranno tanti, che voi ne sarete non che sazio,
ristucco primaché io ne venga, non dico a capo, ma al
mezzo; ma vengasi al fatto.
Favellare, e parlare significano (come s'è detto di sopra)
una cosa medesima; dal primo de' quali diriva favellatore,
e favella; che così mi concederete che io dica
per maggiore agevolezza, e brevità; sebbene fu prima la
favella che il favellare: dal secondo, parlatore, e anticamente
parlieri, e parlatura, e ancora parlantina, perché
de' gerundj, come favellando, e parlando, e de' participj,
come favellante, e parlante, non mi pare che occorra
ragionare, se non di rado. C. Avvertite che egli mi pare (se ben mi ricordo) che
Messer Annibale, e alcuni altri si ridano del Castelvetro,
perch'egli usa questa parola Parlatura. V. Ridansi ancor di me, il quale l'ho posta, sì perché
ella è voce della lingua Provenzale, dalla quale ha pigliato
la Fiorentina di molte cose, e sì per l'autorità di Ser Brunetto
Latini, maestro di Dante, il quale l'usò nella traduzione
della Rettorica di Cicerone, e sì ancora, perché
l'uso d'oggi non mi pare che la rifiuti, e anche l'analogia
nolla vieta; perché sebbene da favellare non si forma favellatura, da fare nondimeno si forma fattura, e da creare,
creatura; e l'oppenione mia è stata sempre che le lingue
non si debbiano ristrignere, ma rallargare; senzaché,
umana, e ragionevole cosa è, che c'ingegniamo non
d'accusare, e riprendere, ma di scusare, e difendere tutti
coloro che scrivono, ingegnandosi eglino colle loro fatiche,
le quali non hanno altro premio che la loda, arrecare
o diletto, o giovamento, o l'uno, e l'altro insieme alla
vita de' mortali; per tacere, che io, secondo la richiesta
che fatta m'avete, guarderò, non se le parole che io dico,
si trovino scritte appresso gli autori o da vero, o da burla,
ma se si favellino in Firenze, o da' plebei, o da' patrizj:
onde ripigliando il filo dico, che da parlare si compone
riparlare; il che non avevano, che io sappia, i Latini;
cioè parlare di novo, e un'altra fiata; e sparlare, che quello
significa che i Latini dicevano, obloqui, cioè dir male,
e biasimare, e alcuni dicono, straparlare, cioè parlare o
troppo, o in mala parte.
Parlamentare si dicono coloro, i quali nelle Diete, o
ne' Consigli favellano per risolvere, e diterminare alcuna
diliberazione, onde far parlamento si diceva a Firenze
ogni volta che la Signoria o forzata, o di sua volontà,
con animo che si dovesse mutare lo Stato, chiamava al
suono della campana grossa il popolo armato in piazza,
e lo faceva d'in sulla ringhiera dimandare tre volte, se
egli, che così, o così si facesse, si contentava; ed egli
(come s'era il più delle volte ordinato prima) rispondeva
gridando, e alzando l'arme, Sì, sì. Dicesi ancora tenere
parlamento, cioè favellare a dilungo.
Ragionare, onde si formano ragionatore, e, ragionamento,
viene dal verbo Latino ratiocinari: il perché, come
ben dice il Castelvetro, si piglia, benché radissime volte,
per usare la ragione, e discorrere. C. Non avete voi questo altro verbale ragioniere? V. Abbiamlo, e si dice d'uno il quale sia buono abbachista,
cioè sappia far bene di conto, perché gli abbachieri, quando fanno bene, e prestamente le ragioni, si
dicono far bene i conti.
Sermonare, che appresso i Latini si disse con voce deponente
(per usare le parole de' graramatici antichi Latini
più note, e meglio intese, che quelle dei grammatici
moderni volgari) ora sermonari, e ora sermocinari, vuole
propriamente significare parlare a lungo, e, come noi
diciamo, fare un sermone.
Prologare direbbono per avventura alcuni non altramente,
che i Greci __o_o_____, cioè fare il prologo,
che i Latini dicevano praeligfari, e proaeligmiari, donde
era detto proemio, e prefazione; che così seguiremo di dire,
sebbene praeligfari, e proaeligmiari sono detti da prefazione,
e da proemio.
Predicare è verbo Latino, e significa dir bene d'alcuno,
espressamente lodarlo, ma oggi è fatto proprio de' predicatori
che dichiarano in su i pergami la Scrittura Santa,
onde si forma predica, ovvero predicazione; dicesi ancora
essere in buono, o in cattivo predicamento.
Prosare, onde prosatori, sebbene ha il suo proprio significato,
cioè scrivere in prosa, ovvero, come dicevano
i Latini, non avendo un verbo proprio, scrivere in orazione
sciolta, ovvero pedestre; nondimeno quando in Firenze
si vuole riprendere uno che favelli troppo adagio,
e ascolti se medesimo, e (come si dice) con prosopopeja,
s'usa di dire: egli la prosa; e coloro che la prosano, si
chiamano prosoni.
Poetare, o poeteggiare s'usano non solamente per iscrivere
in versi che noi diciamo verseggiare, e più latinamente
versificare, ma propriamente rimare, onde rimatori;
ma ancora per favellare poeticamente, o recitando, o
componendo, o biscantando versi.
Provvisare, ovvero dire all'improviso, è comporre, e
cantare versi ex tempore (come dicevano i Latini, mancando
del verbo proprio), cioè senza aver tempo da pensargli, in sulla lira. I Greci felicemente dicevano d'una
cosa fatta subito, e senza tempo, __________.
Favoleggiare, o favolare, onde è detto favolone, tratto
da fabulari Latino, significa raccontare favole, o fole,
o scrivere cose favolose, e novellare, che è proprio de'
Toscani, raccontare, o scrivere novelle, come il frottolare,
di far frottole, e favole, come anticamente, e così ancora
oggi si chiamano lue commedie.
Aprir le labbra, e sciogliere la lingua, e rompere il silenzio
sono locuzioni topiche cavate dal luogo de' conseguenti,
o piuttosto dagli antecedenti, perché niuno può
favellare, se prima non iscioglie la lingua, non apre la
bocca, non rompe il silenzio.
