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De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Con la penna d'oro

ITALO SVEVO

Quattro atti

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SCENA SETTIMA

ALBERTA e TELVI

 

ALBERTA.          L'ispirazione? Anche lui ha bisogno di donne.

TELVI.                  Ma io non ne ho bisogno. Da me è proprio il contrario. Magari non ne avessi mai avuta alcuna.

ALBERTA.          Non pensavo a voi, mio buon amico. Pensavo a cinquecentomila altri uomini, ma non a voi.

TELVI.                  Eppoi chissà se a lui occorre proprio una donna? Parlava sempre dell'ispirazione. Chi dice si tratti di una donna?

ALBERTA.          Sí. Può essere si tratti non di una donna sola, ma di piú donne. È tanto evidente che mi pare ridicolo un uomo che vada proclamando il suo bisogno di donne. Discrezione, diamine! È il vero modo per farsi evitare dalle donne cotesto di battere il tamburo per richiamarle. È questo grido fuori di posto che poi lo induce a fare tutto fuori di posto, gambe, coscie e colori…

TELVI.                  Non piace neppure a me ma forse è perché non me ne intendo. Fu Emma che volle il mio ritratto fatto da lui. Lo tengo come un ricordo che non mi piace. Un altro ricordo della mia bestialità. È molto istruttivo. Brutto come sono, serio e triste come sono guardo quella faccia brutta e triste che guarda proprio me. Mi pare di guardarmi in uno specchio. Uno specchio bruttato da colori che non c'entrano, dei garofani al cioccolato.

ALBERTA.          E questo egli chiama pittura come poi sarà capace di dire amore quel suo bisogno d'ispirazione.

TELVI.                  Ma sono questi gli uomini amati dalle donne. Io non ci ho niente in contrario. Che li amino. Ma hanno torto. Posso dirlo io… che piú non c'entro.

 

SCENA OTTAVA

ALICE e DETTI

 

ALICE.                 Ecco fatto. Buona sera signor Telvi.

TELVI                   (animato, le bacia la mano). Buona sera, signora. Come sta?

ALBERTA           (esaminando Alice che ha sempre in mano la busta col denaro). Bene, bene, ma troppo scollata. Troppo! Che cosa ha fatto di questo vestito quella sciocca? Certo da me non era cosí. Io non ero tanto nuda.

ALICE                  (ridendo). Io credo di sí. È tutt'un'altra impressione quella che si ha della propria nudità o di quella degli altri. Un po' di freddo come lo sento io ora non è mica tanto importante come la visione di tanta carne o - come penserà il signor Telvi - di tanta sfacciataggine.

TELVI                   (confuso). Io, signora. Io penso tutt'altra cosa. Ognuno ha il diritto di vestire come crede. Lei, poi, signora, è impossibile sia mai vestita male.

ALBERTA           (decisa). Non puoi restare cosí. Senti! Io ho un velo di là che lenirà la tua sensazione di freddo. Vieni! O resta qui. Son subito di ritorno. (Via a destra.)

 

 

SCENA NONA

ALICE e TELVI

 

ALICE                  (dinanzi allo specchio e lontano da esso per vedersi tutta) Com'è viva, Alberta. Vuole quello che vuole. Mi piace. Magari sapessi io quello che voglio. Senta, signor Telvi. Dicono che Lei abbia studiato profondamente molte lingue. C'è qualche lingua in cui si può dire il contrario di Io voglio. Per esempio io sono voluta, altri mi vogliono.

TELVI.                  Sí! In molte lingue si può dire che molti La vorrebbero.

ALICE                  (lo guarda per un istante stupita eppoi ritorna allo specchio). Il vero, grande difetto, il solo difetto è nella gonna. Cosí liscia. Avevano torto l'anno scorso. Che bestie. Se in allora il sarto avesse avuto la buona idea che ebbero quest'anno, io sarei piú felice. La moda è una cosa crudele. Se non ci fosse, ci sarebbe meno differenza fra poveri e ricchi. Peccato! Sarebbe tanto bello di restar poveri ed essere tuttavia vestiti alla moda.

