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La biblioteca di Babele
CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA


Il Dittamondo
di: Fazio degli Uberti 

LIBRO PRIMO 

Capitoli XIV - XXVI



CAPITOLO XIV 
Sol per l’agurio d’una porca bianca, 
che con trenta porcelli apparve dove 
Alba s’edificava, il nome abbranca. 
Qui puose il suo diletto piú ch’altrove 
Ascanio e capo ne fe’ del suo regno, 
che poi fu ricca, bella e d’alte prove. 
Otto anni e trenta costui re disegno 
e, dopo lui, seguí Silvio Postumo, 
del qual ti dico ch’assai ne fu degno, 
perché non men del suo fratel l’allumo 
di gran franchezza e di nobile core 
e d’ogni onesto e cortese costumo. 
Molte battaglie fe’ per suo valore 
e molto somigliò il padre Enea; 
nove e venti anni visse in tanto onore. 
In questo tempo in Grecia vivea 
Codrus che corse a la morte d’involo, 
per dar vittoria a quei che seco avea. 
Non fece piú ardendo nel lenzuolo 
Giano per me né col fiero coltello, 
che Codrus dico a scampo del suo stuolo. 
In questo tempo, che qui ti novello, 
Samuel a Saul il regno promise, 
quando a lui gio per trovar l’asinello. 
E poi che morte il primo Silvio uccise, 
Silvio Enea ne rimase reda, 
che molto studio, poi, in esso mise. 
D’ogni valor la sua vita correda; 
un anno e trenta tenne al suo dimino 
lo regno tutto, per quel che si creda. 
Seguio apresso Silvio Latino 
e, nel suo tempo, Andronico visse 
che d’Efesus onora il suo cammino. 
E per Filisto Africano si scrisse 
che ’n questo tempo fu fatta Cartago 35 
per Carchedone e Zaro: cosí disse. 
Giustin con lui non s’accorda d’un ago, 
ma dice Dido fu, la qual nel foco 
entrò per guardar fè al primo vago. 
E da questi si parte piú che poco 40 
Vergil, che conta come Dido tenne 
Enea nel letto e come fe’ quel loco. 
Or non so io ben dir de le qua’ penne 
uscí piú il ver, perch’io non era al mondo, 
come tu puoi veder, quando ciò venne. 45 
Chi tien l’opinione del secondo 
di questi che ti nomo e qual del primo; 
ma i piú del terzo, perch’è di piú pondo. 
Tu vedi ben cosí com’io ti limo 
il tempo, a passo a passo digradando 50 
per venir del tuo prego tosto a imo. 
In questo tempo, che qui vo notando, 
Gad e Natano, lucidi nel vero, 
molte cose mostrar profetizzando. 
E David in Giudea l’ardito e fero 55 
giogante Golia avea giá morto 
ed era re di tutto quello impero. 
Venti e trenta anni costui, ch’io t’ho scorto, 
visse signore e apresso seguio 
Alba Silvio prudente e accorto. 60 
Costui fu sempre, per quel ch’i’ udio, 
a guardia del suo regno franco e presto, 
cortese ai buoni e reo a ciascun rio. 
Nove e trent’anni visse assai onesto 
e fessi Samnis allor, per che in guerra 65 
piú tempo fui, sí come è manifesto. 
E poi che morte le sue luci serra, 
Silvio Egitto, apresso, mi prese 
a governare tutta la sua terra. 
Venti quattro anni visse nel paese; 70 
ma quando a Lachesis mancò del lino, 
Silvio Capis al bel dominio intese. 
Capova fe’ costui al suo dimino; 
otto anni e venti tenne il reggimento; 
giusto si vide e con dolce latino. 
Seguio apresso lui Silvio Carpento, 
che tredici anni il regno poi governa 
sí ben, che ’l popol suo ne fu contento. 
Ma qui è bel ch’io ti mostri e dicerna 
quante Sibille funno e ’l tempo e ’l dove, 80 
sí che n’allumi ancor la tua lucerna. 
Diece ne fun, che fêr di lor gran prove: 
Cassandra, del re Priamo, fu l’una, 
che mal negò la sua promessa a Giove. 
Questa ai Troian dicea lor rea fortuna. 85 
Ma a qual giovava ciò? via men ch’al folle, 
che corre al monte per prender la luna. 
Rotte le funno l’ossa e le merolle 
per dire il vero, secondo che udio; 
e cosí va, quando vuoi Chi ciò volle. 90 
Ben vo’ che noti e scrivi, figliuol mio, 
e per Priamo facci di ciò prova, 
che contro a l’ira e ’l giudicio di Dio 
ricchezza, senno e franchezza non giova 94 

CAPITOLO XV 
La Delfica Sibilla a Delfos nacque, 
la qual, piú tempo innanzi al mal di Troia 
profetizzando, il suo dolor non tacque; 
e vide ancor come la nostra gioia, 
dico Cristo, venir qua giú dovea 5 
a soffrir morte, per trarne di noia. 
Fu la Cumana, che condusse Enea 
per lo ’nferno, a veder di ramo in ramo 
quel frutto che di lui seguir dovea. 
Persica l’altra, e io cosí la chiamo, 10 
nomare udio e ragionar di lei 
che non men vide che quella di Priamo. 
Nel tempo di Silvio Carpento costei, 
re degli Albani, ch’io contai di sopra, 
alluminò di sé Persi e Caldei. 15 
Seguita or la quinta ch’io ti scopra: 
questa, nel tempo che Numa Pompilio 
regnava, dimostrò la sua bell’opra. 
Tanto visse, se è nel ver Virgilio, 
che morí Numa e tenne la corona, 20 
come udirai piú innanzi, Tullio Ostilio. 
Questa, ch’io dico, nacque in Babilona: 
Eritrea si nomò e lá fiorio, 
come per chiara fama si ragiona. 
La sesta Samia nominare udio, 25 
over Beneventana, e questa assai 
profetizzando disse l’esser mio. 
Ne gli anni suoi, apresso mi trovai 
Tullio Ostilio, il quale visse meco 
sí ben, per suo valor, ch’assai l’amai. 30 
Ancor nel tempo, ch’a mente ti reco, 
de la Cimera i piú parlare udia, 
ché la grazia del cielo era giá seco. 
Cacciati i re de la mia signoria, 
sentia de l’Amaltea ragionare 35 
e ricordare alcuna profezia. 
La Pontica sopra il Pontico mare 
apparve al tempo ch’Alessandro visse 
e questa udio tra’ miei molto lodare. 
Ma quella che piú altamente scrisse 40 
la Tiburtina fu, ch’a Ottaviano 
chiaro di Cristo la venuta disse. 
Quei versi che ne fe’ qui non ti spiano; 
la Chiesa i canta al tempo de l’Avvento: 
se veder li vorrai, tu gli hai tra mano. 45 
Or vo’ tornare al mio proponimento 
e seguir oltra la mia lunga tema, 
dove lasciai di Silvio Carpento. 
Dico che, poi che ’l mondo di lui scema, 
Tiberio, il suo figliuolo, il regno guida 50 
sí ben, ch’alcun per forza non istrema. 
E, secondo ch’ancor la fama grida, 
Albula, che allor perdé il suo nome, 
di costui fu sepultura e micida. 
Otto anni tenne d’Alba il dolce pome; 55 
poi, dopo lui, Silvio Agrippa regna, 
che ben prender lo seppe per le chiome. 
Al tempo suo la chiara luce e degna 
d’Omero risprendea poetando, 
secondo che Ieronimo disegna. 60 
Venti e venti anni potean esser, quando 
questo signor, del quale ti ragiono, 
morte li tolse d’Alba ogni comando. 
Or, volendo seguir, sí come io sono 
venuta in fin a qui, l’un dopo l’altro, 65 
Aremol dopo di costui ti pono. 
Fiero fu in arme, ardito e molto scaltro, 
crudele e vago d’occupar l’altrui 
e ’l suo non dare, se potea far altro. 
Io ero ancor donzella, quando fui 70 
subitamente assalita e rubata 
con tutta la sua forza da costui. 
Ma tanto ti vo’ dire, e tu ci guata: 
ch’ogni crudele, ogni superbo aspetta, 
dato il denar, ricever la derrata. 75 
Costui, che ’n questi vizi si diletta, 
nel suo palagio fu con sua famiglia 
fulminato dal ciel d’una saetta. 
Ma ciò che val? ché asempro non si piglia 
da tai giudicii e la piú parte ancoi 80 
un Capaneo o un Neron somiglia. 
Venti e nove anni visse costui, poi 
ch’ebbe la signoria al suo dimino: 
cosí si scrive e dicesi fra noi. 
Apresso lui Silvio Aventino 85 
lo regno prese e qui misura e peso 
prima fu dato a ciaschedun Latino. 
Ben fu per lui il paese difeso; 
sette e trent’anni visse in sua possanza; 
d’Aremol nacque, ch’io nomai testeso. 90 
La sepultura sua tanto li avanza, 
perché diè ’l nome a un de’ miei bei monti, 
che in perpetuo fia la nominanza. 
Apri gli orecchi e tienli attenti e pronti 
a quel ch’or dico, sí che se giá mai 95 
ne parli con altrui, che ’l ver ne conti. 
Un fratello ebbe questo re, assai 
cortese e prode: Iulio Probo dico, 
avol di Iulio Proculo, ch’io amai. 
Di qui deriva poi quel nome antico 100 
de’ Iulii, che nel mio grembo tenni, 
ai quali vidi il ciel giá molto oblico 
e talor dritto come stral che ’mpenni. 