Questi verbi comincianti tutti dalla lettera C, cicalare,
ciarlare, cinguettare, cingottare, ciangolare; ciaramellare,
chiacchierare, e cornacchiare, si dicono di coloro i quali
favellano non per aver che favellare, ma per non aver
che fare, dicendo senza sapere che dirsi, e insomma cose
o inutili, o vane, cioè senza sugo, o sostanza alcuna:
dal primo si formano cicala, cioè uno che favella troppo,
e senza considerazione; cicaleria, ovvero cicaleccio; cicalino,
e cicalone, cioè una cicala grande; tratto, come si vede,
dalle cicale: dal secondo, ciarla, ciarlatore, e ciarlone,
la qual ciarla si piglia alcuna volta in parte non cattiva,
dicendosi di chi ha buona parlantina: il tale ha buona
ciarla, cioè non fa mal cicaleccio; ma ciarlatore, e ciarlone
si pigliano sempre in cattiva: dal quinto diriva per
avventura il nome di cianghella, del quale fa menzione
Dante; e il Boccaccio nel Laberinto d'Amore disse della
setta Cianghellina: dal sesto, ciaramella: dal settimo,
chiacchiera, che così si nominano coloro che mai non rifinano
di cinguettare, e dir cose di baje; onde si dicono
ancora chiacchieroni, e chiacchierini: dall'ottavo, cornacchia,
e cornacchione, e viene dal verbo Latino cornicari,
cioè favellare come le cornacchie. Dicesi ancora dalle
mulacchie gracchiare, cioè cicalare come le putte, onde vien gracchia, cioè uno che non parli, ma cinguetti come
le gracchie: e d'una donna, ella fa come la putta al lavatoio,
tratto da quelle che lavano i bucati, cinguettando.
Nel medesimo significato si piglia tattamellare, onde nasce
tattamella, cioè uno che cicala assai, e non sa che, né
perché. Similmente quando alcuno cicala, e non sa che,
né perché, si dice: egli non sa ciò che egli s'abbaja, e viene
dal verbo Latino baubari, onde abbajatori si chiamano
coloro i quali abbajano, e non mordono, cioè riprendono
a torto, e senza cagione coloro che non temendo dei loro
morsi, non gli stimano; il perché da alcuni sono chiamati
latratori, dal verbo Latino latrare, che è proprio de' cani,
de' quali si dice quando abbajano, che non mordono,
o non pigliano caccia.
Quando alcuno, non si contentando d'alcuna cosa, o
avendo ricevuto alcun danno, o dispiacere, non vuole,
o non ardisce dolersi forte, ma piano, e fra se stesso,
in modo però che dalla voce, e dagli atti si conosca,
lui partirsi mal sodisfatto, o restare mal contento, si
dice: egli brontola, o borbotta, o bufonchia, donde nasce
bufonchino, per uno che mai di nulla non si contenta, e
torcendo il grifo a ogni cosa, si duole tra sé brontolando,
o biasima altrui borbottando; e di cotali si suol dire: egli
apporrebbono alla babà.
Chi sgrida alcuno, dicendogli parole o villane, o dispettose,
si chiama, proverbiare: chi garrendolo, o rinfacciandogli
alcuno beneficio, rampognare, e rimbrottare,
onde nascono rampogna, e rimbrotti, cioè doglienze,
e borbottamenti, e quando si fa per amore, o (come il
volgo dice) per martello, si chiama rimorchiare. C. Dunque rimorchiare in quella Novella del Boccaccio
della Belcolore, e del Prete da Varlungo, il quale
quando vedeva il tempo, guatatala un poco in cagnesco
per amorevolezza la rimorchiava, non significa (come
spongono alcuni) la riguardava con qualche atto, o segno
d'amore, o veramente la rimirava di traverso, o conlo sguardo la tirava a guardar lui; verbo tratto da' marinari,
quando rimorchiano le navi? V. Io vi dirò sempre liberamente quello che sento senza
intenzione di voler riprendere, o biasimare alcuno: pigliate
poi voi quella oppenione che più vi piace, o giudicate
migliore. Rimorchiare è verbo contadino, e se ne
fa menzione nel pataffio; e benché io non sappia la sua
vera etimologia, tanto credo che venga da remulco nome,
onde si fece il verbo remulcare, cioè rimorchiare,
quanto dalla morchia, che è la feccia dell'olio: e significa
dolersi, e dir villania amorosamente, come, verbigrazia,
per discendere a così fatte bassezze, affinché meglio
m'intendiate: ah crudele traditoraccia, vuoimi tu far morire
a torto? e così fatte paroline, o parolette, o parolozze
che dicono i contadini innamorati. C. Seguitate; che voi mi date la vita. V. Quando altri vuol la berta di chicchessia, e favella
per giuoco, o da motteggio, o per ciancia, o da burla,
si chiama dal verbo Latino giocarsi, e dal Toscano,
motteggiaire, cianciare, burlare, e berteggiare, onde vengono
cianciatore, e ciancione, burlatore, burlone, e burlevole,
come motteggievole; ma se fa ciò per vilipendere, o
pigliarsi giuoco ridendosi d'alcuno, s'usa dire, beffare, e
sbeffare, dileggiare, uccellare, e ancora galeffare, e scoccoveggiare;
benché questo sia piuttosto Sanese, che Fiorentino.
Dicesi ancora tenere a loggia, gabbarsi d'alcuno, e,
da un luogo così detto sopra Firenze verso Bologna cinque
miglia, del quale fece menzione Dante, e donde voi
siete passato poco fa, mandare all'Uccellatojo: e medesimamente
tenere alcuno in sulla gruccia, dalle civette, le
quali in sulle gruccie si tengono, dalle quali nacque il verbo
civettare non solo per uccellare, ma in quel proprio significato
che i Greci dicono _____o______, cioè fare
alla civetta, cavando ora il capo della finestra, e ora
ritirandolo dentro.
Quando chicchessia ha vinto la pruova, cioè sgarato
un altro, e fattolo rimanere o con danno, o con vergogna,
dicono a Firenze: il tale è rimaso scornato, o scornacchiato,
o scorbacchiato, o scaracchiato, o scatellato, o smaccato,
o scaciato; che tutti cominciano (come vedete) dalle
lettere S. C, fuori che smaccato: dicesi ancora rimaner
bianco, e, più modernamente, con un palmo di naso.
