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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA


Il Dittamondo
di: Fazio degli Uberti 

LIBRO QUINTO 

Capitoli I - XV



CAPITOLO I 
La vela data al vento e volti a l’Africa, 
lassando de l’Europa ogni bel seno, 
passammo tra la gente acerba e africa. 
Era il tempo lucido e sereno, 
allegra l’aire e con soave vento, 5 
il mare quieto e di riposo pieno. 
Ed era il sol poco piú giú che ’l mento 
del Montone e la luna vedea 
sí viva, che ciò m’era un gran contento. 
E come gli occhi a la poppa volgea, 10 
vidi Plinio giacere sopra un letto, 
secondo che ’n Verona visto avea. 
Vèr lui mi trassi e tanto fu l’affetto, 
che l’abbracciai nel loco dove era; 
poi mi puosi a seder nel suo cospetto. 15 
E come il sol nascose la sua spera, 
cantaro i marinai Salve regina 
sí dolce, quanto in Siena mai la sera. 
Partita quella gente pellegrina, 
incominciai: “O caro padre mio, 20 
non perdiam tempo per questa marina. 
Tu sai il mio voler, tu sai il disio”. 
Per che rispuose, levatosi in piei: 
“In un pensiero eravam tu ed io”. 
Poi cominciò: “Lo zodiaco dèi 25 
in tutto imaginar dodici segni, 
de’ quali ora di sopra ne stan sei. 
Compresi son questi dodici regni 
da sette stelle donne e capitane 
de l’altre, perché han raggi assai piú degni. 30 
E l’una sopra l’altra in modo stane, 
che ciascuna ha sua spera, o vuoi dir cielo 
per lo qual sempre con ordine vane. 
L’ottavo sopra questi sette isvelo 
di stelle adorno assai lucide e fisse, 
e qui la tramontana aviva il gelo. 
Lo nono imaginar convien, mi disse, 
dove la gran vertú e la potenza 
di Dio piú viva vive e sempre visse. 
Or ciascun cielo ha la sua intelligenza, 40 
diversi moti e diversa natura 
e sopra noi, qua giú, nuova influenza. 
Ma qui fo punto; e tu, figliuol, pon cura 
vèr ponente con gli occhi de la fronte, 
e con quei de la mente il dir figura. 45 
Al fin del tuo mirare è l’orizzonte: 
Aries è lá, lo qual per Giove Ammone 
si crede, con le corna adorne e conte. 
Esiodus vuole che sia quel montone 
ch’a l’isola di Colcos puose Friso, 50 
del quale il vello ne portò Iansone. 
Cinque e dodici stelle ti diviso 
per lo suo corpo e, se le vuoi notare, 
dov’io mostro col dito volgi il viso. 
Di Marte il segno dèi imaginare 55 
che è diurno, mobil, masculino: 
quel significa che suo simil pare. 
Seguita il Toro: tien la testa e ’l crino 
rivolto a dietro e credesi quel bove, 
ch’uscia del Nil sacrato, e Serapino. 60 
Piace ad alcun che sia quello in cui Giove 
si trasformò, quando Europa tolse 
in Libia e per lo mar la trasse altrove. 
Similemente fu alcun, che volse 
che Io fosse, che Giuno trasforma 65 
in vacca, onde Argo la morte ne colse”. 
Diciotto stelle per la sua gran forma 
mi divisò fra l’altre, e tutte belle; 
notturno, fisso, feminin si conforma. 
Poi disse: “Guarda ne la fronte quelle 70 
le quai da’ savi Pliade son dette 
e che i volgari chiaman Gallinelle. 
E da molti Subucole si mette, 
ch’allattâr Bacco; e Venus quivi regna 
e significa i tori e le lor sette. 75 
Lo Gemini apresso par che vegna, 
dove i due frati Castore e Polluce 
deificati ciascun si disegna. 
Dodici stelle ne’ membri lor luce; 
umano è il segno e gli uomini significa; 80 
comuno il truovi e Mercurio n’è duce. 
Ma vedi il Cancro, ch’ancor si glorifica 
ch’a Pallas diede ingegno e argomento, 
onde la sua tintura piú fortifica, 
e perché fece Ercules attento 85 
a farsi innanzi, quando l’idra vide 
uscir de l’acqua, onde prese spavento. 
Or questo segno il suo Fattor provide, 
sí come fece in tutte l’altre cose, 
che fosse de la luna e ch’ella il guide. 90 
Sei chiare stelle nel suo corpo pose; 
ogni animal che retrogrado vada, 
che viva in acqua, sotto lui dispose”. 
Poi disse: “Un poco in vèr levante bada: 
lá è il Leone, ch’Ercules uccise 95 
in Nemea selva, e vien per la sua strada. 
Del sole è il segno; e qui vo’ che t’avise: 
cinque sono i pianeti che han due segni 
e tra la luna e ’l sol due ne divise. 
Tigri, leopardi e ancor altri degni 100 
e feroci animai di simil sorte 
di sotto a lui par che si disegni. 
Tredici grosse stelle li son porte. 
Ma guarda Virgo, ch’Erigon si crede 
che Icaro, il padre, trovò dopo morte. 
Di questa Virgo Esiodus fa fede 
che figlia fu di Giove e di Diana; 
ma in altro modo Aratus procede. 
Ogni vergine cosa, santa e sana, 
pura e netta, significa costei; 110 
in vista, mostra angelica e umana. 
Mercurio regge questo segno e lei”. 
Apresso mi mostrò a parte a parte 
e nominò sedici stelle e sei, 
ch’avea per l’ali e per le membra sparte. 115 

CAPITOLO II 
“Figliuol mio, disse, quanto cerner puoi 
del Zodiaco io t’ho mostrato in brieve, 
nominando le stelle e i segni suoi. 
Ma perché ciò ch’uom vede assai piú lieve 
prende, che quel che imaginar conviensi, 5 
so che ti fia il mio parlar piú grieve. 
Ma fa che dia riposo alquanto ai sensi 
e con l’udir le parole distilla 
dove le truovi, poi che fra te pensi; 
ché quando quel che ’ntender de’ vacilla 10 
e non sta fermo a quel che l’uom li conta, 
a l’esca sua mal s’accende favilla. 
Imagina che dietro a Virgo monta 
Libra con le bilance, le qua’ sono 
di Venus, come del Tauro si conta. 15 
Giustizia, dirittura e ciascun buono 
significa quaggiú, e marco e libra, 
con tutti i pesi che contar si pono. 
Or, poetando, alcun vuole e delibra 
che Giustizia, la figliuola d’Astreo, 20 
translatata fu quivi e detta Libra. 
E Demetra piace ad Ecateo, 
la dea Cereres, ch’essa fosse quella 
tratta lassú, poi che ’l mondo perdeo. 
Eracles pone un’altra novella: 25 
che è Mensura, per lo cui prego il Nile 
mensura prese, quanto ancor tien, bella: 
che, poi che per la morte cambiò stile, 
piacque a gli dii che ’n questo loco fosse 
sí come cosa divota e umile. 30 
Con l’aspra coda e con le prese grosse 
apresso Libra segue lo Scorpione, 
per cui Fetonte, giá, tremando, cosse. 
Questo, come Aristofano pone, 
con la saetta da Chiron fu morto 35 
per la vendetta del figliuolo Amone; 
poi, per li dii, in quel segno fu scorto. 
E sappi che significa quaggiuso 
velen, paura, crudeltá e torto, 
e ciascun animal, ch’abbia per uso 40 
di portar tosco e di pungere altrui 
e star sotterra ascoso o in pertuso. 
Sette e diece stelle sono in lui 
e, tra’ dodici segni, si può dire 
che, qual tra suoi fu Giuda, è qui costui. 45 
E dopo lui imagina venire 
Sagittario con la fronte sí viva, 
ch’assai par chiaro a chi ’l vede apparire. 
Da questo segno ogni animal deriva 
che mostruoso sia, ogni spavento 50 
che vegna di lontano o che si scriva, 
archi, balestre e saettamento 
e, brevemente, tutte quelle cose 
che posson da la lunga dar tormento. 
Alcuno fu che, poetando, compose 55 
come Chirone, d’Achilles maestro, 
in questo segno per li dii si pose 
con la saetta a l’arco aperto e destro, 
dietro a lo Scorpio, che ’l figliuolo uccise: 
e, qual centauro fu, par qui silvestro. 
Quindici belle stelle vo’ che avise 
per lo corpo bestiale e per lo viro, 
che dal sommo Fattor li funno mise. 
Or questo segno, quando cerco e miro, 
di Giove trovo ed èvi un loco adorno 65 
dove l’altar di lui ancora spiro. 
Apresso, dèi saper, vien Capricorno 
che significa il cervio e ’l cavriolo 
e ciascun animal c’ha simil corno. 
La Olenia capra col figliolo, 70 
Giove, allattato, dopo la lor morte 
meritar volse in questo luogo solo. 
Dieci e sedici stelle sono scorte, 
fra l’altre, da notar per le sue membra 
e qui Saturno tien talor sua corte. 75 
Dopo costui imagina e rimembra 
che ’n forma d’uomo Aquario si vede 
e versa l’acqua, che un diluvio sembra. 
E scrivesi ch’è preso Ganimede 
per Giove, che a li dii ne fe’ pincerna, 80 
in questo luogo, e Nason ne fa fede. 
Similemente ancora si governa 
e regge per Saturno questo regno 
e qui ogni sua possa par si cerna. 
Sette e dodici stelle ti disegno 85 
per lo suo corpo, piú lucenti e nove 
che l’altre, che sian poste per lo segno. 
Seguita il Pesce, il quale è dato a Giove, 
sí bel di stelle, che quarantadue 
son da notar, dove piú luce piove. 90 
Or, poetando, Glauco un pover fue 
pescatore che, presi pesci in mare, 
scosse in su l’erba le grembiate sue. 
Gustati d’essa, li vide saltare 
ne l’acqua tutti, onde allora il tapino 95 
volse per sé il miracol provare. 
Per che, provatol, venne iddio marino: 
onde i due pesci, che v’eran piú privi, 
per testimoni di cotal destino 
fun per li iddii translatati quivi”. 100 