CAPITOLO XVI 
Soppellito Aventin dove hai udito, 
prese Silvio Procas la signoria, 
che fu bisavo al mio primo marito. 
Or qui di grado in grado par che sia, 
parlando, iscesa dove a Orosio piace 5 
prender principio de la storia mia. 
In questo tempo appunto per Arbace 
la monarchia giú cadde de li Assiri, 
che fu sí grande al mondo e tanto aldace. 
Onde, se ben dirittamente miri, 10 
conoscer puoi ch’allor la mia s’avanza, 
che quella cadde a gli ultimi sospiri. 
Tre anni e venti tenne la possanza 
d’Alba costui con tanto valore, 
ch’assai ne prese il popol suo baldanza. 
Due figliuoli ebbe e l’un fu Munitore, 
Amulio l’altro; ed al primo scadea 
la signoria, però ch’era il maggiore. 
Ma non andò cosí, come ir dovea, 
ché Amulio a Munitore tolse il regno, 20 
e tolse la sua figlia Silvia Rea. 
Poi, sí come uomo d’ogni vizio pregno, 
a la dea Vesta la vergine diede, 
perché di lei mai non fosse sostegno. 
Ma nota, figliuol mio, che non procede 25 
le piú volte cosí a l’uom la cosa, 
come nel suo pensier ragiona e crede. 
Dico che, stando ne l’ordine ascosa, 
due figliuoli ebbe, come che si scriva, 
da cui non so, ma bei quanto una rosa. 30 
Gittar li fece lungo la mia riva 
questo crudele, avolti ne le fascia, 
e lei ancor soppellir viva viva. 
L’opinione in fra gli autori lascia 
se funno o no lattati da una lupa, 35 
ché d’altro cibo convien ch’io ti pascia. 
Cosí l’avaro e il crudele occupa 
lo regno tutto; ma, se guardi bene, 
la fine, se mai fe’, fu rea e strupa. 
Qui di Saturno e Laius mi sovene, 40 
che mandâr per morire i lor due figli, 
dai quai sentiron poi tormenti e pene. 
Folle è qual crede che, per suoi consigli, 
rimuover possa l’ordine del cielo, 
se non con santi preghi in che vigigli. 45 
Cresciuti i due gemelli e messo il pelo 
e stando coi pastori a la foresta, 
tenean di signoria costumi e stelo. 
Un dí, siando insieme a una festa, 
fu preso l’uno e al suo zio menato; 50 
l’altro fuggí per tema de la testa. 
Ma vedi: spesso avièn ch’uomo è turbato 
di cosa e piange perché li è contrara, 
che poi li torna in grandezza e in istato. 
Similemente a costui parve amara 55 
la sua presura e dove temea forte 
li tornò poi in dolce cosa e cara: 
ché per questa cagion fun grandi in corte 
con Munitore e vendicaro ancora 
la madre lor de la spietata morte. 60 
Cotale posso dir ch’era io allora 
qual è il pomo maturo in su la rama, 
che poi si guasta, se piú vi dimora. 
Ora il cielo, che ogni cosa chiama 
a ordinato tempo, li suoi lumi 65 
volse vèr me, per darmi onore e fama. 
E i due gemelli, che per bei costumi 
nomar potrei Castore e Polluce 
e di beltá, per quel ch’aviso, lumi, 
s’innamorâr de la mia bella luce. 70 
Ma l’un fu morto e qui si tace il come; 
l’altro rimase sol signore e duce. 
Dal nome di costui presi il mio nome; 
e certamente il primo sposo fue, 
che sentisse il piacer del mio bel pome. 75 
Piú e piú gioie portai de le sue 
e, in fra l’altre, una maggior cintura 
che Dido non fe’ far del cuoio del bue. 
Pensa al mondo non è cosa sicura; 
e folle è qual ci crede fermo stato, 80 
ché quel ch’è piú è pien d’ogni paura. 
Questo marito mio, ch’i’ t’ho contato, 
essendo presso a Caprea, al palú, 
apparve un tempo con vento turbato. 
Tonando, la tempesta cadde giú; 
e, come che rapito o morto fosse, 
per me da poi non si rivide piú. 
Se di lui m’arse il core e se mi cosse 
pensar lo dèi, ch’a dirlo mi sarebbe 
rinnovellare un duolo a le mie osse; 90 
e dir non tel saprei, sí me ne increbbe. 