Quando alcuno in favellando dice cose grandi, impossibili,
o non verisimili, e insomma quelle cose che si chiamano
non bugiuzze, o bugie, ma bugioni, se fa ciò senza
cattivo fine, s'usa dire: egli lancia, o scaglia, o sbalestra, o
strafalcia, o arrocchia, o ei lancia cantoni, ovvero campanili
in aria: ma se lo fa artatamente per ingannare, e giuntare
chicchessia, o per parer bravo, si dice: frappare, tagliare;
frastagliare; onde viene frastagliante, e frastagliatamente,
e con più generale verbo, ciurmare, dai Ciurmatori
che cantano in banca, o danno la pietra di San Pagolo,
i quali perché il più delle volte sono persone rigattate,
e uomini di scarriera, mostrano altrui la luna nel pozzo,
o danno ad intendere lucciole per lanterne, cioè fanno
quello che non è, parere che sia, e le cose picciole,
grandi.
D'uno che dica male d'un altro, quando colui non è
presente, s'usano questi verbi: cardare, scardassare, tratti
da' cardatori; e dagli scardassieri: lavargli il capo, da'
barbieri; e vi s'aggingne spesse volte, col ranno caldo, e
talora, col freddo, e più efficacemente, co' ciottoli, ovvero,
colle frombole: levarne i pezzi dai beccai, o da' cani,
lavorarlo di straforo, da quelli che fanno i bucherami,
o i ferri damaschini: così, dargli il cardo, il mattone, e
la suzzacchera, massimamente quando se gli nuoce: e
alcuni quando vogliono significare che si sia detto male
d'alcuno, sogliono dire: e' s'è letto in sul suo libro, o, la
palla è balzata in sul suo tetto, e talvolta: e' n'ha avuta una
buona stregghiatura, ovvero mano di stregghia.
Ogni volta che ad alcuno pare aver ricevuto picciolo
premio d'alcuna sua fatica, o non vorrebbe fare alcuna
cosa, o, dubita se la vuol fare, o no, mostrando che egli
la farebbe, se maggior prezzo dato, o promesso gli fosse,
si dice: e' nicchia, e' pigola, e' miagola, e' la lella, e'
tentenna, ovvero, si dimena nel manico, si scontorce, si
divincola, si scuote, e' se ne tira indietro, e' la pensa: e
se v'aggiugne parole, o atti che mostrino, lui aver preso
il grillo, essere saltato in sulla bica, cioè essere adirato,
e avere ciò, per male, si dice: e' marina, egli sbuffa,
o, soffia; e se alza la voce, e si duole che ognun senta,
si dice scorrubbiarsi, arrangolarsi, e arrovellarsi, onde
nascono rangole, e rovello; e se continova nella stizza,
e mostra segni di non volere, o non potere star forte,
e aver pazienza, si dice: egli arrabbia; e' vuol dar del
capo, o, batter il capo nel muro; egli è disperato, e si
vuole sbattezzare, dare alle streghe; e' non ne vuol pace,
né tregua; e vuole affogarsi, o, gettarsi via; e, brevemente,
rinnegar la pazienza; e, rendersi frate, e, farsi romito:
e se ha animo di volersi, quando che sia, vendicare,
stralunando, o strabuzzando gli occhi verso il cielo, si
morde il secondo dito, e' minaccia; e, più stizzosamente,
mordersi, o, manicarsi, o, mangiarsi le mani per rabbia.
Quello che i Latini dicono adulari, si dice Fiorentinamente
piaggiare, e quello che essi dicono obsequi, noi diciamo
andare ai versi, o veramente con una parola sola,
secondare, e quello che dicono blandiri, diciamo noi
lusingare, onde vengono lusinghe, lusinghieri, che usò il
Petrarca, e lusinghevole; ancorché il Boccaccio, in luogo
di lusinghe, usasse in una delle sue ballate blandimenti,
che noi propriamente diciamo carezze, dal verbo carezzare,
o accarezzare, cioè far carezze; il che diciamo ancora
far vezzi, e vedere alcuno volentieri, e fargli buona cera,
cioè buon viso, accoglierlo, o accorlo lietamente. Usansi
ancora in vece d'adulare, soiare, o, dar la soia, e così dar
l'allodola, dar vaccabaldole, moine, roselline, la quadra, e la trave, e più popolarmente, andare a Piacenza, ovvero,
alla Piacentina, e talvolta, ligiar la coda.
Imbecherare nella lingua Fiorentina significa quello
che i Latini dicevano subornare, onde ancora si dice subornato,
cioè convenire con uno segretamente, e dargli
(come si dice) il vino, cioè insegnargli quello che egli
debba o fare, o dire in alcuna bisogna, perché ne riesca
alcuno effetto; che propiamente si dice indettarsi.
Dicesi ancora quasi nel medesimo significato imburchiare,
e imburiassare, onde buriassi si chiamavano coloro,
i quali mettevano in campo i giostranti, e stavano loro
d'intorno, dando lor colpi, e ammaestrandogli, come
fanno oggi i padrini a coloro che debbono combattere
in isteccato. Buriassi si chiamano eziandio coloro i quali
rammentano, e insegnano a' provvisanti, o ancor a quelli
che compongono: le quali cose si dicono ancora da coloro
che hanno cura de' barberi perché vincano il palio,
imbarberescare, e dalle balie, imboccare, e imbeccare, dagli
uccelli; onde imboccare col cucchiajo volo, si dice per
un cotal motto, e proverbio di coloro che voglion parere
d'insegnare, e non insegnano. Dicesi ancora con vocabolo
cavato da' cozzoni de' cavalli scozzonare, e con voce
più gentile, e usata da' compositori nobili, scaltrire, onde
viene scaltro, e scaltrito, cioè accorto, e sagace; e quando
s'è insegnato alcun bel tratto, si dice: questo è un colpo
da maestro, o, egli ha dato un lacchezzino.
