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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA


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Cronica - Vita di Cola di Rienzo

Anonimo Romano

Prologo e primo capitolo, dove se demostra le rascione per le quale questa opera fatta fu.

Dice lo glorioso dottore missore santo Isidoro, nello livro delle Etimologie, che lo primo omo de Grecia che trovassi lettera fu uno Grieco lo quale abbe nome Cadmo. 'Nanti lo tiempo de questo non era lettera. Donne, quanno faceva bisuogno de fare alcuna cosa memorabile, scrivere non se poteva. Donne le memorie se facevano con scoiture in sassi e pataffii, li quali se ponevano nelle locora famose dove demoravano moititudine de iente, overo se ponevano là dove state erano le cose fatte: como una granne vattaglia overo vettoria [...] tristezze, disconfitte inscolpivano [...] e aitri animali in sassi overo iente armata, in segno de tale memoria. E queste sassa fonnavano in quelle locora dove le cose fatte erano, in segno de perpetua memoria. Livro non ne facevano, ché lettera non se trovava appo li Grieci. E questo muodo servaro li Romani per tutta Italia e in Francia e massimamente in Roma; ché, facenno asapere alli loro successori [...] loro fatti, fecero arcora triomfali in soli[i]s con vattaglie, uomini armati, cavalli e aitre cose, como se trova mo' in Persia e in Arimino. Da poi che Cadmo comenzao a trovare le lettere, la iente comenzao a scrivere le cose e·lli fatti loro per la devolezza della memoria, e massimamente li fatti avanzarani e mannifichi: como Tito Livio fece lo livro dello comenzamento de Roma fino allo tiempo de Ottaviano, como scrisse Lucano li fatti de Cesari, Salustio e moiti aitri scrittori non lassaro perire la memoria de moite cose antepassate de Roma. Dunqua io, lo quale [...] mea ientilezza, como piaciuto ène a Dio, aio vedute cose de moita memoria per la loro granne escellenzia de novitate in questo munno, lassaraio passare queste cose senza alcuna scrittura? Certo non fora convenevole che de esse remanga tenebre de ignoranzia per pigrizia de scrivere. Anche ne voglio fare speziale livro e narrazione. L'opera ène granne e bella. Questo affanno prenno per moite cascione. La prima, che omo trovarao alcuna cosa scritta la quale se revederao avenire in simile, donne conoscerao che·llo ditto de Salamone ène vero. Dice Salamone: "Non è cosa nova sotto lo sole, ché cosa che pare nova stata è". L'aitra cascione de questo ène che qui se trovarao moito belli e buoni esempî; donne porrao omo alcuna cosa pericolosa schifare, alcuna porrao eleiere e adoperare, sì che lo leiere de questa opera non passarao senza frutto de utilitate. La terza cascione ène che aio respietto alla magnificenzia de questa novitate, como de sopra ditto ène; ché cosa de poco essere omo non cura, lassala stare, cosa granne scrive. La quarta cascione ène quella che mosse Tito Livio. Dice Tito Livio nella prima decada e fao menzione de Alisantro de Macedonia: quanta iente abbe da pede e da cavallo, quanto tiempo durao soa signoria, quanto se stese per lo munno. E dice che soa grannezza fu nulla cosa in comparazione de Romani. Questo dicenno responne ad una questione la quale omo li potria fare e dicere: "Innello narrare le istorie de Romani como te impacci delli fatti de Alisantro?" Responne Tito Livio e dice: "Questo faccio per ponere requie allo animo mio". Quasi dica: "Lo animo mio ène stimolato de scrivere questa materia. Voglione toccare. Puoi me se posa consolato lo mio animo". Così dico io: "L'animo mio stimolato non posa finente dio che io non aio messe in scritto queste belle cose e novitati le quale vedute aio in mea vita". La quinta cascione ène anche quella che scrive Tito Livio nello proemio dello sio livro, nella prima decada. Dice: "Mentre che sto occupato a scrivere queste cose, so' remoto e non veggo le crudelitati le quale per tanti tiempi la nostra citate hao vedute". Così dico io: "Mentre che prenno diletto in questa opera, sto remoto e non sento la guerra e li affanni li quali curro per lo paese, li quali per la moita tribulazione siento tristi e miserabili non solamente chi li pate, ma chi li ascoita". Quello che io scrivo sì ène fermamente vero. E de ciò me sia testimonio Dio e quelli li quali mo' vivo con meco, ché le infrascritte cose fuoro vere. E io le viddi e sentille: massimamente alcuna cosa che fu in mio paiese intesi da perzone fidedegne, le quale concordavano ad uno. E de ciò io poneraio certi segnali, secunno la materia curze, li quali fuoro concurrienti con esse cose. Questi segnali farrao lo leiere essere certo e non suspietto de mio dicere. Anche questa cronica scrivo in vulgare, perché de essa pozza trare utilitate onne iente la quale simplicemente leiere sao, como soco vulgari mercatanti e aitra moita bona iente la quale per lettera non intenne. Dunqua per commune utilitate e diletto fo questa opera vulgare, benché io l'aia ià fatta per lettera con uno latino moito [...] Ma l'opera non ène tanto ordinata né tanto copiosa como questa. Anche questa opera destinguo per capitoli, perché volenno trovare cobelle, senza affanno se pozza trovare. [...]

