De Bibliotheca
La biblioteca di Babele
CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA


Il Dittamondo
di: Fazio degli Uberti 

LIBRO TERZO 

Capitoli XIII - XXIII



CAPITOLO XIII 
Cosí passando per lo mare adesso, 
piú cose e piú mi disse il mio conforto, 
ch’io lascio e in questi versi non le tesso. 
Due giorni andammo senza piaggia o porto: 
sempre diritta la nostra galea, 5 
come per l’ago al padron m’era scorto. 
Al terzo, come ’l dí quasi apparea, 
noi venimmo e smontammo in Palermo, 
cosí nomato dal nocchier d’Enea. 
Solino in prima e io senz’alcun sermo 10 
mirando andava dietro a lui, per modo 
che de l’omero suo mi facea schermo. 
Tanto questa contrada in fra me lodo 
d’ogni diletto che vuol ciascun senso, 
che sempre ch’io ne parlo me ne godo. 15 
“O luce, che sai tutto ciò ch’io penso, 
incominciai, qui giá fosti altra volta; 
prendi al lungo cammino alcun compenso 
col tuo parlare”. Ed ello a me: “Ascolta. 
Buono è il tuo pensier, perché la via 20 
è grave e, piú che tu non credi, molta. 
Quest’isola fu nominata pria 
da Sicano Sicania e da poi 
Siculo, giunto, quel nome disvia. 
E di costui ricordar ti puoi 25 
ch’io t’ho detto chi fu e donde venne 
e che notato l’hai nei versi tuoi. 
Diversa gente il paese tenne, 
Ciclopi, dico, e tennerlo tiranni, 
per li quai sentio giá di male strenne. 30 
Chi ti potrebbe dir li molti danni, 
i diversi tormenti e le prigioni, 
che qui soffrio le genti per piú anni? 
Questa isola è posta in tre cantoni 
e trovila Trinacria nominata 35 
se ne’ suoi fatti antichi l’occhio poni. 
Peloro con la sua punta guata 
in verso Italia: e questa è la piú degna 
parte de l’altre ed è la piú lodata. 
Libeo pare che ’n vèr l’Africa tegna 40 
e Pachino a levante, ond’ella è tratta 
come scudo che ’n terra si disegna. 
Tra Calavra e Peloro si baratta 
Silla e Cariddi: l’un le navi rompe, 
l’altro li dá, inghiottendo, la tratta. 
E tre laghi ci son, ma di piú pompe 
e fama è quel che chi la man v’attuffa 
quanto ne bagna tanto ne corrompe. 
Del fiume Imero dico non è buffa 
che amaro è correndo a tramontana 50 
e dolce, quando il mezzogiorno acciuffa. 
Se maraviglia par quella fontana 
che salta, quando l’uom sopr’essa sona, 
minor non tegno l’altra di Diana. 
Ed Aretusa è qui, di cui ragiona 55 
Ovidio, poetando come Alfeo 
la trasformò in fonte di persona. 
Ancora è qui lo stagno Geloneo, 
che, qual dimora sopra la sua sponda, 
il terzo senso sente ciascun reo. 60 
Due fonti ci ha: che l’una qual de l’onda 
femina assaggia, senza alcun riparo, 
se sterile è, diventerá feconda; 
l’altra dir posso ch’è tutto il contraro. 
Ancor vi trovi il nocevole stagno 65 
a ogni serpe e a l’uomo molto caro. 
Lo lago d’Agrigento pare un bagno, 
perché di sopra olio sempre nuota, 
util talor, ma di poco guadagno. 
Eolo par che qui sempre percuota 70 
e con piú voci di cagne ci latre 
e che talora alcun monte ci scuota 
per le molte caverne forti e atre, 
che soffian foco e solfo per le gole, 
come spiran del corpo de la matre. 75 
Albo corallo nel fondo si tole 
di questo mare, non che color mova 
come fa il Sardo, quando vede il sole. 
Oro chi ne ricerca assai ne trova. 
Acato fiume dá l’acata pietra, 80 
che molto a Pirro fu giá cara e nova. 
E benché ora non suoni la cetra 
d’Archimedes, ti dico, e di Lais illa, 
pur colá, dove io posso, non s’invetra. 
Non vo’ rimagna qui senza favilla 85 
d’Anapio e d’Anfinomo il miracolo, 
perché palese ci è per ogni villa: 
Campo pietoso fu lor tabernacolo”. 