Quando alcuno fa, o dice alcuna cosa sciocca, o biasimevole,
e da non dovergli per dappocaggine e tardità,
o piuttosto tardezza sua, riuscire, per mostrargli la
sciocchezza e mentecattaggine sua, se gli dice in Firenze:
Tu armeggi, tu abbachi, tu farnetichi, tu annaspi, tu
t'aggiri, tu t'avvolgi, o veramente, avvolli, alla Sanese, tu
t'avviluppi, tu t'avvolpacchi, tu non dai in nulla; e altri
modi somiglianti, come: tu perdi il tempo, tu non sai a
quanti dì è San Biagio, tu farai la metà di nonnulla, tu
non sai mezze le messe, tu saresti tardi alla fiera a Lanciano, tu ti morresti di fame in un forno di schiacciatine, tu
non accozzeresti tre pallottole in un corno, ovvero, bacino,
tu non vedresti un bufolo nella neve, tu arresti il mellone,
tu inciamperesti nelle cialde, ovvero, cialdoni, o, ne'
ragnateli, o, in un filo di paglia, tu faresti come i buoi di
Noferi, tu rimarresti in Arcetri, tu affogheresti alla Porticciuola,
o, in un bicchier d'acqua; e' non ti toccherebbe a
dir Galizia; e' non ti toccherebbe a intignere un dito, se
tutto Arno corresse broda; se gli altri somigliassin te, e' si
potrebbe fare a' sassi pe' forni. C. E trovansi di quelli che osano dire, la lingua vostra
esser povera? V. Trovansene, e a migliaja; ma da quì innanzi non
dite vostra, ma Fiorentina. C. Perché? V. Perché alcuni vogliono che io, sebbene fui nato, e
allevato in Firenze, non sia Fiorentino; per lo essere mio
padre venuto a Firenze da Montevarchi. C. Voi volete il giambo; io dirò come bene mi verrà. V. Fate voi; a me basta avervi detto quello che dicono,
e per quello che il dicono: e farò anch'io il medesimo;
e però seguitando, dico che coloro i quali favellano
consideratamente, si dicono masticar le parole, prima che
parlino: quelli che non le sprimono bene, mangiarsele, e
quelli che peggio, ingojarsele: quelli che penano un pezzo,
come i vecchi, e sdentati, biasciarle: e quelli che per
qualunche cagione, avendo cominciato le parole, non le
finiscono, o non le mandano fuori, ammezzarle; onde il
Petrarca disse:
Tacito vo, che le parole morte
Farian pianger la gente, ec.
Benché alcuni interpetrano morte, cioè meste, e dogliose,
o che di cose meste, e dolorose ragionano.
Quelli che favellano piano, e di segreto l'uno all'altro,
o all'orecchio, o con cenni di capo, e certi dimenamenti
di bocca, e insomma che fanno bao bao (come si dice)
e pissi pissi, si dicono bisbigliare, e ancora, ma non così
propriamente, con verbi Latini, susurrare, e, mormorare.
Avvertite però, che sebbene da bisbigliare si dice bisbigliatore,
e bisbiglio, o da bisbiglio bisbigliare, non pertanto
si dice ancora bisbiglione, ma in quella vece si dice
susurrone: e quando non si sa di certo alcuna cosa, ma se
ne dubita, o si crede dalla brigata, e se ne ragiona copertamente,
si dice: e' se ne bucina, e si dee scrivere con un
c solo, e non con due, perché allora sarebbe il verbo latino
buccinare, che significa tutto il contrario, cioè trombettare,
e dirlo su pe' canti ancora a chi ascoltarlo non
vuole.
Quelli che dicono cose vane, o da fancaiulli, hanno i
lor verbi proprj, vaneggiare, o come disse Dante, vanare,
e pargoleggiare, i quali si riferiscono ancora al fare, e
anticamente, bamboleggiare.
Di coloro i quali (come si dice) confessano il cacio,
cioè dicono tutto quanto quello che hanno detto, e fatto
a chi ne gli, dimanda, o nel potere della giustizia, o
altrove che sieno, s'usano questi verbi: svertare, sborrare,
schiodare, sgorgare, spiattellare, cantar d'Aiolfo, votare il
sacco, e scuotere il pellicino. C. Che cosa sono i pellicini? Forse quei vermini che
nascendo nella palma della mano tra pelle, e pelle, ce le
fanno pruire, e con quel prurito c'inducono,grattandoci
noi, molestia, e piacere insiememente? V. I Toscani dicono pizzicare, e pizzicore, non pruire,
e prurito; e cotesti che voi dite, non si chiamano pellicini,
ma pellicelli. Pellicini sono quei quattro, come quasi
orecchi d'asino, che si cuciono nella sommità delle balle,
due da ogni parte, affinché elle si possano meglio, pigliare,
e più agevolmente maneggiare; il che si fa ancora
molte volte nel fondo de'sacchi; e perciò si dice non solo votaree, scuotere il sacco; ma ancora, i pellicini del sacco,
ne' quali entrano spesse volte, e si racchiuggono delle
granella del grano, o d'altro di che il sacco sia pieno; e,
aprire, o, sciorre il sacco significa cominciare a dir male; e,
essere alle peggiori del sacco, essere nel colmo del contendere;
essere al fondo del sacco, essere al fine: traboccare il
sacco, è quando non ve ne cape più, cioè non si può avere
più pazienza: dicesi ancora sgocciolare l'orciuolo, ovvero,
l'orciolino, e talvolta, il barlotto.
Se alcuno ha detto alcuna cosa, o vera, o falsa che ella
sia, e un altro per piaggiarlo, e fare ch'ella si creda, gliele
fa buona, cioè l'appruova, affermando così essere come
colui dice, e talvolta accrescendola, sono in uso questi
verbi: rifiorire, ribadire, rimettersela, o, rimandarsela l'un
l'altro, rimbeccarsela, o, rirnpolpettarsela. C. Io odo cose che io non sentii mai più, ma che vuol
significare propriamente ribadire? V. Voi n'udirete, e sentirete dell'altre, se arete pazienza,
e non vi venga a fastidio l'ascoltarle. Quando un legnajuolo,
che gli altri dicono falegname, o marangone,
avendo confitto un aguto, e fattolo passare, e riuscire
dall'altra parte dell'asse, lo torce così un poco nella punta
col martello, e poi lo ripicchia, e ribatte, e, brevemente,
lo riconficca da quella banda, perché stia più forte, si
dice ribadire. C. Ora intendo io la metafora, e ne rimango soddisfattissimo;
però seguitate, se avete più verbi di questa ragione,
che a me non solo non viene a noja, ma cresce il
disiderio di ascoltare. V. Di coloro i quali per vizio naturale, o accidentale
non possono profferire la lettera r, e in luogo di frate, dicono
fate, si dice non solamente balbotire, o, ballotire,
come i Latini, ma balbettare ancora, e talvolta, balbezzare,
e, più Fiorentinamente, trogliare, o, barbugliare, e di
più, tartagliare: e il verbo proprio di questo, e altri cotali
difetti è scilinguare; onde d'uno che favella assai, s'usa
di dire: egli ha rotto, o, tagliato lo scilinguagnolo, il quale
si chiama ancora filetto, che è quel muscolino che tagliano
le più volte le balie di sotto la lingua a' bambini;
e quando uno barbugliando si favella in gola, di maniera
che si sente la voce, ma non le parole, e s'usa il verbo
gorgogliare, onde Dante disse:
Questo inno si gorgoglian nella strozza:
dicesi ancora gargagliare, onde nasce gargagliata.