Cap. secunno

Como Iacovo de Saviello senatore fu cacciato de Campituoglio per lo puopolo, e della cavallaria de missore Stefano della Colonna e missore Napolione delli Orsini.

Dunqua da quale novitate comenzaraio? Io comenzaraio dallo tiempo de Iacovo de Saviello. Essenno senatore solo per lo re Ruberto, fu cacciato da Campituoglio dalli scendichi. Li scendichi fuoro Stefano della Colonna, signore de Pelestrina, e Poncello de missore Orso, signore dello Castiello de Santo Agnilo. Questi se redussero nello Arucielo e, sonata la campana, fecero adunare lo puopolo, la moita cavallaria armata e li moiti pedoni. Tutta Roma stava armata. Bene me recordo como per suonno. Io stava in Santa Maria dello Piubico e viddi passare la traccia delli cavalieri armati li quali traievano a Campituoglio. Forte ivano regogliosi. Moiti erano, e bene a cavallo e bene armati. L'uitimo de quelli, se bene me recordo, portava una iuba de zannato roscio e una scuffia de zannato giallo in capo, una mazza a cavallo in mano. Passavano per la strada ritta, per la posana, donne demorano li ferrari, da canto a casa de Pavolo Iovinale. La traccia era longa. La campana sonava. Lo puopolo se armava. Io stava in Santa Maria dello Piubico. A queste cose poneva cura. Iacovo de Saviello senatore stava in Campituoglio. Erase stecconiato intorno. Non vaize niente sio infortellire, ché sallo su Stefano, sio zio, e Poncello scindichi de Roma, e doicemente lo presero per mano e miserollo a valle, acciò che non avessi pericolo nella perzona. Fu alcuno che penzao e disse: "Stefano, como puoi fare tanta onta a tio nepote?" La resposta de Stefano fu superva, disse: "Con doi denari de cerase lo rappagaraio". Mai questi denari non se trovaro. Anche comenzo io dallo tiempo che questi doi baroni fuoro fatti cavalieri per lo puopolo de Roma, bagnati de acqua rosata per li vintiotto Buoni Uomini in Santa Maria de l'Arucielo a granne onore. L'uno fu chiamato missore Stefano, l'aitro missore Napolione. Granne fu la festa, granne fu l'onore là in Campituoglio. Nella piazza de Santa Maria fuoro spase trabacche e paviglioni. Là erano tromme e ceramelle e onne instrumento. Vedesi rompere de aste, currere de cavalli e pettorali de sonaglie. Moite erano le banniere. Più erano le reconoscianze. Moita se faceva festa. Moito li fu fatto onore. Nella chiesia de Santa Maria de l'Arucielo stavano doi lietti, li più onorati. Ben pareva cosa reale. Queste cose me recordo como per suonno. Currevano anni Domini MCCC [...] li sopraditti cavalieri bagnati ne iero allo re Ruberto a Napoli, lo quale li cenze la spada; la quale cosa moito despiacque allo romano puopolo. Certo da queste cose io non comenzo; ca, benché così fosse, io era in tanta tenerezza de etate, che conoscimento non avea elettivo. Anco voglio comenzare da cosa de più aitezza. Incomenzaremo collo nome de Dio dalla sconfitta dello principe della Morea, la quale fu per questa via.