CAPITOLO III 
“Imagina, seguio, l’ottavo cielo 
composto d’una e d’altra figura, 
come de lo Zodiaco ti svelo. 
E pensa, s’hai veduto e posto cura 
quando il musaico con vetri dipinti 5 
adorna e compon la sua figura: 
che quei che son piú riccamente tinti 
ne le piú nobil parti li pon sempre; 
e converso, ne le men li piú stinti. 
Cosí quel Sommo, che lassú contempre, 10 
conoscer puoi che d’una e d’altra stella 
figurò il cielo con diverse tempre, 
e ch’Esso puose ciascuna piú bella 
propio in quel loco che vide piú degno, 
con l’ordine seguendo questa e quella. 15 
Similmente ti dico e ti disegno 
ch’ogni figura significa certo 
la simiglianza sua in questo regno. 
Ma drizza gli occhi ove piú vedi aperto 
in vèr settentrione e ’l mio dir nota, 20 
se vuoi d’alcuna d’esse essere esperto. 
Vedi il Carro, che intorno al polo rota; 
vedi Bootes, che guida il timone; 
di cui Boetes alluma la gota. 
Vedi due stelle, che l’una si pone 25 
in su l’omero destro e l’altra apresso, 
dico sopra ’l sinistro d’Orione. 
Vedi due altre al Carro piú presso, 
de le quai credo ch’assai se’ provisto: 
l’Orse son dette e ’nsieme stanno adesso”. 
Allor pensai: l’una è quella Callisto, 
ch’Ovidio pone che Giuno converse 
in orsa, poi ch’ella ebbe il fatto visto; 
l’altra è ’l figliuol, cui Giove non sofferse 
che morisse per lei, ma tutto accorto 35 
fe’ due stelle di loro e ’l cielo aperse. 
Quel mi guardò e, poi che m’ebbe scorto 
che io pensava altrove, disse: “Guarda 
e ’l pensier lassa come il dito porto. 
Vedi una stella, che par che tutta arda, 40 
tra il Gemini e il Cancro tanto viva, 
che Venus pare a chi ben la riguarda. 
In fra le fisse niuna v’è piú diva 
di luce presso a lei ed è nel Cane 
e ‘cuor del Cane’ voglio che la scriva. 45 
Dinanzi ai piedi del Gemini stane, 
che ha forma d’uomo; e quinci, penso, move 
che sempre a l’uomo il cane apresso vane. 
Vedi lá il Cigno, in che trasformò Giove, 
e ’l Delfin di Nettunno e quella spera 50 
del serpe Eritonio, che leggi altrove”. 
Apresso m’additò d’una che v’era 
in atto d’assassin crudo e villano, 
orribile a veder quanto una fera. 
Questo tenea ne la destra mano, 55 
come ferir volesse, un gran coltello; 
l’altra, la testa di un corpo umano. 
“Vedi la nave d’Argus col castello; 
e vedi Pegaseo che, tratto a volo, 
tutto è caval, ma con ale d’uccello. 60 
Vedi Feton d’intorno al nostro polo, 
e, piú qua, il Corbo, che cambiò le penne 
perché Corona scoperse ad Apolo. 
E sappi, quando a far l’accusa venne, 
che la pernice del tutto l’avisa, 65 
quasi indivina a quello che li avenne”. 
Alfine mi disegna e mi divisa 
che son diciotto figure con trenta 
nel cielo ottavo, di diversa guisa. 
E io: “O luce mia, sí mi contenta 70 
il tuo aperto e piacevole dire, 
che, ascoltando, di piú non mi rammenta. 
Or, se a te piace, ancora vorrei udire 
nomare alcuna stella principale 
del Zodiaco, e quel loco partire”. 75 
“Ogni cosa, rispuose, per la quale 
io possa sodisfare a la tua sete, 
mi piace e piú di altro non mi cale. 
Sarthan ne le corna d’Ariete 
due stelle son lucenti e pari poste 80 
e ciascuna d’un modo in noi reflete. 
E con gran luce tre n’ha ne le coste: 
Albuthan prima le nomâr coloro, 
che puoson mente com’eran disposte. 
Albocach son tre altre e fan dimoro 85 
ne lo capo del Gemini e tra i piei 
Anchacas due, che lucono come oro. 
E vedrai, se ben miri ai detti miei, 
Anacotha nel muso del Leone 
lucenti sí, che conoscer le dèi. 90 
Cosí, nel petto, Albegen si pone 
e Alcarfa sopra alquanto dal rabbuffo 
de la sua coda, di sotto al groppone. 
Similemente apresso del ciuffo, 
dico negli occhi suoi, ne stanno due 95 
e queste truovo nominate Artuffo”. 
E qui si tacque, che non disse piue. 

CAPITOLO IV 
Cosí parlando e navicando sempre, 
passammo quella notte, che Morfeo 
non prese me con le sue dolci tempre. 
E, poi ch’io vidi ch’al tutto taceo, 
incominciai: “Assai ho ben compreso 
quanto m’hai detto e scritto nel cuor meo. 
Vero è ch’i’ son da piú pensier sospeso: 
i moti lor, come potrai udire, 
muovon da quel, ch’io ho da te inteso. 
L’un è che tu mi cominciasti a dire 
che Aries è diurno e masculino 
e ’l Tor notturno e feminin seguire; 
del Gemini e degli altri, poi, in fino 
al Pesce, mi tacesti l’esser loro: 
e cosí qui rimasi nel cammino. 
L’altro pensiero, sopra il qual dimoro, 
è che Aries di’ che mobile si vede 
e che fisso si truova apresso il Toro; 
e ’l Gemini, che dietro a lui procede, 
comuno il poni e ancor qui fai punto, 
lassando me com’uom che brama e chiede. 
E ’l terzo, dal qual sono ancor piú punto, 
è che tu di’ che de’ dodici segni 
la luna e ’l sol n’han due e non piú punto. 
Poi gli altri cinque, che mostran men degni 
ch’alcun di questi due agli occhi miei, 
di’ che ciascun n’ha due di questi regni. 
E però la cagion saper vorrei 
perché è data a costor piú signoria 
ch’a’ due, che mostran lassú maggior dei, 
a ciò che, se giá mai la penna mia 
di questa tema alcun verso dipinge, 
disegni la cagion per che ciò sia”. 
“I’ penso ben, diss’ello, che s’attinge 
per te di questo il ver; ma come uom fai 35 
che sa e per udire altrui s’infinge. 
A quel che prima dimandato m’hai, 
dico come in due segni i dieci vanno: 
e questo fu che piú non ne parlai; 
a la seconda, sí come i tre stanno 40 
l’un mobil, l’altro fisso e poi comuno, 
così di terzo in terzo i nove fanno. 
Ma, perché tien la terza piú del bruno, 
far mi convien piú lungo il mio sermone, 
se cibar deggio il pensier c’hai digiuno. 45 
Tu dèi sapere, e qui non è quistione, 
che Dio, che fece i cieli e gli alimenti, 
diede a ciascun quanto fu sua ragione. 
Principalmente so che mi consenti 
che partir me’ non si potrebbe il cielo 50 
che in dodici parti, per piú argomenti. 
E se tra’ sette lumi, ch’io ti svelo, 
partir si denno, niun modo pare 
piú giusto, se ben cerchi a pelo a pelo, 
che diece segni, a due a due, dare 55 
a cinque de’ pianeti; agli altri apresso 
uno a ciascun, ché me’ non si può fare. 
Ma qui è da veder qual sará desso 
l’uno dei due, che men porti gli affanni 
per aver solo un segno, e ire ad esso. 60 
Sará Saturno, che presso a trent’anni 
pena a fare il suo corso? No, ché troppo 
andrebbe pellegrin per gli altrui scanni. 
O sará Giove, che li segue doppo, 
che dodici ne vuole? O Marti ancora, 65 
che ne sta tre a sciogliere il suo groppo? 
O Venus, o Mercurio, che dimora 
ciascuno un anno? Non è quel la luna, 
che ’n dí ventotto o men suo corso fora? 
Questa passerá meglio ogni fortuna 70 
ch’alcun degli altri, ché a sua gloria vene 
piú spesso e fuor di casa men digiuna. 
Ancor men grave ogni affanno sostene, 
perché da’ buon pianeti spesso prende 
gloria, fortezza, virtú, onore e bene. 
Per le dette ragioni, e perché scende 
a sua esaltazione in segno fermo, 
ristora, onde piú leve si difende. 
E voglio ancora che noti il mio sermo: 
la luna, che è feminina e mobile, 80 
e sotto ogni pianeto a noi fa schermo, 
convien che ’l segno, ov’ha ricchezza e mobile, 
somigli a lei: adonqua il Cancro fia, 
ch’ è feminino e ’n fra gli altri men nobile. 
Mostrato per ragion che questo sia 85 
quello che solo un segno debba avere, 
de l’altro è buon trovar la dritta via. 
Dico che ’l sole, c’ha vertú e podere, 
piú d’alcun’altra stella, e che dá luce 
a tutte e qui, come tu puoi vedere, 90 
e che male e bene in lor produce, 
mal per congiunzion, ben per aspetto, 
e va per mezzo i sei sí come duce, 
può me’ soffrire e portare il difetto 
d’avere un segno e con minor periclo 95 
che gli altri cinque, de’ quali io t’ho detto. 
Ancor, ciascun pianeto ha epiciclo 
per lo qual molte volte retrograda, 
onde ha men libertá a ogni articlo, 
salvo che ’l sole, lo qual per la strada, 100 
senza epiciclo alcun, diritto sempre 
per lo suo deferente par che vada. 
E cosí puoi veder, se ben contempre, 
che me’ de’ cinque d’un segno si passa, 
perch’ è piú forte e ha men chi lo stempre. 105 
Ancora, Leo, che nel ciel si compassa, 
che è fermo, diurno e masculino 
sí com’è il sol, del tutto a lui si lassa”. 
E qui fe’ punto al suo caro latino. 