Se avviene che alcuna cosa sia seguita o di fatti, o di
parole, e che colui a chi tocca, non vuole, per qualunche
cagione, che ella si ritratti, e se ne favelli più, dice: Io
non voglio che ella si rimesti, o, rimeni, o, rimescoli, o,
ricalcitri più: dicesi ancora riandare, cioè: io non voglio
riandarla, o, che ella si riandi, anzi che vi si metta su pié
per sempre. E quello che si dice ripetere, onde nasce
ripititore, fu dal Petrarca detto, rincorrere. C. Che vuol dire ripititore? V. Ripititore si chiamano proprio quei sottomaestri
(per dir così) i quali, letta che hanno i maestri la lezione,
la fanno ripetere, e ridire a' discepoli; e, quando io
era piccino, quelli che avevano cura de' fanciulli, insegnando
loro in quel modo che i Latini dicono subdocere,
e menandogli fuora, non si chiamavano, come oggi, pedanti,
né con voce Greca pedagogi, ma con più orrevole
vocabolo, ripititori; benché Ser Gambassi che stava in
casa nostra per ripititore, del quale io ho poco da potermi
lodare, voleva che si dicesse ripetitore per e nella seconda
sillaba, dal verbo repetere, e non per i, e faceva di
ciò un grande scalpore, come se ne fosse ito la vita, e lo
stato. C. Egli dovea essere piuttosto pedante, o pedagogo,
che ripititore, perché per la medesima ragione dovea
volere anco che si dicesse repetitore, e non ripetitore; ma
seguitate.
VAR. Gridare, che i Latini dicevano solamente in voce
neutra exclamare, si dice da noi eziandio attivamente,
come anco garrire; ma sgridare, onde il Boccaccio formò
sgridatori, è solamente attivo: stridere, per lo contrario,
è sempre neutro, come anco appresso i Latini; benché
essi lo fanno della seconda congiugazione, cioè dicono
stridere, coll'accento circunflesso in sulla penultima
sillaba, il quale accento la mostra esser lunga; e noi faccendolo
della terza diciamo stridere coll'accento acuto in
sulla antepenultima, il quale dimostra la penultima sillaba
essere breve; benché la lingua volgare non tien conto
principalmente della quantità delle sillabe, ma della qualità
degli accenti. Guaire, che i Latini dicevano ejulare,
onde nacque la voce guai, è anch'egli solamente neutro,
e così urlare; benché Vergilio l'usasse in voce passiva; e
non è proprio de li uomini, ma dei lupi, sebbene i Latini
dicevano ululare ancora degli assiuoli, come noi, de' colombi.
Strillare, il che si dice ancora mettere urli, o urla,
stridi, o strida, strilli, e tifoli, è proprio quello che i Latini
dicevano vociferari, cioè gridare quanto altri n'ha in
testa, ovvero in gola: e ringhiare con ringhiosi, che disse
Dante, è irringere Latino, che è proprio de' cani, quando
irritati, che noi diciamo aissare, mostrano con rigno,
digrignando i denti, di voler mordere. C. Ringhiare non si dice egli ancora de' cavalli? V. Rignare si dice, ma il proprio è annitrire. Stordire,
onde nasce stordito, e stordiglione, è verbo così attivo,
come neutro, perché così si dice: io stordisco a questo
rumore, come: tu mi stordisci colle tue grida, ovvero:
i tuoi gridi mi stordiscono; e storditi si chiamano propriamente
quelli i quali, per essere la saetta caduta loro appresso,
sono rimasi attoniti, e sbalorditi, i quali si chiamano
ancora intronati, perché intronate, appresso i Toscani,
è attivo, e non neutro, come, appo i Latini, intonare,
e significa propriamente quel romore che fanno i
tuoni, chiamato da alcuni frastuono, onde Dante disse:
Così si fecer quelle facce lorde
Dello demonio Cerbero, che' ntruona
L'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.
Quello che i Latini dicevano Grecamente reboare, dicono
i Toscani rintronare, e rimbombare, da bombo voce
Latina, che significa certo suono di tromba; onde disse il
Poliziano nella fine d'una delle sue altissime Stanze:
Di fischi, e bussi tutto 'l bosco suona,
Del rimbombar de' corni il ciel rintruona.
E nella Stanza seguente:
Con tal tumulto, onde la gente assorda,
Dall'alte cateratte il Nil rimbomba. C. Quel verbo che i Romani i quali da Romulo, che fu
nominato Quirino, si chiamavano Quirites, formarono,
quando volevano significare, gridar soccorso, e chiedere
ajuto, massimamente dal popolo, cioè quiritare, ovvero,
quiritari, truovasi egli nella lingua Toscana, o Fiorentina? V. Con una parola sola che io sappia, no, ma si dice
gridare a corriuomo, ma bene avete fatto a interrompermi,
perché io era entrato in un lecceto da non uscirne
così tosto, tanti verbi ci sono che significano le voci degli
animali; nel che però siamo vinti da' Latini, e anco eramo
troppo discosto dalla materia del favellare. C. Troppo lontani no, perché ogni cosa fa per me, e
non ve ne dimando, perché mi ricordo di quei versi che
sono nella vostra Dafni, dove mi pare che siano quasi
tutti. V. Io non me ne ricordo già io; di grazia ditegli, per
vedere se così è come voi dite. C.
