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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA


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Cronica - Vita di Cola di Rienzo

Anonimo Romano

Cap. XIII

Della crociata la quale fu fatta in Turchia alle Esmirre.

Quanno fu fatta la crociata sopre la Turchia ad uno luoco oitra mare lo quale se dice Esmirre, la quale crociata commosse tutta Cristianitate, la novella fu per questa via. Sapemo che la terra abitabile se divide in tre parte: Asia, Africa e Europa. Queste tre parti della terra divide lo mare, lo quale iace in mieso, a muodo de una mesa croce. In questa Asia ène una provincia piccola e moito bella e opulenta infra le aitre, la quale hao nome Turchia; que Turchia ène la prima delle aitre provincie de Asia e ène confinata con noi. Hao sette citati. La prima hao nome Esmirre. Questa stao canto mare nella ponta della terra e ène citate destrutta nella piana e ènese redutta nello monte, da longa dalla veglia citate miglia cinque. La secunna hao nome Aito Luoco, là dove stao la tomma dello biato santo Ianni vagnelista, là dove santo Ianni scrisse la Pocalissi. E veo tanto a dicere Aito Luoco quanto che aito favellare, ché santo Ianni aitamente parlao in soie profezie. La terza citate hao nome Pergamo, dove nato fu lo soprano miedico Galieno. La quarta hao nome Efeso. La quinta hao nome Filadelfia. La sesta hao nome Frigia. La settima hao nome Pamfilia. Queste sette citate fuoro de Cristiani e fuoro fatte bone vescovata ordinate per lo biato santo Ianni vagnelista. Ma allo dìe de oie per li peccati nuostri so' de infideli le sei. La settima, cioè Filadelfia, ène de Cristiani. Ène spartuta un poco dalle aitre per uno vraccio de mare. Serve a Cristo glorioso. Nella contrada de Romania era uno imperatore de Constantinopoli lo quale avea nome Parialoco. Sio figlio avea nome Catacucino. Questo Parialoco avea moito granne fede a uno Cristiano lo quale avea nome missore Martino Zaccaria de Genova, lo quale era nobile e valente mastro de guerra. Fecelo sio armiraglio de mare. Tutta la contrada dello mare guardiava in servizio de Parialoco. Granne onore renne a sio signore. Navi e iente avea a sio piacere. Puoi questo Parialoco donao a missore Martino per soa spenzaria una isola moito bella e nobile, de granne frutto, cioène l'isola de Chio. De quella isola veo la mastice, quanta ne ène. Là cresco li arbori delle lacrime, delli quali la mastice se fao. Granne era la baronia de missore Martino. Là demora con soa famiglia e masnata granne e manente. Accadde che Turchi tuolzero a Genovesi una terra canto mare, la quale se dice Fogliara Vecchia. Puoi li toizero Metellina, la quale stao dalli confini de Atena in Grecia, dove fu lo Studio. Puoi li assediaro per mare e per terra la citate de Pera. Per onne via la volevano. No·lli poteva campare. Missore Martino, consideranno l'onta de suoi citadini, anche lo danno, più no·llo poteva patere. Armao soie galee con suoi valestrieri e bella oste e destra iovinaglia. Vao per mare, e infoderao Pera, e leva dell'oste Turchi, e moito danno li fece. Puoi vetao che nullo mercatante turco usassi in sio terreno, nella isola de Chio. Nella ponta della provincia de Turchia signoriavano tre grannissimi baroni. Frati carnali erano. Lo primo avea nome Morbasciano, lo secunno avea nome Cherubino, lo terzo avea nome Orcano. Questi signoriavano la citate delle Esmirre e Aito Luoco e moite terre. Questo Morbasciano faceva cogliere lo passaio e la gabella delle mercatantie le quale passavano per mare canto sio terreno. E coglievase lo passaio in quella ponta dove oie Veneziani haco edificata la citate delle Esmirre, nella pianura canto mare dove fu la citate antica. Questi passaieri e gabellieri non reguardavano alcuno, spezialmente li mercatanti de Venezia. Quanto volevano aizare lo pedag[g]io, tanto lo aizavano. Onne Veneziano se reputava sforzato per questi passaieri. Non valeva rechiamo che facessino a Morbasciano. Accadde che in quella [...] Veneziani. Stava l'oste sopra Negroponte. Intorno intorno guastava lo paiese, olive, vigne, arbori fruttevili; serrano le strade. Per la moita iente Negroponte affamava. Era in Negroponte lo patriarca de Ierusalem - don Manuello Camorsino avea nome -, veneziano, frate de santo Francesco, omo mannifico, de granne senno e onesta vita. Forte se vergognava essere assediato con tanta bona iente. Non sao qual via prenna per campare. Po' alcuno tiempo, non troppo, viddero navi che apparevano per mare. Dodici fuoro le galee, lo confallone de Santo Marco de Venezia. Missore Pietro Zeno, lo vittorioso e franco capitanio, era loro connuttore. Quanno questi Turchi sentiero l'armata de Veneziani che·sse accostava, levarose de campo e tornaro a reto alle loro citate. La prima cosa forniero fortemente la ponta delle Esmirre, che là non potessino Veneziani allo puorto fare capo. Levata l'oste de campo, esse fòra de Negroponte don Manuello, lo patriarca, con cavalieri e pedoni, con vettuaglia de biscuotto e fava, carne secca e vino. Sequita li Turchi. Entra in mare. Conubbe che·lla ponta delle Esmirre era guarnita. Non ce poteva arrivare. Allora con tutta soa iente se posao dodici miglia da longa ad una isola che stao in mare, la quale se dice isola de Cervia. Là se posao. Tre dìe stette con non poca suspizione. Po·lli tre dìe galee de Veneziani e de Genovesi ionzero. Allora fecero una moito bella ordinanza de galee e vaco inver' le Esmirre per averle. Lo puorto non potevano entrare. Lo luoco era forte. Le valestra e·lle frecce iettavano. Non era via de entrare. Allora de queste galee se partiro alquante e esfilatose luongo luongo canto mare a mano manca ivano queste galee caricate de tavole e portavano castella de lename [...] patriarca abbe sio consiglio. Non demorao niente. Non voize avere speranza in solo lo finire per mare. Fece fare intorno a questo luoco uno cegnimento de muro de preta. Onne perzona mura caice, terra, prete della ruvina delle antique case, puro che vista aia de muro. Lo patriarca con uno nobile cavalieri francesco, nome Fiore de Belgioia, pusero li fonnamenti con loro mano. Fecero allo murato solo una porta inver' la Turchia. Guardava invierzo lo mare. Non avea muro. E cuoizero tanto terreno quanto fussi una piccola citatella. Là allocaro la iente. Vedesi capanne fare, la piazza, lo mercatale, lo cagno della moneta. Tal fao vidanna, tal venne, tal compara. Anche renchiusero drento acqua doice, viva fontana. Puoi fu fatto intorno a questo murato, per più fortezze, una fossa moito esmesuratamente larga, sì che, quanno era bisuogno, metteva lo mare intorno allo luoco. Se alcuna nave veniva per mare con grascia, secura non veniva, perché curzali de Turchi anche giravano lo mare. Moito danno facevano. Puoi che saputo fu che·llo luoco delle Esmirre era fonnato, allora la grascia veo dalle avitazioni intorno. Viengo con fodero quelli de Modone, quelli de Corone, quelli de Patrasso, quelli de Malvasia, quelli de Fogliara e quelli de Filadelfia. Quanno Morbasciano abbe saputo che·lla ponta delle Esmirre aveano venta Veneziani, mannao soie ambasciate per tutta Turchia. Tutta Turchia curre allo reparo. La adunanza se fao de Turchi alle fortezze della montagna invierzo Aito Luoco. Più 'nanti non viengo, salvo non fussi per badalucco fare. Ora vedesi onne dìe currerie fare. Curro Cristiani, predano, robbano. Curro Turchi, lo simile faco. Imbuscanose, fiero de sùbito furiosamente, fugo voitannose. Granne danno faco. Moito bene li vedeva omo descegnere e sallire per la montagna l'uno po' l'aitro a filo a filo. Avevano loro ronzini piccoli, moito currienti, piccole teste, ferrati delli piedi denanti, dereto desferrati. Così currevano. Parevano daini alesantrini. La maiure parte de questi Turchi portavano, loro usanza, vestimenta bianche de panno de lino, larghe le maniche e longhe, corte a mesa gamma. Nulla defferenzia ène dalle cotte delli chierici. In capo capielli bianchi collo pizzo luongo a muodo dello