CAPITOLO V 
Un’isoletta per quel mar si trova, 
dove Anteo la sua sedia giá tenne, 
col quale Ercules fece la gran prova. 
Liso la nominâr gli antichi, che nne 
parlaron prima e que’ poeti, poi, 5 
che, poetando, giá ne fregar penne. 
Qui arrivati e dismontati noi, 
dissi a Solin: “Di veder sarei vago 
se alcuna novitá ci pare ancoi”. 
“Vienne, diss’ello, e vedrai dove il drago 10 
vegliava a guardia de’ pomi de l’oro 
sí fiero, ch’a vedere era uno smago”. 
Con lui n’andai, che piú non fe’ dimoro, 
dove mi disegnò, come lo scrive, 
l’albore, i frutti e le frondi qual fôro. 15 
Cosí cercando noi per quelle rive, 
arrivammo a Tingi, per cui si noma 
Tingitana la contrada ch’è quive. 
Poco la gente v’è accorta e doma; 
con l’Ocean da ponente confina: 20 
la fine è qui, ché piú lá non si toma. 
Io lasciai Plinio in barca a la marina, 
dove il trovai, e seguitai Solino 
per via solinga, acerba e pellegrina. 
A pie’ d’un monte era il nostro cammino: 25 
sí alto, a l’occhio mio, che per sembiante 
toccar parea la luna col suo crino. 
“Questo è, disse Solin, quello Atalante, 
che Ovidio scrive che Perseo converse 
’n monte regnando tra genti cotante. 30 
E giusto fu se ’l mostro li scoperse, 
ché, sendo stanco e arrivato a lui, 
di darli albergo e cena non sofferse”. 
Sí vago di saper allora fui 
chi Perseo fu, che piú non aspettai: 35 
ruppi il suo dire e dimanda ’ne a lui. 
“Figliuol, diss’el, non t’avvegna piú mai 
che, quand’uom parla, rompa la parola, 
se cagion degna al dimandar non hai. 
La voglia serba e stringi labbra e gola 40 
sempre ascoltando, in fine che ben vedi 
ch’al dir non manca una sillaba sola”. 
Poi seguitò: “Costui, di cui mi chiedi 
saper lo ver chi fu, dico che nacque 
forse per altro modo che non credi: 45 
ché con Danae a ingegno Giove giacque, 
la qual guardava cautamente il padre; 
poi parturí costui, che tanto piacque. 
Cacciato Acrisio lui e la sua madre, 
crebbe con Polidetto in tanto ardire, 50 
che il re temé de l’opere leggiadre. 
Piú pensier fatti, un dí li prese a dire, 
come Pelias fece in vèr Giansone 
quando il mandò a Colcos per morire: 
– Sotto Atalante, in quella regione,55 
un mostro vi si trova tanto fiero, 
che, lui mirando, uccide le persone. 
Ond’io, che a te lassar lo regno spero, 
vorrei che prima acquistassi alcun lodo: 
e prendi quanto a ciò ti fa mestiero. 60 
Ché, s’io udissi dir che in alcun modo, 
per tuo valore, il conducessi a morte, 
di niun’altra cosa avrei piú godo –. 
Preso commiato e partito da corte, 
prima a trovare il suo fratel si mise, 65 
lo qual s’allegra, quando il vide, forte. 
L’arpe li diede, con la quale uccise 
Argus, e dielli l’ali per volare: 
e cosí poi da lui si divise. 
Apresso mosse per voler trovare 70 
la sua cara soror, ché, s’io non fallo, 
senza ’l consiglio suo non volea andare. 
Trovata lei, non vi mise intervallo: 
la ’mpresa sua li disse, ond’ella, allora, 
li diede un ricco scudo di cristallo. 75 
Da lei partito, non fe’ piú dimora; 
passò in Ispagna, ove il mostro Medusa 
con le sorore sue regnava ancora. 
Non valse perché stesse, allor, racchiusa; 
non valse perché fosse aspra e rubesta; 80 
non valson guardie o gente star confusa, 
che non passasse la mortal tempesta 
con l’arpe in mano e con lo scudo al volto 
e che non li tagliasse al fin la testa. 
Del sangue in terra madefatto e accolto 85 
nacque il cavallo, che fece in Parnaso 
la fonte, che vedesti non è molto. 
Presa la testa e ’l corpo rimaso, 
come nuvol per l’aire se ne gio 
ora a levante e quando ad occaso. 90 
De le gocce del sangue, che ne uscio, 
nacquono i serpi, che noma Lucano, 
dove pone che Cato a Giuba gio. 
Qui Atalante, perché li fu villano, 
converse in monte e non li valse un ago 95 
il drago a l’orto, Temis, né guardiano. 
Di qui, volando, giunse al volto vago 
d’Andromade e videla in catena 
data a la belva, piena d’ogni smago. 
Qui, con lunga battaglia e grave pena, 100 
la belva uccise e la donzella sposa, 
malgrado di Fineo, e via la mena. 
Ad Acrisio n’andò, ché non riposa; 
e trovò che Proteo l’avea cacciato 
e tolto il regno con ogni sua cosa. 
Fattol di pietra, ritornò in istato 
l’avolo suo, ben che mal fosse degno; 
poi passò a Serfo, ove fu nutricato. 
Qui Polidetto, ch’era re del regno, 
che mandato l’avea perché morisse, 110 
de l’onor suo prese tema e isdegno; 
e, dispregiando lui, piú volte disse 
che ver non era avesse morto il mostro: 
per che sí presso a gli occhi suoi gliel fisse, 
che ’n pietra il trasformò dentro al suo chiostro” 115. 