CAPITOLO XVII 
Da Dio dico che vien ciascuna grazia, 
allor ch’io penso nel principio mio 
come fu poco e poi quanto si spazia. 
Questo mio bene e questo mio disio 
fu ne la vita sua sí fatto e tale, 5 
che ciascun mio l’avea per un iddio. 
Per povertá ch’avesse o alcun male, 
com’i’ t’ho detto, essendo pastore, 
non perdé mai l’animo reale; 
ma del poco ch’avea facea onore 10 
a’ suoi compagni ed era tanto giusto, 
che lo tenean come lor signore. 
Bel fu del volto, di membra e del busto, 
forte, leggero e di grande intelletto 
e temperato molto nel suo gusto. 15 
E poi che di me amar prese diletto, 
caldo né freddo né pioggia d’autunno 
il tenne un dí a far mio pro nel letto. 
Per gran disdegno, le Sabine funno 
per lui rapite d’una e d’altra terra, 20 
a la gran festa fatta di Nettunno. 
Per questo, se la mente mia non erra, 
tanto dolor ne gli offesi s’impetra, 
che qui mi cominciâr la prima guerra. 
Il mio signor, che ’n ciò mai non s’arretra, 25 
Macrone uccise e la sua spoglia offerse 
a Iuppiter, che nominò Feretra; 
e le cittá, ch’eran tanto diverse 
e di me schife, a la mia signoria, 
per sua vertú, sottomise e converse. 30 
Per doni e per promesse fu Tarpia 
condotta a me tradir; ma, ne la fine, 
il danno fu pur suo, s’ella fu ria. 
Vidi col pianto le donne Sabine 
de’ padri e de’ mariti far la pace 35 
e i due farsi uno ne le mie confine. 
Ingrato è ben colui, a cui l’uom face 
onore e pro, e pien di gran superba, 
se il beneficio ignora e s’ello il tace. 
Dico ch’io era tra questa gente acerba, 40 
quando m’apparve questo signor degno, 
qual è l’agnel senza pastore a l’erba. 
E cosí ’l ciel, ch’era gravido e pregno 
per farmi donna a governare il tutto, 
costui elesse a cominciare il regno. 45 
Pensa s’i’ era allor di poco frutto: 
ché, per necessitá, fe’ nel mio sito 
la casa di rifugio e di ridutto. 
Morto costui, cosí come hai udito 
di sopra dirmi, de la morte ascosa 50 
diverse opinion ne fu sentito. 
Ma quello, in che la gente piú riposa, 
Proculus fu, il qual parlò da poi, 
al qual dien fede piú ch’ad altra cosa. 
“E’ m’ha detto, diss’el, ch’i’ dica a voi 55 
che, senza fallo, il mondo sarebbe 
di Roma tutto e acquistato per noi. 
E poi che ragionato cosí m’ebbe, 
sopragiunse: – Dirai ch’egli usin l’armi 
contro a le quali niun valer potrebbe –. 60 
Dal ciel discese per annunciarmi 
ciò ch’io v’ho detto; e poi al cielo ancora 
che ritornasse in fra le stelle parmi”. 
Per questo, in pace il popol mio dimora, 
che contro ai senatori era sdegnato: 65 
e nominato fu Quirino allora. 
Perché tu veggi ben ciascun mio stato, 
notar ti vo’ dal principio del mondo 
quel tempo ch’era in fine a qui passato. 
E ciò da me non dico, ma secondo 70 
Orosio, che gli ha partiti e distinti 
e compreso n’ha il vero in fin al fondo. 
Lustri ottocen settanta sei e vinti 
eran passati e cotanto piue 
quanto tu sai che d’un fa quattro quinti; 75 
ed eranne da ottanta otto e due 
da l’arsion di Troia in fino a me, 
se quarant’otto mesi vi pon sue. 
E questo primo mio marito e re 
da due e mezzo visse meco e stette 80 
(or pensa quanto bene in poco fe’) 
e forse ancora un mezzo men di sette, 
dal giorno che di Fausto Laurenza 
li fe’ sentire il mel de le sue tette, 
in sino al fine che l’alta Potenza, 85 
com’hai udito, lo trasse suso al cielo, 
i’ dico a la sua quinta intelligenza, 
lá dove il padre con benigno zelo 
racchiuse lui ne le sue ardite braccia 
e ricoperse col suo caldo velo, 90 
sí che poi non sentio freddo né ghiaccia. 48 

CAPITOLO XVIII 
Ben hai udito brevemente i casi: 
come donzella fui e venni sposa 
e come poi vedova rimasi. 
Tal era io allor, quale una rosa 
ch’apre le foglie e si fa d’ora in ora 
a gli occhi altrui piú bella e piú formosa. 
Numa Pompilio di me s’innamora, 
lo qual del mio piacer tanto fu degno, 
quanto alcun altro ch’io sapessi allora. 
Venti e venti anni e due tenne il mio regno 
con tanta pace, che, quando vi penso, 
ancor per maraviglia me ne segno. 
A far nobili templi puose il senso, 
a ciò che quivi fosson venerati 
tutti i suoi dei con mirra e con incenso. 
Magico fu e ne li scongiurati 
dimon credette, sí che dopo morte 
nel suo avello i libri fun trovati. 
Giustizia tenne viva, ferma e forte; 
piú leggi fece e presene d’altrui, 
le quali onorâr lui e la mia corte. 
Pomponio fu il padre di costui: 
dico Sabino e di Tazio parente, 
dal quale offesa e poi servita fui. 
Questo mio sposo fu tanto intendente, 
che per trovar Pitagora si diede, 
lo qual solo a natura puose mente. 
Ad Acronia passò, la qual si crede 
ch’Ercules fosse cagion del suo sito 
e per Ovidio ancor se ne fa fede. 
Visse signore il tempo c’hai udito; 
morio di morbo e in Gianiculo monte 
fu con gran pianto apresso soppellito. 
Chiusa nel manto e ’l vel sopra la fronte, 
nascosa Egeria a la selva sen gio, 35 
dove Diana la converse in fonte: 
e ben che questa trasformasse in rio, 
assai mi parve minor maraviglia 
che quando Ersilia suso al ciel salio. 
Asciutti gli occhi tristi, e le mie ciglia 40 
nel pianto doloroso, Tullio Ostilio 
vago di me per sua donna mi piglia. 
E se con pace m’accrebbe Pompilio, 
costui con guerra; e dritto assai gli avenne, 
sí destro il vidi e di fermo consilio. 45 
Tanto fu fiero e aspro in arme, che nne 
piansono i Fidenati alcuna volta, 
che contro a lui aperte avean le penne. 
La guerra incominciò acerba e folta 
contro gli Albani e Mezio lor signore 50 
per poca cosa, dico, e non per molta. 
Qui fu l’aspra battaglia e ’l gran dolore 
da tre a tre e Tito Orazio solo 
allora mi tornò l’anima al core. 
Chi ti potrebbe dire il pianto e ’l duolo 55 
del vecchio padre, che, dopo i tre morti, 
vide a morte dannar l’altro figliuolo? 
Ben den, come qui Tullio, essere accorti 
i gran signor: cioè che la pietade 
talor chiuda a giustizia le sue porti. 60 
Costui vid’io di tanta nobiltade, 
che primo usò corona e real vesta 
ch’altro Latino e simil dignitade. 
Costui in sul Po, dove ancor par la testa, 
fe’ la cittá d’Ostilia bella e cara: 65 
la fama il grida e ’l nome il manifesta. 
Con gli occhi tristi e con la bocca amara 
cacciò i Sabini al malizioso bosco, 
i quali contro a lui preso avean gara. 
E tanto fu mortale ancora il tosco 70 
lo quale ai Veienzii fe’ sentire, 
che ’l color ne cambiâr di vivo in fosco. 
L’abitar suo, com’hai potuto udire, 
in Velia fu e lá di ricche mura 
fe’ un palazzo, ch’assai n’avrei a dire. 75 
Molto ebbe, in fin che visse, di me cura 
e, non meno che ’l mio secondo sposo, 
accrebbe con beltá la mia cintura. 
Di Mezio re ancor prendo riposo 
che squartar fe’ e disfar la sua schiatta, 80 
perché di lui tradir era stato oso. 
L’anima al fin del corpo li fu tratta, 
dove star si credea più sicuro, 
da folgor, che per l’aire si baratta. 
E se qui il tempo a punto ben misuro, 85 
due anni e trenta avea dal dí ch’io ’l tolsi 
a quel che venne sí turbido e scuro. 
Certamente di lui tanto mi dolsi 
quanto donna de’ far di buon marito; 
e non sola io vestire a ner mi volsi, 90 
ma ’l popol mio, sí ne ’l vidi smarrito. 