cuollo de cicogna. Varve avevano foite e luonghi capelli. In vraccio una rotella lavorata atorno a muodo de uno grannissimo taglieri, ingessata. Questi soco loro pavesi. Da lato portavano spade turchesche moito fornite; e non haco ponta e soco alcuna cosa piecate dallo lommo, lo pietto tagliente. Anche gran parte de loro portava lance con uno fierro pulitissimo, moito fortemente lato; alcuno era 'naorato. Da lato portavano arcora e turcassi con frezze. Deh, quanto granne male con loro frezzate facevano! De quelle frezze era alcuna nella quale stava avvolto uno filo d'aoro; ché la freccia dignitate avea. Anche ce erano fra essi moiti armati con iubbe doppie de panno incerato, larghe, lavorate con belli lavorieri, coperte de sannati e de ballacchini. Ora se comenza la dura e aspera guerra per terra e per mare. Entra in mare missore Pietro Zeno de Venezia e vao attornianno tutta la Turchia. Arde le terre canto mare. Là dove sio stuolo se posa non hao reparo. Puoi li venne alle mano una bella caienza e nova pescascione. Cinque legni de Turchia currevano la marina e menavano Griechi e Greche, li quali avevano presi con loro bieni, pecora, vestiame e aitro arnese. Questi Griechi erano delle ville canto la marina. Erano presi da Turchi e derobati. Loro ville erano arze. Quanno missore Pietro vidde questi legni da longa, conubbe la soa ventura. Aiza le vele de soie galee allo viento. Così le ionze como fao lo sparvieri la quaglia. E conoscenno che preda portavano disse: "E pateremo tanto detoperio?" Dodici galee avea. Ferivano soie galee dalla proda nello ventre delli legni de Turchi e affonnavanolli in mare. Erano quelli legni non granni. Tre ne fuoro affonnati in pelago con ciò che drento era. Non ne campao anima vivente. Li doi legni fuoro intorniati e presi. Nell'uno stava lo ameli dello mare, che veo a dicere mastro e signore. Avea nome Mostafà. Queste doi non fuoro sfonnate, perché non fecero alcuna resistenzia. Parze meglio servareli vivi. Quanno se traievano li Turchi delli loro legni, ad uno ad uno se legavano in canna con una corda. Onneuno incrocicchiava le mano allo pietto e inchinavanose, como fecessino reverenzia, e dicevano: "Ano stavròs, stavròs"; quasi veo a dicere: "Perdonetece, ca volemo la croce e essere cristiani". Ora ne torna lo franco guerriero, missore Pietro Zeno, con questa caccia alle Esmirre. Mentre questo Mostafà stava in presone, una lettera in soa lengua li venne da una soa donna. Drento nella lettera era uno cierro de capelli moito bionni. Puoi cavalcava missore Pietro Zeno per terra e fao granne danno. Vao pericolanno tutte quelle locora de Turchi, quelle castellanze. Li fao troppo granne paura. Quanno missore Pietro Zeno cavalca per terra, missore Martino Zaccaria guerrea per mare e quanno l'uno per mare, l'aitro per terra, tempestano e pericolano Turchia. Non li puoto resistere le fortezze de sopre ad Aito Luoco. Se apparecchiano de resistere Turchi. Missore Pietro Zeno de Venezia e missore Martino Zaccaria de Genova erano doi franchi capitanii, sufficienti ad onne fatto, luonghi como doi aste, macri e bruni, bene armati ed assettati. Defetto infra li Cristiani fu che non aveano iente da cavallo. Poca iente da cavallo con essi era. Erance lo sufficiente conestavile todesco, de chi de sopra ditto ène, lo Malerva, lo quale po' la sconfitta de Parabianco nelli campi de Milano per voto era venuto a servire con vinticinque cavalieri a soie spese uno anno. Erance missore Nolfo, lo nepote dello re de Cipri, con cinquanta uomini da cavallo, tutti cavalieri a speroni d'aoro, perzone de gran fatto. Erance lo patriarca, missore Manuello Camorsino de Venezia, frate minore. Erance uno nobilissimo barone de Francia: Fiore de Belgioia avea nome. Questo Fiore de Belgioia se trovao a fonnare le mura collo patriarca, como ditto ène. Pedoni ce erano da quinnici milia, non armati così sufficientemente como se deo; perché la cosa non era penzata, e in longa contrada. Era dello mese de iennaro, anno Domini MCCCXLV, in dìe della festivitate de santo Antonio. Sentìo lo patriarca che la iente de Turchi era moitiplicata in tanto che credeva essere assaitato drento dallo sio redutto. De ciò abbe ferma fede. Auto consiglio colli maiuri della Cristianitate, cioène missore Pietro Zeno, missore Martino Zaccaria, Fiore de Belgioia de Francia, missore Nolfo de Cipri, Malerva conestavile lo Alemanno, fu deliverato de non mostrarese timorosi, anche fare resistenzia a muodo de uomini costanti. Era una chiesia antiquissima, la quale hao nome Santo Ianni. Dicesi che·llo biato santo Ianni la edificao. Questa chiesia fu lo vescovato de quella terra 'nanti che fussi destrutta la citate, mentre che se avitava da Cristiani. Po' la destruzzione era remasa campestre. Questa chiesia era da doi valestrate longa dallo muro noviello. Non era coita drento dallo cegnimento. In questa chiesia entrao lo patriarca colli sopraditti baroni in numero de quaranta. Moito rengraziano Dio de tanto beneficio, ché haco recuperata la chiesia de Cristiani, la quale era perduta. Ammirano le mura, la treuna, la aitezza e benedico Dio e santo Ianni, ché soa chiesia haco recuperata. Puoi là fu celebrata la messa con grannissima solennitate. Con lacrime, devozione e alegrezze pregano Dio che così succeda in tutta Turchia. In doi muodi rasciona la iente de questa novitate. Alcuno dice: mentre che lo patriarca colli quaranta sopraditti cantava la messa, li Turchi venivano in granne moititudine queti per la costa, nascuosti fra li arbori, e entraro nella chiesia de Santo Ianni e là, mentre la messa se cantava, presero li sopraditti quaranta e là sì·lli occisero e decapitaroli. Né succurzo non àbbero, perché·lla iente da pede era alcuna cosa lontana. Alcuno me dice per aitra via, e ène verisimile. Disse ca·llo vidde perzonalmente, e ciò fermao per sacramento. Disse questo, che nello dìe de santo Antonio de iennaro, nella chiesia de Santo Ianni fore le Esmirre, fu cantata la messa con moita solennitate. Po' la messa lo patriarca predicao moito bene e confortao li Cristiani a persequitare la iente infidele e recuperare le terre de Cristiani e liberare le chiesie sette de mano de cani. Puoi disse: "Forza che Dio me volessi visitare, sacciate che nella mea gamma ritta aio una sanice". Puoi fece la croce e deo soa benedizzione a tutto quello puopolo. Da quinnici milia Cristiani erano da pede. Po' questo se armao de tutte arme: corazze, falle e maniche, una varvuta in testa, cossali de fierro tutti lavorati. De sopre dalle arme se iettao uno ricco manto vescovile, lo quale se dice piviale, tutto lavorato a seta e aoro fino filato, adornato de perne e prete preziose, como se conveo a così aito prelato. In mano una spada nuda lucente teneva. A cavallo in uno potente destrieri ben pareva barone. Dao de speroni e vao allo martirio de buono core. Sequita po' esso missore Pietro Zeno de Venezia e missore Martino Zaccaria de Genova, armati, adornati, como puoi credere. Lo loro essire alla vattaglia fu senza provisione. La iente non era conestavilita. Bene aveano sentito lo romore delli Turchi, ma non credevano che tanto da priesso fussino li aguaiti e·lle poste fra essi. Como iessiro, non tennero la deritta via, anche dechinaro alla sinistra per la più largura. Lo puopolo buono piezzo po' essi tenne dalla parte destra. Credevanose sequitare chi non iva denanzi. Quanto più vaco meno trovano. Erano quelle locora non domestiche, anche paurose per li moiti impedimenti de mura rotte, fonnamenti de case e de torri; locora senza vie, locora da intanare iente. Quanno li tre, lo patriarca, missore Pietro Zeno, missore Martino Zaccaria, fuoro alquanto delongati, se retrovaro soli senza sequito nello laberinto delle deserte case. Là de sùbito se descopre la posta de Turchi. Senza romore fuoro intorniati. No·lli vaize scrullare loro spade, no·lli vaize loro defesa. Fuoro in terra da cavallo. Loro teste subitamente fuoro partite dallo vusto. Tre baroni recipero lo santo martirio e fuoro fatti