CAPITOLO VI 
“Poi ch’io ho sodisfatto al tuo disio, 
disse la guida mia, è buon tornare, 
dov’io lassai, al proposito mio. 
Questo monte, che sopra l’aire pare, 
si spicca da la rena e si distende 5 
in fine a l’oceano e al nostro mare. 
Di chiaro fuoco la notte risplende 
e piú ancor che dolcissimi canti 
d’ogni nuovo stormento vi s’intende. 
Scimie, struzzi, draghi e leofanti 10 
assai vi sono e alberi che fanno 
lana, onde si veston gli abitanti. 
Odorifere molto le foglie hanno: 
simili quasi sono a l’arcipresso 
e cosí alti e dritti suso vanno. 15 
L’erba euforbia ci si truova adesso; 
colui la nominò, che pria la trova, 
sí come io dico, del suo nome stesso. 
Quasi sopra ogni altra erba, il sugo giova 
a la vista de l’uomo e, piú ancora, 20 
ad ogni morso c’ha velen fa prova. 
Tra ’l monte e l’ocean gente dimora; 
fontane assai vi sono e folti boschi 
e dolci frutti vi si truova ognora. 
E perché bene il paese conoschi, 25 
Anatin fiume da quel lato corre 
dove sono animai non sanza toschi. 
E, s’io ti deggio i nomi lor comporre, 
Austo, Bamboto, Asana ippopotano 
e coccodrilli han piú, che ’l dir trascorre. 30 
Di verso noi guarda Gaditano 
e Belona, lá onde siam passati, 
questa gente che sopra ’l mare stano. 
Sette monti ci son che, se gli guati, 
sí forte l’uno a l’altro si somiglia, 35 
che Sefleti son detti o vuo’ tu ‘frati’. 
Dentro da questi, per tutto ci figlia 
uno e altro animal, diversi e tanti, 
che pare a chi li vede maraviglia”. 
E qui mi ragionò de’ leofanti 40 
con quanta castitá usan lor vita 
e la pietá ch’egli han de’ viandanti; 
e sí come il figliuolo il padre aita 
a’ suoi bisogni e de’ padri la cura, 
c’hanno di lor cacciati in altre lita. 45 
“Questi risprendon presso a la natura 
umana, sopragiunse, e de le stelle 
la disciplina servan senza ingiura. 
E quando l’uno s’affatica in quelle 
cose ch’a lor bisogna, l’altro guarda 50 
che non li sopragiunga altre novelle. 
D’entrare in nave quanto può piú tarda 
e, se tu non li giuri del tornare, 
non piú che se dormisse la riguarda. 
Cauti in battaglia e ben si san guardare; 55 
se v’è ferito o stanco, il tengon sempre 
chiuso nel mezzo e lassanlo posare. 
E scriver puoi, se lor natura assempre, 
che con la coda l’uccide il dragone 
ed esso par che lui col carco stempre. 
Ciò che vive, figliuol, chi mente pone 
a lo stimolo suo, non è sí forte 
o vuoi signore o aquila o leone”. 
Cosí, per quelle vie diritte e torte, 
fra me notando gia ogni parola, 65 
secondo ch’io l’udia belle e accorte. 
Giá eravamo usciti de la gola 
de la marina e lasciato a le spalli 
Sacara, Messa, Saffi e Gozola, 
e veduto ne’ monti e per le valli 70 
Sigani, dico, i Sigabri e i Sorsi, 
e Sessa e Valena correr per que’ calli. 
Dal mezzodí udio che senza forsi 
istanno i Gaulei e questa gente 
fino a l’Esperio oceano son corsi. 75 
Noi eravamo dritti a l’oriente, 
quando giungemmo di sopra a la Malva, 
un fiume grande, ruvido e corrente. 
Qui mi disse Solino: “Colui mal va 
che se ’l mette a guadar, ma chi ci trova 80 
nave o ponte la sua vita salva. 
E sappi ancor che per molti si prova 
che in fine a questa riva, ove noi semo, 
la terra di Tingi si stende e cova”. 
Menommi, poi, dove passammo a remo 85 
ed entrammo tra’ neri, Mauri ditti: 
e mauro, in greco, nero a dire spremo. 
Sí presso a l’equinozio stanno fitti 
questi ed i Tingitan, de’ quai ragiono, 
che dal calor del sol sono arsi e fritti. 90 
Qui due cittadi anticamente sono, 
che fanno in Mauritana due province: 
Sitin, Cesara i nomi lor compono. 
A mezzogiorno Astrix vi è, che vince 
ogni altro monte (è chi ’l noma Carena) 95 
fuor d’Atalante, che di tutti è prince. 
Questo discerne la giacente rena 
da la feconda terra e qui passai 
col mio consiglio, che mi guida e mena. 
Similemente con lui mi trovai, 100 
di vèr settentrione, in su la proda 
del mare, ove son genti e terre assai. 
Vidi Bugea, che v’è di grande loda: 
questa nel mare Maiolica guata; 
e fui in Bona, che quivi s’annoda. 105 
Lettor, com’io t’ho detto altra fiata, 
quasi cambiato ha nome ogni contrada 
e qual piú e qual men cresce e dilata. 
Cosí tra questa gente par che vada, 
ch’egli han mutato nomi e si confina 110 
con altri fiumi e con altre strada: 
dico Morocco e Bellamarina 
ora comprendon questi due paesi 
ch’a dietro lasso, e dove ’l sol dichina, 
secondo che tra lor contare intesi. 115 

CAPITOLO VII 
Dopo i Mauritan, segue Numidia 
dove Cartagin fu, che coi Romani 
per lungo tempo si portaro invidia. 
Noi andavamo per quei luoghi strani 
in vèr levante, lungo la marina, 5 
che vede il Sardo pria che i Ciciliani. 
Io portava la fronte bassa e china, 
quando disse Solin: “L’animo desta, 
ché l’uom che va pensoso mal cammina”. 
Come a lui piacque, allor levai la testa; 
ed el seguio: “In verso la man destra 
ir ne conviene e la strada è questa”. 
Per quella via, ch’era assai maestra, 
trovammo un fiume, dove un ponte vidi 
piú lungo che non porta una balestra. 15 
Ed ello a me: “In fin a questi lidi 
Mauri son detti e da l’altra sponda 
prendon principio e stanno i Numidi. 
E da la gente errante e vagabonda 
nomato fu il paese: ché in lor lingua 20 
Numidi e vagabondi a dir seconda. 
Molto vedrai questa contrada pingua 
di quanto a l’uom bisogna e si distende 
infin che Zeugitan par che si stingua. 
E questo fiume, che di qua discende, 25 
Arasiga si noma”. E, cosí detto, 
passammo il ponte, che ’l traversa e fende. 
Per tutto vi s’adora Macometto, 
a’ quali ha conceduto, per sua legge, 
usar lussuria a ogni lor diletto. 30 
E, se di ciò fu largo, li corregge 
e nega che non possan bere vino; 
usano l’olio e tengol per le vegge. 
Cosí cercando, io dissi a Solino: 
“Dimmi se di qua sai alcuna cosa, 35 
a ciò ch’andando men gravi il cammino. 
E fammi chiaro, se non t’è nascosa, 
la cagione ch’ad Africa diè ’l nome, 
sí che io il noti ancora, in rima o in prosa”. 
Allor mi cominciò a dir sí come 40 
Afer da Abraam giá si divise 
con molta gente e con ricche some, 
e che per Libia e di qua conquise 
province assai e del suo nome apresso 
Africa nome a questa parte mise. 45 
Per altra forma è chi ne parla adesso; 
ma, perché questo modo piú mi aggrada 
e par piú bello, innanzi te l’ho messo. 
A l’altra domanda: in questa contrada 
cavalli son piú che altrove leggeri: 50 
e qual par la cagion qui dir m’aggrada. 
Lunghi e ischietti, a modo di corsieri, 
ritratti sono e qui la gente ricca 
gli usano insieme a correr volentieri. 
La campagna è renosa, in che si ficca 55 
il cavallo correndo, onde fa lena 
e destre gambe, ché a forza le spicca. 
Per gli alti gioghi, lungo la Carena, 
è vera fama che per ciascun genera 
è di fieri animai la terra piena. 60 
Poi mi contò sí come l’orsa ingenera 
e quanto porta il parto e, quando nasce, 
come la sua figura è poca e tenera. 
Ancor mi divisò con quante ambasce 
l’alleva, prima che in forza vegna 65 
e di quel ch’essa lo nutrica e pasce; 
apresso come a maestria s’ingegna, 
combattendo col tor, romper le corna, 
romperli il naso, onde più duol li vegna; 
e che Lucio Domizio, quando torna 70 
di queste parti a Roma, noi nascose, 
ma la cittá di molti e sé adorna. 
Poi disse: “Sopra tutte l’altre cose, 
che onoran la provincia, il marmo è quella”: 
e qui silenzio a le parole pose. 75 
Cosí andando, senza altra novella, 
a Tunisi arrivammo e questa terra 
in quel paese è ricca e molto bella. 
Arsa Cartago, ne l’ultima guerra, 
comandaro i Romani a quelle genti 80 
che diece miglia abitasson fra terra. 
Per ubbidire i lor comandamenti, 
vennero qui e questa cittá fenno, 
ch’è poi cresciuta con molti argomenti. 
Cauti, sagaci, accorti e con buon senno, 
molto ingegnosi e di sottil lavoro 
gli udio contare e io cotal gl’impenno. 
Qui son cristiani assai che fan dimoro: 
Pisani, Catalani e Genovesi 
con altri piú, che guadagnan con l’oro. 90 
Come ho detto che cambiano i paesi 
ispesso nome, cosí Barberia 
questa contrada nominare intesi. 
Qui riposati, prendemmo la via 
a levante, notando a parte a parte 95 
le novitá, che io vedea e udia, 
secondo ch’io le scrivo in queste carte. 