Cap. III

Como fu sconfitto lo principe della Morea a porta de Castiello Santo Agnilo, e como fu trovato Guelfo e Gebellino, e delle connizione de Dante e que fine abbe soa vita.

Currevano anni Domini MCCCXXVII, dello mese de settiembro, nella viilia de santo Agnilo de vennegne, quanno fatta fu la granne sconfitta per li Romani a porta de Castiello; la quale fu per questa via. Li elettori dello imperio nella Alamagna liessero Ludovico duce de Bavaria in imperatore, lo quale non fu obediente a papa Ianni, como se dicerao. Quanno la venuta de questo elietto a Roma fu intesa, papa Ianni, lo quale era in quello tiempo, e Ruberto re de Apuglia se provedevano de pararese a soa venuta. Dunqua de loro commannamento missore Ianni della Rascione, principe della Morea, frate dello re Ruberto, e missore Ianni Gaietano, legato in Toscana, se muossero con iente moita a Roma per fare contrasto e reparo. La adunanza fu fatta nella citate de Nargne. La iente fu moito bella e bene acconcia. Setteciento fuoro li cavalieri, pedoni senza fine. Tutti li baroni de casa Orsina erano con essi: missore Napolione, cavaliero noviello dello puopolo, Bertollo de Francesco dello Monte, nepote dello legato, canfione della parte guelfa, missore Antrea de Campo de Fiore e moiti aitri. La iente ne veniva grossa e smesurata per occupare Roma. Romani, in semmiante de fare buono scudo, se 'nantipararo e fecero capitanio dello puopolo uno vertuosissimo barone de casa della Colonna - Sciarra fu sio nome -, lo quale fu delli più dotti e savii de guerra che in quello tiempo fussi. 'Nanti che lo legato approssimassi, Sciarra abbe tutte le fortezze de Roma. Bene abbe Castiello Santo Agnilo. Puoi ordinao lo puopolo e fece caporioni. Fece capo vinticinque, tutti romani. Ordinao tutti conestavili. Moito li teneva solliciti. Bene guardava le porte. Spesso faceva parlamento. Moite spie avea. Iacovo Saviello, Teballo Santo Stati e moita baronia collo puopolo era. Quanto la venuta dello legato più approssimava, tanto li Romani stavano più solliciti. Ecco che la notte della viilia de santo Agnilo fuoro ionti in Roma. E entraro nella citate Leonina, non per la porta, ché se guardava, ma entraro per lo muro rotto. Ruppero lo muro quale stao sotto le Incarcerate e, dato quello muro per terra, fecero uno granne guado in fronte allo pozzo e per quella così fatta via tradussero loro banniere, loro legioni de iente. Entrati, occuparo da porta de Castiello fi' a Santo Pietro. Tutto era copierto de iente armata. Bene sonavano tromme e trommette, naccari e cerammelle. Gran festa facevano. Bene scrissero lettere della entrata de Roma. Fra tanto la porta dello brunzo stava enzerrata. Quanno Sciarra, lo franco capitanio, sappe che la iente era ionta, non se dubitao niente, anco se armao e fece sonare la campana a stormo. Mesa notte era e forza lo primo suonno. Uno vanno con tromme mannao per la terra, che onne perzona fosse armata, ca·lli nemici erano entrati in Puortica, e che traiessino a Campituoglio. La iente che dormiva subitamente se sviglia. Ciascuno prenne arme. Coscia abbe nome lo vannitore. La campana sonava terribilemente. La iente trasse a Campituoglio. Là traie la baronia e·lli populari. Lo buono capitanio parlao e disse ca venuti erano per entrare in Roma, per mozzare le zinne delli pietti delle donne de Roma. Moito inanimao la iente. Poi partìo la iente in doi parte. De l'una parte fu capo esso, dell'aitra fu capo Iacovo de Saviello, lo quale fu mannato alla porta de Santo Ianni, quale se dice porta Maiure. E questo perché sapeva ca quella iente se era partuta e veniva da doi porte, parte da porta Castiello, parte da porta Maiure. Ma non venne così, ca, como Dio voize, fu dato lo dìe de santo Agnilo. Quelli intesero lo dìe po' santo Agnilo. Donne la cosa venne falluta, ca non vennero alle porte ad uno ponto né ad uno dìe. Quanno Iacovo ìo alla porta, non trovao alcuno. Là se tenne senza alcuno impaccio conestavilito. Dall'aitra parte cavalca Sciarra con sio confallone. Granne ène la cavallaria. Sette rioni se abiaro denanti armati. Esmesurato era lo puopolo. Ionze a ponte de Santo Pietro. Io me recordo che in quella notte uno cavalieri romano armato, essenno cavalcato a ponte, odìo una trommetta de nimici. Volenno fuire tramazzao da cavallo. Lassao lo cavallo e vennesene a pede. Sacci ca non abbe carestia de paura! Quanno lo puopolo fu ionto a ponte, allora se faceva dìe. Era la aurora. Allora Sciarra commannao che·lla porta dello brunzo fossi operta. La folla era granne. Moito fuoro storditi li nimici, vedenno per lo ponte li moiti pennoncielli. Sapeno ca onne pennone avea venticinque