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De Bibliotheca

Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Appendice prima
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La parola
(studio preliminare per La verità)

ITALO SVEVO

(Atto Unico)

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PERSONAGGI

 

SILVIO ARCETRI

FANNY, sua moglie

ALFONSO BERTET

EMILIA, sorella di SILVIO

LUIGI, cameriere di SILVIO

 

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La scena rappresenta una stanza di lavoro di un ricco signore. Somiglia ad una stanza di ricco giovanotto, ma i mobili ne sono piú grevi piú sodi.

SCENA PRIMA

SILVIO e LUIGI

Silvio Arcetri è seduto al tavolo, pensieroso, la testa poggiata su una mano.

Il cameriere Luigi si dà da fare nella stanza.

 

LUIGI. Oggi dovrei spazzolare questi mobili: sono carichi di polvere.

SILVIO. Lascia stare finché sono qui. Ho da fare. È stato nessuno a domandare di me?

LUIGI. Sí signore. Una persona della quale però il signor padrone mi ha proibito di parlare.

SILVIO. La piccola Elena? Nessun altro?

LUIGI. Nessun altro. (Dopo una piccola pausa.) La… piccola mi chiese…

SILVIO. Hai capito sí o no che se mi parli ancora una volta di essa, ti scaccio sul momento? Non ti vergogni d'aver fatto e di voler fare eternamente quel mestiere?

LUIGI (risentito). Il signore me l'ha imposto e insegnato.

SILVIO. E adesso ti dico di abbandonarlo. Io non so piú se tu t'offristi di servirmi o se io t'imposi di aiutarmi… La cosa data da tanto tempo! Ma ritorniamo ora insieme alla virtú!

LUIGI. Signore! Mi dispiace ma io non posso ritornare insieme alla virtú perché da lungo tempo ho risoluto di abbandonare questa casa. Ero stanco di quel mestiere… come lo chiama Lei… e trovai un impiego da una vecchia beghina. Sono vecchio abbastanza e debbo pensare alla salvezza dell'anima mia. Non potevo sapere che restando qui, l'anima avrebbe finito col trovarsi al sicuro come presso la vecchia beghina.

SILVIO. Non la darai mica ad intendere a me, sai. Tu scappi perché la metamorfosi che mi proposi non ti conviene. Perché fingere? Confessa. Non me ne adirerò mica.

LUIGI. Ebbene… giacché lo desidera! Finora io credetti che questa virtú fosse soltanto una nube di passaggio. Ma oramai dura troppo. Sono otto giorni che la signora ha abbandonata questa casa. Non si sente piú parlare di essa e tuttavia… Capirà! Noi poveri non possiamo mica essere oggi viziosi e domani virtuosi. Ci si abitua a varie comodità cui è doloroso rinunziare e che non si potrebbero soddisfare se si fosse obbligati di non far altro che spazzolare dei mobili.

SILVIO. Ah! se si tratta di solo denaro io sono disposto d'aumentare la tua paga anche di 20 franchi.

LUIGI (con amarezza). Oh! signore! Neppure Lei sa quanto mi rendevano quei suoi magnifici slanci giovanili che ora chiama vizio. Ella oramai è veramente virtuoso. Lo vedo anche dalla sua offerta.

SILVIO. Ebbene! Quanto ti rendevano?

LUIGI. Circa duecento franchi al mese e qualche volta molto di piú.

SILVIO (borbotta). Pare impossibile.

(Fuori suona un campanello.)

SILVIO. Vai a vedere chi è. Se fosse mia moglie fischia per avvisarmi. Eccoti… dieci franchi per dimostrarti che anche la virtú può rendere.

LUIGI. Grazie! (Poi borbotta.) Si tratta però di virtú? (Esce e subito si ode un fischio leggero.)

 

 

SCENA SECONDA

SILVIO e ALFONSO BERTET

 

SILVIO (quando ha udito il fischio s'è gettato a sedere). Mia moglie! finalmente!

ALFONSO (uomo di media età, vestito da persona che poco bada alle forme, un cappello a cencio in testa; si ferma alla porta a contemplare Silvio). L'uno fischia e l'altro piange. Che ci sia relazione fra' due fatti? (Ad alta voce.) Buon giorno.

SILVIO (si volge scuotendosi). Tu? Sei tu? (Riprendendosi.) Sei tu? Finalmente! Arriverò a sapere che cosa mia moglie voglia da me?