CAPITOLO VIII 
Assai puoi esser chiar com’io son giunto, 
lettore, da Tingitana a Cartago 
lungo il Mediterran, di punto in punto. 
E perché ’l mio parlar ti sia piú vago, 
ciò che Solin mi disse ti vo’ dire, 5 
che era il mio consiglio e ’l mio appago. 
Io ’l dimandai, per volere udire, 
che mi partisse l’Africa in quel modo 
che me’ potesse, al suo parer, partire. 
La sua risposta fu: “Per quel ch’io odo, 10 
de l’abitato il nome saper vuoi 
e ’l dove e quai vi son di maggior lodo. 
Io ti dirò, e tu lo nota poi, 
come abitata giá la terra vidi: 
non so se in altro modo è mossa ancoi. 15 
L’Africa tutta per lungo dividi 
in tre parti, da levante a ponente, 
però che cosí fatta la providi. 
L’una è quella, e con più nobile gente, 
che sta in sul mare e che la terra fende, 20 
che vede Europa e che talor la sente. 
Tingi, i Mauri e Numidia comprende; 
Cartago, dico, dove tu se’ stato, 
Tripoli e le due Sirti vi s’intende. 
Truovasi ancora, pur da questo lato, 25 
Pentapoli Cirena e Libia apresso, 
che giunge al Nilo, ove Egitto è segnato. 
L’altra confina lungo questa adesso, 
la qual tra Astrix e ’l Nilo passa e schincia, 
sí come il fiume torto e dritto è messo. 30 
Di vèr ponente Gaulea s’incomincia; 
segue Getulia e gran terren s’appropia; 
Garama, poi, ch’è una gran provincia. 
La terza, apresso, è tutta l’Etiopia, 
fra ’l Nilo e l’Ocean, dal mezzogiorno: 35 
e qui di gente si trova gran copia. 
Molte contrade hanno poi d’intorno 
queste province, ch’io non t’ho contato, 
le quai vedrai, se vi farem soggiorno”. 
E io a lui: “Se bene il tuo dir guato, 40 
cosí divide queste genti il Nille, 
come il Danubio e ’l Ren dal nostro lato”. 
“Tu dici ver, diss’el, ma le faville 
del sol distruggon piú di qua la terra, 
che tra noi il freddo, ond’han men genti e ville”. 45 
Cosí passando noi di serra in serra, 
giungemmo nel paese di Bisanzi, 
che da levante a Tripoli s’afferra. 
Io vidi, ricercando quelle stanzi, 
un animal che mi fu maraviglia 50 
veder le gambe e ’l suo collo dinanzi: 
tanto l’ha lunghe, che aggiunge e piglia 
da lontano una cosa diece braccia; 
poi dietro bassa e ’l contrario somiglia. 
Men che cammello ha la testa e la faccia; 
tra quelle genti giraffa si chiama; 
d’erbe si pasce, ché bestia non caccia. 
“Solin, diss’io, di vedere avea brama 
questo animale e parmi scontrafatto 
assai via piú che non porta la fama”. 60 
Ed ello a me: “Non ti paia gran fatto, 
che, prima ch’eschi d’Africa, vedremo 
di piú maravigliosi in ciascun atto. 
E sappi che ’l paese, ove ora semo, 
dal mezzodí ha gran monti e foresti 65 
con sí fieri animai, ch’andarvi temo”. 
E io a lui: “Fuggiam le lor tempesti; 
di quel che v’è è buon che mi ragioni, 
sí che mi torni onde tu mi traesti”. 
La natura mi disse de’ leoni: 70 
come, poi che son nati, mostran morti, 
né odon mugli né per l’aire troni; 
ancor, cacciati, quanto sono accorti, 
ché lena e unghie risparmiar si sanno: 
ricuopron l’orme e stan sicuri e forti; 75 
poi la clemenza e la pietá ch’egli hanno 
in verso l’uomo e quel ch’Assidio scrive 
e come a l’ira con la coda vanno. 
Piú ch’altro il fuoco par che tema e schive; 
li denti prima provano il difetto 80 
quando in fine a la vecchiezza vive. 
E, apresso che m’ebbe cosí detto, 
aggiunse: “Guarda per lo nostro mare: 
vedi Cicilia, ché l’hai dirimpetto”. 
Noi andavam diritto, per trovare 85 
Tripolitana, ch’a le sue confine 
con le Sirti maggior veder mi pare. 
Ma prima che di ciò fossimo a fine, 
vidi Biserti, Susa e Quartara 
con molte terre che li son vicine, 90 
dove gran gente e ricca ripara.

CAPITOLO IX 
Tripolitana segue, la qual fue 
nominata cosí da tre cittade, 
come Bisanzo consuona da due. 
La fama è chiara, per queste contrade, 
che la terra v’è tanto buona e pingua, 5 
che, per un, cento vi fruttan le biade. 
Questo paese par che si distingua 
di vèr levante con le maggior Sirti: 
e Barberia è detta in nostra lingua. 
Cosí andando, dissi a Solin: “Se dirti 10 
deggio il vero, tal son tra questi neri 
qual fu Enea tra gli dannati spirti”. 
“Qui non si vuole tema né pensieri, 
disse ello a me; fa pur che gli occhi aguzzi 
a quel che sai che ti fa piú mestieri”. 15 
Come di qua si veggon torme e gruzzi 
di buoi, di lá camelli; e come ancora 
oche fra noi, vi trovavamo struzzi. 
“A ciò che men t’incresca, disse allora 
la guida mia, l’andar, odi e figura 20 
e per asempro il prendi, quando è ora. 
Lo struzzo è pigro e però la natura 
gli ha fatto sotto l’ala uno sperone 
col qual si punge a cercar sua pastura. 
Di giugno, l’uova copre col sabbione; 25 
lo sol le cova e, nati, li nutrica 
col fiso sguardo ch’addosso lor pone. 
Tanto è caldo, che non li è piú fatica 
smaltire il ferro (e di ciò vidi prova) 
che ’l granel del formento a la formica. 30 
Né per cercar pastura o fuggir piova, 
tanto è grave, come gli altri uccelli 
per l’aire a volo non par che si mova”. 
Dopo questo, mi disse de’ cammelli: 
“Cosí come li vedi scontrafatti, 35 
simile credi la natura d’elli. 
Dico, nel tempo ch’ad amor son tratti, 
che l’un con l’altro si congiunge insieme 
non come altri animali né in quelli atti. 
L’osso del dattalo è lor biada e seme 40 
ed è chi scrive che, per chieder troppo, 
li fun l’orecchie de la testa sceme”. 
Cosí parlando, io gli andava doppo, 
ascoltando e notando le parole, 
facendo ad ogni sua novella il groppo. 45 
Ed el, che in ciò che può piacer mi vole, 
seguio: “Un animal, ch’è detto iena, 
li corpi umani dai sepolcri tole. 
Fra tutte le altre bestie, ha questa pena: 
che ’l collo non può torcer né piegare: 50 
d’un osso par, se l’altro corpo mena. 
De l’uom la voce sa sí contraffare, 
che alcuna volta il pastore inganna: 
a l’uscio picchia e ’l suo vicin li pare. 
Col cane ha guerra e, quando può, lo scanna; 55 
e piú che, sendo di notte cacciato, 
abbaia, latra e fugge ch’uom nol danna. 
Nel dolce tempo che a Venere è dato, 
truova la leonessa e con lei giace, 
secondo che da piú m’è giá contato. 60 
La iena pietra molto a l’occhio piace, 
però ch’a lui somiglia, e sappi bene 
che di nuovi color si cambia e face. 
Ancora è fama che questo addivene: 
che dice assai di quel che de’ avenire 65 
colui che sotto la lingua la tene. 
E quale udisse apertamente dire 
come per sua vertú tien l’animale, 
magica cosa parrebbe a udire”. 
Dissemi, poi, quanto è crudo e mortale 70 
il leotofano e la sua propia forma 
e come col leon si vuol gran male. 
E, secondo che ’n Roma si conforma, 
Scevola Publio fu, per cui in prima 
si vide quivi e misesi in norma. 75 
“Un mostro ancora tra costor si stima 
corcotto è detto e vo’ che ti sovegna 
di notar lui, se gli altri metti in rima. 
Questo come uomo di parlar s’ingegna: 
non ha gengie dentro a la sua bocca 80 
e solo un dente par che ’n essa tegna”. 
E cosí ragionando, ancor mi tocca 
di un altro animal, che noma onagro, 
quanto la sua natura è fredda e sciocca. 
Per quel cammin, ch’era solingo e agro, 85 
ci apparve, ragionando com’io dico, 
in abito di frate un vecchio e magro. 
“Dio vi dia pace”, disse quello antico. 
E Solin li rispuose: “E te conduca 
lá, dove chiama ogni suo buon amico”. 90 
Ed ello a noi: “Se tanta grazia luca 
in voi, quant’è ’l disio, fatemi saggio 
del cammin vostro e onde move e bruca”. 
E la mia guida: “Il nostro viaggio 
è di cercar lo mondo a passo a passo: 95 
costui, ch’è meco, il vuole e io nel traggio. 
Ma voi chi siete, che mostrate lasso 
e che avete loquela italiana, 
e che vi mosse a far di qua trapasso?” 
“Una cittá, rispuose, è in Toscana 100 
di sopra l’Arno, Fiorenza si dice; 
se dite ‘sí’ ben so che non v’è strana. 
Giovanetto era, quando a quel felice 
e beato Domenico mi diedi; 
l’abito presi, ch’è la sua radice. 
In vèr Ierusalem poi mossi i piedi; 
apresso questo, in Arabia discesi 
dove di Caterina il corpo credi. 
L’arabico linguaggio quivi appresi; 
la legge Alcoran di Macometto 110 
di punto in punto per latin distesi. 
Poi di qua venni e Ricoldo m’è detto”. 