uomini. Ora se opere la porta. Lo rione delli Monti vao denanti. Allocase lo puopolo per li puortichi, per la piazza de Castiello. Là erano schierati li sollati e l'aitre iente. Ora vedese currere de cavalli. L'uno lo broccia de sopra a l'aitro. Chi dao, chi tolle. Tromme sonavano de·llà e de cà. Granne è lo romore, granne è lo stormo. Chi dao, chi tolle. Sciarra e missore Antrea de Campo de Fiore se infrontano insiemmori e sì se villaniaro forte. Puoi se ruppero aduosso le aste. Puoi se colpiavano delle spade. Non ne voleva la vita l'uno de lo aitro. Intanto se departiero e tornaro a loro iente. Vedese ferire, lanciare e prete iettare. Ben pare che fossi stormo crudele. Lo puopolo de Roma vao 'nanti e reto como onna de mare. Ma li nimici daienno lato, li Romani se allocaro fi' a mesa la piazza. Là fu fatta una novitate così. Uno, lo quale avea nome Ianni Manno de Colonna, portava lo confallone dello puopolo de Roma. Como ionze allo pozzo lo quale stao in quella piazza denanti alle Incarcerate, donne era rotto lo muro, prese questo confallone e iettaolo nello pozzo. E questo fece per dare uitima sconfitta allo puopolo de Roma. Bene debbe lo traditore perdire la vita. Non perciò perdìo vigore lo Romano, ché ià lo principe dava a reto. Ora vedese fuire, ora vedese commattere. Là se pare chi ène figlio de bona mamma. Sciarra della Colonna forte conforta soa iente e fece una notabile cosa, che la soa sopravesta cagnao in poca ora. Granne senno lillo fece fare. Granne parte dello puopolo passao canto lo fiume, dallo lato de Santo Spirito. Là per la folla affocati fuoro cinque pedoni romani. Anco là fu un'aitra novitate. Uno granne omo de Roma - Cola de madonna Martomea delli Aniballi avea nome - fu perzona assai ardita, iovine como acqua. Coize audacia de volere prennere per la perzona lo principe. Speronao lo destrieri e ruppe la forte schiera dove stava affasciato lo principe. Venneli denanti e destese la mano per pigliarlo. Bene se ne·llo credeva menare; ma non respusero le mesure, ca·llo principe li menao de una mazza de fierro e ferìo lo cavallo. La potenzia dello destrieri dello principe fu tanta che recessava a reto Nicola e recessannose a reto Nicola, non abbe sufficiente spazio lo sio cavallo. Donne li piedi dereto li vennero meno e cadde in quello fossato lo quale stao in fronte alla porta dello spidale de Santo Spirito, lo quale ène fatto per defesa de l'uorto. In quello fossato lo cavallo e esso, credennose retornare, caddero menati a forza dalli cavalli dello principe, e là fu occiso. Granne fu la tristizia che Roma abbe de così inclito barone. Allora se fiariao lo puopolo. Lo principe deo a reto. Inchinao soa schiera. Comenzaro a fuire. Lo luoco donne se partiro fu porta Veredara. Quella fu la via che li campao. Ora se aiza la terza. Lo fuire ène granne. Maiure è lo maciello. Così se macellavano como le pecora. Nulla resistenzia faco. Moita iente ce fu occisa. Moita preda Romani guadagnaro. Alquanti baroni romani della parte Orsina, li quali fecero resistenzia, fuoro presoni. In presone stettero tanto quanto lo capitanio voize. Infra li quali fu Bertollo capo de parte Orsina, capitanio della Chiesia e della parte guelfa. E se non fusse che Sciarra lo portava in groppa, li Romani lo àbberano muorto. Aitra iente non fece defesa, cioène Napoletani, Provenzali, Franceschi, Pugliesi. Tante fuoro le corpora morte che nude iacevano, che non se pote dicere. Per tutta piazza de Castiello fi' a Santo Pietro, da Santa Maria in Trespadina, da piazza de Santo Spirito, per tutte puortica, dalli Armeni, per onne strada iacevano como la semmola seminati, tagliati, nudi e muorti. Là fra questa iente iaceva lo conte de Santo Severino e moita aitra bona iente: la vista lo mustrava. Ora se delequa lo principe con quella soa iente che potéo cogliere. Po' moiti dìe fuoro trovati uomini muorti per le vigne, armati, nelle capanne e nelli cupi delli arbori, li quali nello stormo erano stati feruti. Per la via lo spirito li avea abannonati. Sciarra tornao a Campituoglio con granne triomfo. Bello pallio mannao a Santo Agnilo Pescivennolo e uno bello calice per merito e onore de questa romana vittoria. In questo tiempo fuoro fatte quelle maladette parte, Guelfi e Gebellini, li quali non erano stati 'nanti, anco erano stati Bianchi e Neri. Una sera, quanno la iente lassa opera, appriesso allo cenare nella citate de Fiorenza se appicciaro doi cani. L'uno abbe nome Guelfo, l'aitro Gebellino. Forte se stracciavano. A questo romore de doi cani la moita iovinaglia trasse. Parte favorava allo Guelfo, parte allo Gebellino. Quanno se fuoro li cani [...]