CAPITOLO XIV 
Sempre parlando, lungo la marina 
andavam per le parti di Peloro 
in fin che fummo lá dov’è Messina. 
Dubbio non è, e fama n’è tra loro, 
che da Mesen, che fu d’Enea trombetta, 5 
lo nome prese, al fin del suo lavoro. 
“Qui puoi veder, disse Solin, la stretta 
lá dove Silla si converse in mostro 
e puoi udire i mugghi che vi getta. 
E guarda come col dito ti mostro: 10 
vedi Reggio in Calavra, lo qual mira 
con diece miglia e men dal lato nostro. 
Ma vienne omai, ch’altro disio mi tira 
e fa che spesso muovi la pupilla 
al dolce e bel paese che qui gira. 15 
Etna vedi, che il fuoco sfavilla 
per due bocche, con mugghi, in su la vetta, 
sí che vi fa tremar presso ogni villa. 
E, con tutta la fiamma che fuor getta, 
veder si può canuto in tutto l’anno, 20 
sí come un vecchio fuor di sua senetta. 
Quei di Catania in contro al fuoco vanno 
col corpo di Colei, che per dolore 
vinta non fu da Quinzian tiranno”. 
Nel prato fummo, dove fior da fiore 
Proserpina scegliea, quando Pluto 
subitamente ne la trasse fore. 
E poi che ’l lago fu per noi veduto 
de’ cigni, ci traemmo a Siracusa 
per quel cammin che ci parea piú tuto. 30 
Questa cittade per antico è usa 
d’essere prince e donna di ciascuna 
altra, che veggi in questa isola chiusa. 
Dedalo fabbro, dopo la fortuna 
acerba del figliuol, qui si governa 35 
con altri Greci che seco rauna. 
Miracol pare a uom, che chiar dicerna, 
che qui udii che mai giorno non passa 
che ’l sol non apra chiara sua lucerna. 
Due monti vidi, de’ qua’ ciascun passa 40 
gli altri d’altezza, Etna ed Erice; 
a Venus l’un, l’altro a Vulcan si lassa. 
E vidi ancor, cercando le pendice, 
Nebroden e Nettunio alti tanto, 
che due mar veggon, per quel che si dice. 45 
Passato ca’ Passaro e volti al canto 
di Pachino, vedemmo andare a frotta 
tonni per mare, che parea un incanto. 
Passato Terranova e le sue grotta, 
e Gergenta, puosi a l’Africa cura, 50 
che guarda in vèr Libeo e parne ghiotta. 
Dubbio non è che per la sepoltura 
di Sibilla, che fu sí chiara e vera, 
al castel di Libeo la fama dura. 
Ne l’isola dir posso che Cerera 55 
sí per li cieli e sí per gli alimenti 
sí come donna, quanto altrove, impera. 
Uomini sottili ed intendenti 
v’ingenera natura e temperati 
con bei costumi e con buoni argomenti; 60 
volti di donne chiari e dilicati, 
con gli occhi vaghi quanto a Venus piace, 
onesti e ladri in vista, se li guati. 
Poco par posto il reame a aver pace 
per le male confine e per la gente 65 
aveniticcia, che dentro vi giace. 
Maraviglia mi parve, a poner mente, 
lo sale agrigentin fonder nel foco 
e in acqua convertir subitamente. 
E vidilo, ch’ancor non mi fu poco, 70 
gittatolo ne l’acqua, con istrida 
scoppiarne fuori e non trovarvi loco. 
Cosí andando dietro a la mia guida, 
notava de le cose, ch’io vedea 
e ch’io udia da persona fida. 75 
Io fui tra i monti, dove si dicea 
che Ciclopis venia alcuna volta 
a donneare e pregar Galatea. 
Apresso, noi venimmo a dar la volta 
dove trovata fu la comedia, 80 
secondo che per molti lá s’ascolta. 
Diverse cose ragionare udia 
di natura di canne, tanto sono 
dolci a sonar ciascuna melodia. 
Non vo’ rimanga ascoso e senza sono 85 
il campo agrigentin, ché, se non erra 
colui con cui dí e notte ragiono, 
quivi sempre esce terra de la terra. 
L’isola tutta, a chi gira il terreno, 
vede, per vero, che si chiude e serra 90 
con tre milia stadi e non con meno. 

CAPITOLO XV 
“Poi che hai veduto e udito a parte a parte 
le novitá de l’isola e il costume, 
è buon prender la via in altra parte”: 
cosí mi disse lo mio vivo lume. 
E io a lui: “Va pur, ch’io son disposto 5 
a te seguir con l’ali e con le piume”. 
Indi si mosse e io altresí tosto 
e, giunti al mar, salimmo sopra un legno, 
ch’andava dritto ov’io avea proposto. 
Per questo modo appunto ch’io disegno, 10 
in Lipari passammo, cosí detto 
da Liparo, che in prima tenne il regno. 
Senza smontare, con benigno aspetto 
m’incominciò il mio consiglio a dire: 
“Apri l’orecchie qui de lo ’ntelletto. 15 
Tu dèi pensare al cammin che de’ ire; 
se ben dovessi ogni isola cercare, 
col tempo ch’ai nol potresti fornire. 
Per ch’io l’abbrevierò, senza l’andare, 
additandoti sempre, quando andremo, 20 
dove son poste e come stanno in mare. 
Per queste parti, lá dove ora semo, 
quattro ne sono nominate poco, 
ché ’l ben, piú che non suol, n’è ora scemo. 
Iera è l’una, che per lo molto foco 25 
che fuori sbocca, a Vulcano è data 
per fabbricare e posseder quel loco. 
Ad Eolo re è Strongile sacrata, 
per li gran venti ch’escon de la foce, 
mortali e fieri alcuna fiata. 30 
Ancor per tutto è nominanza e voce 
come Erifusa e Fenicusa aora 
Venus per dea e a lei fan la croce. 
Dal mar di Pisa in fino a qui ancora 34 
tu truovi la Gorgona e la Caprara, 35 
Pianosa e dove Giglio fa dimora. 
L’Elba in fra l’altre vi par la piú cara, 
sí per lo molto ferro e per lo vino, 
per Capolivro e ’l Porto di Ferrara. 
E truova chi ben cerca quel cammino 40 
Ponza, Palmara, ch’Astura vagheggia, 
quando ’l tempo è ben chiaro e pellegrino. 
E cosí, ricercando questa pieggia, 
non si convien che Bucetta si lassi, 
che con Gaeta ognor par che si veggia. 45 
Ancor si truova l’Ischia in quei compassi 
e Capri: e queste stanno in contro a Napoli 
sí presso, che vi vanno in brevi passi. 
Gli abitator vi son subiti e vapoli: 
lodano Dio coloro che vi vanno, 50 
se senza danno da lor sono scapoli. 
Contro a Scalea e Andreano stanno 
Didini e la Micea e questa gente 
la via di Conturbia spesso fanno. 
Or puoi veder ch’io son, se ben pon mente, 55 
venuto in su la punta di Calavra, 
a onde, sempre, come va il serpente. 
E perché il vero a l’occhio tuo ben s’avra 
qui la piú parte al modo di Grecia 
parlano e hanno costumi di cavra. 60 
Ora mi volgo al golfo in vèr Venecia, 
dove isolette sono assai, ma tale 
che per me poco ciascuna si precia: 
perché la cosa tanto quanto vale 
dee l’uom pregiare e chi tiene altro modo 65 
inganna altrui e spesso a sé fa male”. 
Qui si taceo; e io ch’a nodo a nodo 
legato avea nel cuor le sue parole, 
li dissi: “Ciò che di’ intendo e odo. 
Ma fammi chiaro ancor, vivo mio sole, 70 
da cui derivan questi tanti nomi, 
che ’n questo poco mar la gente tole”. 
Ed ello a me: “Per li superbi e indomi 
pelaghi, venti e scogli, che l’uom trova 
da Pisa al Corso, in fin ch’al Sardo tomi, 
Leone è detto, e poi par che si mova 
da Liguria il Ligur, la cui pendice 
tien quanto mare il Genovese cova. 
Ionio da Io ancora si dice 
e da Adria cittade l’Adriano, 80 
la qual di qua fu giá molto felice”. 
Cosí, per non passare il tempo invano, 
ragionavamo insieme ed ello e io 
sempre di quello che m’era piú strano. 
Passato noi Suasina, udio 85 
dire al padrone: “Durazzo ci è presso, 
dove Giulio Cesar giá fuggio”. 
“Buono è smontar, disse Solino, adesso”. 
E io a lui: “Quel che credi che sia 
lo miglior, fa, ché tu sai qual’è desso”. 90 
Indi scendemmo e prendemmo la via. 