CAPITOLO XIX 
Veder ben può qual nel mio dir si specchia 
che, quando piace al Ciel che alcun sormonti, 
ch’ogni argomento al salir li apparecchia; 
e, poi che vuol che giú trabocchi e smonti, 
li truova tanti ingegni da cadere, 5 
che nulla par, ch’a ciò, difesa monti. 
Ne’ miei primi anni, come puoi vedere, 
multiplicava in me di giorno in giorno 
senno, valore, bellezza e podere 
ed e converso; ma qui lascio e torno 10 
a la mia tema. Morto, com’hai udito, 
costui, piacque al consiglio mio d’intorno 
ch’i’ non dovessi star senza marito: 
e cosí Ancus Marzio mi trovaro, 
gentil di sangue, prudente e ardito. 
Quattro anni e trenta fe’ meco riparo 
e, poi ch’io ebbi il suo valor provato, 
di starmi seco molto mi fu caro. 
Sicuro e dolce tenne lo mio stato 
e fece un ponte far sopra il mio fiume 20 
di pietra, tal ch’assai ne fu lodato. 
E se i tre primi preson per costume 
d’adornar me e la cintura mia, 
non men costui in questo vide lume. 
E stato per un tempo in signoria, 25 
la cittá d’Ostia sopra la mia foce 
fabbricar fe’, che mur non avea pria. 
Molto era grande de’ Latin la voce 
e molto acerbi e duri i vicin loro, 
quando trovâr costui aspro e feroce. 30 
I Nomentani, fieri piú che ’l toro, 
ch’erano per mio danno raunati, 
vincendo sperse via di foro in foro. 
Li boschi comandò esser guardati 
per lo navilio e ordinò che fosse 35 
luoghi al mare per far del sal trovati. 
Al fin di morbo la morte il percosse; 
in Sacra via visse e ancor quivi 
lo vidi seppellire in carne e in osse. 
E poi che gli occhi miei de’ suoi fun privi, 40 
Tarquino Lucio Prisco a sé mi prese, 
cosí com’Ancus volse e piacque ai vivi. 
Otto anni e trenta al mio onore intese 
e vo’ che sappi che, per adornarmi, 
assai vie piú ch’alcun de’ primi spese. 45 
Ricchi difici e grandi fece farmi: 
per ch’io d’alcuno ragionar ti voglio, 
ch’a lui fe’ onore e a me anco, parmi. 
I’ dico che il mio nobil Campidoglio 
fabbricar fece, il qual per una testa 50 
lo nome prese e segno fu d’orgoglio. 
Un altro ancor da sollazzi e da festa 
ne fece fare e questo fu sí vago, 
ch’alcun dicea: che maraviglia è questa! 
Ancor, per portar via il fango e ’l brago, 55 
per le mie strade chiaviche fe’ fare, 
che molto a tutti i miei fu grande appago. 
Quel ch’or dirò è bello da notare: 
costui fu greco e la fortuna il porta 
con la sua donna meco ad abitare. 60 
E come entrava dentro a la mia porta, 
l’aquila scese e trassegli il cappello, 
e con gli artigli su ne l’aire il porta. 
Poi si calò e ritornò ad ello 
e su la testa sí ben gliel rimise, 65 
che ne fece ammirare e questo e quello. 
Di questo Tanaquil verso lui rise 
sí come quella che grande speranza 
nel bell’augurio, ch’ella vide, mise. 
Fiero fu in arme e pien di gran possanza 70 
e vago d’allargar le mie confini, 
largo, intendente e di cortese usanza. 
Costui vittoria prese de’ Latini; 
costui a’ Toschi molte cittá tolse; 
costui fe’ pianger piú volte i Sabini. 75 
Costui fu il primo che trionfo colse 
e che ’l numero del Senato accrebbe 
e ’n sul Tevere un ponte in archi volse. 
A costui tanto di Servio increbbe 
veggendolo in servaggio con la mamma, 80 
che con molto piacer lo tenne e crebbe. 
Al qual, fanciul, fu vista una gran fiamma 
sopra la testa, essendo ne la cuna: 
arder parea e non l’offese dramma. 
Del bell’annuncio di buona fortuna 85 
la madre sua prese tal conforto, 
quanto facesse mai di cosa alcuna. 
Ma, lassa!, questo mio marito morto 
fu nel palagio suo a tradimento, 
del qual gran doglia ne portai e porto 90 
ancora, quando di lui mi rammento. 

CAPITOLO XX 
Pianto quasi non è senza singhiozzo, 
né quello che non rompa la parola: 
e ciò mi scusi, quando parlo mozzo, 
però che la mia doglia non è sola; 
anzi, parlando teco sí s’addoppia, 5 
ch’a lo sfogar s’annoda ne la gola. 
Sei mariti ebbi e si puon dir tre coppia 
sí di valor che, quando il penso, parmi 
gran maraviglia che ’l cuor non mi scoppia. 
Servio Tullio fu il sesto, del qual farmi 10 
conviene ora menzion, cui vidi ognora 
di gran consiglio e proveduto in armi. 
Tanto li piacqui e tanto me onora 
ne la sua vita, che, quando vi penso, 
come tu vedi, ne lagrimo ancora. 15 
Costui fu ’l primo che volse che il censo 
si dovesse pagar nel regno mio, 
ché ancor di ciò non era alcun compenso. 
Costui, sí come gli altri miei, fiorio 
dentro e di fuor sí ben la mia cintura, 20 
che lodar poi piú tempo ne l’udio. 
Dove ora addito e tu, figliuol, pon cura: 
signoria, dico, non fu mai né fia 
senza colpo di morte o gran paura. 
Ahi, lassa me!, ch’ancor par che mi sia 25 
un ghiado fitto per mezzo del core, 
pensando qual fu la disgrazia mia. 
Dico che, standomi io col mio signore, 
tradito e morto fu. E da cui? Sola-
mente da quelli in cui avea l’amore. 30 
L’un fu la dispietata sua figliola 
ch’un’altra Silla si potrebbe dire, 
dietro da cui ancor lo smerlo vola; 
l’altro, il marito; e cosí puoi udire 
che, per esser signori del mio in tutto, 35 
costui, ch’era lor padre, fen morire. 
D’amaro seme nasce amaro frutto 
e cosí di mal far si vede ancora 
ch’a la fine ne segue pianto e lutto: 
ché ’l ciel per certo pognam che talora 40 
s’indugi, al parer nostro; giá pertanto 
a far del mal vendetta non dimora. 
Venti e venti anni e piú due cotanto 
meco era stato, allora che ’l Superbo 
Tarquin condusse il mio diletto in pianto. 45 
Cosí mi prese a ’nganno questo acerbo, 
lo qual piú crudo a dí a dí mi fue, 
che tu non m’udrai dire a verbo a verbo. 
A far prigion fur l’inventive sue, 
a trovar nuove morti e fier tormenti, 50 
perché la gente spaurisse piue. 
A forza e con sagaci tradimenti 
Sesto, il figliuolo, giacque con Lucrezia, 
gentil di sangue e ricca di parenti. 
Questa, per tôrre via ciascuna spezia 55 
di scusa a l’altre, a sé la morte diede, 
che fu cagion da poi di molte screzia. 
Sopra ’l sangue innocente giurâr fede 
Spurio, Publio, Collatino e Bruto 
di consumar Tarquino e le sue rede. 60 
E questa è la cagion che ricevuto 
non fu, tornando d’Ardea, a star meco 
e che ’l nome reale fu abbattuto. 
In guerra funno i miei gran tempo seco: 
lungo sarebbe a dir che di ciò nacque, 
per ch’io abbreviando il vo qui teco. 
Ma ’l vero è questo: che tanto mi spiacque, 
che, per forza ch’avesse di Toscana, 
giá mai da poi nel mio letto non giacque. 
Cosí crudele e di natura strana 70 
costui trovai, quanto in tutti i suoi mali 
colui mi fu che parturio la rana. 
Dei miei sposi hai bene udito quali 
e quanti funno; or segue ch’io ti dica 
di quei figliuol, che piú m’apriron l’ali. 75 
Ma, per alleviarti la fatica, 
se ’l volessi saper, dirò pria come 
era, nel tempo ch’io ti conto, antica. 
Dal dí, che preso avea il mio bel nome, 
in fin a quello ch’io fuggio costui, 80 
al qual, come udito hai, negai ’l mio pome, 
quaranta quattro e dugento anni fui 
con questi miei mariti; e sappi ch’io 
poco era nominata ancor d’altrui. 
Vero è che, sopra ogni altro gran disio, 85 
era di fare sí, per mia vertute, 
che ’l mondo fosse tutto al voler mio. 
Per acquistar tanto degna salute, 
molto di sangue sparsi in su la terra 
per battaglie, che fun vinte e perdute, 90 
come tu dèi saper che va di guerra. 