I serpenti fischiar, gracchiaro i corvi,
Le rane gracidar, bajaro i cani,
Belarono i capretti, urlaro i lupi,
Ruggirono leon, mugghiaro i tori,
Fremiron gli orsi, e gli augei notturni
Civette, ed assiuol, gufi, e cuculi
S'udir presaghi del gran danno in lungo
Dall'alte torri, e'n cima a' tristi nassi
Strider con voci spaventose, e meste. V. Anzi ce ne sono molti altri, come de' cervi il crociatare,
piuttosto che gracchiare; squittire de' pappagalli;
ragghiare degli asini; miagolare delle gatte; schiamazzare
delle galline, quando hanno fatto l'uovo, pigolare de'
pulcini; cantare de' galli e trutilare dei tordi; ma io non
me ne ricordo; e anco non fanno a proposito, come ho
detto, della nostra materia: però sarà bene che seguitiate,
come avete seguitato, a dimandar voi di quello che
più disiderate di sapere. C. Quel verbo che i Latini dicono compellare, non dico
quando significa parlare famigliarmente, né chiamare
uno per nome, né accusare chicchessia, ma chiamare uno
forte per uccellarlo, e fargli baja, hannolo i Toscani in
una parola? V. Hannolo; perché bociare significa proprio cotesto,
sebbene si piglia ancora per dare una voce ad alcuno,
cioè chiamarlo forte. C. Come direste voi nella vostra lingua quello che
Terenzio disse nella Latina subservire orationi? V. Secondare, o, andar secondando il parlare altrui, e,
accomodarsi al parlare. C. E quando disse: Munus nostrum ornato verbis? V. Abbellisci il dono, o il presente nostro colle parole;
ma Dante, che volle dirlo altramente, formò un verbo da
se d'un nome agghiettivo, e d'una preposizione Latina, e
disse
Mal dare, e mal tener lo mondo pulcro
Ha tolto loro, e posti a questa zuffa,
Quale ella sia, parole non ci appulcro. C. Dite il vero, piacevi egli, o parvi bello cotesto verbo
appulcro? V. Non mi dimandate ora di questo. C. Voi pigliate quì abbellisce in significazione attiva,
cioè per far bello, e di sopra quando allegaste quei versi
di Dante:
Opera naturale è ch' uom favella:
Ma così, o così, natura lascia
Poi fare a voi, secondo che v'abbella.
pare che sia posto in significazione neutra, cioè per piacere,
e per parere bello. V. Voi dite vero, ma quello è della quarta congiugazione,
ovvero maniera de' verbi, e questo è della prima:
quello si pone assolutamente, cioè senza alcuna particella
innanzi, e questo ha sempre davanti se o mi o ti, o gli,
secondo le persone che favellano, o delle quali si favella:
questo è modo di dire Toscano, come mostra Dante stesso,
inducendo nella fine del XXVI. canto del Purgatorio
Arnaldo Daniello a dire Provenzalmente:
Jam m'abellis votre cortois deman.
e gli altri versi che seguitano; benché per mio avviso
siano scritti scorrettamente. Dicesi eziandio, come 'l
Boccaccio nell'Ameto:
De' quai la terza via più s'abbelliva. C. Voi non avete detto nulla del verbo arringare? V. Aringare si pronunzia oggi, e conseguentemente si
scrive per una r sola, e non, come anticamente, con due,
e significa non solamente correre una lancia giostrando,
ma fare un'orazione parlando, ed è proprio quello che in
Firenze si diceva favellare in bigoncia, cioè orare pubblicamente
o nel consiglio, o fuori: ed aringo, usato più volte
non solo da Dante, ma dal Boccaccio, significa così lo
spazio dove si corre giostrando, o si favella orando, come
esso corso, o giostra, ed esso parlare, ovvero orazione; ed
è questo verbo in uso ancora oggi in Vinegia tra gli Avvocati;
e da questo fu chiamata in Firenze la Ringhiera, luogo
dinanzi al Palazzo, dove, quando entrava la Signoria,
il Podestà salito in bigoncia; che così si chiamava quel
Pulpito fatto a guisa di pergamo, dentro 'l quale aringava;
faceva un'orazione (che in quel tempo si chiamavano
dicerie) a' Signori, da quella parte dove è il Marzocco,
ovvero il lione indorato che ha sotto la lupa, al quale
in quelli, e in tutti gli altri giorni solenni si metteva, e si
mette la corona dell'oro. C. Piacemi intendere cotesti particolari de' costumi, e
usanze di Firenze; ma che vuol dire berlingare? V. Questo è verbo più delle donne, che degli uomini,
e significa ciarlare, cinguettare, e tattamellare, e massimamente
quando altri avendo pieno lo stefano, e la trippa
(che così chiamano i volgari il corpo, o il ventre), è riscaldato
dal vino: e da questo verbo chiamano i Fiorentini
berlingaiuoli, e berlingatori coloro i quali si dilettano
d'empiere la morfia, cioè la bocca, pappando, e leccando:
e Berlingaccio quel giovedì che va innanzi al giorno
del carnesciale, che i Lombardi chiamano la giobbia grassa;
nel qual giorno per una comune, e prescritta usanza
così fatta, pare che sia lecito a ciascuno, faccendo stravizj,
e tafferugli, attendere con ghiottornie, e leccornie,
senza darsi una briga, o un pensiero al mondo, a godere,
e trionfare; il che oggi si chiama far tempone. E sono
alcuni i quali credono che da questo verbo, e non dal
nome borgo, sia detta berghinella, cioè fanciulla che vada
sberlingacciando, e si truovi volentieri a gozzoviglie, e
a tambascià, e, per conseguente, di mala fama: e talvolta
furono di quì chiamati i berlingozzi, i quali in cotali giorni
si dovevano usare a 'conviti nel principio della mensa,
come ancora oggi si fa: e forse ancora il casato de' Berlinghieri,
o per fare spesse volte pasto; che anticamente
si diceva metter tavola; o per intervenire volentieri nelle
tresche, e a' trebbj per darsi piacere, e buon tempo. E
contuttoché i furfanti non siano troppo usi a sguazzare, e
stare co' pié pari; il che si chiama scorpare, e, stare a panciolle;
nondimeno in lingua furbesca si chiama berlengo
quel luogo dove i furbi alzano il fianco, quando hanno
che rodere; siccome refettorio, quello dove fanno carità i
frati, quando non digiunano. C. Bene sta; ma che dite voi del verbo rancurare? Viene
egli da rancore, ovvero ruggine, cioè da odio occulto;
che i Latini dicevano simultas; come afferma Messer Cristofano
Landini in quel verso di Dante nel ventesimosettimo
canto dell'Inferno:
E sì vestito andando mi rancuro;
ed è egli sì mala cosa, e così da doversi fuggire, come
alcuni lo fanno? V. Rancuro, donde si venga, è verbo Provenzale, e
significa attristarsi, e dolersi, come si vede in quel verso
d'una canzone di Folchetto da Genova; benché egli si
chiamò, e volle essere chiamato da Marsilia; la quale
canzone comincia:
Per Deu amors ben sabez veramen,
dove dice dolendosi della sua donna:
Cum plus vos serf chascuns, plus se rancura;
cioè, per tradurlo così alla grossa in un verso:
Com' più vi serve alcun, più sene duole.