CAPITOLO X 
Cosí come si tacque, incominciai 
e, secondo che piacque al mio Solino, 
in questo modo verso lui parlai: 
“O caro frate mio, o pellegrino, 
da poi che Dio m’ha fatto tanta grazia 5 
ch’io mi truovi con voi in un cammino, 
l’anima mia, che per lunghe spazia 
bramosa è stata del vostro volume, 
piacciavi che per voi or ne sia sazia. 
Aprite a lei, col vostro chiaro lume, 10 
chi Macometto fu e dite ancora 
lá dove visse e d’ogni suo costume”. 
Benignamente mi rispuose allora: 
“Apri gli orecchi al disioso core, 
a ciò che v’entri ben ciò ch’io dico ora. 15 
Negli anni de la grazia del Signore 
secento venti sei fu Macometto, 
al tempo di Eraclio imperatore. 
Di vil prosapia, povero e soletto, 
nacque costui ne l’arabico seno; 20 
Adimonepli al padre suo fu detto. 
Cauto, sagace e di malizia pieno, 
de l’altrui vago e di fiero sembiante, 
a’ vizi sciolto fu e senza freno. 
Ne la sua giovinezza andò per fante, 25 
e per Egitto e per piú luoghi strani, 
a guida de’ cammei d’un mercatante. 
Cosí, cercando a torno per quei piani, 
lo Vecchio e ’l Nuovo Testamento apprese, 
usando con Giudei e con Cristiani. 30 
Apresso, Gadighen, vedova, prese 
a sposa e per sua donna, ricca molto; 
e qui a tôrre e farsi grande intese. 
Sergio monaco, da la Fede sciolto, 
si trasse a lui e, col suo operare, 35 
fe’ che fu re di quel popolo stolto: 
ch’el seppe una colomba ammaestrare: 
se non beccava ne l’orecchia propia 
di Macometto, non sapea beccare. 
Richiese, apresso, la gente etiopia 40 
e li Arabi col suon de la sua tromba: 
onde a lui trasse di ciascun gran copia. 
Qui predicò che ’n forma di colomba 
lo Spirto Santo li dovea venire 
“come da Dio mi spira e mi rimbomba”. 45 
Orando, tutti vidono apparire 
da lungi la colomba e non si stalla, 
perché del cibo suo avea desire, 
ch’essa ne venne e puose in su la spalla 
di Macometto e dentro da l’orecchia 50 
lo rostro dolcemente a beccar calla. 
La gente giovinetta con la vecchia 
gridaron tutti insieme: – Viva, viva, 
viva il profeta che Dio ci apparecchia –. 
La legge Alcoran, nascosa e priva, 55 
aperse apresso loro e in questa guisa 
fe’ manifesta per ogni sua riva. 
La Persia ancora non avea conquisa, 
quando, per acquistarla, combattendo 
li fu la bocca segnata e ricisa. 60 
Piú mogli tolse, che dir non intendo, 
e piú battaglie nel suo tempo fece, 
che ’n tal cacciò e in tale andò fuggendo. 
Tra gli altri suoi compagni, funno diece 
ch’ordinâr l’Alcoran, de’ quai t’incronico 65 
li tre cristiani con lor viste biece 
(Sergio fu l’un, del qual t’ho detto, monico; 
l’altro Nicola, cherico; e apresso 
lo disperato dal papa calonico) 
e i sette arabi e suoi amici adesso: 70 
di questi dicon che lo Spirto santo 
gli alluminava del suo lume stesso. 
Li primi tre, ai quali dan piú vanto, 
fun Naphe con Amer e Elresar; 
gli altri seguîr ciascun com’io ti canto: 75 
lo figliuol di Cethir, io dico Asar, 
nomâr lo quarto e, similemente, 
Eon lo quinto, Omra e poi Amar. 
In fra gli altri piú grandi di sua gente 
funno poi Abidalla e Baora, 80 
Adian, Salem con la magica mente. 
Per questo modo, il quale hai udito ora, 
nacque Maometto e signore venne 
e fece che la gente sua l’adora. 
Quei d’Asia quasi tutti vinse e tenne 85 
sotto sua signoria, in fin ch’el visse, 
ai quai quel che a lui piacque far convenne. 
Nei suoi errori quaranta anni scrisse; 
a la fine li fu dato il veleno 
dai suoi medesmi, per quel che si disse; 90 
e cosí, com’io dico, venne meno”. 

CAPITOLO XI 
“Contento assai m’avete a la dimanda 
mia, diss’io a lui; ma non vi incresca 
cibarmi ancor d’una e d’altra vivanda: 
ché come a chi ha sete è buon ch’om mesca, 
similemente dico che gli è bene 
a chi ha brama porgerli de l’esca. 
La voglia, ch’ora piú mi stringe e tene, 
è di saper perché al Saracino 
la legge toglie il porco e donde viene; 
apresso, perché nega loro il vino, 
ché, quando penso come a l’altre cose 
fu largo, ciò par fuor del suo cammino”. 
Con soavi parole mi rispose: 
“Io ti dirò, secondo quel ch’io sento, 
perché ciascun di questi lor nascose. 
Dico: del vecchio e nuovo Testamento 
e di piú sètte Macometto volse 
avere al suo poter lo ’ntendimento. 
Poi di ciascuna piú e meno tolse, 
come a lui piacque, e quello, apresso, lega 
ne l’Alcorano, che di tutte sciolse. 
E però che ’l Giudeo lo porco nega 
ne la sua legge, udita la ragione, 
per quel ch’io penso, in verso lui si piega. 
Ma quel che per piú ver tra lor si pone, 
si è ch’egli hanno scritto nella le’, 
nel libro che tratta De narratione, 
che, sendo dentro a l’arca sua Noè, 
che de lo sterco del leofante nacque 
il porco; e ’l porco, apresso, il topo fe’. 
E perché il topo, nato, non si tacque 
roder l’asse, che quasi avea giá fratta, 
Noè temeo che non passasse a l’acque. 
Com Dio disse, cosí corse di tratta 
a lo leon e quel percosse in fronte 35 
e de le nara gli uscio una gatta. 
Or per queste parole, ch’io t’ho conte, 
a dispregiare il porco e non volere 
le genti saracine sono pronte. 
A l’altra tua dimanda, dèi sapere 40 
che Macometto fu forte disciolto 
in ciascun vizio e propio nel bere. 
E, perché ’l vin l’inebriava molto, 
volse, per ricoprire il suo difetto, 
ch’a tutti i Saracin fosse il vin tolto. 45 
Nol dicono, ma tegnonlo in dispetto, 
perch’ello è tal che, inebriando altrui, 
li tolle la memoria e lo ’ntelletto. 
Dànno la colpa al vin, non a colui 
che ne bee troppo; ché ’l vin per sé è sano, 50 
chi l’usa come de’, ne’ cibi sui. 
Ma quel per che piú licito non l’hano 
è propiamente che trovano scritto 
quel ch’ora ti dirò ne l’Alcorano. 
Dice che Dio a giudicar diritto 55 
due agnoli mandò in questo mondo 
e per punir degli uomini il delitto. 
Ciascuno era a veder vago e giocondo; 
ciascuno il capo avea, che parea d’oro, 
tanto era bello, inanellato e biondo. 60 
Ora, albergando e facendo dimoro 
con una vaga donna, inebriaro 
e, ebbri, a patti ella dormí con loro. 
Apresso, come gli angiol le insegnaro, 
in ciel salio, ove dio Luciferro 65 
ne fe’, che sopra l’altre il lume ha chiaro. 
E gli angioli, per lo peccato e l’erro 
ch’avean commesso, ciò è di ber vino, 
legati fun con catene di ferro, 
dicendo Iddio: – Cosí starete in fino 70 
al dí giudicio nel pozzo in Babillona 
coi piè di sopra e col capo giú chino: 
perch’io vi comandai che con persona 
né soli vin per voi non si bevesse; 
e voi foste ebri da terza a la nona –. 75 
Or hai udite le cagioni espresse 
ch’essi san dire a le dimande tue 
e che per piú autentiche son messe”. 
“Assai contento son; ma d’udir piue 
disio: ciò è che Macometto dice 80 
di Cristo e poi de le parole sue”. 
“Sommo profeta, santo e felice, 
pien di virtú, de la Vergine nato 
senza padre: e questa è la radice. 
Ancor piú, ch’uomo il confessa beato; 85 
figliuol di Dio non vuol dir che sia: 
con Ario se ne va da questo lato. 
Commenda il Salterio, Iob e Elia; 
ma, sopra tutto, di Cristo il Vangelo, 
le sue parole e la sua buona via”. 90 
Cosí rispuose con benigno zelo. 