CAPITOLO XVI 
Trattato del secondo sen, che serra 
Italia, segue che dir mi convene 
del terzo, che la Grecia tutta afferra. 
Io dico che, seguendo, la mia spene 
m’incominciò a dir: “Tu se’ in Dalmazia: 5 
per che con senno andare si convene, 
ché questa gente, per la lor disgrazia, 
benché sian nati del sangue di Dardano, 
pur non di men del mal far non si sazia. 
Son come tigri, ché par che sempre ardano 10 
per uccidere altrui e per rubare 
e poco a Dio e meno ai Santi guardano. 
Una cittá fu giá qui lungo il mare, 
che diede il nome a questo paese 
ch’ è grande, onde per noi fa l’affrettare”. 15 
Cosí andando e parlando, discese 
in Epirro, che dal figliuol d’Achille, 
secondo ch’io udio, lo nome prese. 
Noi trovammo, cercando quelle ville, 
una fontana, dove l’acqua scende 20 
fredda e sí chiara, che par che distille. 
Quivi, se l’uomo una facella prende 
accesa e ve la tuffa dentro, spegne; 
poi, se lungi la gira, si raccende. 
E perché chiaro ogni luogo disegne, 25 
i Molosi son qui che da Moloso, 
figliuol di Pirro, il nome par che tegne. 
Non è qual fu di forma Oreste ascoso 
nel paese di Sparta e di Laconia, 
li quai cercammo senza alcun riposo. 30 
Un monte v’è, il cui nome si conia 
Tenaro, ed èvi ancora lo spiraglio 
d’Inferno e qui si credon le dimonia. 
Per questi luoghi dandomi travaglio, 
presso a Patrasso nove colli vidi, 35 
ch’ombra v’è sempre e non di sole abbaglio, 
Taigeta e ’l fiume; e di lá li piú fidi 
fan fe’ del prelio, che fu anticamente 
tra i Laconi e gli Argivi, e de’ micidi. 
Noi fummo dove andar solean le gente 40 
al tempio di Castore e Polluce, 
ben ch’ora è tal che poco si pon mente. 
La galatica pietra quivi luce, 
utile a quella che ’l figliuol nutrica, 
ché natura ha ch’assai latte produce. 45 
E, per quel che di lá par che si dica, 
Antea, Leuttra, Teranna e Pitina, 
ciascuna fu famosa e molto antica. 
Dal re Inacus il nome dichina 
d’Inaco fiume, che pare uno strale: 
sí corre, quando pioggia vi ruina. 
Vidi in Arcadia Cilleno e Minale: 
questi son monti e passammo Liceo, 
acerbo molto a colui che vi sale. 
Ancor notai il fiume Erimanteo, 55 
cosí nomato da Erimanto duca, 
che per udita quivi si perdeo. 
L’albeston lí natura par produca, 
che a Giove in contro al padre fu difesa, 
sì come in molti versi par che luca. 60 
La pietra è tal, che, poi ch’ella è accesa, 
mai non si spegne e somiglia a vederla 
di ferrigno colore e grave pesa. 
E come fra noi è nera la merla, 
candida è sí di lá, che par pur neve: 65 
dolce a udire e bella a tenerla. 
Fama è quivi da gente antica e breve 
che Arcas ad Arcadia il nome diede, 
figliuol di Giove: e cosí l’hanno in breve. 
Io ti giuro, lettor, per quella fede 70 
ch’io trassi de la fonte, che sol quello 
ti scrivo, che per piú autor si crede. 
Assai mirai, ma non vidi, il castello 
di Pallanteo, per quel che fece a Roma 
Evandro col figliuol, che fu sì bello; 75 
ma pur tra quella gente vile e doma 
la fama è morta, sí ch’io dico bene 
che qual ne parla quello indarno noma. 
La vera Grecia fu dov’è Atene, 
la qual cittade giá si scrisse alonna 80 
di ciascun ben, ch’a buon regno convene. 
Questa si disse sostegno e colonna 
d’ogni arte liberal, questa si tenne
di filosofi antichi madre e donna. 
Ellenadon Deucalionis venne 85 
re del paese e da costui poi move 
che la contrada Ellas dir si convenne. 
Qui vidi cose molte, antiche e nove; 
ma, per amor di Teseo, notai 
sassi Scironia prima che altrove. 90 
Cinque monti con Icario trovai: 
Ebrieso, Egialo, Licabetto 
e Imetto, degno piú degli altri assai. 
Giunti a un sentiero solingo ed istretto 
d’un gran monte, Solin mi disse: “Vienne, 95 
ché buon per noi è far questo tragetto”. 
Grave era il poggio a salir tanto, che nne 
fece posar piú e piú volte; in prima 
tremâr le gambe e riscaldâr le penne, 
che noi fossimo giunti in su la cima. 100 