Cap. IIII

[De papa Ianni e della venuta dello Bavaro a Roma e della soa partenza

e dello antipapa lo quale fece. ]

[...]

Cap. V

Dello mostro che nacque in Roma e dello legato dello papa lo quale fu cacciato de Bologna.

[...] una citate, da priesso a Bologna vinti miglia: Ferrara hao nome. De questa Ferrara so' cacciati alquanti citadini nuobili, li quali se chiamano quelli da Fontana. E questo avenne perché venniero Ferrara a Veneziani. Ora ne soco signori in luoco loro li marchesi da Este. Questi de Fontana pregaro lo legato che li tornassi in loro casa per anni tre. Li marchesi de Ferrara respusero allo legato fiorini quattordici milia per anno, acciò che non tornassino quelli li quali vennuta avevano la loro patria a Veneziani. Po' li quattro anni dello tributo, lo anno settimo dello sio dominio, lo legato non li pareva essere signore se non aveva la signoria libera. Fece una oste generale e sì·lla mannao sopra Ferrara. Ferrara ène una longa terra, miglio uno, e iace sopra la ripa de uno nobile e granne fiume lo quale hao nome Po. Da l'aitro lato li stao un aitro vraccio de Po. Questa citate, como ditto ène, è signoriata dalli marchesi da Este, li quali so' nuobili uomini, moito amati dalli tiranni de Lommardia. L'oste dello legato fu potentissima. De colpo abbe tutto lo contado de Ferrara. Puoi passao lo Po e fece uno ponte de lename a soa posta. Puoi toize lo borgo de Ferrara, lo quale vao invierzo Venezia. Poca cosa era da fare. La terra era perduta. Per acqua e per terra staieva assediata. Erance da fare uno bottone. Lo capitanio dell'oste era lo conte de Armeniac, lo quale sparlava contra li baroni de Romagna e dicevali traditori, lo quale per grannezza soa non curava de fare quella guardia la quale aveva de bisuogno. Anco ce fu lo puopolo de Bologna, lo quale non stava volentieri fore de casa. Anco ce fu la moita sollaria, li quali non erano pacati, ca·lle pache che se·lli mannavano non se·lli daievano. Anco ce fu li signori de Romagna. Lo legato li teneva moito poveri. Nulla provisione li daieva. Quanno ademannavano alcuna grazia, responneva: "Bene. Faciemus ". Vedi que doveano penzare quelli che suoglio essere signori e non haco cobelle! Drento in questa Ferrara ionzero da doi milia varvute. Lo marchese Rainaldo non demorao. Su nell'ora della terza essìo de Ferrara e deose sopra l'oste. L'oste pranzava. Ora vedese occidere de iente, vedese fuire, vedese strilla e pianto. Lo conte Armeniac fu presone e revennuto LXXX milia fiorini. Li signori de Romagna se lassaro prennere de loro spontanea voluntate. La moita iente fu morta e presa. Moita robba fu guadagnata. Senza defesa fu guadagnato uno esmesurato trabocco lo quale aveva nome asino. Lo puopolo de Bologna se recuverao in su lo ponte. Lo ponte era legato de stroppe. Cadde in fiume. Quanta iente morìo bene puoi sapere. Alcune perzone fuoro che se appennicaro alle funi delle mole e per l'acqua campavano. Venne uno con una accetta e tagliao quella fune. Tutta quella iente, la quale campava, annegao in Po. Vedi se figlio fu de demonio quello omo! Vinti milia