cavalieri de Cristo. Quelli cani turchi le loro teste ne portaro. Portarone le arme loro e li belli adornamenti. Anche ne menaro li loro destrieri. Le corpora nude in terra lassaro. Ad presulem tamen plangibilior casus fuit. Nam eques insuper - Dardo nomen erat - in virum sacrum sceleratas primum manus iniecit clavaque ferrea ictus ictibus cumulans moribundum semianimemque pontificem leva tenuit arreptoque gladio caput obtruncat, nudatumque cadaver ad terram prolapsum dimisit venerabilemque calvariam ornato involvens pallio ad suos abiit. Ora esse fòra pienamente la iente. Nella escita fu saputa la morte dello patriarca e delli doi canfioni, perché fuoro trovate le corpora dalla codata dello stuolo. Granne è la tristezza, granne è lo pianto, maiure la vergogna de tornare. Ciascheuno otta de morire. Iesse fòra alli nudi campi lo adorno cavalieri francesco, Fiore de Belgioia, adorno con arme smaitate, lavorate de nobile maiesterio. Alegramente vao a prennere la corona. Iesse fore missore Nolfo, nepote dello re de Cipri, adorno como reale. Iesse fòra Malerva lo Todesco, lo buono conestavile da sessanta cavalieri. Dopo essi tutto l'aitro puopolo. Como fuoro alli discopierti campi, vedesi cavalli currere, vedesi volare de frecce, iettare de lance, ferire de spade. Moita iente de·llà e de cà cade. Non ce se trova reparo. Fiore de Belgioia non voize campare. Sperona sio destriero. Con una spada in mano defennennose muorto cadde fra quella canaglia. Missore Nolfo, nepote dello re de Cipri, fu passato da doi frezze e sì morìo. Malerva lo Todesco fu presone vivo. Vivo fu scorticato dalli cani. Moiti Cristiani moriero, moiti ne fuoro presoni, moiti ne fuoro coronati dello santo martirio. Chi fu arzo poco da longa dalle Esmirre, chi fu scorticato, chi fu decollato. Alla fine Cristiani non potevano più sostenere. Daco la voita in reto e tornano alle Esmirre, e misero lo mare intorno alle fosse e salvarose dallo furore de quelli cani li quali venivano taglianno e occidenno Cristiani e prennenno. E così abbe fine lo occidere, chiuse le porte delle Esmirre e data l'acqua intorno. Infiniti tamen ne fuoro muorti delli Turchi, presi e scorticati. Scoita bella novella! Disseme uno, lo quale tutte queste cose vidde, che moiti Turchi fuoro presi, fra li quali ne fu alcuno moito grasso. Questo così grasso scorticaro vivo e·llo cuoro lassaro cadere ioso como le brache e lassarolo. Como fu lassato, gìo umilemente. Puoi che fu nello securo (vedere bene se poteva), voizese lo Turco scorticato e con doi mano faceva le ficora alli Cristiani, sì rotonne che bastara che fossi stato de agosto. Ora se chiudo Cristiani nelle Esmirre. Non haco caporale. Vao la novella alla citate de Venezia, vao in corte de Roma, vao per tutta Cristianitate, vao denanti allo papa e alli cardinali. Forte se dole la corte della acerva morte dello patriarca, della rotta de Cristiani. Uno granne Consiglio fu fatto in Venezia fra li maiurienti e·llo duce. Fu deliverato che tutta loro potenzia ponessino in vennicare l'onta de loro citatino, anche per vencere la pontaglia e tenere le Esmirre a mano potente. Questo fare non se poteva senza vraccio papale. L'ambasciata de Veneziani fu denanti allo papa in Avignone e domannaoli umilemente la crociata sopra Turchi. Papa Chimento recipéo graziosamente questi ambasciatori e offerze soa voluntate bona. Allora vao la voce per tutta Cristianitate della crociata fare: remissione de pena e de colpa a chi serviva, chi se moriva deritto ne iva alli piedi de Dio non piecanno né da lato manco né da lato ritto. Predicata non fu questa crociata per li puosti dalla Chiesia, né servato l'ordine lo quale se devea servare, se non che sola tanto la voce mosse la iente. Granne commozione fu fatta. Ora se apparecchia la moita iente a volere morire per Dio: uomini, femine, frati, prieiti. Tal venne possessione, tale arnese. Movese chi hao la moneta; chi non, la vao cercanno. Tale vao mennicanno per Dio per poterse connucere alla frontaglia. Nella Cristianitate non fu citate, non fu castiello, non communanza che non ne venissi la moita iente. De tale citate doiciento, de tale treciento, de tale cinqueciento, de tale milli. Considera quanta moititudine fu! Anche se vestivano cutale camise bianche. De sopre aveano croci rosce de panno roscio. Moito stavano conti per le piazze con così fatto vestimento. Tutte le strade vedevi renovare de così fatta iente. Caminante onne perzona arriva ad Ancona. Là entra in mare e passa alle Esmirre. Anche servavano aitra connizione, che li odiosi rennevano ferma pace, puoi se vestivano lo sopraditto abito. Quanno papa Chimento vidde tanta commozione e che retenere non se poteva, parzeli meglio dare a tanta moititudine capo, ca senza capo tanto puopolo bene non stava. Commannao a missore Guido, dalfino de Vienna, che questo peso portassi. Obedìo lo dalfino allo santo patre. Prenne lo confallone della croce e con soa cavallaria passa la Provenza. Veo in Italia. Arriva ad Ancona, da Ancona a Negroponte. Per lo camino soa moglie, la soa donna, morìo. Intanto alle Esmirre iogne lo granne puopolo. Tutto dìe le nave de Veneziani questa iente portavano. Quanta moneta guadagnavano quelle navi! Quanto scorticavano! De uno vile bagattino non facevano cortesia. Viengo quelli de Modone, quelli de Corone, quelli de Fogliara, quelli de Patrasso, quelli de Malvasia. Veo la bella e onorata iente de Filadelfia bene a cavallo, bene armata. In questo mieso moiti badalucchi fuoro fatti per la libertate dello ire, non senza danno. Piacque intanto a Veneziani de fare alcuna triegua fine che lo dalfino venuto fussi. La ambasciata ne gìo ad Aito Luoco da parte de Veneziani per la triegua. Demannavano le Esmirre interamente. Quanno la ambasciata fu ionta, Morbasciano iaceva in terra appoiato sopra lo sinistro vraccio e sì pranzava. Grasso era tanto esmesuratamente che pareva votticiello lo sio ventre; vestuto de bisso moito nobilemente lavorato a seta. Denanti li venivano scudella de preta storiate, lucente, piene de vidanna con zuccaro, latte de miennole, ova e spezie e risi. E sì teneva in mano uno cucchiaro d'aoro e fortemente devorava. Odita che abbe la ambasciata, non se levao suso da sio pranzo, ma fra l'aitre paravole disse: "Noi sapemo bene che per certo lo dalfino sopra noi veo. Mentre che durano doi nuostri prosperosi amici, li quali demorano fra la iente cristiana, noi non dubitamo". Dissero li ambasciatori: "Quali soco questi vuostri amici?" Respuse Morbasciano, né per interprete, anche in lengua latina, e disse: "Soco Guelfo e Gebellino". Intanto ionze lo dalfino de Vienna nelle Esmirre. Trenta cavalieri avea, non più. De colpo, como ionze, così fece enzerrare le porte e teneva la iente a freno; no·lli lassava avere libertate dello iessire. Presure currerie fuoro fatte. Moiti Turchi fuoro presi. La iente ne venne moita de Roma, della Alamagna, de Francia, de Piccardia. Non ce remase citate. Deciotto [...] durao questo assedio e questa pontaglia. Quinnici milia Cristiani ve·sse retrovaro ad uno ponto. Po' questo comenzao la cosa a dechinare. Lo callo era granne, la polvere sì granne che fi' a mesa gamma l'omo se ficcava nella polvere. La iente infermava forte, morivane como le pecora. La carestia ce era granne. Lo mastro dello spidale de Rodi vetava che·lle navi de Veneziani non venissino, anche mannava lo fodero e·lle arme alli Turchi. Donne la iente se turbava. Gran parte se mette in mare e torna. Gran parte ne veo. Poca iente remaneva. Quanno la iente se partiva, tutta la moneta che avevano li era toita per le guardie de Veneziani. Forte erano cercati. Lo dalfino fonnao aitre mura più larghe con torri e con porte e fossati de bona e ferma preta. Là Veneziani pusero loro guardiani, e fine allo dìe de oie là tiengo quella terra. Fatte queste nove e secure mura, lo dalfino non abbe più luoco. Partìose dalle Esmirre e tornao in sio paiese. Aitra cosa nulla de novitate fatta per esso non fu. Questo cutale fine abbe la cruciata alle Esmirre.