CAPITOLO XVII 
Come nel tempo de la primavera 
giovane donna va per verde prato, 
punta con l’oro de la terza spera, 
con gli occhi vaghi e ’l cuore innamorato 
cogliendo i fior, che li paion piú belli, 5 
lasciando gli altri da parte e da lato; 
e colti i piú leggiadri e i piú novelli 
li lega insieme e fanne una ghirlanda 
per adornare i suoi biondi capelli; 
similemente io di landa in landa 10 
cogliendo ogni bel fior del mondo andai, 
lasciando i vili da parte e da banda: 
e, raunati, apresso li legai 
in questi versi, sol per adornare 
le rime in che disio vivere assai. 15 
Giunti in sul monte e volti verso il mare, 
disse la guida mia: “Qui drizza il viso 
e nota ciò che tu m’odi contare. 
Teseo, avendo in Creti il mostro ucciso, 
per lo caro consiglio d’Adriana, 
venne ad Atenes con gaudio e con riso. 
A tutti li suoi iddii, fuor ch’a Diana, 
fe’ sacrificio Oeneo, ond’ella acerba 
tempesta li mandò crudele e strana: 
i’ dico un porco, che guastava l’erba, 25 
le bestie, biade, le vigne e le pianti, 
tant’era pien d’ardire e di superba. 
Due denti grandi, qual de’ leofanti, 
gli uscian di bocca affilati e taglienti 
e forti, come fosson diamanti. 30 
E quai sono a veder carboni ardenti, 
cotai parean, nel crudel rimiro, 
gli occhi suoi fieri, vermigli e lucenti. 
Non minor era che i tori d’Epiro; 
tai, qual saette, le setole avea; 35 
molto era, a riguardar, pien di martiro. 
Per cacciar lui, che tanto mal facea, 
si raunaron Castore e Polluce 
con gran compagna e due fratei d’Altea. 
Lá fu ancora l’uno e l’altro duce, 40 
Teseo e Piritoo, e la bella Atalante 
ch’era, in quel tempo, nel mondo una luce. 
Lá fu Ianson con l’ardito sembiante, 
Idas, Peleus, Fenice e Panopeo, 
Ipoteus, Ceneo e lá Cteante; 45 
lá fu Nestorre, Iolao ed Anceo; 
lá fu il padre d’Achille ed Echione; 
Pilius, Feretiade, Ippaso, Ileo. 
Lá fu Anfirao, Laerte e Talamone, 
Amficide ed il bello Meleagro, 50 
Drias, Naricio, Acasto, Eurichione. 
Ora, perché ’l mio dir ti sia men agro, 
terrò piú lunga alquanto mia favella, 
perché ’l corto parlar talora è magro. 
Ben dèi pensar che la caccia fu bella 55 
di cavalieri e d’argomenti strani, 
quando fra noi ancor se ne novella. 
Segugi, gran mastini e fieri alani 
v’erano molti e tra quelli una schiatta 
che prendono i leon: ciò son gli albani. 60 
E tutti questi a quella gran baratta 
fuggian dinanzi al porco, come fosse 
ciascun coniglio stato, lievre o gatta. 
Echion fu quello che primo percosse 
l’alpestro porco e non passò la scorza, 65 
ch’era come corazza o scudo a l’osse. 
Ianson lanciò lo spiedo con tal forza, 
che fallí il colpo; e il porco ferio 
sí Palamon, che la sua vita ammorza. 
Similmente Pelagona partio 70 
con la gran sanna da la schiena al ventre, 
onde subito cadde e lí morio. 
E se Pilio non fosse stato in mentre 
accorto che ’l gran porco uccise i due, 
per un che li sgridò: – Guarda com’entre –, 75 
morto era lí; ma piú che simia fue 
presto a montare un albore: onde ’l porco 
dentro al pedal ficcò le sanne sue. 
Anceo, che era acerbo piú di un orco, 
alzò la scure; ma ’l colpo li manca 80 
e quel gittò lui morto in mezzo il sorco. 
Per mal li venne Enesim tra le branca; 
si fe’ d’Oritia, quando a lui s’arriccia: 
tutto l’aperse da la coscia a l’anca. 
Teseo, che ciò vede, a dietro spiccia; 85 
ma Ianson, che lo volse ancor ferire, 
cucí un cane in terra con la friccia. 
Ed allora Pelleo il fece uscire 
de la gran selva e Talamone il tenne 
da lato al fianco per farlo morire. 
Pollux e Castor, l’uno e l’altro venne 
su due corsieri bianchi come cigni; 
ma pur niuno a lui ferir s’avenne. 
Qui vo’, lettor, ch’Atalante dipigni 
sopra un corsier, con quel leggiadro aspetto 95 
che fai Diana, quando non t’infigni, 
con l’arco in mano e col vestire stretto 
e i biondi suoi capelli sparti al vento, 
sí che passi a veder ogni diletto: 
perché tal giunse, fuor d’ogni spavento, 100 
con l’arco aperto e die’ d’una saetta 
al porco, in mezzo tra l’orecchia e ’l mento. 
E tanto il colpo e ’l bel ferir diletta 
a Meleagro, che a’ compagni disse: 
– Morto è costui, se un’altra ne li getta –.105 
Il porco contro a’ cacciator s’affisse, 
credo per lo dolor, sí disperato, 
che folgor parve che dal ciel venisse. 
Qual li fuggia dinanzi e qual da lato, 
e qual morio in quella gran tempesta, 110 
e qual tra’ piè li cadde inaverato. 
Qui Meleagro, in mezzo a la foresta, 
uccise ’l porco e, per donar l’onore, 
ad Atalante sua diede la testa, 
la qual fu fin del lor verace amore”. 115

CAPITOLO XVIII 
“Forse quaranta miglia son per terra 
da Atenes a Tebe e poi per mare 
cento e cinquanta insieme non le serra: 
(sí incominciò la mia scorta a parlare) 
e però noi farem questo traverso 5 
ch’è meno e poi ha piú cose a notare”. 
“Andiam, diss’io, ché tu sai dov’è il verso”. 
Per che si mise a scender giú del monte 
per un sentier, ch’era molto diverso. 
Giunti in Boezia, trovammo una fonte 10 
che a qual ne bee sí la memoria tolle, 
che non s’ammenta dal naso a la fronte. 
Qui la natura argomentar ben volle: 
ché un’altra v’è, che tosto gliela rende, 
pur che ’l palato e la gola ne molle. 15 
Ancora udio, e ciò non si contende, 
ma per ciascun del paese s’avera, 
che per quella contrada un fiume scende, 
lo quale è tal, che se pecora nera 
di quello assaggia, in bianca si trasforma: 20 
dico, se l’usa da terza e da sera. 
Un altro v’è, che tiene un’altra norma: 
che del color, che, bevendo, la vesti, 
di tale il suo figliuol prende la forma. 
Lo lago maledetto, dopo questi 25 
truovi, lo qual, bevendo il suo licore, 
uccide altrui, ch’atar non nel poresti. 
Un altro v’è, lo qual le membra e ’l core 
a colui che ne bee tanto avalora, 
ch’accende e ’nfiamma nel disio d’amore. 30 
Qui Aretusa ci si vede ancora, 
e Cheriscon con altri fonti assai 
di fama antichi, ma non sen parla ora. 
Ismeno, Edipodea ci troverai 
Psamate ed Aganippe e Ippocrina, 35 
che dritto son per la via che tu vai”. 
Cosí tra quella gente pellegrina 
andando, dimandai lo mio conforto: 
“Tebe dov’é? È lungi o è vicina?” 
“Questo cammino, per lo qual t’ho scorto, 40 
mi rispuose, ci mena a le sue rive 
ed è lo piú diritto e lo piú accorto, 
benché or quivi è la cittá di Stive, 
e de’ Teban la fama tanto spenta, 
che piú non se ne parla né si scrive”. 
Poi, com’uom che volentier s’argomenta 
d’altrui piacer, mi disse a parte a parte 
quanto lá vive la pernice attenta, 
la sua sagacitá, gl’ingegni e l’arte, 
le gran lusinghe, i nidi forti e fui, 50 
appunto come l’ha ne le sue carte. 
“Ma guarda fisso in que’ nuvoli bui: 
lá son faggi che ’n contro a ciascun morso 
di serpe san guarir, col tatto, altrui. 
Piú lá son quelli che dánno soccorso 55 
sol con lo sputo a simili punture, 
pur che ’l velen non sia dentro al cuor corso. 
E perché chiaro Boezia affigure, 
in lei son Pelopesi e di Laconia 
come vedi in un corpo piú giunture. 60 
E sappi c’hai passato Calidonia, 
dove fu la gran caccia ch’io t’ho ditto, 
Corinto, Sparta con Lacedemonia. 
Ma guarda in verso il mare, com’io, dritto: 
un’isoletta v’è famosa e sana, 65 
la qual truovi per Varro altrove scritto. 
In questa, prima, fu filata lana 
per le femine, nobile e sottile, 
tessuta a punto e da lor tinta in grana. 
Aulide guarda ancor per quello stile 70 
onde il grande navilio si partio, 
che sopra ogni altro fu ricco e gentile. 
Poi mira a destra il mal fatato e rio 
campo Matronio, dove il crudelissimo 
prelio fu, come giá dire udio. 75 
E guarda un monte sterile e nudissimo: 
di lá da quello Olimpo troveremo, 
che par che tocchi il cielo, tant’è altissimo”. 
E io a lui: “Quando veder potremo 
il Parnaso, del quale ho tanta brama, 80 
che quasi a questo ogni pensier m’è scemo?” 
Ed ello a me: “Se cotanto t’affama 
di ciò la voglia, vienne pur, ché ’n brieve 
prender potrai il frutto de la rama”. 
“Va pur, diss’io, ché tanto sono lieve 85 
giá fatto udendo le parole tue, 
che ormai lo stare mi parrebbe grieve”. 
Cosí parlando andavamo noi due 
per quel paese povero e diserto, 
che per antico tanto degno fue, 90 
che innanzi agli altri si scrivea per certo. 

