Dedica
ALL’ILLUSTRISS.
ED ECCELL. SIG. SUO E
PADRONE
OSSERVANDISS. IL SIGNOR DON
FRANCESCO
MEDICI PRENCIPE DELLA
GIOVENTÙ
FIORENTINA, E DI QUELLA DI
SIENA,
UMILE E DIVOTISSIMO SERVO
BENEDETTO
VARCHI
Tutte
le cose che si fanno sotto la
Luna, si fanno, Illustriss., ed
Eccellentiss. Prencipe, o dalla
natura, mediante Dio, o
dall’arte, mediante gli uomini.
Delle cose che si fanno dalla
natura, mediante Dio, la più
nobile, e la più
perfetta è, senza alcuna
controversia, l’uomo, sì in
quanto
alla
materia sua, cioè il corpo, il
quale non ostante che sia
generabile,
e corrottibile, come quello
degli altri animali,
è
non di meno il più temperato, e
il meglio organizzato, e
insomma
il più degno, e il più
maraviglioso, che ritrovare
si
possa, e sì massimamente in
quanto alla forma, cioè
all’anima;
conciossiacosaché
l’intelletto umano posto (come
diceva
quel grandissimo Arabo Averrois)
nel confine
del
tempo, e dell’eternità, come
è l’ultima, e la men perfetta
di
tutte l’intelligenze divine, e
immortali, così è la prima,
e
la più nobile fra tutte le
creature mortali, e terrene.
Delle
cose che si fanno dall’arte,
mediante gli uomini, lo
scrivere,
non lo scrivere semplicemente,
ma lo scrivere copiosamente,
e
ornatamente, cioè con eloquenza
è la più disiderabile
da
tutti, e la più disiderata
dagl’ingegni nobili,
non
dico che sia, ma che essere
possa. La qual cosa, perché
non
dubito che debba parere a molti
come nuova, così ancora
strana,
e forse non vera, proveremo
chiarissimamente
in
questa maniera.
Tutte le cose,
qualunque, e dovunque
siano,
per lo innato disiderio
d’assomigliarsi al facitore, e
mantenitone
loro, cioè a Dio ottimo, e
grandissimo, quanto
sanno,
e possono il più, disiderano
ciascuna sopra ogni
cosa
l’essere: l’essere è di due
maniere, sensibile ovvero
materiale,
e intelligibile, ovvero
immateriale; l’essere
sensibile
è
quello che ciascuna cosa ha
nella sua materia propria fuori
dell’anima altrui, come (per
cagion d’esempio)
un
cane, o un cavallo considerato
in sé stesso come cane, o
come
cavallo; l’essere
intelligibile è quello che
ciascuna cosa
ha
fuori della sua propria materia
nell’anima altrui, come
un
cane, o un cavallo considerato
non in sé stessa, ma
come
egli è inteso dall’intelletto
umano, e in lui riserbato,
il
quale per questa cagione si
chiama da’ filosofi il luogo
delle
spezie, ovvero delle forme, cioè
de’ simulacri, e delle
sembianze,
ovvero similitudini delle cose
intese, e per conseguenza
ricevute
da lui.
Di questi, duo’ esseri,
per dir così,
non
il sensibile, il quale essendo
materiale, è necessario
che
quando che sia si corrompa, ma
l’intelligibile, il quale
essendo
sensa materia, può durare
sempre, è fuori d’ogni
dubbio
il più degno, e
conseguentemente il più
desiderabile;
onde
un cane, o un cavallo, e così
tutte l’altre cose, hanno
più
perfetto essere, e più nobile
nella mente di chiunche
l’intende,
che elleno non hanno in se
stesse: anzi in tutto
questo
mondo inferiore nessuna cosa,
essendo tutte composte
di
materia, può avere né più
nobile essere né più perfetto,
che
nell’intelletto umano, quando
ella è intesa, e riserbata
da
lui; e quanto è più nobile, e
piú perfetto intelletto
che
intende alcuna cosa, tanto ha
quella cosa la quale è
intesa,
più perfetto, e più nobile
essere; senza che, l’essere
sensibile,
non potendo alcuna cosa avere se
non una forma
sola,
non può essere se non un solo,
dove gl’intelligibili
possono
esser tanti, quanti sono
gl’intelletti, e
conseguentemente
quasi
infiniti; perché da quanti
intelletti è intesa,
e
riserbata alcuna cosa, tanti
esseri intelligibili viene ad
avere,
e per conseguenza a perpetuarsi
quasi infinitamente,
e
ciò in due modi, di tempo, e di
numero, potendo essere
intesta
da infiniti intelletti infinito
tempo; cosa veramente
divina,
e oltra tutte le meraviglie
maravigliosa, posciaché
quello
che non potette far natura per
la imperfezione
della
materia, cioè perpetuare
gl’individui in sé stessi,
fece
doppiamente l’arte per la
perfezione dell’intelletto
umano.