Cap. XIIII

Della sconfitta de Francia, là dove morze lo re de Boemia e·llo

re de Francia fu sconfitto dallo re de Egnilterra.

Currevano anni Domini MCCC[...] quanno fu fatta la orribile sconfitta in Francia, da priesso a Parisci a otto leuce, allo monte de Carsis, e fu sconfitto Filippo de Valosi re de Francia e fu vincitore Adoardo re de Egnilterra. La quale novitate fu per questa via. La cascione della guerra fra lo re de Francia e·llo re de Egnilterra fu questa e aitra non. Fu uno re de Francia moito sapio e buono e iusto lo quale abbe nome Filippo lo buono. Questo Filippo veramente abbe lo seno della croce nella spalla ritta. Anche iocava collo lione sì domesticamente como alcuno iocara con uno cacciulino. Questo re Filippo in soa veteranezze non se trovao erede maschio. Sola una figlia avea, la quale deo per mogliera ad Adoardo re de Egnilterra. La reina Isabella era chiamata. Quanno questo re Filippo venne a morte, non avenno figlio, non voize lassare sio reame senza governatore. Era in Francia uno nobile conte, lo quale avea nome Filippo, de Valosi conte. Questo era sio parente, non perciò della vera linea. Anche era lo più savio, saputo, scaitrito de senno de tutta Francia. Anche era prode, ca era stato allo suollo in Lommardia. Lassao lo re questo conte de Valosi sio fattore e despenzatore de tutto lo reame. Onne cosa li commise in mano. E così morìo e passao de questa vita. Remase Filippo de Valosi. Comenzao a reiere lo reame bene e saviamente. E vedenno che non avea contrario, vedenno che dello re non era figlio maschio, compusese colli baroni dello reame, compusese collo papa e sì se fece incoronare. Fu onto e sacrato in Ruen e sio figlio Ianni fu duca de Normannia. Da puoi che Adoardo re de Egnilterra sappe che Filippo avea presa la corona de Francia, iurao per la maiestate de sio renno mai non dare posa a Franceschi fi' che non racquistava lo reame lo quale decadeva a soa matre. Poco li valeva l'ambasciate, poco li valeva losenghe, poco li valeva papa con soa corte. Allora mosse sio stuolo, sia granne oste, descenne per Egnilterra e con sio navilio regale passa lo mare e venne in terra ferma, nello terreno de Francia. Lo numero de soa iente fu diciotto milia uomini da cavallo, non più, trenta milia arcieri da pede, considerati famigli, fanti, cuochi e tutta iente. Ène usanza de Englesi che onne famiglio della casa hao un arco. Quanno lassa sio offizio, usa l'arco e stao per arcieri. Là fu lo re Adoardo. Là fu sio figlio Adoardetto, prence de Gales. Là fu la reina, conti, cavalieri e baroni assai. Carrette aveano da tre milia, piene de ciò che faceva mestieri a l'oste. Puoi che li Englesi àbbero passato lo mare, posati in terra ferma, la prima cosa notabile che lo re Adoardo facessi fu che tutto sio navilio fece tornare in Egnilterra. De ciò dubitao soa iente e dimannao: "Questo perché?" Respuse lo re e disse: "Io non voglio che aiate speranza nello tornare. Siate prodi". Puoi assediao una forte terra la quale era capo de quelli paiesi - Salluppo avea nome - e sì·lla prese per forza e tennela per si. Puoi se ne venne descennenno per la costa de Normannia, canto la marina. Terreno curze da più de doiciento miglia e veo ardenno e refocanno ville e castella, predanno e occidenno. Non trova reparo. Da longa mustra allo re Filippo lo granne danno che faceva. Moita iente prenneva e derobava. Dao per terra fortezze e torri, chi ad esso contrastava. Puoi scrisse allo re Filippo che·llo aspettassi e che voleva essere con esso a campo alla vattaglia, de ciò domannassi lo termine. Lo re Filippo domannao termine dìe quinnici, non più, quanto esso mannassi per sio figlio Ianni. Ianni duca de Normannia stava in Vascogna ad oste sopra un castiello lo quale hao nome Arpiglione. Là, sopra uno fiume, stava soa potentissima oste. Trabacche e paviglioni e onne guarnimento abannonao in campo, da puoi che abbe inteso lo commannamento de sio patre. Nulla demoranza fece. Mossese con soa granne iente. Solamente ne portao l'arme e·lli cavalli. Forte cavalca dìe quinnici. Non vaize sio forte cavalcare, ca, quanno ionze, erano passati dìe trenta, la baratta era fornita. Non potéo a sio patre dare succurzo. Non potéo essere alla sembiaglia. Ora tornemo alla materia. Lo re Filippo, avenno promesso de essere allo campo, ben sapeva che suoi baroni non li erano leali. Ben sapeva che soa baronia avea tratti li Englesi e allocatili in mieso de Francia. Troppo se dole che vede suoi nimici liberamente vagare per tutta la Francia, senza reparo. Puro se fornisce de iente assai e bona. Abbe da ciento milia cavalieri. Abbe da dodici milia pedoni. Abbe lo re de Boemia - Ianni abbe nome - con milli Todeschi. Questo re Ianni se delettava de ire a suollo. Anche abbe lo re de Maiorica - Ianni nome -, lo quale era cacciato de sio reame. Stava e prenneva suollo. Anche abbe Ludovico conte de Flandria, lo quale era cacciato de sio contado. Anche abbe missore Ottone de Oria e missore Carlo delli Grimaldi con cinque milia valestrieri genovesi. Moiti abbe conti e baroni e iente assai. Ora ne veo lo re de Egnilterra con sio sfuorzo e ionze de notte in una valle larghissima la quale stao appriesso de Parisci otto leghe. Quella valle iace fra uno castiello lo quale se dice Monte de Carsia. Da l'aitro lato stao una villa de più de quattro milia perzone la quale hao nome Albavilla. Fra queste doi terre, nelli campi piani, a pede alla costa de Carsia, allocao tutta la soa iente e puse soa oste. Quanno questa iente ionta fu e l'oste allocata, notte era e era l'ora che sonava la squilla. Li currieri che 'nanti curzero e·lli spioni, li quali se accostaro a Parisci e a San Dionisi, odiero le campane de San Dionisi de Francia e·lle campane de Santa Maria delle Sciampelle che alla squilla sonavano. Anche odiero tutti li matutini delli religiosi e delle capelle che dereto li sequitano. Quanno la novella fu saputa in Parisci che·lli Englesi aveano puosto campo, tutta iente regale prese arme. E fu tanta la moititudine, che l'armatura fu vennuta dociento fiorini. L'alba dello dìe se fece. Piacque allo re Filippo che lo re de Boemia fussi capitanio generale e iessissi fòra allo reparo; e così fu. Iesse fòra de Parisci Ianni re de Boemia, figlio de Errigo imperatore, Ianni re de Maiorica, Ludovico conte de Flandria e tutta l'aitra baronia. Nello iessire fòra li Englesi guardavano da longa per la strada ritta de Parisci, la quale stao in una adatta veduta. Guardanno li Englesi sentiero lo traiere fòra e la venuta de Franceschi allo campo. Questo conubbero allo scianniare delli elmi lucienti e delli cimieri, anche delle banniere le quale facevano alli ragi dello sole che nasceva. Allora operze la vista Adoardo e conubbe infallibilemente che vattaglia non poteva schifare. E considerata la moititudine de Franceschi, non è maraviglia che affrissese un poco. Dubitao e ruppe voce e disse: "Ahi Dio, aiutame". Puoi prestamente, fra poca de ora, fece attorniare soa oste con bone catene de fierro, con pali de fierro moito spessi, ficcati in terra. Questo attorniamento era fatto alla rotonna, a muodo de uno fierro de cavallo, da onne parte chiuso, salvo che denanti li lassao uno granne guado, a muodo de porta, per fare l'entrate e·lle iessute. Puoi ce fece carvonara cupe, là dove lo luoco era debile. Onne Englese avea opera. Puoi attorniao queste catene colle carrette le quale aveano menate. Puse l'una carretta allato a l'aitra e·lli tomoni aizao deritti in airo. Bene pareva una bona citate murata, sì staievano le carrette spesse. Puoi ordinao soa iente così. Dallo lato sinistro, nella costa de Carsì, era una montatella. Là era un poco de selvotta. Erance anco lo grano, lo quale non era metuto. Era dello mese de settiembro, a dìe tre. Per le granne freddure in quello paiese lo settiembro lo grano se matura. Là in quella selvotta e fra lo grano nascuse e allocao dieci milia arcieri de Egnilterra da pede. Puoi puse ad onne carretta un barile pieno de saiette. Ad onne barile deo doi valestrieri. Puoi puse fòra della soa oste cinqueciento cavalieri de buono appriesto. Loro capitanio fu Adoardo principe de Gales, sio figlio. Questa fu la prima