CAPITOLO XIX 
Sí come il pellegrino che si fida 
per buona compagnia d’andar sicuro, 
andava io apresso a la mia guida. 
Ma però ch’io vedea diserto e scuro, 
come ho detto, il paese d’ogni parte, 5 
ch’era giá stato tanto degno e puro, 
feci come uom, che volentier comparte 
l’andar con le parole, per men noia 
e per trar frutto del suo dire in parte. 
E cominciai: “Nel bel viver di Troia, 10 
e prima ancora e lungamente apresso, 
si scrive che qui fu valore e gioia. 
E io mi guardo e giro intorno adesso 
e veggio la contrada tanto guasta, 
ch’io ne porto pietá in fra me stesso. 15 
E questo ancora al mio pensier non basta; 
ma io truovo la gente cruda e vile, 
ch’esser solea gentile, ardita e casta”. 
Cosí parlai e la mia scorta umile 
rispuose: “Come di’, pien di vertute 20 
fu giá questo paese e d’alto stile. 
Ma se or vedi le cittá abbattute 
e coperte di verdi spini e d’erba, 
e le vertú ne gli uomini perdute, 
imagina che parte è per superba 25 
e imagina che ’l ciel, che qua giú guata, 
niuna cosa in sua grandezza serba. 
Pensa ov’è Roma, che fu allevata 
con tanto studio, e com’è ita giuso 
quella che in Caldea ancor si guata. 30 
Questa ruota del mondo l’ha per uso, 
cioè di far le gran cose cadere 
e le minor talor di montar suso”. 
Cosí, prendendo del parlar piacere, 
un poggio mi mostrò e disse: “Vedi: 35 
quivi è la via che ci convien tenere”. 
E io a lui: “Va pur, come tu credi 
che ’l meglio sia, ch’io ti sono a le spalle, 
ponendo sempre, onde tu levi, i piedi”. 
A la man destra lasciammo la valle 40 
e prendemmo a salir la grave pieggia, 
per uno stretto e salvatico calle. 
Saliti su ne la piú alta scheggia, 
mi vidi sotto cosí gli altri monti, 
come una cosa un’altra signoreggia. 45 
Noi tenevamo in verso il mar le fronti, 
quando mi disse: “Qui m’ascolta e mira, 
se vuoi di quel che cerchi ch’io ti conti. 
Al tempo d’Agenor, di Libia tira 
per questo mare, anticamente, Giove 50 
la bella Europa, cui ama e disira. 
Con molti ingegni trasformato in bove, 
condusse lei dov’io t’addito e guato 
e rifé sé ne le sue membra nove. 
Poi, per dar pace al bel volto turbato 55 
d’Europa, il terzo del mondo per lei 
volse che fosse Europa chiamato. 
D’angoscia e d’ira pien, pensar ben dèi, 
col precetto del padre si divise 
Cadmus solo per ritrovar costei. 60 
L’ardito serpe sopra l’acqua uccise; 
poi, da l’idolo suo presa risposta, 
a fabbricare una cittá si mise. 
Guarda a sinistra a piè di quella costa, 
ché quivi è ora la cittá di Stive, 65 
lá dove Tebe fu per costui posta. 
Vedi Asopo ed Ismen, de’ quai si scrive 
che facean correr piangendo le genti, 
quando ebri si gittavan per le rive. 
Vedi quel bosco, ove partio i serpenti 70 
Tiresia, quando cambiò le membra, 
per che piú tempo poi fuggì i parenti. 
Vedi lá il mar (non so se ti rimembra 
che mai l’udissi dir) lá dove insana 
s’annegò Ino col figliuolo insembra. 75 
Piú qua, in quella selva, è la fontana 
dove Atteon si trasformò in cervo, 
per guardar le bellezze di Diana. 
E vedi dove l’uno e l’altro servo 
lassâr colui, che de’ fratei fu padre, 80 
legato sí che poi si parve al nervo. 
E vedi i campi, ove l’aspre e leggiadre 
battaglie funno e dove Anfirao visto 
fu ruinare in corpo de la madre. 
E vedi il fiume, ove rimase tristo 85 
Ippomedon, e il mal passo da spino, 
dove Tideo fece il bel conquisto. 
Di lá da quello si trova il cammino 
onde passaro Adrasto e Capaneo, 
quando Isifil trovaro nel giardino. 90 
Di lá è il bosco, ove Partenopeo 
il serpe uccise, per tôr l’ira a quella 
che ne la culla il suo figliuol perdeo, 
come si scrive e di qua si novella”. 