Usalo ancora Arnaldo di Miroil in una sua canzone
che comincia:
Sim destringues donna vos, et amor.
Da questo discende rancura, cioè tristizia, e doglienza;
nome usato da Dante, che disse una volta:
La qual fa del non ver vera rancura;
ma molte, da' poeti Provenzali, come si può vedere nella
medesima canzone del medesimo Folchetto; e Pietro
Beumonte nella canzone che comincia:
Al pariscen de las flors,
cioè, all'apparir de' fiori,
disse:
Qui la en paez ses rancura
cioè Chi l'ha in pace senza tristezza, o, dolore. C. Io non intendo questa lingua Provenzale, e per non
interrompere il corso del nostro ragionamento non ve
ne voglio dimandare ora; ma ditemi, non avete voi altri
verbi, senza andare fino in Provenza, che significhino
questa passione? V. Abbiamne tre Latini, dolersi, lamentarsi, e querelarsi,
e due nostri, lagnarsi, e rammaricarsi, che si dice anco
per sincopa rammarcarsi, come si vede in Dante, e da
questo nascono rammarico, ovvero rammarco, e rammarichio
nel medesimo significato. C. Perché dunque usò Dante rancuro, e rancura, forse
per cagion della rima? V. Appunto mancavano rime a Dante, e massimamente
in coteste parole, che se ne trovano le migljaia excl ma
il fece (credo io) a per arricchir la lingua, o perché cotali
voci erano a quel tempo in uso. C. Musare, che usò Dante quando disse nel ventesim'ottavo
canto dell'Inferno:
Ma tu chi sei che 'n su lo scoglio muse?
viene egli dal verbo Latino mussare, cioè parlare bassamente,
come ho trovato scritto in alcuni libri moderni? V. Non credo io, sebbene pare assai verisimile; perché
il mussare Latino, che è il frequentativo di mutire, come
mussitare di mussare, significa più cose, e non mi pare
che egli abbia quella proprietà che ha il nostro musare,
che viene da muso, cioè viso, o volto, che si dice ancora
ceffo, grifo, niffolo, grugno, e mostaccio, e massimamente
negli animali; onde noi, quando alcuno maravigliando, e
tacendo ci guarda fissamente col viso levato in su, e col
mento che sporti in fuora, e pare che voglia colla bocca
favellare, e non favella, diciamo: che musi tu? o, che sta
colui a musare? ovvero, alla musa; nella quale oppenione
tanto mi confermo più, quanto ella non è mia (benché
anco mia), ma del molto Reverendo, e dottissimo Priore
degli Innocenti, già da me più volte allegato. C. Voi m'avete fatto venire una gran voglia di conoscere,
e onorare cotesto Priore, essendo egli tanto buono, e
tanto dotto, e tanto amorevole, quanto voi dite. Ma che
intendete voi per millantarsi, e donde viene cotal verbo? V. Vanagloriarsi, ammirar se stesso, dir bene di se
medesimo, e innalzare più su che 'l cielo le cose sue,
faccendole maggiori non pure di quello che sono, ma
di quello che esser possono; e fu tratto da quelli che,
parendo loro essere il seicento, hanno sempre in bocca
mille, e la prima tacca della stadera de' quali dice un
migliajo: e di questi tali che s'ungono, o untono gli stivali
da lor posta, cioè si lodano da se medesimi, si suol dire
che hanno cattivi vicini. C. Avete voi altro verbo che senza tante migliaja, e
millanterie, e millantatori, significhi quello che i Latini
dicono jactare se, e gloriari? V. Jactare se è somigliantissimo a millantarsi; e noi
abbiamo, oltra il gloriarsi, che è Latino, un verbo più
bello, il quale è vantarsi, o, darsi vanto; il quale verbo,
e nome non hanno i Latini, ma i Greci sì, che dicono
felicemente ____&___ ed ___o_ Gli antichi nostri
usavano ancora da bora, boriare, onde borioso. C. In che significato pigliate voi ghiribizzare? V. Ghiribizzare, fantasticare, girandolare, e arzigogolare
si dicono di coloro i quali si stillano il cervello, pensano
a ghiribizzi, a fantasticherie, a girandole, ad arzigogli,
cioè a nuove invenzioni, e a trovati strani, e straordinarj,
i quali o riescono, o non riescono; e cotali ghiribizzatori
sono tenuti nomini per lo più sofistici, indiavolati, e,
come si dice volgarmente, un unguento da cancheri, cioè
da trarre i danari dalle borse altrui, e mettergli nelle loro. C. Che vuol dire apporre? V. Dire che uno abbia detto, o fatto una cosa la quale
egli non abbia né fatta, né detta; il che i Latini dicevano
conferre aliud in aliquem, o, conferre culpam. C. Quando voi faceste menzione di cicalare, ciarlare, e
di quegli altri verbi che cominciano da c, lasciaste voi nel
chiappolo in pruova, o piuttosto nel dimenticatojo, non
ve ne accorgendo, il verbo sbajaffare, che alcuni, come
bella, e molto vaga voce, lodano tanto? o, forse parendovi
troppi quelli, e di soverchio, non voleste raccontare
questo? V. Quanti più fossero stati, me' sarebbero paruti: ma
io non lo raccontai, perché mai non ho letto, né udito
né sbajaffare, né sbajaffatori, né sbajaffoni, né mai favellato
con alcuno che l'abbia letto, o sentito pur ricordare;
e anco non vi conosco dentro molta né bellezza, né
vaghezza, anzi piuttosto il contrario; e, se pure è Toscano,
o Italiano, non è Fiorentino; che è quello che pare a
me che voi cerchiate: credo bene ch'i Gianni nelle loro
commedie dicano sbajare. C. Anfanare non significa anch'egli ciarlare, e si dice
di coloro, o a coloro che ciarlano troppo, e fuori di
proposito? V. Che sappia io no, perché è verbo contadino, che
significa andare a zonzo, ovvero aione, ovvero aiato, cioè
andare quà, e là senza sapere dove andarsi, come fanno
gli scioperati, e a chi avanza tempo; il che si dice ancora:
andarsi garabullando, e, chicchirillando. C. Zazzeando, che è nella Novella del Prete da Varlungo
ne' testi stampati già da Aldo, non vuole egli dire
cotesto medesimo? V. Credo di si; dico, Credo, perché alcuni altri hanno
zazzeato, da questo medesimo verbo, e alcuni zacconato,