TELVI.                  La moda a me piace. Quando avevo una moglie… Oh, non faccia come se non lo sapesse. Parlo di quella mia moglie ch'è scappata una sera perché non ne poteva piú. Io non penso di dover fare dei segreti con Lei, Signora, per cui ho tanta ammirazione. Eppoi io non so conversare che con chi sa quello che m'è toccato. Con gli altri mi sento imbarazzato e seccato. Quando, dunque, c'era mia moglie con me, e arrivavano alla casa tanti oggetti e vestiti che la moda impone, questa casa ingombrata mi pareva sempre piú casa, sempre piú mia… nostra voglio dire, e salutavo questi oggetti inutili, ingombranti, di cui proprio non mi curo perché non so vederne né la bellezza né l'utilità, come tanti amici e tanti alleati.

ALICE                  (accorata). Erano della donna sua.

TELVI.                  Di quella ch'è ora di un altro. La quale ora addobba un'altra casa. Non credo che i suoi rapporti con la moda sieno piú tanto intimi. Sarà anche lei condannata alla moda dell'anno scorso.

ALICE.                 Poverina! (Poi.) Oh, scusi tanto.

TELVI.                  Dica pure. Da me non c'è odio. A che servirebbe l'odio?

ALICE.                 Mi Scusi. Mi lasciai sfuggire quella parola di compianto proprio perché pensavo un poco a me. Per farmi perdonare vede come mi rivelo a lei. Mi denudo addirittura. Mi perdona?

TELVI.                  Se Le perdono? Stia a vedere. Mi denudo anch'io con Lei. Vuol vedere? (Alice è spaventata.) Senta! A me di mia moglie non importa affatto. Io non so quello che Le abbiano detto di me, ma io mi credo autorizzato ad asserire che io non sono uno sciocco. So cinque lingue. Molti le sanno ma non molti come me hanno fatto dei buoni affari in cinque lingue. Può credere perciò che io da molto tempo sospettavo quello che si moveva nell'animo di Emma. Non ch'io credessi dovesse finire cosí. Ero tanto buono io che pensavo che un po' di bontà per me ci dovesse essere anche nel suo cuore. Non mi amava però; di questo io ero sicuro da oltre un anno. Ma che importava? Il tempo trascorreva dolcemente nella casa piena di cose nostre. Le ore di casa erano brevi, perché i miei affari mi rubavano la maggior parte del mio tempo, ma tanto dolci. Io le raccontavo la mia giornata intera eppoi la guardavo come disponeva e regolava le cose pieno di gratitudine perché essa lavorava per me. Adesso non è la donna che mi manca ma via lei tutto è crollato. La mia casa è tuttora piena di roba ma è un magazzino. Io non ci vado che quando a tastoni, traverso a tutta quella roba vado a cercare il mio letto.

ALICE.                 Mi dispiace tanto di sentire ch'è infelice. Peccato non abbia un figlio. Sarebbe tutt'altra cosa.

TELVI.                  Un figlio privo di madre. Non so figurarmelo.

ALICE.                 È vero. Ma avendo dei denari si può provvedere al benessere del figlio. Io ne ho due dei figli. Sono la mia consolazione e il mio dolore perché i poverini sono privi di padre.

TELVI.                  È per questo che mi trovo tanto bene con Lei. La differenza fra noi due è che Lei rimpiange suo marito mentre io ho il dovere di non rimpiangere mia moglie.

ALICE.                 È vero! Mio marito - poverino - non ha colpa se ha dovuto lasciarmi.

TELVI                   (che s'aspettava ad una confidenza resta disilluso). Poverina! È quello che dico anch'io.

 

 

SCENA DECIMA

CARLO e DETTI

 

CARLO.               La signora Alice e Telvi. (Saluta stringendo le mani ad ambedue.) Non sapevo ch'eravate qui. Dov'è Alberta?

ALICE                  (che si copre il decolleté con le braccia). Non so perché tardi tanto. È andata a cercare un velo per diminuire il mio decolleté che trova eccessivo.