CAPITOLO XX 
Poi, seguitando: “Due mila anni e piue 
vent’otto volte venti son passati, 
mi disse, che distrutta Tebe fue. 
Quivi nascero e fun deificati 
Ercules ed Apollo e ciò par degno, 5 
se al ben far loro e a l’usanza guati. 
Quivi Penteo, cui Bacco avea in disdegno, 
converse in porco; onde la madre afflitta, 
fuggendo a lei, li tolse vita e regno. 
Quivi si vide Niobe trafitta 10 
la figlia in grembo e riguardar nel pianto 
le piaghe de’ figliuoli e la sconfitta. 
Quivi s’udio il dolcissimo canto 
d’Anfione, col qual facea i sassi 
muovere e saltar di canto in canto. 15 
Ma vienne omai e seguita i miei passi 
e sappi ben che ’n Tessaglia se’ giunto 
e che Boezia di dietro ti lassi”. 
Apresso questo, non istette punto; 
prese la via e io, mirando sempre 20 
come ’l paese sta di punto in punto. 
“Non vo’, figliuol, che la penna si stempre 
del dire, per l’andare; e tu ancora 
m’ascolta e fa che dentro al cor l’assempre. 
Questa contrada piú tempo dimora 25 
col nome di Emonia e poi Tessaglia 
da Tessalo fu detta e questo ha ora. 
Ma guarda dritto, se ’l sol non t’abbaglia, 
oltre a que’ colli il Farsalico piano 
dove fu de’ Roman la gran battaglia. 30 
E vedi ancor, da la sinistra mano, 
dove, accesi di vino e di lussuria, 
fu de’ Centauri fatto il grande sbrano: 
io dico quando funno in tanta furia, 
che volsono sforzar uomini e femini 35 
e che Ceneo morí per loro ingiuria. 
E se mai versi al mondo di ciò semini, 
la morte di Cillaro e la tristiziap 
d’Ilonome farai ch’a dir ti memini. 
Vedi lá il bosco, del quale è notizia 40 
ch’ Erisiton tagliò la quercia sagra, 
per che la Fame venne in fin di Sizia, 
pilosa, con grand’unghie, oscura e magra, 
la qual del fallo fe’ sí gran vendetta, 
che sol l’udita altrui par forte e agra. 45 
Oh, quanto è bestia l’uom, che non sospetta 
di fare ingiuria a la cosa divina, 
se non v’è Cesar, che ’l ciel gl’imprometta! 
Guarda Larisa, ch’ è di qua vicina, 
e Ftia ancora, che nel tempo antigo 50 
famose funno per questa marina. 
E sappi che lá Iuppiter fu origo 
d’Eaco, di Pelleo e di Achille; 
d’Esone e di Ianson, ma d’altro rigo. 
Dopo queste lucenti e gran faville, 55 
Pirro e Moloso seguîr senza fallo: 
di qua signoreggiâr cittá e ville. 
Quest’è il paese dove pria il cavallo 
domato fu e coniata a spesi 
moneta del piú nobile metallo, 60 
e che veduti fun con gli archi tesi 
in su’ corsieri per questa pianura 
prima Centauri che in altri paesi: 
onde la gente semplicetta e pura 
i due credean uno e di tal mostro, 65 
quando ’l vedeano, avean gran paura”. 
Cosí parlando, dritto al cammin nostro 
trovammo Anigro: uccide se vi caccia 
bestia il ceffo ovvero uccello il rostro. 
Io volea bere e rinfrescar la faccia, 
quando disse Solin: “Non far, ché in esso 
è tosco e sangue”; e presemi le braccia. 
Come parlò, cosí pensai adesso: 
quest’è quel fiume, dove si lavaro 
le triste piaghe i compagni di Nesso. 75 
Apresso disse quel padre mio caro: 
“Vedi Parnaso: e se tu vorrai bere, 
quivi son fiumi e ciascun dolce e chiaro. 
Ma guarda a destra, ché lá puoi vedere 
la selva dove saettando uccise 80 
Pelleo Foco e non per suo volere. 
Per questo, il padre del regno il divise: 
onde passò in Trachinia a Ceice re 
e per un tempo quivi a star si mise. 
Indi partio; ma non ti dico che 85 
fu poi di lui, né ’l dolce e vago amore 
di Ceice e d’Alcione e la lor fè; 
e non ti conto con quanto dolore 
Ceice nel mar con la sua nave affonda, 90 
né come l’alma si partio dal core 
d’Alcione, trovatol sopra l’onda”. 