vattaglia. Dereto a questi cinqueciento puse doi ale, ciascheuna de cinqueciento buoni cavalieri, l'una dallo lato ritto, l'aitra dallo lato manco. Po' questi cinqueciento ne puse milli. Questa fu la terza vattaglia. Po' questi milli reservaose con tutta l'aitra cavallaria drento da l'oste, drento dalle catene. Questo fatto, confortao li suoi e accommannaose a Dio e disse: "Ahi sir Dio, defienni e aiuta la rascione". Questa fu soa conestavilia. Questa fu soa bella ordinanza. De sabato fu, alli dìe tre de settiembro. Essìo fòra de Parisci lo re de Boemia allo campo e pusese non moito da longa dalli Englesi. Era lo re de Boemia pullino. Non vedeva bene. La prima cosa, dimannao della conestavilia dello re Adoardo. Quanno intese così fatta conestavilia, subitamente disse: "Noi simo perdienti. Englesi perdire non puoco senza nuostro granne danno". Puoi demannao que tiempo fussi. Folli respuosto e ditto che sopra li Englesi stava l'airo pulito como zaffino, sopra Franceschi stava lo tiempo atto a piovia. Allora disse: "La vattaglia non fao per noi, fao per essi". Puoi mannao la ambasciata allo re Filippo in Parisci. L'ambasciatori dissero così: "Re Filippo, quanno piaccia alla aitezza vostra, la adosa non sia; ché senza danno non è, utilitate nulla. Meglio veo che staiamo fermi alli passi. Lo re de Egnilterra partire se vorrao. Quanno se partirao, noi li serremo dereto alle spalle. Averemo de esso mercato". Lo re Filippo fu forte turvato e fra le aitre paravole disse così: "Veome voluntate de annegare nella acqua de Secana, quanno lo megliore capitanio dello munno hao paura". Que paravole li ambasciatori non celaro allo re de Boemia. Allora lo re de Boemia disse così: "Oie bene se parerao ca io non aio paura. Anche bene se parerao ca·llo commattere ène più pascia che ardire". Allora commannao che·lle vattaglie ordinate curressino. 'Nanti questo curzo (alquanto era) avea ordinate nove vattaglie. Ma le tre fuoro le famose, le più principale. La prima vattaglia fu de missore Ottone de Oria e missore Carlo delli Grimaldi, capitanii de cinque milia Genovesi, valestrieri da pede. La secunna fu lo re de Maiorica collo conte de Flandria, con tre milia cavalieri. Puoi fuoro moite particulare vattaglie. Puoi fu esso re de Boemia con milli Todeschi e quattro milia Franceschi e sio figlio Carlo appriesso. La prima vattaglia che venissi allo campo la dimane tiempori fo li valestrieri genovesi, numero de cinque milia. A questi fu commannato che montassino nella costa de Carsia per soprastare alli Englesi; ma non venne fatto, ché·lli Englesi aveano occupato lo colle e puosti li impedimenti fra lo grano. Dunqua se pusero in un aitro monticiello da longa. Puoi sopravenne una sciagura; ché non valestravano, ca non potevano caricare le valestra. Era stata una poca de pioverella. La terra era infusa, molle. Quanno volevano caricare le valestra, mettevano un pede nella staffa. Lo pede sfuiva. Non potevano ficcare lo pede in terra. Allora se levao un bisbiglio infra li Franceschi e dubitavano che·lli Genovesi fussino traditori, perché non aveano receputa la paca. Dicevano: "Questi non valestraraco e se valestraraco, iettaranno aste senza fierro. Dunqua morano Genovesi". Questo dicenno Franceschi se muossero a furore contra li loro sollati. Traievano crudamente de spade e de lance. Genovesi fuoro tutti occisi fi' ad uno. Mormoraose missore Ottone allo re della morte de soa iente, lo quale respuse e disse: "Non avemo bisuogno de pedoni. Iente avemo assai". Questa fu la prima varatta. Cinque milia Genovesi fuoro occisi ad una ora. Ora se avegìo le frontiere, le ponte delle vattaglie Ianni re de Maiorica a Adoardo duca de Gales. Nella adosa fu sì granne lo strillare, sì granne lo romore e·llo scuoppio delle aste, che parze che doi montagne se urtassino insiemmora. Tal dao, tal tolle. Sonano instrumenti, tromme, cornamuse assai. In questa vattaglia fu una tale novitate. Lo prence de Gales avea speronato lo sio cavallo moito drento dalli nimici. Solo granne danno faceva. Uno conte, lo quale se appellava lo conte Valentino, lo vidde e conubbe. Cresese forte avere guadagnato. Per gran pesce prennere l'amo iettao. Accostao sio cavallo quetamente e abracciao Adoardo prence de Gales. Puoi lo prese per le catenelle della corazza e disse: "Tu si' mio presone". Allora se ferma e fortemente lo traieva della schiera e connucevalo in soa libera balìa. Mentre che così lo conte Valentino menava lo figlio dello re de Egnilterra, sopravenne lo conte de Lancione, lo quale era frate carnale allo re Filippo, e vedenno che Adoardetto era perduto, legato como pecorella, disse queste paravole forte iratamente: "Ahi conte Valentino, como si' tu tanto ardito de menare in presone mio cusino?" E questo dicenno non aspettao resposta nulla, anche se fionga e aizao una soa mazza de fierro inaorata, la quale teneva in mano, e ferìo lo conte Valentino nella testa. E spessianno li colpi uno dopo l'aitro, lo conte Valentino perdìo vigore. Lassao lo freno e·lle catenelle de Adoardetto e muorto cadde in terra de sio cavallo. Allora Adoardetto, speronato, nimirum alegro tornao alla soa schiera, la quale ià avea comenzato ad affiaccare. Questa novitate vidde Ludovico conte de Flandria, lo quale, como ditto ène, era cacciato de sio contado, stava a suollo in Parisci per gran tiempo. Era omo veglio, perzona bona e onesta. Amava moito lo re Filippo e sio onore. Conubbe che·llo tradimento era in mieso della baronia de Francia. Più non potéo celare la soa voglia, che non dicessi lo vero. Soavemente aizao la voce e disse: "Ahi conte Lancione, questa non è leanza né bontate la quale devete servare alla corona. La guerra era venta dove l'hai fatta perduta". Quanno lo conte Lancione odìo questo, non voize odire più. Voize la testa de sio destrieri e con quella medesima mazza tanto colpiao lo conte de Flandria vecchiarello, che·llo occise. O cruda cosa, che a questo simo connutti, che per dicere lo vero e reprennere lo male fatto deggia omo perire. Non fu alcuno della compagnia dello conte de Flandria tanto ardito che ne facessi fiato. Solo uno destretto famiglio sio, domestico, omo da pede, de vile lenaio, vedenno tanta crudelitate, sguainao un sio stuocco e sì·llo impontao nello ventre allo conte Lancione e sì·llo passao oitra in parte, sì che lo conte Lancione, traditore de sio frate, là nello campo morìo. Questo famiglio, lo quale occise lo conte Lancione, gìo denanti allo re Filippo e disse ca avea muorto sio frate per vennetta de sio signore e dello tradimento lo quale esso fece, e questo provao per bona testimonianza. Questo odenno lo re Filippo li perdonao e de esso non voize vennetta. Mentre queste cose se facevano, li arcieri englesi descennevano dalla costa infra lo grano e non finavano de iettare frezze infra la cavallaria. Stienno l'arcora e saiettano:"Da, da, da". Onne iente pericolavano. Nello lato manco sfonnavano li cavalli, donne l'oste fu moito mancata. La iente feruta dao allo tornare. Li cavalli cado muorti. Li Englesi se fiongano. Quella vattaglia fu perduta. Intanto moite fuoro le vattaglie e le belle conestavilie. Que fu la più famosa? Una industria servano li Englesi da cavallo. Quanno vedevano l'omo loro muorto, in luoco dello muorto ponevano lo vivo, in luoco dello feruto remettevano lo sano, in luoco dello stanco mettevano lo fiesco. Puoi commutavano, ché·lli cinqueciento della ala ritta vennero alla fronte denanti. In luoco loro venne la mitate delli milli li quali staievano alla terza vattaglia. E quelli denanzi tornaro alli milli. E così commutavano l'ala manca. La schiera guardiadereto, la grossa regale, sempre stava ferma in sio luoco. Non se fora mossa senza granne cascione. Lo re Ianni de Maiorica in questo stormo non se morìo, ma fu feruto nella faccia. Moito crudamente esso morìo in sio paiese. Volenno tornare a sio reame, commattéo con sio cunato, lo re de Maiorica, e fu sconfitto e sì·lli fu tagliata la testa. Puoi che queste vattaglie fuoro infugate, lo re de Boemia demannao alli suoi a que partuto stava lo campo. Respuosto li fu che nello campo non era remasa perzona vivente aitra che solo esso con soa iente. Tutti