CAPITOLO XXI 
Apresso queste cose, ch’io t’ho detto, 
li miei figliuol due consoli ordinaro 
e fra tutti fu Bruto il primo eletto; 
poi, l’altro, Collatino, a cui amaro 
lo soprannome suo li costò tanto, 
che lasciò me e fece altro riparo. 
A questo Bruto mio dar posso vanto 
che mi guidò sí bene in pace e ’n guerra, 
che degno fu d’avere il primo manto. 
E se l’opinione mia non erra, 
di me prese speranza in fin d’allora 
che innanzi a Apollo giú basciò la terra. 
Del suo valore è da parlare ancora, 
pensando a la giustizia de’ suoi figli 
e come, al fine, sé e me onora. 
E se di lui mai con altri pispigli, 
dir puoi ch’un anno il piansi a gran dolore, 
vestita a brun con tutti i miei famigli. 
Un poco apresso ordinai dittatore: 
Largio fu il primo e sí fatta bailia 
a chi l’avea si potea dir signore. 
Similemente a Spurio diedi in pria, 
perché era franco e giusto e con misura, 
ch’ammaestrasse la milizia mia. 
Non c’è chi ponga a Publicola cura, 
ch’avendo speso il mio per lungo spazio, 
non si trovò da far la sepultura. 
Per quel che fece sopra il ponte Orazio, 
onorai la sua imagine da poi 
e donai terra, onde assai ne fu sazio. 
Il magnanimo Muzio saper puoi 
ch’al fuoco fe’ de la man sacrifizio, 
onde ’l suo campo il testimonia ancoi. 
E per l’onor che rendeo al mio ospizio 
la vergine Cloelia, in via sacra 
merito n’ebbe d’alcun benefizio. 
Per Coriolan venia dolente e macra, 
quando Vetura li rivolse il tergo, 
con preghi raffrenando la voglia acra. 
Piú difesono allora il mio albergo 
le femine vestite dentro a’ panni, 
che gli uomini armati ne lo usbergo. 
O cari Fabii miei, con quanti affanni 
sofferiste il martir, ch’io piango spesso 
pensando al valor vostro e a’ miei danni! 
Quasi nel tempo ch’io ti conto adesso, 
ai miei bisogni apparve Cincinnato, 
dal qual mi vidi amar quanto se stesso. 
Qui passo a dirti come fu trovato 
al campo suo e come si divise 50 
da’ buoi, dal pungiglione e da l’arato. 
Tal fu Virginio, che la figlia uccise, 
per che l’onor de’ Diece venne meno 
e Appio scelerato non ne rise. 
Ma perché piú e piú discordie feno 55 
i grandi con la plebe, nel mio dire 
intendo a ciò tenere stretto il freno. 
Con grande onore a me vidi reddire 
Aulo Cornelio, da poi ch’egli ebbe 
morto Tolonio e i suoi fatti fuggire. 60 
E tanto senza pioggia allora crebbe 
il lago d’Alba sopra ogni cammino, 
ch’a vederlo ora un miracol parrebbe. 
Per questo mandai io ad Apollino, 
dubitando che annunzio non fosse 65 
pericoloso ad alcun mio destino. 
Un poco apresso, Brenno mi percosse 
lá sopra d’Allia e tal fu la vittoria, 
che mi spolpò la carne in fino a l’osse. 
Camillo è degno qui d’alta memoria, 70 
perch’allor mi soccorse e saper dèi 
che fu il secondo Romul che mi storia. 
Ahi quanto, lassa!, pianser gli occhi miei 
per la pietá dei buon, che sui gran seggi 
fun morti, quasi in abito di dei! 75 
E perché chiaro di Camillo veggi 
il magnanimo core e i grandi acquisti, 
voglio che in Livio e in Valerio leggi. 
Or se per Bruto gli occhi miei fun visti 
pianger quando morio, pensar ben puoi 80 
che non men per costui lagrimâr tristi. 
La terra aperse non molto da poi, 
ne la qual Marco Curzio entrò armato 
per suo valor, per campar me e i suoi. 
Per quel che con la lancia fe’ Torquato, 85 
Valerio con la spada e col suo corbo, 
fu a ciascuno il soprannome dato. 
O Melio ardito e pro, come fosti orbo 
nel gran volere, allor che dittatore 
Tito fu fatto per tuo tristo morbo! 90 
E Manlio fu sí forte e d’alto core, 
che comandò che il figliuol fosse morto, 
perché ’l disubbidio con farsi onore. 
E Decio, in arme e in consiglio accorto, 
del bue dorato e de le due corone 95 
trionfai giá con allegro conforto. 
Costui fu tal, ch’avendo in visione 
veduto la sua morte, per mio scampo 
s’offerse a lei come fedel campione. 
Cosí ’l figliuol tra’ nemici in sul campo 100 
chiamò li dii d’inferno e morir volse, 
sí come il padre. Or pensa s’io avampo 
e se, quando morîr, di lor mi dolse. 