perzone pericolaro nella rotta. Lo carroccio tame a Bologna tornao. Quanno la novella fu ionta a Bologna, lo pianto fu grannissimo e·lla tristezze granne. Lo legato non se dubitao niente. In prima scrisse lettere a missore Malatesta, lo quale colli aitri tiranni era lassato. La sentenzia della lettera era: perché se era rebellato alla Chiesia romana? Missore Malatesta rescrisse una lettera. Aitro non conteneva se non questo: "Bene. Faciemus ". Po' questo lo legato se apparecchiava de fare un'aitra oste moito più pericolosa. Fece venire da sio paiese cinqueciento iannetti vestuti de giallo con longhe gamme, con garavellotti in mano. Puoi mise coite grannissime per cogliere moneta, per l'oste fare. Quanno lo puopolo de Bologna se sentìo agravato sì per le coite sì per la iente morta, forte ne mormorava. Uno dottore de leie - missore Brandelisio delli Gozadini abbe nome - su nella piazza dello Communo se mosse con una spada in mano. Leva puopolo e caccia dello palazzo della Biada lo menescalco dello legato e occise alquanti e derobao. Ora fu puosto lo assedio allo bello e nobile castiello dello legato, dello quale de sopra ditto ène. Lo assedio stette dìe quinnici. L'acqua li fu toita, perché lo curzo li fu rotto. Dentro era fodero de pane, vino, carne inzalata e moite cose. Li Bolognesi traboccavano lo sterco dentro dello castiello e valestravano. Vedenno lo legato che tutto lo munno se·lli era rebellato, fu sollicito de campare soa perzona. Là trasse lo vescovo de Fiorenza. Lo legato se mise in mano de Fiorentini. Li Fiorentini lo trassero fòra allo castiello. Canto le mura ne iva la strada la quale vao alla porta de Fiorenza. Tutto lo puopolo de Bologna li gridava e facevanolli le ficora e dicevanolli villania. Le peccatrice li facevano le ficora e sì·lli gridavano dicennoli moita iniuria. Bene se aizavano li panni dereto e mostravanolli lo primo delli Decretali e lo sesto delle Clementine. Moita onta li fecero. Ben lo àbberano manicato a dienti se non fussi stato in balìa de Fiorentini. Lo legato fece la via delle Alpe con povera compagnia e con poche some. Ionze a Pisa, da Pisa in Avignone. Bolognesi derobaro tutta iente de Lengua de oca. Moiti ne occisero. Puoi deruparo a terra quello nobile castiello de che ditto ène. Aitro non lassaro se non la chiesia. Fi' dalli fonnamenti trassero le mura. Quanno questo fu, currevano anni Domini MCCCXXXIV, de mese [...] La campana dello legato àbbero li Eremitani; la nobilissima cona dello aitare li frati predicatori de santo Domenico, la quale ène de alabastro, opera pisana, valore de X milia fiorini. La lampana cerchiata d'aoro, la quale ardeva nello coro dello legato, àbbero li frati menori. Anco àbbero tutta la carne secca, tanto potessino deluviare. In questo tiempo era in Bologna missore Ianni de Antrea, dottore de Decretali, omo de tanta escellenzia de senno, de scienzia e cortesia, che passava. Questo fu quello lo quale fece lo livro lo quale se dice la Novella.

Cap. VI

Como frate Venturino venne a Roma colle palommelle

e dello campanile de Santo Pietro lo quale fu arzo.