Franceschi erano attriti. Li Englesi stavano fuorti e rigidi, fermi, con loro stennardo ritto levato. Allora lo re de Boemia commannao che se apparecchiassino a ferire doi grannissimi baroni, li quali erano suoi collaterali. Dissero così: "Que vòi fare tu? Tutta iente francesca ène sbarattata. Li Englesi staco fuorti. Noi non simo saiza. A tanta iente è pazzia lo ire". Respuse lo re: "Dunqua voi non site li figli de quelli doi miei amici li quali fuoro li più prodi che fussino in la Alamagna". Respusero li doi baroni: "Prodezze non bisogna, ca non simo cobelle appo·lli nimici". Respuse lo re: "Io voglio che ne iamo. Iamo a morire ad onore". Dissero li conti: "Che guadagni tu della toa morte e della nostra?" Respuse lo re: "Per bona fede, questo che dico io lo dico perché me credo pugnare per la veritate". A questo li doi baroni fuoro conventi. Como pecorella abassaro le loro voci e dissero: "Re, fa' ciò che a te piace". Allora lo re fece venire denanti a sé alquanti baroni, li quali erano li maiuri de Luzoinborgo e dello reame de Boemia, e sì·lli commannao che a sio figlio Carlo fussino obedienti como alla perzona soa e che·llo devessino onorare como re e signore. Anche li commannao che·llo salvassino fòra dello stormo. Puoi commannao alli conti, li quali erano nelle fronte denanti, che·llo mettessino tanto innanti e drento fra li Englesi, che, se fecessi mestieri, lo tornare non se potessi. Puoi incatenaose in mieso delli doi baroni sopraditti e legaro le catene delle corazze, perché fussi a loro commune una morte, uno onore. La prima schiera fu milli Todeschi de Luzoinborgo, iente da bene, Boemii e ientili uomini de Praga. Po' essi sequitavano quattro milia Franceschi, Borgognoni e Piccardi. Sio figlio Carlo se servao dereto. Allora sonaro le tromme e·lle cornamuse da parte in parte. Allora abassaro l'aste e speronaro li destrieri. Allora se fiero senza misericordia. Li Englesi servaro doi viziose industrie: la prima, che·lli cinqueciento cavalieri denanti refiescaro colli milli dereto; la secunna, ca·lle doi ale delli cinqueciento e cinqueciento fecero allargare e prennere campo a destri ed a sinistri, accostannosi alla frontiera da costa. Quanno li Todeschi se fuoro aduosso colli Englesi nelle prime frontiere, allora le ale, le quale aveano preso campo, feriero dalli lati da costa, da ciasche parte. Lo re de Boemia fu attorniato denanti, da lato e da costato. Lo cavallo dello re cadde. Lo re tramazzao e fu muorto dalli cavalli [delli] doi baroni allato ad esso. Cade in prima missore Haun dello Tornello, uno nobile cavaliero francesco lo quale portava la banniera dello re. Questo fu quasi delli primi collo re scavalcato e muorto. Li milli Todeschi non diero le spalle, anche fecero bona resistenzia, dato che non avessino né re né confallone. Moiti Englesi moriero. Alla fine la schiera dello re de Boemia fu attrita, como se trita poca saiza da granne pistello. Stava Carlo figlio dello re Ianni da longa alquanto. Quanno intese sio patre essere muorto e sconfitto, non potéo tenere le lacrime. Intanto parlao e disse: "Moramo con esso". Ià moveva soie banniere per ire. Lo sio ire era temerario, senza utile, ca·lli Englesi stavano più fuorti che mai. Ira, tristezze e furore lo menavano. Allora li suoi baroni li fuoro intorno e presero lo cavallo per lo freno e voitaro la testa inver' de Parisci e sì·llo strascinaro a malo sio talento fine in Parisci; e là se posao. Lassaose fare doice forza e fece lo meglio e mustrao lo animo de volere fare. Ora non è chi tenga campo per lo re de Francia. Lo campo remase alli Englesi. Li Englesi non se diero alla robba. Anche fecero una cosa moito notabile. Bene da tre dìe po' la sconfitta non se trassero arme da duosso, non descesero da cavallo. Non se partìo stennardo regale de campo. Non se mosse alcuno della guardia. Puoi che viddero che omo nullo contradiceva, le locora erano secure de aguaito, allora una parte ordinata se deo alla robarìa, allo arnese guadagnato, a spogliare le corpora morte. Ecco quella nobilissima sconfitta fatta in Francia alla villa de Carsia. Sessanta milia uomini muorti in campo. Moiti fuoro li presoni. Muorto lo re de Boemia, capitanio generale della oste, lo conte de Lancione de Valosi, Aloisi conte de Flandria e aitri baroni assai. Milli e cinqueciento para de speroni d'aoro se trovaro li Englesi guadagnati, senza le aitre milli e treciento banniere prese nella rotta. Li milli Todeschi ne fuoro portati in Parisci con carrette. La maiure parte dello cuorpo dello re de Boemia fu portata: gran parte ne era guasta. Queste corpora ne iessiro nude de campo a Parisci alla sepoitura. L'aitra iente non fu coita allora, anche demorao dìe quattro in piana terra, in spettaculo de onne iente. Po' questo li Englesi cuoizero lo campo e tutto loro arnese assettaro nelle carrette e, fatta ordinata compagnia, non demoraro più. Vanno e tornano a reto. Loro camino fu a Calese, lo forte castiello canto la marina, per assediarlo. Calesani stavano perfidi, fideli allo re de Francia. Pescatori soco, ca staco canto mare, mala iente, derobatori de mare. Quanta iente passava per mare de Egnilterra in Francia, tanta robavano. Allora lo re Adoardo là ne gìo e assediao quello castiello de Calese mesi tredici per mare e per terra. Per mare abbe navi che guardavano li passi, che non potessino avere né entrata né iessuta. Per terra esso sì·llo assediao. E fece uno fossato terribile da si' allo castiello. Puoi circonnao l'oste soa con un aitro fossato grannissimo e con tavole lo armao, perché nullo potessi offennere soa iente. Ora stao lo assedio. Ora ionta macine e palle de piommo su nelle porte. Tutte le infragne, tutte le scommove. Ietta prete de trabocco. Non fina notte e dìe. Ietta fuoco nella terra. Bombarde, spingarde e aitre orribile cose da pericolare lo castiello e·lli avitatori. Calesani forte se defennevano. Anche essi avevano trabocchi e tormenti da commattere in terra. Iettavano in mare, in terra, como fao la spinosa. Una piommata essìo de Calese e coize una nave granne e bona. Sfonnaola e sì·lla affonnao in mare. Ià mancata era la vivanna nello castiello e anche nello oste. Quelli non se volevano rennere. Questi non se movevano da assedio. La fame era granne. Ià Calesani aveano incomenzato a iettare li suorti che l'uno manicassi l'aitro. Nell'oste comenzava la iente povera a manicare li cavalli. Calesani, costretti per la fame, con licenzia de Adoardo mannaro lettere allo re, che succurressi. Lo re de Francia cavalcao con doiciento milia perzone. Era tornato sio figlio Ianni, duca de Normannia. Quanno l'oste dello re se approssimao a Calese, trovao l'oste dello re Adoardo forte curata sì de fossati sì de tavolati. Non pò passare, non se pò accostare per le moite frezze. Allora lo re Filippo mannao per Adoardo, che iessissi fòra allo campo, alla vattaglia. Respuse Adoardo: "Io iesseraio fòra alla mea petizione, non alla toa". Respuse lo re Filippo: "Granne vergogna ène. Io staio in campo. Tu non si' ardito iessire fore alla vattaglia". Respuse Adoardo: "Vergogna non ène, ca io non staio indarno. Lo mio stare non è senza utile. Io intenno mo' sopra Calese. Lo primo dìe che l'opera de Calese ène fornita io iesseraio fòra allo campo". Respuse lo re Filippo: "Calese te dono io. Non lassare per ciò. Da mo' sia tio". Respuse Adoardo: "Non bisogna che tu me lo doni, ca quello che io me guadagno colla spada in mano non bisogna che me sia donato". Allora lo re Filippo, non potenno passare, deo licenzia a Calesani che provedessino ad onne loro fatto e salute. Deo la voita in reto e tornao in Parisci. La fame consumava Calesani. Calesani demannaro mercede allo re de Egnilterra. Diceva lo re: "Como averaio mercede, che me haco fatto despennere tutto mio ariento?" Le porte fuoro aperte. Lo re voleva tutti Calesani occidere, ma per la pregaria instantissima della reina e de alquanti mastri in teologia lo re li perdonao. Iessiro Calesani de Calese con una gonnella per omo, aitro no. Calese con aoro, ariento, panni e animali remase alli Englesi. Quello castiello fu empito de Englesi. Bene serve alla corona de Egnilterra fi' allo dìe de mode.