CAPITOLO XXI 
Giunti eravam sotto Parnaso, quando 
disse Solino: “Alza gli occhi e vedi 
l’altezza e come in su si va montando. 
Non so che pensi, ma se tu mi chiedi 
consiglio, ce ne andremo per lo piano, 5 
perché ’l salire è peggior che non credi”. 
“Sia quanto vuol, diss’io, acerbo e strano, 
ché per amor di que’, che giá l’usaro, 
cercar lo voglio da ciascuna mano”. 
Cosí risposto, senza alcun contraro 10 
a salir presi il salvatico poggio, 
che, per non uso, altrui è molto amaro. 
Non era al mezzo, quando stanco e roggio 
sí venni, ch’io ’l chiamai piú d’una volta, 
ché innanzi m’era: “Attienti, ch’io m’appoggio”. 15 
Come la madre, che ’l figliuolo ascolta 
dietro a sé pianger, si volge e l’aspetta, 
poi lo prende per mano e dá la volta, 
si volse a me, in su la ripa stretta, 
con un bel volto e porsemi il suo lembo 20 
e, presol io, mi trasse in vèr la vetta. 
Saliti al sommo del piú alto sghembo, 
le cittá vidi, che m’eran d’intorno, 
di sotto, sí com’io le avessi in grembo. 
E vidi ancora, sopra ’l destro corno, 25 
dove fu giá sacrificato a Apolo 
in un bel tempio e di ricchezze adorno. 
E vidi l’altro dato a colui solo 
per cui le figlie di Mineo giá grame, 
lui dispregiando, fenno il cieco volo. 30 
Cosí menando me per quelle lame, 
trovammo un piano quasi in su la cima, 
salvatico di spini e d’altre rame. 
Per quello un’acquicella si dilima 
bagnando l’erbe e scende per lo monte 35 
sí dolce a ber, ch’ogni altro amar si stima. 
Poscia mi trasse ove sorgea la fonte, 
dicendo: “Fa che dentro al cuor dipinghe 
ciò che vedrai con gli occhi de la fronte. 
Quest’è Aonia, ov’eran le lusinghe 40 
al sacrar de le Muse, bench’adesso 
pochi ci son, che di quest’acqua attinghe. 
Di verdi pini, abeti e d’arcipresso43 
d’ulivi, di mortella e di alloro 
era aombrato da lungi e da presso. 
Qui fun le nove suore e fen dimoro; 
qui per esser ben certa Pallas venne 
di questo loco e de la vita loro. 
Qui trasformâr li peli umani in penne 
le Pieride e qui udito avresti 50 
li mal di Pireneo e che ne avenne. 
E se quanta vaghezza mai vedesti 
fosse ora qui di donne e di donzelle, 
piene di bei costumi e atti onesti, 
e per miracol ci apparisson quelle 55 
nove, ch’io dico, diresti ch’un sole 
fosse venuto tra piccole stelle. 
Similemente ne le lor parole 
soavi e vere ti sarebbe aviso 
che le altre tutte ti dicesson fole. 60 
E cosí in questo luogo, ch’io diviso, 
quando vivean queste vergini sante, 
dir si potea il terzo paradiso. 
Questo bosco di prun, ch’abbiam davante, 
era di fiori di gigli e di rose 65 
adorno e d’altre dolcissime piante”. 
Ragionato che m’ebbe queste cose 
con altre assai, ch’io non pongo in norma, 
cosí al suo parlar silenzio pose. 
E io a lui: “Se tu puoi, qui m’informa: 70 
questa fontana sí chiara e sí viva 
in questo luogo come e chi la forma? 
E dimmi ancora, a ciò ch’altrui lo scriva, 
i propri nomi de le nove Musa, 
che fun sí degne ne la vita attiva”. 75 
Ed ello a me: “Del sangue di Medusa 
nacque un cavallo alato, che qui vola 
e con le zampe la terra pertusa. 
In men ch’io non t’ho detto la parola, 
quest’acqua, che tu vedi, fuor n’uscio, 80 
che tanto chiara per lo monte cola. 
Euterpe, Melpomene, Erato, Clio, 
Talia, Polimnia: queste nota 
perché cosí giá nominar le udio; 
Tersicore intendente e rimota, 85 
Calliope col suo parlare adorno, 
e Urania, dico, celeste e divota. 
Ma vedi il ciel che via ne porta il giorno: 
onde letto farem di queste fronde, 
ché miglior luogo non ci veggio intorno. 90 
E ber potrai de l’acqua di queste onde 
e de’ frutti salvatichi gustare, 
che, bench’altri gli schifi, egli han pur donde 
posson la vita a l’uom più lunga fare”. 

CAPITOLO XXII 
Poi ch’io ebbi compreso a parte a parte 
le sue parole e vidi che si tacque, 
un letto feci de le fronde sparte. 
Del luogo degno, de’ pomi e de l’acque, 
ch’io vidi e assaggiai, al sommo Padre 5 
grazia rendeo, sí ciascun mi piacque. 
Dopo la cena, piú cose leggiadre 
mi disse ’l mio conforto, essendo stesi 
sopra ’l gran petto de la nostra madre. 
Sí per lo suon de l’acqua, ch’io intesi, 10 
e sí per le parole belle ancora, 
soave sonno e riposato presi. 
E fui cosí in fino che l’aurora 
trasse gli augelli fuor de’ caldi nidi, 
a cantar per lo bosco che s’infiora. 15 
Quivi udio versi, ma gli uccei non vidi, 
con tanta melodia, ch’io potrei dire 
che quei di qua fra lor parrebbon gridi. 
Lo vago imaginar, lo dolce udire 
sí mi piacea, ch’io tenea l’occhio chiuso 
e non dormia e fuggia di dormire. 
“Non pur giacer, mi disse, ma sta suso, 
la buona scorta mia; ché la pigrizia 
non men che per natura s’ha per uso. 
Pensa quant’è il cammin di qui in Sizia 25 
e girar poi sotto tramontana 
e veder Tile e passare in Galizia, 
e cercare Gaulea e Mauritana, 
Libia, Etiopia e, dopo Gange, 
l’isola Crise, Argire e Taprobana”. 30 
Cosí come donzella, a cui l’uom tange 
parole proverbiose, quando falla, 
rossa diventa e ’l fallo in fra sé piange, 
tal divenn’io, fuggendo in vèr la spalla 
il volto, e mormorai: “Ben falla troppo 35 
qual per diletto in grande affar si stalla”. 
Indi si mosse e io li tenni doppo 
pur per lo giogo in verso un altro spicchio, 
che n’era per la strada di rintoppo. 
Quivi mi disse: “Ascolta dove io picchio: 40 
sappi ch’al tempo d’Ogigio diluvio 
non arrivò qua su pesce né nicchio: 
io dico quando fu sí grande il pluvio, 
che bestial sacrifizio, incenso o mirra, 
valse che il mare e ciascun altro fluvio 45 
non soperchiasse Licabetto e Cirra, 
onde per tema sopra questo corno 
Deucalion fuggio con la sua Pirra. 
Di questi sassi, che vedi d’intorno, 
per consiglio di Temis nacque poi 50 
la gente, che ’l paese fece adorno”. 
E io a lui: “Rivolgi gli occhi tuoi 
dove t’addito, ché io vorrei udire 
che mura fun, che veggio presso a noi”. 
Ed ello a me: “Per certo ti so dire 55 
che lá fu Cirra ed Elicona è detto 
quel monte per lo qual ci convien ire. 
E quel che vedi, che ci è di rimpetto, 
è Citerone; e quivi fu giá Nisa, 
la quale è or, come questa, in dispetto. 60 
Ma quanto puoi oltre quei colli avisa: 
di sotto a essi move una fontana 
ed èvi una cittá, che ha nome Pisa. 
E benché la novella suoni strana, 
giá fu chi creder volle, senza scusa, 65 
che ’l nome desse a quella di Toscana. 
La fonte, ch’ io ti dico, chiusa chiusa, 
cacciata per Alfeo, per gran caverne 
va sotto il mare e sorge a Siracusa. 
Ma perché l’occhio tanto non dicerne 70 
e cercar non si può, conviensi al tutto 
che le parole mie ti sian lucerne. 
Per questi luoghi, donde io t’ho condutto, 
si trovan laghi e assai fonti e fiumi 
belli a vedere e che son di gran frutto. 75 
Spercheo v’è, lo qual de le sue schiumi 
lo nome prende e, s’altro non l’inghiotte, 
non par che nel cammin mai si consumi. 
Mezzo scornato e con le membra rotte 
per la battaglia sua corre Acheleo, 80 
bagnando Epirro e le sue belle grotte. 
Degno di fama vi passa Peneo, 
se pensi che per tema non mai Danne 
né per lusinghe castitá perdeo. 
Non molto lungi a quello un altro vanne 85 
che Siringa cacciò, che vinta e lassa 
venne palú, del qual sonâr le canne. 
Eveno ancor per la contrada passa, 
famoso piú però che quivi Nesso, 
per suo gran fallo, il bino corpo lassa. 
E benché tu non li vedessi adesso, 
Ismeno, Ilisso e la Castalia fonte 
veder potei, ché assai vi fummo presso”. 
Cosí parlando, discendemmo il monte. 