Currevano anni Domini MCCCXXXIIII, dello mese de marzo, in quaraiesima uno frate predicatore, lo quale avea nome frate Venturino de Bergamo de Lommardia, dello ordine de santo Domenico, commosse con soie predicazioni devote la maiure parte de Lommardia a devozione e penitenza e connusse questa iente in Roma allo perdono. Erano Bergamaschi, Bresciani, Comani, Milanesi, Mantovani. Una parte fuoro ientili e buoni, ma le dieci parte fuoro delle vescovata. Questa iente, la quale venne con frate Venturino, fu innumerabile. E tanto fu più cosa maravigliosa, quanto arrecavano abito. L'abito, lo quale questo frate Venturino li avea dato, era che questi portavano una gonnella bianca, longa, passata mesa gamma. Sopra la gonnella portavano uno tabarretto de biado corto fino allo inuocchio. In gamme portavano caize de bianco. De sopra le caize portavano calzaroni de corame fi' a mesa gamma. In capo portavano una capelluzza de panno de lino bianca e de sopra portavano una capelluzza de panno de lana biada, nella quale dalla fronte portavano uno tau. La parte de sopra era bianca, la parte de mieso era roscia. In pietto portavano una palomma bianca, la quale teneva in vocca uno ramo de oliva in segno de pace. Nella mano ritta portavano lo vordone, nella manca li paternostri. Con questa iente frate Venturino descenne per Lommardia predicanno. Moita iente lo sequita. Veone in Fiorenza. Fiorentini graziosamente recipiero cotale iente. Fuoro divisi per le case caritativamente e dato a loro da magnare, buono lietto, lavati piedi, fatta moita caritate per tre dìe senza premio. Puoi se muossero li moiti Fiorentini e presero quello medesimo abito e sequitano frate Venturino. Viengo a Vitervo. Da Vitervo entrano in Roma. Ora la fama de frate Venturino de Bergamo forte ventava a Roma. Dicevase ca voleva aconvertire Romani. Quanno fu ionto, fu receputo in Santo Sisto. Là predicao. Soa iente moito pareva ordinata e bona. La sera cantavano le laode. Bene ivano ad ordine. Uno confallone de zannato arrecavano, lo quale donao alla Minerva. Allo dìe de presente penne nella voita della Minerva sopre la cappella de missore Latino. Ène de zannato verde, luongo e ampio. Drento stao penta la figura de santa Maria. De·llà e de cà staco penti agnili, li quali sonano viole, santo Domenico e santo Pietro martire e aitri profeta. Quello segnale lassao. Puoi predicao in Santa Maria Minerva lo dìe della Annunziazione. Puoi predicao in Campituoglio, nello parlatorio. Tutta Roma trasse per odire soa predica. Forte tenevano mente Romani. Queti stavano. Ponevano cura se peccava in faizo latino. Allora predicao e disse ca sciogliessino le calzamenta delli piedi loro, ca la terra dove stavano era santa. E disse che Roma era terra de moita santitate per le corpora le quale in essa iaccio. Ma Romani so' mala iente. Allora li Romani se ne risero. Puoi se domannao una grazia e uno dono a Romani. Da vero che·llo ioco de Nagoni non era fatto. Disse frate Venturino: "Signori, voi devete fare una vostra festa la quale gosta moita moneta. Non vao né per Dio né per santi; anche se fao per idolatria, in servizio de demonio. Questa pecunia datela a mi. Io la despenzaraio per Dio alli uomini necessitosi, li quali non puoco fornire lo tiempo fi' allo sudario vedere". Allora li Romani se comenzaro a fare gabe de esso e dissero ca era pascio. Così dicenno non più demoraro, anche se levaro in pede e partirose e lassarolo solo. Puoi predicao in Santo Ianni. Romani non lo volevano odire, anche ne facevano la caccia. Allora se desperava dell'ira e sì·lli maledisse e disse ca mai non vidde più perverza iente. Non comparze più. Anche se partìo de secreto e gìone fòra de Roma. Ionze in Avignone. Lo papa lo privao dello predicare. In questo tiempo uno folgoro ferìo lo campanile de Santo Pietro e tutto lo cucurullo arze. Le campane non toccao. Anche in questo tiempo morìo papa Ianni, dello quale ditto ène. Quanno approssimao a morte, revocao lo errore de chi diceva ca·lle anime delli beati non veiono Dio de faccia. E disse ca ciò che avea ditto avea ditto per disputazione fare.

 


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Ultimo Aggiornamento: 14/07/05 23:25