CAPITOLO XII 
Posto ch’ebbe silenzio a le parole, 
senza piú dir passeggiavam la via 
sempre diritto onde si leva il sole. 
Sospeso andava, come uom che disia 
cosa fra sé e che non la dimanda 5 
per tema o reverenza che ’n lui sia, 
quando Solin mi disse: “Che fai? Manda 
la voglia, c’hai nel tuo cuor ristretta, 
su per l’organo suo, sí che si spanda”. 
Come il buon servitor, che non aspetta 10 
piú d’una volta il dir del suo signore, 
ma quanto può per ubbidir s’affretta, 
cosí la brama, ch’io avea nel core, 
isparsi fuori e dissi: “O Solin mio, 
iscusi me reverenza e timore”. 
Apresso questo, non ristetti ch’io 
mi volsi al frate e dissi: “De la legge 
di Macometto udir bramo e disio”. 
Ed ello a me: “Molte cose si legge 
ne l’Alcorano disoneste a udire, 20 
de le quai vo’ ch’alcun capitol vegge. 
Comanda espresso qual non vuo’ obbedire 
a Macometto, o tributo non renda 
al Saracino, che debba morire. 
Concede a l’uom quante vuol moglie prenda 25 
e concubine, pur tener le possa: 
e qui con fra Dolcin par che s’intenda. 
E tanto fa la coscienza grossa, 
che i maschi usando Sodoma e Gomorra, 
vuol che senza peccato far si possa. 30 
Loda il battesmo e odi s’ello abborra: 
dice che, quando l’uom fa un peccato, 
ch’al fiume per lavarsi tosto corra. 
Può battezzare il padre, quando è nato, 
lo suo figliuol, non perché sia cristiano, 35 
ma perch’abbia piú vita e miglior fato. 
Lo digiun quasi per quel modo fano 
come il Giudeo, ché ’n fino a notte oscura 
senza bere o mangiar digiuni stano. 
Giunta la sera, cenan; non han cura 40 
s’è carne o pesce; usar puon di ciascuno, 
né pongon fren, per questo, a la lussura. 
De l’anno un mese intier fan tal digiuno, 
ne le meschite lor; senza lavarsi 
o impolverarsi, orar non de’ niuno. 45 
Come noi ci volgiamo, per segnarsi 
e per orare, in verso l’oriente, 
sí come per le chiese nostre parsi, 
ed il Giudeo adora in vèr ponente, 
la legge vuol del Saracino ancora 50 
che verso il mezzodí pongan la mente. 
E come la domenica s’onora 
per noi con celebrarla e farne festa, 
e ’l sabato il Giudeo, che non lavora, 
similemente la feria sesta 55 
ordinò Macometto riverire, 
come ne l’Alcoran si manifesta. 
Loda e afferma ancora, nel suo dire, 
che degna sia la circoncisione 
da dovere osservare e ciò seguire. 60 
Sacerdoti hanno, per li quai si spone 
l’Alcorano e odi cosa cruda 
ch’usan, se fanno predica o sermone: 
tengon, dicendo, in man la spada nuda: 
– La legge a morte o a tributo condanna65 
qual d’obbedir Macometto si escluda –. 
Dritta la pongon poi sopra una scranna, 
in atto come voglian minacciare 
ciascun che ’l parlar lor dispregia o danna. 
Dicon che disse, nel lor predicare, 70 
Macometto: – Quanto fia la vittoria 
de l’arme, in noi la legge de’ durare. 
E quanto durerá la nostra gloria 
nei beni temporal, tanto, per fermo, 
lucerá chiara la nostra memoria. 75 
Non son mandato al mondo col mio sermo 
a far miracol, ma venni in virtute 
de l’arme e queste usate a vostro schermo –. 
E cosí mostra ch’ogni sua salute 
ne l’arme fosse e nei ben temporali 80 
e che l’altre vertú li fosson mute. 
Ancora afferma lor, tra gli altri mali, 
che ’n paradiso son molti giardini 
pieni dei ben del mondo e spiritali, 
e che di latte, di mèle e di vini 85 
fiumi si truova e chiare fontanelle, 
fiori per tutto e canti dolci e fini, 
donne con ricche veste, accorte e belle, 
e giovinetti di gentili aspetti 
con vergognose e vezzose donzelle. 90 
E tutte queste cose a’ lor diletti 
dice che usar potranno cosí, come 
nel mondo fanno, e seran lor suggetti. 
Ancor nel libro suo, che Scala ha nome, 
dove l’ordine pon del mangiar loro, 95 
divisa e scrive qui ogni buon pome. 
Vasellamenti d’ariento e d’oro, 
dilicate vivande e dolci stima 
su per le mense, ove faran dimoro. 
De le vivande, dice che la prima 100 
iecur, fegato, è e pesce apresso, 
poi albebut, che d’ogni cibo è cima. 
Or puoi veder, se noti fra te stesso, 
che Macometto in ogni sua parola 
beatitudo pone che sia espresso 105 
nel vizio di lussuria e de la gola”. 

CAPITOLO XIII 
Io ero ad ascoltare ancora attento, 
quando mi puose mente per lo viso, 
dove spesso s’aocchia un mal contento; 
poi disse: “Figliuol mio, se bene aviso, 
la sete tua non pare ancor rasciutta; 5 
però dimmi s’è il ver, com’io diviso”. 
“In veritá, rispuosi, non ben tutta; 
ma presso sí, al modo di colui, 
che siede a mensa e dimanda le frutta. 
Assai, diss’io, udito ho per altrui 10 
parlar di Macometto; ma sí chiaro 
giá mai, come ora, certo non ne fui. 
E però dite, ché l’udir m’è caro, 
se v’è miracol ch’el facesse scorto 
al tempo, che nel mondo fe’ riparo”. 15 
Ed ello a me: “Costui mai alcun morto 
non suscitò, né diede luce a cieco, 
né fece dritto andar zoppo né torto, 
né parlar muto; come ho detto teco, 
sempre in vertú, dicea, solo de l’armi 20 
venuto sono e qui la grazia è meco. 
Vero è che l’Alcoran conta in piú carmi 
rotta la luna e ch’esso la rintegra: 
ch’una sciocchezza, a ragionarlo, parmi; 
ancor, ch’essendo la notte ben negra, 25 
che Dio per lui Gabriel mandava: 
e di ciò il Saracino udir s’allegra. 
Sopra elborac, una bestia, montava 
veloce sí, che, in men d’una mezz’ora, 
lo spazio d’anni ventimila andava. 30 
Cosí in un batter d’occhio dice ancora 
che da Mech in Ierusalem andasse 
alla ca’ santa e lí non fe’ dimora; 
ma, giú smontato, Gabriello il trasse 
dinanzi a Dio, su, di cielo in cielo, 35 
e che con lui, palpandolo, parlasse. 
Quel che conta che disse non ti svelo 
né ch’el vide; poi l’angel fe’ ritorno 
dove elborac legato era a lo stelo. 
Su vi montò e, pria che fosse il giorno, 40 
ne ’l portò a Mech; or qui lor dottor sono 
che chiose fan, qual dèi pensar, d’intorno. 
Ancor ne l’Alcoran, ch’io ti ragiono, 
truovo che disse che ’l sole e la luna 
eran pari di luce e d’ogni bono, 45 
e che non era distinzione alcuna 
intra ’l dí e la notte, tanto eguali 
sopra la terra risprendea ciascuna. 
Or pon che, discendendo quelle scali, 
Gabriello, quando a la luna giunse, 
che la percosse e la ferí con l’ali, 
e che in tal modo, in quel punto, la punse, 
che de la luce, ch’avea tanto viva, 
essa aombrata, come or par, la munse. 
Ancora al dí giudicio par che scriva 55 
che i dimoni d’inferno salveranno 
con quanti n’ha per l’aire e per le riva. 
Apresso pon che quelli che saranno 
beati, ne’ lor corpi ogni diletto, 
che usano ora, cosí allora avranno. 60 
Di questi due miracoli, che ho detto, 
piú ’l Saracin, che d’alcun altro, gode, 
se predicati sono in suo cospetto. 
Similemente allor che contar ode 
l’altre novelle, ch’io t’ho detto apresso, 65 
a Macometto rende grazie e lode. 
Or hai udito chiaramente, adesso, 
di quel che mi chiedesti alcuna parte, 
con quel che per piú bel tra loro è messo. 
Ma perché non rimagna ne le carte 70 
cosa, ch’io pensi che piacer ti debbia, 
voglio che noti ancor quest’altra parte. 
Dico che, poi che morte nel cuor trebbia 
di Macometto, il suocero Acalí 
il suo Califfo de la vita annebbia. 75 
Poi fece ch’el fu nel suo luogo lí; 
ma, quando morte ogni poder li vieta, 
nel Califfato succedeo Alí. 
Costui si volse far maggior profeta 
di Macometto e piú capitol mise 80 
ne la sua le’ e piú di fuor n’arrieta: 
per questo in due Califfi si divise 
lo Saracino: l’uno in oriente, 
dov’è Baldach, io voglio che l’avise; 
l’altro ha sua seggia e regna nel ponente, 85 
in una terra che Morocco è detta: 
Miramumelin lo noma la gente. 
E perché mal s’intende l’una setta 
con l’altra, al Cristianesmo molto giova, 
però che meno ad acquistar sospetta, 90 
quando di lá dal mar pensa far prova”. 