CAPITOLO XXII 
Tu puoi comprender ben sí come vegno 
digradando il mio tempo a passo a passo, 
confiorendo de’ miei alcun piú degno. 
Era lo stato, ch’avea allor, sí basso, 
ch’oltra i due mari e ’l giogo d’Apennino 5 
poco il mio nome facea ancor trapasso, 
perché l’invidia di ciascun vicino 
e Sanniti e Latin davano ingombro 
al bene, in ch’io sperava per distino. 
Papir Cursor del suo corpo t’aombro 
forte, leggieri e d’animo sí magno, 
che de’ nemici fe’ piú volte sgombro. 
La gran discordia a dirti qui rimagno 
ch’ebbe con Fabio e de’ Sanniti nota 
l’arme, di che giá fece il bel guadagno. 15 
Cosí montava allor su per la rota, 
come si va sul pin di rama in rama: 
bontá de la famiglia mia divota. 
Chi è or colui che ’l suo Comun tanto ama, 
che negasse d’averne signoria 20 
per viver puro e torne altrui la brama, 
come piú volte fe’ d’aver bailia 
Massimo Fabio del mio? E di tal servo 
giusto è che sempre la memoria sia. 
Costui piú volte mise ossa e nervo 25 
per me ed isconfisse il Tosco e il Gallo, 
dopo l’augurio del lupo e del cervo. 
Costui riscosse la vergogna e il fallo 
del suo figliuolo con tanta vittoria, 
ch’io lo rimisi nel suo primo stallo. 30 
E perché noti ben la sua memoria 
Ponzio prese e puose a’ colpi fine 
de’ Sanniti: che fu sí lunga storia. 
In questo tempo le cittá vicine 
quale omaggio mi fe’, qual fu conquisa: 35 
per ch’io piú allargai le mie confine. 
Ma perch’ella non va com’uom divisa, 
quando montar credea di bene in meglio, 
fu con Cecilio la mia gente uccisa. 
Ora, figliuolo, a ragionar mi sveglio 40 
le gran battaglie e come la fortuna 
doler mi fe’ in questo tempo veglio. 
Dico che non per fallo o colpa alcuna 
de’ miei con Taranto incominciai guerra, 
per la qual molte si vestîr di bruna. 45 
Emilio con il fuoco e con le ferra, 
per vendicar lo ricevuto oltraggio, 
corse, in quel tempo, tutta la lor terra. 
Pirro d’Epirro, isceso del lignaggio 
del magnanimo Greco, in loro aiuto 50 
venire vidi e farmi gran dannaggio. 
E credo ben che non avria perduto 
Levino contro a lui, di sopra Liro, 
se avesse a’ leofanti proveduto. 
Non molto poi i miei si partiro, 55 
per vendicare il danno, dal mio ospizio, 
benché pur sopra lor giunse il martiro. 
Qui si convien la luce di Fabrizio, 
che ’l tenne a fren, mostrar ne le parole, 60 
pien di vertú e mondo d’ogni vizio. 
Costui fu tal, che ’n prima avresti il sole 
tratto del suo cammin, che lui avessi 
volto a far quello che onestá non vole. 
Oh, quanto il loderesti, se sapessi 65 
ciò ch’a Pirro rispuose e poi sí come 
mandò il medico preso per suoi messi! 
Veder bramava, per lo molto nome, 
il leofante e ’l gran dificio ch’ello 
portava a dosso, in cambio d’altre some; 70 
quando fu Curio primamente quello 
che, poi ch’egli ebbe Pirro in fuga messo, 
me ’l presentò armato d’un castello. 
Tremò la terra sotto i piedi, apresso, 
de’ Piceni e de’ miei, fatte le schiere, 75 
per che ciascuno spaurio adesso. 
Ma qui è bel d’udire e di sapere 
quel tempo ch’io avea in fino al dí 
che Taranto ai miei fe’ dispiacere. 
Venti sei anni a rilevare un D 
mancavano e tu cosí li nota, 
se con altri di tal materia di’. 
Orribil fiamme e diverse tremota 
si videro e sentîr, per che temenza 
n’ebbe grande di qua la gente tota. 85 
Credo per segno di crudel sentenza 
si vider correr sangue le fontane 
e lupi squartar l’uomo in mia presenza. 
Ora ti vengo a dir le cose strane 
che funno in mare, in terra, e le sconfitte 90 
galliche ed ispagnuole e africane, 
ben che ’n molti volumi siano scritte. 

CAPITOLO XXIII 
Tal era giá in Africa Cartagine, 
che, per tema ciascun de la sua scopa, 
seguiva e onorava la sua imagine. 
E io di qua, ne le parti d’Europa, 
mi vedea tanto grande e tanto cara, 5 
qual donna a cui ogn’altra poi s’indopa. 
Or come sai che le piú volte è gara 
dove poder con gran poder confina, 
mosse guerra fra noi aspra e amara: 
ch’ella volea dominar la marina, 10 
guardar Cicilia, Corsica e Sardigna 
e ogni piaggia che m’era vicina. 
Per ch’io pensai: se costei s’alligna 
sí presso a me, il suo poder fia tale, 
che poco pregiar posso ulivi o vigna. 15 
Onde, per non voler vergogna e male, 
e sí per acquistar onore e pregio, 
la briga impresi, che fu sí mortale. 
Appio Claudio di gran valore fregio: 
tal me ’l trovai contro Annibale il vecchio 20 
e contro a Iero, che m’avea in dispregio. 
Ma poco apresso fe’ grande apparecchio 
questo Annibal e venne a le mie prode 
col ferro in man, col fuoco e col capecchio. 
Cornelio Asina uccise con sue frode; 
e, benché ’l soprannome non sia vago, 
non vo’, però, che ’l tegni di men lode. 
Oh quanto, rimembrando, ancor m’appago 
come con buon volere e gran fatica 
Duilio il sperse per lo marin lago! 30 
E quanto cara m’è, bench’io nol dica, 
de la sua sposa Iulia la risposta, 
che fe’ vèr lui, tanto onesta e pudica! 
E quanto ancor mi piace e mi s’accosta 
Lucio Scipio, quand’io penso ch’Annone 35 
uccise e cacciò i suoi di costa in costa! 
Da gente serva e vil, senza ragione 
una giura fu fatta per rubarmi; 
ma cadde il danno su le lor persone. 
Da notar degno Calpurnio qui parmi, 40 
ch’accorto fu in subito consilio, 
franco, sicuro e valoroso in armi. 
In questo tempo feci il gran navilio: 
Regulo e Manlio funno gli ammiragli 
fra gli altri eletti nel mio gran Concilio. 45 
Non dirò tutto, perché men t’abbagli 
il mio parlar; ma d’Amilcar costoro 
preson vittoria, dopo piú travagli. 
Con molti presi e con ricco tesoro 
Manlio a me tornò e Regul poi 50 
in Africa co’ suoi fece dimoro. 
Costui fu tal, che certo al dí d’ancoi 
il par non troveresti per virtute: 
dico nel mondo, non che qui fra noi. 
Sessanta e tre cittá con piú tenute 55 
prese ed uccise il gran serpente e rio, 
del qual poi vidi il cuoio pien di ferute. 
Qui pensa se fu degno che morio 
di crudel morte; e ciò sostener volse 
per mantener sua fé e l’onor mio. 
Per la vendetta, il mio senato sciolse 
Emilio e Fulvio, che la fecion tale, 
ch’Africa poi piú tempo se ne dolse. 
Allegri e carchi, senza niun male 
reddiano a me, allor che le bianche onde 65 
ruppe ’l navilio con vento mortale. 
Or qui ben puoi veder che non risponde 
ognor la fine come va il principio, 
come ogni albor non frutta che fa fronde. 
Sempronio ancora e Servilio Cipio 70 
tornavan di Cicilia ricchi e carchi, 
quando a Eolo spiacque ciò concipio. 
Per questi dubitosi marin varchi, 
ordinai io al piú per mar tenere 
sessanta legni, a guardar le mie marchi. 75 
Ma quella lupa, che non puote avere 
tanto, che giá mai sazi l’appetito, 
l’ordine ruppe a seguir tal volere. 
E perché forse ancor non hai udito 
del vecchio Annibal quello che ne avenne, 80 
sappi ch’el fu da’ suoi morto e tradito. 
E Asdrubal tanto male si contenne 
contro a Metello Lucio, che, del campo 
fuggendo, ancor da’ suoi morir convenne. 
Ne la Spagna Amilcar l’ultimo inciampo 85 
de la vita sostenne e sí sconfitta 
fu sua gente, che poca ne fe’ scampo. 
Ahi, lassa!, come io fui allor trafitta 
ch’Atilio e Manlio rivolson la poppa 
contro a’ nemici, u’ la proda era ritta! 90 
E lassa!, ché sí il cuore ancor mi scoppa, 
quando ricordo il gran distruggimento 
di Claudio, che al dir la lingua aggroppa. 
Cosí allora allegrezza e tormento 
cambiavan me, come fa gente in mare, 95 
che ride e piange secondo c’ha il vento: 
ché, quando piú fioria per sormontare, 
di subito giungea nova tempesta, 
che ’l passo a dietro mi facea tornare. 
Ma tanta grazia al mio Lutazio presta 100 
il cielo allor, che ristorò le perde 
sopra Cartagine e con lieta festa 
la pace fe’, che poco stette verde. 