A voler dunque che qualsisia
cosa consegua la più
nobile
perfezione, e la più perfetta
nobiltà, e insomma la
maggior
felicità, e beatitudine che si
possa, non dico avere
in
questo mondo, ma desiderare, e
farla eterna; e a volerla
eternare,
bisogna farla intendere
dagl’intelletti umani,
e
a farla intendere
agl’intelletti umani, ci sono
tre vie
senza
più, due imperfette, e ciò
sono la pittura, e la scultura,
che
fanno conoscere solamente i
corpi, e a tempo, e una
perfetta,
cioè l’eloquenza, la quale fa
conoscere non solamente
i
corpi, ma gli animi, non a
tempo, ma perpetualmente.
E
questo è quello che volle
dottissimamente, e non
meno
con verità, che con leggiadria,
significare M. Francesco
Petrarca,
quando scrivendo al Sig.
Pandolfo Malatesta
da
Rimini, così famoso nelle
lettere, come nell’armi, disse:
Credete
voi, che Cesare, o Marcello,
O
Paulo, od Affrican fusser cotali,
Per
incude giammai, né per martello?,
Pandolfo
mio, queste opere son frali,
A
lungo andar, ma ’l nostro
studio è quello,
Che
fa per fama gli uomini immortali,
Dunque
se l’essere è la prima, e la
più degna, e la più
non
solo desiderevole, ma disiderata
cosa che sia, anzi, che
essere
possa, e l’essere
intelligibile è più nobile, e
più perfetto
senza
comparazione dell’essere
sensibile, e le belle, e
buone
scritture ne danno l’essere
intelligibile, certa cosa è
che
lo scrivere bene, e pulitamente
è la più nobile, e la più
peretta
cosa, e insomma la più
desiderevole non solo che
facciano,
ma eziandio che possano fare gli
uomini per acquistare
eterna
fama, e perpetua gloria o a se
medesimi, o
ad
altri, e conseguentemente o per
vivere essi, o per far vivere
altrui
infinite vite infinito tempo. E
di quì si dee credere
che
nascesse, che gli antichi così
poeti, come prosatori
erano
in tanta stima tenuti, e in così
grande venerazione
avuti
in tutti i paesi, e appresso
tutte le genti quantunque
barbare;
e che Giulio Cesare, ancorché
fusse non mena eloquente,
che
prode, portava una grandissima,
ma lodevolissima, invidia a
Marco Tullio Cicerone, dicendo
essere stato
maggior
cosa, e viepiú degna di loda, e
d’ammirazione
l’avere
disteso, e accresciuto i confini
della lingua Latina,
che
prolungato, e allargato i
termini dell’imperio Romano.
Onde
non senza giustissima cagione
affermano molti, con
assai
minor danno perdersi le
possessioni de’ Regni, che i
nomi
delle lingue; e che maggiormente
deve dolersi la città
di
Roma, e tutta l’Italia delle
nazioni straniere, perché
elleno
le spensero si bella lingua, che
perché la spogliarono
di
sì grande imperio; e io vorrei
che alcuno mi dicesse
quello
che sarebbero gli uomini, e
quanto mancherebbe
al
mondo, se non fossero le
scritture così de’ prosatori,
come
de’ poeti. Queste sono le
cagioni, Illustrissimo, ed
Eccellentissimo
Principe, perché io, senza
avere alla mia
bassezza
risguardo avuto, ho preso
ardimento d’indirizzare
all’Altezza
vostra un Dialogo fatto da me
novellamente sopra
le
lingue. E di vero, se io
altramente fatto avessi, egli
mi
parrebbe d’aver commesso
scelleratezza non picciola,
perciocché,
oltra che io sono e servo, e
stipendiato del sapientissimo,
e
giustissimo non meno, che
grandissimo, e
fortunatissimo
Padre vostro, e conseguentemente
di voi, la
materia
della quale si ragiona, è tale,
che ad altri che alla
sua,
o alla vostra Eccellenza
indirizzare giustamente non si
potea.