CARLO                (piano ad Alice, ridendo). Eppure, se non sbaglio, essa portava questo vestito senz’alcun’attenuante.

ALICE.                 Può parlare ad alta voce. Il signor Telvi sa e del vestito e della necessità del velo. Sentí anche ch'io scoprii che la propria nudità appare sempre piú casta dell'altrui.

CARLO.               Io, da uomo, non conosco che il decolleté altrui. (Guardando Alice che ha lasciato cadere le braccia.) C’è una differenza certo fra il decolleté della propria moglie e quello delle altre. Il primo desta meno curiosità.

ALICE.                 Non dica cattiverie, Carlo.

CARLO.               Mi scusi, signora Alice. Volete venir a vedere le mie nuove stampe? Sereni le sta studiando.

ALICE.                 Io debbo aspettare qui Alberta. Se mi faccio vedere cosí da tutti, allora il velo non ha piú alcuno scopo almeno per questa sera. S'accomodi, signor Telvi. Se Alberta tarda ancora la raggiungerò nella sua stanza.

(Telvi s'inchina ed esce. Carlo vuole seguirlo.)

ALICE.                 Carlo! (Esitante.) Vorrei pur ringraziarla. (Ha la busta in mano e vi accenna.) Ella è stato tanto buono. Sono veramente addolorata di seccarvi tanto. Non potevo fare altrimenti. Il tutore è tanto rigido.

CARLO.               Ma che dice, Alice? Sa che m'è tale soddisfazione di compiacere Alberta. Ho dovuto causa i miei affari i tempi difficili e cosí via rifiutarle parte di quello che a lei occorreva. Ma dove occorrevano mille, ottocento sicuramente basteranno.

ALICE                  (esitante ma felice). Bastano. Sicuramente bastano.

CARLO.               Mi fa tanto piacere di vederla lieta. Per Alberta e per lei stessa. E non parliamone piú. (Le stringe la mano.) Vado a godermi i miei Piranesi. Pare sieno proprio del Piranesi. (Via.)

ALICE                  (dubbiosa trae il denaro dalla busta, lo conta). Uno, due, tre, quattro, cinque. (Lo conta una seconda volta: poi lo rimette nella busta.)

 

SCENA UNDICESIMA

ALBERTA e ALICE

 

ALBERTA.          Scusa se ho tardato tanto. C'è stato bisogno di qualche punto. È un pizzo autentico. Te lo presto per questa sera. Questa roba vecchia è tanto delicata. Guarda! Ti starà benissimo.

ALICE                  (ridendo). Vuoi dire meglio di prima? Secondo i gusti. Bisognerebbe domandarlo ai tuoi ospiti, Telvi e Sereni.

ALBERTA.          Quei maiali che vogliono vedere nude le donne senza sposarle.

ALICE.                 Il pittore deve averne visti di nudi e credo non possa importargli di vederne altri.

ALBERTA.          Guardando i suoi quadri si crederebbe veramente che di vera carne egli non n'abbia vista mai.

ALICE.                 Non tutti sono di questo parere. Pare che un nudo possa avere tutti i colori.

ALBERTA.          Visto attraverso dei vetri colorati.

ALICE.                 Egli dice ch'è come il mare e che dipende dalla posizione del sole cioè dal desiderio del pittore.

ALBERTA.          Come sa fingersi pittore per poter dire il suo desiderio.

ALICE                  (ridendo). Non devi credere che abbia bisogno di infingersi tanto per proclamare i suoi desiderii.

ALBERTA.          Lo so, lo so per mia esperienza.

ALICE.                 Quando facesti tale esperienza?

ALBERTA.          Sei mesi fa, mi pare. O fa un anno? O un anno e mezzo? Non lo so piú. Non annotai l'esperienza nel mio libro scadenze.

ALICE.                 E come cessò?

ALBERTA.          M'arrabbiai quando vidi un suo quadro. Ossia m'arrabbiai quando, dopo aver visto un suo quadro, egli osò dire ch'ero la sua musa. Sai come sono rude talvolta.