Cap. XV

Dello grannissimo diluvio e piena de acqua.

Granne circuito avemo fatto, moito tiempo simo iti spierzi, moito paiese stranio avemo cercato. Cercato avemo la Lommardia e·lla Spagna, la Turchia e·lla Francia. Ora ène anche tiempo convenevile de tornare a casa. Tornemo in Italia, tornemo alle magnifiche e inaudite novitate le quali per noviello haco tutta Italia cercata. Diceremo in prima dello granne diluvio lo quale fu in Roma. Mai tanta acqua non abunnao nello Tevere. Mai non passao lo Tevere sì pessimamente suoi tiermini, mai tanto danno non fece. Currevano anni Domini MCCC[...], de pontificato de papa Chimento sesto. Nella citate de Roma crebbe lo fiume lo quale se dice Tevere, e fu per sio crescere de acqua uno diluvio mortifero e maraviglioso in tale muodo, che pochi, anche nulli, se recordassino essere stato lo simile. Tutta la state passata operze Dio le cataratte dello cielo e mannao acqua spessa e foita, non granne. Ma puoi nello autunno, recoite le uve, comenzanno dalla festa de Onniasanti, parze che·lle fontane dello abisso fussino operte per vomacare acqua. Allora comenzao lo Tevere a crescere e non descresceva niente. Innelli dìe fra Onniasanti e Natale, forza da dìe otto, durao lo crescere dell'acqua la quale terribilemente iessiva li usati tiermini dello lietto dello sio canale. Allora empìo tutta la pianura la quale iace intorno alla citate de Roma, puoi la maiure parte drento e de fore. Maraviglia ène e cosa mai non odita da Romano. Tutta la pianura de Roma nota. Soli sette cuolli se pareno non occupati dalla acqua. Questi so' li tiermini e·lli confini de tale diluvio in Roma, e dico brevemente. In prima, la piazza de Santa Maria Rotonna era tanto piena che per nulla via per essa se poteva ire, né a pede né a cavallo. Anche nella contrada de Santo Agnilo Pescivennolo venne l'acqua fi' alla contrada delli Iudiei, la quale vao alla piazza delli Iudiei da priesso a l'arco lo quale vao alla piazza delli Savielli. Anche in Colonna pervenne l'acqua fi' allo Folserace, lo quale stao a Santo Antrea de Colonna, dove stao la granne colonna. Anche porta dello Puopolo notava per tale via, che per nullo modo ad essa se poteva ire. Item lo campo dell'Austa tutto stava pieno. Item a Santo Trifo exuberao fi' allo aitare e empìo la chiesia. Anche entrao lo monistero e·lla chiesia delle monache de Santo Silviestro dello Capo. E chi voize ire alle donne, gìo colla sannolella. Item entrao lo monistero de Santo Iacovo de Settignano per la via de Tristevere in tale muodo, che tutto lo luoco e·lla chiesia notava nell'acqua, e occupao tutto lo coro collo aitare. Anche pareva a quelli che staievano nello monte de Santo Vrancazio che da pede fossi un laco terribile, in mieso dello quale pareva stare quello munistero. Anche occupao li confini e·lla chiesia de Santo Pavolo Maiure, le vigne e·lle seminata, li campi collo seminato. Anche occupao tutte le vigne nello territorio della porta de Santo Pavolo, la quale hao nome Ostiense, anche tutte le vigne in porta de Santo Pietro, brevemente onne pianura la quale iace canto lo fiume. Con ciò sia cosa che tanta abunnanzia d'acqua occupassi tutto lo spazio de Santo Spirito e·lla piazza dello Castiello e·lle case de Puortica, entrao la porta dello ponte, la quale ène de metallo, e sallìo alla porta secunna dello ponte, la quale ène de leno. Anche la onna della acqua, la quale veniva per la porta de Civita Leonina canto lo Castiello, imprimamente se commattéo coll'onna la quale veniva da Santo Spirito. Da puoi, perché pareva uno laco, lo luoco non se posseva passare se non colla sannolella. Quanno iva l'omo a ponte per la strada ritta, da casa delli Vaiani, se iva nella acqua fi' alli guazzaroni dello cavallo. Questa soperchia acqua consumao e defocao tutti li coiti e·lli seminati che trovao. E sorrenao le vigne de creta. E scarporìo li arbori da radicina. E deo per terra muri e case. Affocao vestiame. Danniao lo territorio de Roma più de dociento migliara de fiorini. Anche ruppe le catene e·lli ignegni delli mulinari e menaone da cinque bone mole, le quale connusse allo mare. Allora fuoro le mole perdute, aitre moite deslocate recuperate a granne pena. Anche per l'acqua venivano arbori, navi, mole, tavole, animali, case, le quale violentemente avea tratto lo furore della acqua. Parte de queste cose se prennevano, parte ne erano portate a mare, anche porte, banche, votti pieni de vino e vuoiti. E fu tale che prese la votte piena de vino e fu chi prese la cassa nella quale era pecunia. E fu chi vidde che per lo fiume notava una casa de leno de tavole de quelle ville, nella quale fu odito un guarzone che stava nella cola e vagiva. Queste cose, e anche innumerabile, furava lo curzo dell'acqua e menao vuovi collo arato e colla gomera. Granne tiempo piobbe. Granne tiempo lo Tevere stette enfiato. Puoi che comenzao a crescere, cinque dìe durao la piena. Fi' allo quinto dìe crebbe. Lo sesto dìe stette, non fece innanti. Lo settimo descrebbe e tornao lo fiume