CAPITOLO XXIII 
Sempre passando d’un paese in altro 
e ascoltando la mia cara guida, 
ch’era piú ch’io non dico esperto e scaltro, 
fra me dicea: “Qui gli orecchi di Mida 
non fan mestier, ma di Tullio la mente 5 
a tante cose, quante insieme annida”. 
Discese giú del monte incontanente; 
prese il cammin diritto per lo piano, 
come colui che gli avea tutti a mente. 
Mi disse poi: “Da la sinistra mano 10 
come tu vai, un paese incomincia: 
Magnesia è detto per quei che vi stanno. 
E come per Tessaglia, cosí schincia 
per Macedona e tanto è buona e diva, 
quant’è di qua alcun’altra provincia. 15 
Moetena v’è, de la qual par si scriva 
che Filippo ivi ciclopis divenne 
un dí ch’armato la terra assaliva. 
E perché non rimase ne le penne 
de’ poeti Libetria, fontana 20 
che surge lá, parlare a me convienne. 
Ma vieni, ch’io non so piú cosa strana 
da notar qui; troviamo altra contrada, 
ché ’l perder tempo è cosa sciocca e vana”. 
Con maggior passi prendemmo la strada, 25 
quand’uno sopra un’acqua ci appario 
in atto sí come uom ch’aspetta e bada. 
E giunto a lui, de la bocca m’uscio 
“Jiá su” e fu greco il saluto, 
perché l’abito suo greco scoprio. 30 
Ed ello, come accorto e proveduto, 
Calós írtes allora mi rispose, 
allegro piú che non l’avea veduto. 
Cosí parlato insieme molte cose, 
ípeto: xéuris franchicá? Ed esso: 35 
Ime roméos e xéuro plus glose. 
E io: Paracaló se, fíle mu; apresso 
mílise franchicá ancor gli dissi. 
Metá charás, fu sua risposta adesso. 
Udito il suo parlar, cosí m’affissi, 40 
dicendo: “Questo è me’ ch’io non pensava”; 
e gli occhi miei dentro al suo volto fissi. 
Poi il dimandai lá dov’ello andava; 
rispuosemi: “Qui presso a una chora, 
dove il re Pirro anticamente stava”. 45 
Io mi rivolsi al mio consiglio allora 
e dissi: “Che ti pare? Andrem con lui?” 
Rispuose: “Sí, ché me’ non ci veggio ora”. 
“Quando ti piaccia, e io e costui, 
con lo qual son, ti farem compagnia 50 
in fin dove tu vai”, diss’io a lui. 
Ed ello allor: “Se a voi piace la mia, 
la vostra in tutto m’aggrada e contenta”. 
E cosí insieme prendemmo la via. 
Nel mezzo era io, quando Solin mi tenta, 55 
dicendomi pian pian: “Con lui ragiona, 
ché vedi che n’ha voglia e non si attenta”. 
Io mi rivolsi a la terza persona 
e dissi: “Dimmi dove si diparte 
Tessaglia, se lo sai, da Macedona”. 60 
Ed ello a me: “Quel fiume propio parte 
l’una da l’altra, ove tu me trovasti: 
e cosí ’l troveresti in molte carte”. 
La guida mia mi tenta ancor che ’l tasti 
per udirlo parlare e io il come 65 
penso fra me, ch’a sodisfarlo basti. 
Poi, con parole accorte, dolci e dome, 
io lo pregai che mi facesse chiaro 
onde venia e qual era il suo nome. 
“Ond’è ch’io vegna, questo a te fia chiaro 70 
ora per me: Antedamas m’è detto”. 
Cosí rispuose e fummi non avaro. 
“Ma tu chi se’, che vai cosí soletto 
con un compagno per questo cammino, 
ch’è pien d’ogni paura e di sospetto?” 75 
“Io mi son un che vado pellegrino 
cercando il mondo, per essere sperto 
d’ogni sua novitá e qui non fino”. 
“L’impresa lodo, disse; ma per certo 
troppo è grave e lunga la fatica, 80 
se per grazia del Ciel non t’è sofferto”. 
E io a lui: “Tu vedi la formica 
che d’affannarsi la state non cala, 
onde poi il verno vive e si nutrica. 
E, per contraro, vedi la cicala, 85 
che canta e di sua vita non provede, 
trista morir come la state cala. 
Folle è colui e poco innanzi vede, 
che vive per pappare e per dormire 
se pregio dopo morte aver si crede. 90 
Per gravi affanni e lungo sofferire, 
per non temer ne’ bisogni la morte, 
può l’uom vita acquistar dopo il morire. 
Nel Sommo Bene e ne la sua gran corte 
ho tanta fede, che, per grazia, spero 95 
fornir la ’mpresa ch’a te par sí forte”. 
Cosí parlando, trovammo un sentero 
su per lo quale Antedamas si mise 
con dir: “Questo è piú presso e piú leggero”. 
Non molto andammo per quelle ricise, 100 
che noi giungemmo a una cittade, 
la qual veder mi piacque per piú guise. 
Larghe, diritte e lunghe avea le strade, 
i casamenti a volte e alti tanto, 
che m’era gran piacer tal novitade. 105 
E cosí, ricercando d’ogni canto, 
venimmo a un palagio grande e bello, 
con ricche mura e forte tutto quanto, 
posto in forma d’un nobile castello. 


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Ultimo Aggiornamento:
14/07/2005 23.42