 

SCENA DODICESIMA

Il dottor PAOLI e DETTI

 

PAOLI                  (saluta le due signore). Non si dirà ch'io arrivi sempre in ritardo. Per una volta eccomi qui quando non ci pensate ancora di andare a tavola.

ALBERTA.          Andiamo subito subito, dottore. Non c'è da attendere che un quarto d'ora al massimo.

PAOLI.                 Non ho fretta. Nessuno sa che sono qui e cosí son certo di godermi una festa di qualche ora. (Ad Alice.) I bambini bene?

ALICE.                 Grazie, benissimo dottore.

PAOLI                  (sollevato). Come sto bene fra persone che non hanno bisogno di me.

ALICE.                 Io penso che le persone che non hanno bisogno di nessuno sono evidentemente le preferite.

ALBERTA           (quasi risentita). Perché? Io preferisco le persone che hanno bisogno di me.

ALICE.                 Grazie, Alberta (ridendo).

ALBERTA           (con sincerità studiando se stessa). Credo mi facciano sentire me stessa meglio, la mia vita e la mia forza.

ALICE                  (con calore). Eppoi c'è la riconoscenza.

ALBERTA           (sempre confessandosi con una certa assenza). Si sa che sulla riconoscenza non si deve contare. Non parlo mica per te che non mi devi assolutamente niente.

PAOLI.                 Ma siamo lontani da quello che dicevo io. Quando hanno bisogno di me, io faccio la visita, mi pagano e siamo saldati. Soltanto c'è una differenza. Se la malattia è lieve o non c'è - perché anche questo succede - la cosa è gradevole. Ma oggi fu un inferno. Una chiamata, una polmonite in un organismo logoro, una seconda angina cardiaca, una terza un caso unico, un disastro, qualche cosa di fosco e incerto, ma diffuso in modo che la morte s'annunciava evidente nella nebbia. Allora mi arrabbiai. Era troppo.

ALICE.                 È la compassione che la fa soffrire, dottore.

PAOLI.                 Le direi in un orecchio quello che mi fa soffrire se ci fosse qui anche una sola persona oltre alla signora Alberta. Ma con voi due posso essere sincero. Siete tanto sane che non avete bisogno di fidarvi di me. Toccatevi il naso, ve ne prego. Non danneggia nessuno. È la mia impotenza che mi fa soffrire. Dei miei tre casi seppi provvedere al primo che dichiarai spedito, il secondo è già morto, senz'alcun rispetto, in mia presenza. In quanto al terzo mi darà qualche consolazione. Domani faremo un consulto e la mia ignoranza sarà abbondantemente scusata da quella degli altri. Io già sono convinto che l'esercizio della medicina non fa per l'uomo. Un buon medico dovrebb'essere un superuomo ma no, qualche bestia del tutto differente dall'uomo munita di molti piú sensi e piú potenti.

ALICE.                 Ma io credo che mettendo questa bestia tanto potente a qualunque posto quaggiú farebbe meglio del meschino uomo. Ciò non vale solo per i medici.

PAOLI                  (Guardandola con interessamento). Ben detto. È evidente che anche il commerciante, il facchino e il marinaio potrebbero essere migliori. È una parola di consolazione ch'Ella dice.

ALBERTA.          Ma persino il tapino che stende la mano al canto della via s'avvantaggerebbe di avere un cuore piú grande e generoso. Niente ira, tutto riconoscenza.

PAOLI.                 Ma non stenderebbe piú la mano.

ALICE.                 E anche chi mette il soldo in quella mano…

PAOLI.                 Diventiamo spaventosamente profondi. Siamo arrivati alla conclusione che per la vita in genere occorrerebbe qualche cosa che non sia l'uomo ma un essere superiore a lui. L'ammalato se non fosse uomo, non sarebbe ammalato. Avrei la divisione vuota. Che bellezza. Si sarebbe tutti superiori tanto che non ci sarebbero piú né medici né ammalati, né tapini né benefattori. Io verrei a cena qui dalla mattina alla sera.

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:13/07/2005 23.33

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