da puoi a sio lietto usato. Pisciainsanti, uno macellaro de Roma, aveva uno tronco de crastati in una casa canto fiume. Vedenno lo fiume crescere, cessaoli in una casa tanto da longa che li pareva impossibile che·llo fiume entrassi in quella. La notte crebbe lo fiume e stesese tanto che occupao quella casa. Pisciainsanti, quanno ìo la dimane, trovao la casa piena de acqua e·lli crastati affocati notavano. Nella citate de Fiorenza, anni Domini MCCC[...], dello mese de noviembro, alli dìe quattro, per lo granne diluvio fu poco meno sommerza la citate de Fiorenza. Lo ponte fu per terra, li forni guasti. Lì non se potéo cocere pane granne tiempo. Li pozzi se empiero de acqua. Crescente lo fiume, l'acqua crebbe. Mancanno lo fiume, l'acqua mancao.

Cap. XVI

Della galea sorrenata e derobata in piaia romana.

Currevano anni Domini MCCC[...], dello mese de [...], a dìe [...] quanno sorrenao una galea de mercatantia in piaia romana, fra Puorto e Ostia, in lo Tevere. La novella fu per questa via. Mercatanti dello renno venivano da ponente e aveano caricata in Marzilia e in Avignone una galea de panni franceschi. Lo legno era della reina Iuvanna. Lo patrone, li comiti e·lli marinari erano d'Ischia. La mercantia era de Napoletani e Ischiani. Movese la galea e forte leva in aito le vele allo viento. Passa Marzilia, passa Monaco, passa lo mare de Genova. Puoi ne passa a Pisa. Puoi ne veo a Piommino. Puoi ne veo a Civitavecchia. Passata che abbe la piaia de Civitavecchia, volevano entrare in casa. Allora se mosse una pestilenzia de viento. Lo mare bussava senza misericordia. Li vienti erano tanto contrarii, che maiesterio de marinari perdiva onne rascione. La notte era forza mesa. La oscuritate orribile. Mai non vedesti sì pena de inferno. Nullo remedio era, salvo che de tornare allo puorto de Civitavecchia. Forte e duro pareva alli marinari e alle vivate tornare in reto e tanta via perdire. Se a Civitavecchia tornavano, ponevano la nave in salvo. Fu deliverato de tenere mesa via, de canzare in piaia romana e fuire lo pericolo, recuveranno nello Tevere de Roma. Così fu fatto. Voitano li marinari suoi artificii e ignegni. Daco la voita per entrare la foce de Tevere. A quanto pericolo passao in quella entrata! Ora ne veo la galea per lo fiume, credennose essere salvi, puoi che l'ira dello mare non li appoteva, puoi che la foce era passata. Ma non gìo così. Quanno lo legno fu in mieso dello canale dello Tevere, nello luoco che iace fra Uostia e Puorto, lo legno staieva, non se moveva. Là iace uno malo passo. L'acqua hao là poco de fonno. Caddero là in quello malo passo dove ène poca de acqua. Non tennero lo pieno canale. Li usati marinari de Genova e de Cecilia quello passo schifano. Allora descesero marinari alquanti per sapere la cascione della demoranza della nave e viddero che·llo legno toccava terra; e non valeva aiutare con pali né premere con vraccia. Anche lo fiume tempestate avea. Lo legno s'era sorrenato nella rena. L'onna buttava e moveva lo legno da lato in lato. Pareva che·llo volessi revoitare sottosopra. Allora la tristezze delli marinari e dello patrone fu granne. Piango le vivate. Ciascheuno crede morire. Allora se fece dìe. Lo dìe succurze con soa chiarezza. Lo romore fu sentito allo castiello de Puorto e ad Ostia. Vennero sannolari de Puorto e portaro quelle vivate per denari in terra. Salvaro lo patrone, li marinari e·lle vivate con loro robba. La mercatantia remase nello legno. Era nello castiello de Puorto uno nobile romano: Martino de Puorto avea nome. Quello Martino abbe suoi fattori e fece tutta quella galea sgommorare e trarne la mercatantia de panni e de speziarie; li quali panni se vennéo e non ne voize rennere cobelle alli perdienti. Anche più che 'nanti sostenne de essere scommunicato, che de volere rennere l'aitruio. Assenava una soa proverbia antica: "Chi pericola in mare pericoli in terra". Per la qual cosa e per alcuno aitro excesso Martino de Puorto fu appeso per la canna, como se dicerao. In quella galea venne la moneta e·lli riennita de Provenza, la quale veniva alla reina Iuvanna de soa contrada. In quella venne panni de valore de vinti milia fiorini. In quella venne vivate de Provenzani, uomini e femine, li quali ne ivano a Napoli. In quella veniva sacca de pepe e de cennamo e de cannella. In quella venne uno feriero de Santo Ianni: avea nome frate Monreale, provenzano de Narba, cavalieri a speroni d'aoro, moito iovinetto. Arrivao con fortuna in piaia romana e perdìo là in quello pericolo onne sio arnese, fi' alla scarzella delli fiorini. Sola la perzona campao. Lo quale entrao in terra romana moito de tenerissima etate, e fu omo de masnata e deventao virtuosissimo capitanio e fecese omo de granne fatto e de granne valore e fu capo della Granne Compagnia. A l'uitimo li fu tagliata la testa in Roma, como se dicerao.

Cap. XVII

[De Leonardo de Orvieto tenagliato per Roma. ] [...]

 


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Ultimo Aggiornamento: 14/07/05 23:24