la qual voce io non so quello si voglia significare. C. In qual significazione s'usa orpellare? V. Quando alcuno, mediante la ciarla, e per pompa
delle parole, vuol mostrare che quello che è orpello, sia
oro, cioè fare a credere ad alcuno le cose o picciole, o
false, o brutte, essere grandi, vere, e belle. C. Che dite voi del verbo bravare? V. Che egli con tutta la sua bravura, e ancorché sia venuto
di Provenza a questo effetto, non è però stato ancora
ricevuto dagli Autori nobili di Toscana, se non da
pochissimi, e di rado, e pure è bello, e, se non necessario,
molto proprio, perché svillaneggiare, o, dir villania,
minacciare, oltraggiare, e, sopraffare, ovvero, superchiare
di parole, e altri tali, non mi pare che abbiano quella forza,
ed energia (per dir così), né anco quella proprietà, e
grandezza, che bravare; e insomma egli mi pare un bravo
verbo, sebbene le sue braverie sono state infin quì a
credenza; e quei bravoni, o bravacci che fanno il giorgio
su per le piazze, e si mangiano le lastre, e vogliono
far paura altrui coll'andare, colle bestemmie, faccendo il
viso dell'arme, si dicono cagneggiarla, o, fare il crudele. C. Come direste voi Fiorentini nella vostra lingua,
quello che Terenzio nell'altrui: Injeci scrupulum homini? V. Io gli ho messo una pulce nell'orecchio: dicesi ancora
mettere un cocomero in corpo, onde coloro che non
vogliono stare più irresoluti, ma vederne il fine, e farne
dentro, o fuora, e finalmente cavarne (come si dice) cappa,
o mantello, dicono: sia che si vuole, io non voglio star
più con questo cocomero in corpo; e se volete vedere come
si deono dire queste cose in lingua nobile, e leggiadramente,
leggete quel Sonetto del Petrarca che comincia;
Questa umil fera, ec. C. E quello che Plauto disse: Versatur in primoribus
labiis, cioè, Io sto tuttavia per dirlo, e parmene ricordare,
poi non lo dico, perché non me ne ricordo? V. Io l'ho in sulla punta della lingua. C. Benissimo: e quello che Vergilio disse nel principio
del secondo dell'Eneida: Spargere voces ambiguas, come
lo direste? V. Non solamente con due voci, come essi fanno, cioè
dare, o, gittar, o, sputare bottoni, ma eziandio con una
sola, sbottoneggiare, cioè dire astutamente alcun motto
contra chicchessia per torgli credito, e riputazione, e
dargli biasimo, e mala voce, il che si dice ancora appiccar
sonagli, e, affibbiar bottoni senza ucchielli. C. Far cappellaccio, che cosa è? V. I fanciulli, quando vogliono girare la trottola, ed ella
percotendo in terra non col ferro, e di punta, ma col
legnaccio, e di costato, non gira, si dicono aver fatto cappellaccio,
come chi volendo far quercio, e cadendo, fa un
tombolo, ovvero un cimbottolo. Ma questo significato è
fuori della materia nostra; però diremo che fare un cappellaccio,
ovvero, cappello (nella materia della quale ragioniamo)
ad alcuno, è dargli una buona canata, e fargli
un bel rabbuffo colle parole, o veramente farlo rimanere
in vergogna, avendo detto, o fatto alcuna cosa della
quale si garreggiava meglio di lui. C. Che vuol dire far quercia? V. Non sapete voi che l'uomo si dice essere una pianta
a rovescio, cioè rivolta all'ingiù? Onde chiunche distese,
e allargate ambo le braccia s'appoggia colle mani aperte
in terra, e tiene i pié alti, e diritti verso' l cielo, si chiama
far quercia. C. Buono; ma a me non sovviene più che dimandarvi
dintorno a questa materia del favellare, né credo a voi,
che dirmi, veggendovi stare tutto pensoso, e quasi in
astratto. V. Oh come disse bene Dante excl
Veramente più volte appajon cose
Che danno a dubitar falsa matera,
Per le vere cagion che sono ascose.
Io stava così penseroso, e quasi in estasi, non perché io
non avessi che dire, ma perché mi pareva aver che dir
troppo sopra un subietto medesimo, e dubitava d'avervi
o stanco, o fastidito. C. Stando a sedere, e in sì bel luogo, e con tali ragionamenti,
e con sì fatte persone, non si stracca. E che altra
faccenda ho, io, anzi qual faccenda si dee a questa preporre?
o in che si può spendere meglio il tempo che in
apparare? Seguite, per l'amor di Dio, che se io potessi esservi
più tenuto di quello che sono, vi direi di dovervene
restare in perpetua obbligazione. V. Bucherare, ancorché significhi far buche, e andar
sotterra, si dice in Firenze quello che i Latini dicevano
anticamente ambire, e oggi a Venezia si dice far brolo,
cioè andare a trovare questo cittadino, e quello, e pregarlo
con ogni maniera di sommessione, che quando tu
andrai a partito ad alcuno magistrato, o ufizio, ti voglia
favorire, dandoti la fava nera: e perché gli uomini troppo
disiderosi degli onori, molte volte per ottenergli, davano,
o promettevano danari, e altre cose peggiori, si fecero più
leggi contra questa maladetta ambizione e in Roma, e in
Firenze, e in Vinegia, le quali sotto gravissime pene proibivano
che niuno potesse né ambire, né bucherare, né
far brolo; e tutte in vano.
Perfidiare, o, stare in sulla perfidia, è volere, per tirare,
o mantenere la sua, cioè per isgarare alcuno, che la sua
vada innanzi a ogni modo, o a torto, o a ragione: e
ancoraché egli conosca d'avere errato in fatti, o in parole,
sostenere in parole, e in fatti l'oppenione sua, e dire, per
vincer la prova, se non avere errato; del che non può
essere cosa alcuna né più biasimevole, né più diabolica; e,
insomma, perché la sua stia, e rimanga di sopra, e quella
dell'avversario al disotto, difendere il torto, e fare come
quella buona donna la quale, quando non potette dir più
forbice colla bocca, perché boccheggiava, e dava i tratti
che i Latini dicevano agere animam, lo disse colle díta,
aprendo e ristringendo a guisa di forbice l'indice, e'l dito
di mezzo insieme. (Segue Prima Terza)
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