CAPITOLO XXIV 
Ben dèi pensar che molto gran letizia 
si fe’ tra’ miei per cagion de la pace, 
ché onor seguia e fuggiami tristizia. 
Ma, perché veggi ben com’è fallace 
e cieca ogni speranza in questo mondo, 5 
di seguire oltra mi diletta e piace. 
Dico in quel tempo morbido e giocondo 
sí vidi inebriare il mio bel fiume, 
che ’l piú de’ miei palagi trasse al fondo. 
Non fece il fuoco di Neron piú lume, 10 
che quel mi fe’ che s’accese in quell’anno, 
né arse piú de le mie belle piume. 
E fu sí grave l’uno e l’altro danno, 
che i Falisci e i Gallici s’ardiro 
d’assalirmi, con darmi molto affanno. 15 
E gli African, che le novelle udiro, 
rupper la pace e denno aiuto a’ Sardi, 
i quai si ribellaro al mio impiro. 
Tito e Gaio, attenti a’ miei riguardi, 
i Falisci sconfisson per tal modo, 20 
ch’assai ne sanguinaro lance e dardi. 
Valerio contro ai Galli acquistò lodo; 
si fe’ Torquato e Atilio Bivolco 
contro ai Sardi, che sempre m’usâr frodo. 
Tanto Marte mi fu benigno e dolco, 
che Lucio Flacco e Lucio Cornelio 
Liguri e Insubri cacciâr fuor del solco. 
Per le vittorie ch’ebbi in ciascun prelio, 
mandò Cartagine a far la disfatta 
pace che avea, non potendo far melio. 30 
Ma, certamente, non l’avria mai fatta 
se sol non fosse la grazia d’un Ano, 
che mai non nacque il par di tale schiatta. 
Allor fu chiuso il tempio di Giano, 
ch’era d’allora in qua stato aperto 35 
che Numa altrui l’avea lasciato in mano. 
In questo tempo ti dico, per certo, 
né gente in mar né cavalier per terra 
si combattean per alcun mio merto. 
Ma come piacque al Sommo, che non erra, 40 
questo cotal riposo durò poco, 
ch’io ritornai a la seconda guerra. 
Vero è che, prima ch’io ti conti il loco 
e i piú nomati d’essa, ti vo’ dire 
cose che funno vere e parran gioco. 45 
Io dico che si videro apparire 
nel ciel tre lune e, dentro a la mia riva, 
aprir la terra e l’uom vivo inghiottire. 
E dico, perché tu altrui lo scriva, 
che piovver pietre dove Ancona è ora 50 
e, in altra parte, carne come viva. 
E già da molti udio contare ancora 
che fu udito favellare un bue 
e – cave tibi, Roma, – disse allora. 
E poi non pur da uno, ma da piue, 55 
si disse che ’n Cicilia avea due scudi, 
de’ quali il sangue uscir veduto fue. 
Ora comprender puoi, se ben conchiudi, 
che minacce del Ciel son questi segni, 
che seguon come stati dolci o crudi. 60 
Ma tanto son bestiali i nostri ingegni, 
che a ciò poco si pensa, e, per tal fallo, 
giungon le pestilenze ai nostri regni. 
Non vo’ piú dare al mio dire intervallo: 
con lieta fronte Emilio trionfai, 65 
quando di me fece mentire il Gallo. 
E Regulo secondo tanto amai, 
quanto può madre amare alcun figliuolo 
e, lassa!, la sua morte piansi assai. 
Per me fu morto dentro al grande stuolo 70 
presso ad Arezzo e Livio testimona 
se degno fu ch’io ne portassi duolo. 
Levinio onorai de la corona 
e del mio carro, poi che fu tornato 
di ver Cicilia e sí di Macedona. 75 
Non vo’ tacer come Fulvio e Torquato 
gli Insubri del campo cacciâr via 
né che Flaminio fe’ da l’altro lato. 
Non vo’ tacere come in Lombardia 
Claudio uccise Viridomaro re 80 
e tolse di Melan la signoria. 
Non vo’ tacer que’ due consigli che 
Erennio a Ponzio die’, né quanto tristi 
da Caudio Spurio e i suoi tornaro a me. 
Certo io non so se mai parlare udisti 85 
di cosa scelerata quanto questa, 
de la qual voglio che per me t’avisti: 
che fun le mie matrone in tal tempesta, 
che cercaro d’uccider tutti i maschi, 
ch’eran nel grembo bel de la mia vesta. 90 
Or perché d’ogni cibo mio ti paschi, 
notar ti voglio i cittadini appunto 
che meco vidi al tempo che qui intaschi. 
Al censo, dove ’l nover fu congiunto, 
dugencinquanta milia si trovaro 
o pochi piú, se sí non funno a punto. 
E a ciò che il mio dir ti sia piú caro, 
l’etá ch’io era vissa è buon sapere, 
ché ’l parlare è piú bel, quant’è piú chiaro. 
Dico ched e’ potean passati avere 100 
cinquecento anni e venti, allor che fece 
Cartago meco pace al mio piacere. 
Di seguitare omai oltra mi lece 
e ragionar de la seconda briga, 
che, senza fal, de’ miei tanti disfece, 105 
ch’ancora il pianto il viso mio ne riga.