CAPITOLO XIV 
Presso eravamo alla cittá di Tripoli, 
quando il frate mi disse: “In fin c’hai spazio, 
di’ se bisogna ch’io di piú ti stipoli”. 
E io a lui: “Assai m’avete sazio 
del gran disio, onde assetava adesso, 5 
perch’io, quanto piú posso, vi ringrazio”. 
Poi si volse a Solin, che gli era presso, 
dicendo: “De la vostra compagnia, 
se pro vi fosse, non sarei mai fesso. 
Ma, quando avvegna ch’util non vi sia, 10 
passare intendo il mar, dove ripara 
ne la bella cittá la gente mia”. 
“Sempre la vostra compagnia ci è cara; 
ma non bisogna, rispuose Solino; 
e gran mercé de la profferta chiara”. 15 
Così quel frate onesto e pellegrino, 
dicendo addio, a man sinistra prese, 
dritto al mare Adriano, il suo cammino. 
Solino ancor, da l’altra parte, intese 
a seguir la sua via e io apresso, 20 
lassando Zerbi a dietro e Capese. 
Dissemi, poi che nel cammin fu messo: 
“A Tripoli n’andremo e, se ti pare, 
quivi staremo e posaremo adesso”. 
E io: “Tu sai la via, tu sai lo stare; 
fa’ che ti pare, ché l’uom poco lodo 
ch’a piú savio di sé legge vuol dare”. 
Sí com’el disse, così tenne il modo; 
la cittá vidi tanto real, ch’io 
fra le piú degne de l’Africa lodo. 30 
Poi partiti di lá solo ello ed io, 
pur lungo il mare fu la nostra strada 
su vèr levante, dove avea il disio. 
Noi giungemmo, cercando la contrada, 
dove Solin mi disse: “Figliuol, mira 35 
quel mar, dove uom non sa dove si vada. 
Vedi le Sirti, che quando ci gira 
nave alcuna, trovar pare il demonio: 
sí tosto la volge e al fondo la tira. 
Di ciò fen prova Gabrio e Sempronio 40 
che, tornando con gran navilio a Roma, 
perdenno il piú, che parve loro un sonio. 
La cagione perché cosí si toma, 
si è che l’acqua in un luogo è profonda 
e, in altro, monti di rena non doma; 45 
onde il maroso, che quivi seconda, 
truova il gorgone e i monticei, ch’io dico, 
nei quai riflette e gira le sue onda. 
Per che, la nave giunta in questo oblico, 
lo volvo d’acqua e i gran venti la inghiotte, 50 
che par che sia, com’io dissi, il Nemico. 
Sappi che duran queste onde sí rotte 
dodici volte venti miglia e piú: 
pensa il dolore a chi ci vien di notte. 
Lo nome suo senza cagion non fu: 55 
ché sirte, in greco, tira, in latin, dice, 
ché ciò che truova tira al fondo giú. 
Queste son due e ciascuna infelice: 
ne la minore è l’isola Menede; 
Filen ne l’altra tien la sua radice. 60 
Ma passiamo oltre, ché ’l tempo ’l richiede 
e mille anni mi par vederti a Napoli, 
nel bel paese dove Italia siede”. 
“Quanto piú tosto del cammin mi scapoli, 
dissi io a lui, e piú mi fai piacere”. 65 
E cosí ci traemmo in vèr Pentapoli. 
Ricco è il paese e con molto podere 
e da cinque cittadi il nome sona: 
in contro a sé la Grecia può vedere. 
Noi fummo in Tolomea, che si ragiona 70 
ch’anticamente fu di queste cinque, 
e vidi Ceutria, ove non sta persona. 
Apollonia e Bernice son propinque; 
da due gran re Bernice e Tolomea 
preson la fama, ch’ora in lor relinque. 75 
Un popol grande confinar vedea 
con queste e con le Sirti, che son ditti 
Trogoditi, acerba gente e rea. 
Io vidi, ricercando per quei gitti, 
la cittá de’ Giudei e Cedra ancora, 80 
che piú dal mezzodí lí sono afflitti. 
Vidi il monte di Barchi, che dimora 
in contro a Bonandrea, dove posai 
con la mia guida come stanco, allora. 
In questo modo, in Libia mi trovai 85 
Cirenese, cosí giá nominata 
da Cirena, cittá famosa assai. 
Questa provincia è molto lunga e lata, 
in certe parti piena di gran selve 
e in altra ricca e bene abitata. 90 
Per li gran boschi stanno fiere belve; 
maraviglia è chi, per lo gran veleno, 
passa tra lor, se vivo se ne svelve. 
Noi fummo in Alessandria, ove vien meno 
da questa parte Libia, perché quivi 95 
lo Nil truovo che, come ho detto, è freno 
de l’Africa, a levante, coi suoi rivi. 

CAPITOLO XV 
Lo nono mese era giá de l’anno, 
allor che in Alessandria mi posai, 
debole e stanco per lo lungo affanno. 
Di molte lingue qui gente trovai, 
che fan mercatanzia co’ Saracini 5 
e propio cristian vi vidi assai. 
Questa cittá si è su le confini 
d’Africa e d’Asia e pare che dicerna 
Europa contro al mar che batte quini. 
Vidi la torre, dov’è una lanterna, 10 
di sopra il porto, la qual, col suo lume, 
li navicanti la notte governa. 
E qual vuol ire al Cairo su pel fiume, 
sette dí pena e quattro per terra: 
cosí quei che vi vanno han per costume. 15 
E se la gente, ch’è di lá, non erra, 
io vidi una cappella, onde il beato 
Marco a ingegno il Venezian disserra. 
Acqua dolce non hanno in alcun lato: 
tutte vi sono, come il mare, amare; 20 
dal Nilo l’hanno nel tempo ordinato. 
Grande è la terra e ricchissima pare, 
con casamenti di pietre e di marmi, 
alte le mura e forti da guardare. 
“Solin, diss’io, deh piacciati di farmi 25 
chiaro questa cittá chi puose prima, 
a ciò ch’ancor lo noti ne’ miei carmi”. 
Ed el: “Quel greco, che si pone in cima 
de la rota del mondo e tiene un pome, 
la fonda e ferma: e ciò per certo stima. 30 
La veritá ti manifesta il nome. 
Non sol questa, ma dodici n’ospizia 
e fece fare: e odi il dove e ’l come. 
Dopo l’acquisto e ’l grande onor di Sizia, 
voglio che sappi, senza niun fallo, 35 
che una in quelle parti ne difizia. 
Ancor dove fu morto Bucifallo 
ne fece un’altra, per farne memoria, 
sí come in India la piú parte sallo. 
Similemente, dopo la vittoria 40 
ch’ebbe di Dario, come si ragiona, 
tra’ Persi dico un’altra ello ne storia. 
E presso ancora a la gran Babilona, 
dov’è Caldea, un’altra ne fece, 
poi che di tutto il regno s’incorona. 45 
E per l’usanza, ch’era in quella vece, 
d’acquistar fama e onorar sua patria, 
una ne fe’ ne le confine grece. 
Cosí di sopra al paese di Batria 
l’altra formò, per dare asempro e copia 50 
ch’a cercar d’ir piú lá è una smatria: 
Ercules, dico, in quella parte propia, 
per mostrar sua vittoria pose un segno 
e altri alcun che quel terren s’appropia. 
E perché vide il luogo ricco e degno 55 
di Margiana e Termedite, ancora 
una ne forma dentro dal suo regno. 
In Frigia, presso ove Troia dimora, 
fe’ l’altra e, se coi piedi di lá raspi, 
ben la potrai veder, ma poco è ora. 60 
Non lungi è l’altra a le porte de’ Caspi, 
dove addietro t’ho detto che di rado 
vi passa l’uom, che tristo non v’innaspi. 
Una ne forma con ricco contado 
tra’ Massageti, e l’altra presso a Poro, 65 
sopra un bel fiume, dove è porto e guado. 
Ma vienne e qui non facciam piú ristoro”. 
E io: “Va pur, ché l’andar m’è diletto 
e fatica del cuor quando dimoro”. 
Qui non fun piú parole né aspetto; 
prese la strada, sí come colui 
che sapea di lá ogni tragetto. 
E poi che ’n parte, che mi piacque, fui 
e vidi il tempo ch’era a ciò disposto, 
cosí parlando mi rivolsi a lui: 75 
“A ciò che ’l nostro andar sia di men costo, 
piacciati dirmi perché la cagione 
a questo regno Libia nome è posto”. 
Ed ello a me: “Diverse opinione 
ne son; l’un dice che Libia è un vento 80 
africo qui, che tal nome li pone. 
L’altro si vuole, al quale io piú consento, 
ch’Epafo, che fu figliuolo di Giove, 
venne in Egitto con molto argomento. 
Menfione fé, prima che gisse altrove; 85 
una figlia ebbe, a la qual Libia disse, 
accorta molto e con bellezze nove. 
Apresso pare che di qua venisse 
e che, per suo valor, fosse signore 
di queste parti tanto quanto visse. 90 
Onde, per fare a la figliuola onore, 
Libia nominò il regno tutto. 
Or n’hai, com’io, il ver dentro dal core”. 
E io, che penso pur di cavar frutto 
de le parole sue, sempre andando, 95 
li dissi: “Assai m’è chiaro il tuo costrutto; 
ma quanto posso ti prego e domando 
ch’ancor m’allumi se qui la vista erra 
o dritto scorge, da lungi mirando: 
perché a me par veder sopra la terra 100 
lo mar sí alto, che m’è maraviglia 
che non si spande e come in sé si serra”. 
Ed ello a me: “Quel ch’è ’l ver, ti somiglia; 
ma la virtú di Dio, che ’l ciel corregge 
e che ogni alimento abbraccia e piglia, 105 
termine ha posto a tutte cose e legge”. 


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Ultimo Aggiornamento:
14/07/2005 23.41