Ma considerando io il
grandissimo peso delle tante,
e
tanto grandi, e così diverse
faccende che ella nel proccurare
la
salute, e la tranquillità del
suo fiorentissimo, e felicissimo
stato
di Firenze, e di Siena
continovamente regge,
e
sostiene, giudicai più
convenevole, e meno alle
riprensioni
sottoposto,
il mandarlo a voi.
La cagione
del componimento
del
Dialogo fu, che avendo io
risposto per le cagioni,
e
ragioni lungamente, e veramente
da me narrate, alla
risposta
di M. Lodovico Castelvetro da
Modona fatta, contra
l’Apologia
di M. Annibal Caro da
Civitanuova, e mostratala
ad
alcuni carissimi amici, e
onorandissimi maggiori
miei,
eglino, i quali comandare mi
poteano, mi pregarono
strettissimamente
che io dovessi, innanzi che io
mandassi fuori cotal risposta,
fare alcuno trattato
generalmente
sopra
le lingue, e in particolare
sopra la Toscana, e la
Fiorentina;
e poi così pareva a me, come a
loro, mostrare
quanto
non giustamente hanno cercato
molti, e cercano
di
torre il diritto nome della sua
propria lingua alla vostra
città
di Firenze. È adunque tralle
principali intenzioni
mie
nel presente libro, il quale io
dedico per le cagioni
sopraddette
a
Vostra Eccellenza la
principalissima, il dimostrare,
che
la lingua colla quale scrissero
già Dante, il Petrarca,
e
il Boccaccio, e oggi scrivono
molti nobili spiriti di
tutta
Italia, e d’altre nazioni
forestiere., come non è, così
non
si debba propriamente chiamare né
Cortigiana, né Italiana,
né
Toscana, ma Fiorentina; e che
ella è, se non più
ricca,
e più famosa, più bella, più
dolce, e più onesta che
la
Greca, e la Latina non sono; la
qual cosa se io ho conseguita,
o
no, niuno né può meglio, né
dee con maggior
ragione
voler giudicare, che
l’Eccellenza Vostra, e quella
dell’Illustrissimo
Padre vostro, sì per
l’intelligenza, e integrità,
e
sì per l’imperio, e potestà
loro; dalla cui finale sentenza
come
niuno appellare non può, così
discordare non
doverebbe;
e nondimeno io per tutto quello
o poco, o assai
che
a me s’aspetta, sono
contentissimo di rimettermi
liberalissimamente
ancora
al giudizio di tutti coloro a
cui cotal
causa
in qualunqne modo, e per
qualunque cagione appartenere
si
potesse, solo che vogliano non
l’altrui autorità,
ma
le ragioni mie considerare, e più
che l’interesse proprio,
o
alcuno altro particolare
rispetto, la verità risguardare,
come
giuro a Vostra Eccellenza per la
servitù, e divozione
mia
verso lei, e per tutte quelle
cose le quali propizie
giovare,
e avverse nuocere mi possono,
d’aver fatto
io.
Resterebbemi il pregarla
umilmente, che si degnasse
d’accettare
questo dono, tuttoché picciolo,
e non ben degno
della
grandezza sua, volentieri, e con
lieto viso; ma io
sappiendo
che ella premendo tutte l’orme
in così giovenile
età,
e calcando altamente tutte le
vestigia di tutte le virtù
paterne,
è non meno benignamente severa,
che severamente benigna, la
pregherò solo, che le piaccia,
per la sua
natia
bontà, di mantenermi nella
buona grazia di lei, e di
tutta
l’Illustrissima, ed
Eccellentissima Casa sua; la
quale
nostro
Signore Dio conservi felicissima,
e gloriosissima
sempre.
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