CAPITOLO XXV 
Non s’insuperbi alcun, per aver possa, 
ché qual si fida in questi ben terreni 
va dietro al cieco e cade ne la fossa. 
Non creda alcun che questi mortal beni 
si possano acquistare e poi tenere 5 
senza gustar sapor di piú veleni. 
Forse anni sei potea compiuti avere, 
quando tornai a la seconda guerra, 
la qual piú ch’altra assai mi fe’ dolere: 
ché certamente mai sopra la terra 10 
briga non fu, per la qual tante toniche 
fosson ricise per colpi di ferra. 
E sian tenute tutte l’altre croniche 
per ricche spese, a rispetto di questa: 
io dico ben troiane e macedoniche. 15 
E come Livio ancor ti manifesta, 
li figliuoi d’Amilcar funno cagione 
per la qual venni a sí mortal tempesta. 
E qual parrebbe a vedere un leone 
uscir del bosco, quando ha gran disio 20 
di far sopra altra bestia offensione, 
cotanto bramo e fiero si partio 
d’Africa Annibale e passò il mare 
e sui liti di Spagna pria ferio. 
Lá provai io di volerlo arrestare 25 
con preghi, con minacce e con difese: 
ma fu niente che ’l potesse fare. 
Sagunto prese e vinse quel paese; 
e, per lo molto acquisto e per la fama, 
d’avermi a sé maggior disio li prese, 30 
come a l’uom vien che, prendendo una rama 
de l’albore, che con piú voglia bada 
giungere a quella ov’è ’l frutto che brama. 
E si mosse col fuoco e con la spada, 
fiumi e selve passando, in fin che venne 35 
lá, dove coi piccon fe’ far la strada. 
Né Scipio Cornelio allora il tenne 
né ’l passo del Tesin, né quel del Taro, 
né Sempronio, ché sol fuggir convenne. 
Né la freddura poté far riparo 40 
con la gran neve al giogo d’Apennino, 
benché ’l passar assai li costò caro; 
né fu tal la ventura né ’l distino 
di Flaminio mio e de’ compagni 
che potesson por fine al suo cammino. 45 
Or sarai crudo, se gli occhi non bagni 
udendo ’l gran martir, ch’a dir ti vegno, 
e se qui meco il mio dolor non piagni. 
Ahi, Canosa, quanto ancora mi sdegno 
di nomar te, quando fra me rimiro 50 
che fonte fosti al sangue mio piú degno! 
Orosio ben descrive il gran martiro 
ch’ el fe’ de’ miei, per gli anelli tratti 
de’ diti a quelli che quivi moriro. 
Tanti ne funno allora morti e catti, 55 
che, se seguito avesse la fortuna, 
posto avea fine a tutti i miei gran fatti. 
Oh quanto è senno, quando cosa alcuna 
buona innanzi t’appar, prenderla tosto, 
ché poi, passata, è un guardar la luna! 
Apresso tutto quel ch’io t’ho proposto 
piú dí passati, col suo gran podere 
si mosse e venne al mio dolor disposto. 
E cosí me, ch’avea potuto avere, 
cercando andava (ma ciò fu niente) 65 
che mi potesse al suo disio tenere; 
benché, secondo ch’io mi tegno a mente, 
la pioggia allor li tolse la vittoria, 
onde ai suoi dei si dolse amaramente. 
Ormai ti vo’ contar de la mia gloria 70 
e ragionar di Scipio, la cui luce 
lume fu sempre a tutta la mia storia. 
Ché, come alcuna volta il ciel produce 
e la natura un uom, ch’al mondo è tale 
che miracolo par ciò che conduce, 75 
costui produsse. E però che fa male 
qual pone il ben ricevuto in oblio, 
qui vo’ tenere un poco ferme l’ale. 
Dico che questo caro figliuol mio 
tanto felice e grazioso fue, 80 
che la gente il tenea quasi uno dio. 
E non credo facesse a Troia piue 
Ettor, che fe’ costui per iscamparmi: 
sí valorose fun l’opere sue. 
Prudente, giusto, accorto, franco in armi, 85 
e temperato e forte in suoi costumi, 
largo e casto lo trovi in molti carmi. 
Qui pensa se è ragion ch’io mi consumi: 
ch’avendomi difesa a ogni mano, 
per molta invidia accusato fumi; 90 
onde il mio senno fu sí poco e vano, 
ch’io gli chiesi ragione: e sol trovai 
non piú portarne che ’l nome Africano. 
Se ingrata fui, ben l’ho, poi, pianto assai. 

CAPITOLO XXVI 
Cotal, qual io ti conto, fu il mio Scipio 
e tal mi convenia, se ’l ciel dovea 
ridurre a buona fine il bel principio. 
Lo padre e ’l zio giá perduti avea 
avvolpinati a forza e per ingegno 5 
da Asdrubal, che la Spagna possedea, 
quando, con prego assai onesto e degno, 
per vendicare il danno ricevuto, 
da me partio questo mio sostegno. 
Non è da trapassar lo bello aiuto 10 
di Claudio e di Valerio, il cui ben fare 
fece ben fare al popol mio minuto. 
Non è ancora da voler lasciare 
sí come Fabio del figliuol li piacque 
la morte, piú che ’l fallo perdonare. 15 
Qui ritorno a colui, che propio nacque 
per me, che, poi che ne la Spagna giunse, 
a far mio pro un’ora non si tacque. 
Piú e piú volte Asdrubale compunse; 
prese Mago, di ch’io feci gran festa, 20 
e la nuova Cartago strusse e munse. 
Ad Annibal mandò Claudio la testa 
d’Asdrubal, de la qual rider s’infinse: 
credo per piú celar la sua tempesta. 
E tanto Scipio i suoi e sé sospinse 25 
a dí a dí, prendendo le province, 
che tutta Spagna in poco tempo vinse. 
Poi, ritornato a me questo mio prince, 
ed essendo al Consiglio disperato, 
mostrò l’ardire onde ogni roman vince. 30 
Qui passo a dir ciò che fu consigliato 
per Fabio e per lui; ma ben t’accerto 
che ’l suo buon dir piacque a tutto ’l senato. 
Con poca gente nel cammino esperto 
si mise e poi passò, senza periglio, 
dove il lito african li fu scoperto. 
Di tanta grazia ancor mi maraviglio: 
che ’n breve tempo in campo uccise Annone 
ed anche a Sifax re diede di piglio. 
E questo posso dir fu la cagione 40 
che le cittá d’Italia ritornaro 
la maggior parte a la mia intenzione. 
E perché gli African da poi mandaro 
per Annibal, che ben diece e sette anni 
m’avea fatto sentir tormento amaro, 45 
diliberata fui da’ suoi affanni: 
pianse il partir, perché fra tanto spazio 
veduta non m’avea dentro da’ panni. 
Di molti Italiani fece strazio; 
ma pria che giunto fosse a l’altro lito, 50 
per malo agurio fu del cammin sazio. 
E poi che ebbe il gran valore udito 
di Scipio, dubitando in fra se stesso, 
pensò far pace per alcun partito. 
E tanto seguitò di messo in messo, 55 
che ’l dí fu posto e data la fidanza; 
poi funno insieme, come fu promesso. 
Qui era il grande orgoglio e la baldanza; 
qui era la virtute e l’ardimento 
del mondo, potrei dire, e la possanza: 60 
ché vo’ che sappi che ’l gran parlamento 
che Dario scrive ch’a Troia fu fatto 
povero fu a tanto valimento. 
Livio ti conta l’accoglienza e l’atto 
e ’l bel parlar di questi due gran siri 65 
e come si partîr senza alcun patto. 
Però passo oltre e vegno ai gran martiri 
de la battaglia, che fu sí aspra e forte, 
che lungo tempo poi funno i sospiri. 
Non saprei dire di ciascun la sorte, 70 
né che fe’ Scipio né Annibal; ma, pensa, 
piú vergogna temea ciascun che morte. 
Pure a la fine il Sommo, che dispensa 
le grazie sue come a lui piace, volse 
che sopra gli African fosse l’offensa. 75 
Ma sappi che Annibal mai non si tolse 
del campo, in fin che colpo vi si diede: 
l’ultimo fu, tanto ’l partir li dolse. 
E posso per ver dire, e farne fede, 
che in quel giorno la vittoria presi, 80 
onde al mondo per me legge si vede. 
Apresso questo, i gran Cartaginesi 
per voler d’Annibal, che si partio, 
domandâr pace e fu tal ch’io la ’ntesi: 
però che tutti sotto al regno mio 85 
vennero gli African, ch’eran sí bravi: 
seguitâr loro e fenno al mio disio. 
Portate funno a Scipio le chiavi 
de la cittá ed el v’entrò co’ suoi; 
poi arse lor ben cinquecento navi. 90 
Apresso, a me tornato, saper puoi 
ch’io il trionfai con la sua milizia 
e pensar non potresti a li dí tuoi 
la festa, ch’io ne feci, e la letizia. 


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Ultimo Aggiornamento:
14/07/2005 23.36