ALFONSO. Non lo sai ancora? Ebbene! Sono venuto qui appositamente per dirtelo! Essa vuole che tu confessi! Altro essa non domanda!

SILVIO. Ma in nome di Dio! Che cosa vuole essa ch'io confessi quando sono innocente?

ALFONSO (ridendo). Mia sorella non ha questa opinione. Sai! Noialtri Bertet non siamo letterati come te, ma una certa dose di buon senso l'abbiamo ereditata anche noi.

SILVIO. È però la vera pratica della vita che io dico vi manchi, non il buon senso. Il buon senso? È il senso comune il senso volgare, stupido, basato sulla conoscenza di certe leggi costanti che poi non s'avverano che raramente. A voi manca persino l'immaginazione per comprendere come le piú varie circostanze possano associarsi, di quelle circostanze ch'erano campate in aria e caddero in un luogo e in un dato tempo insieme per schiacciare un disgraziato.

ALFONSO. Di' pure la parola: un cumulo di circostanze. Questa parola è bellissima e l'hai impiegata varie volte con mia sorella. Ne abbiamo riso abbastanza.

SILVIO. Perché vi manca la facoltà di comprendere…

ALFONSO. Famiglia d'agricoltori fortunati, capisco. Ma debbo rettificare una cosa: Io risi di quella parola; mia sorella ne piange. Piange non soltanto delle circostanze ma anche del cumulo. Non soltanto mi tradisce - essa dice - ma mi disprezza credendo di poter farmi credere una cosa simile. Vediamo, caro amico. Mia sorella entra in una stanza e ti trova in un letto con una donna. Nella stanza una dolce semioscurità; le finestre ermeticamente chiuse, però la porta aperta. Tu dici che quella porta aperta prova da sé la tua innocenza. Noi Bertet crediamo invece che certi uomini in certi momenti dimenticano di chiudere quello che veramente andrebbe chiuso. Chiudono cioè le finestre e non la porta. Sta bene! Tu ti sei gettato per caso, per una stanchezza fisica e morale che noi Bertet troviamo invece immorale in un letto ove c'era una donna. Come va che questa donna non si sorprese affatto di vederti nel letto ove essa dormiva?

SILVIO. Se dormiva non poteva sorprendersi.

ALFONSO. Ma per non destarla tu devi essere entrato in punta di piedi in quella stanza, devi aver badato di non far cigolare la porta…

SILVIO. Non cigolò infatti! Doveva essere stata unta da poco tempo.

ALFONSO. E poi appena avevi della bella strada da percorrere per giungere al letto. A mia sorella parve anche di aver visto che la testa della donna poggiava su un tuo braccio.

SILVIO. È un'invenzione! Questo poi mi meraviglia di Anna!

ALFONSO. Essa dice “mi parve”. È onesta! Se fosse certa, allora, credo, non avrebbe neppure il bisogno di avere la tua confessione.

SILVIO. Stimo io! Come potrei negare allora?

ALFONSO. Ed io ti consiglio di non negare neppur cosí.

SILVIO. Già! tu sei mio nemico!

ALFONSO. Non crederlo. Non siamo amici perché tu, il tuo carattere e la tua… immaginazione mi sono avversi. Però siamo alleati naturali. Infatti che cosa ne faccio io di mia sorella, io che non ho bisogno dei suoi denari? Figurati che l'ho tutto il giorno per i piedi a lagnarsi di te e della sua sventura; è una bella seccatura. La sorpresi ieri che non trovando altri confidava le sue pene a mia figlia. Dovetti proibirle di confondere le idee a quell'innocente. Anche il suo denaro m'è d'impiccio. Essa dice che in caso di separazione io dovrei assumere l'amministrazione.

SILVIO. Separazione?

ALFONSO. Non dubitare che abbiamo elementi sufficienti per ottenerla. Mia sorella - come sai - colpita al cuore fuggí e non pensò di chiamare testimoni ma un testimonio l'abbiamo, la sua domestica che vide tutto.

SILVIO. Tutto?

ALFONSO. Non la testa della donna sul tuo braccio. Questo no. Si trova nel medesimo dubbio di mia sorella. Lo capisci anche tu! Nella stanza regnava una dolce penombra ed era difficile percepire certi particolari. La chiusura delle finestre serví pure a qualche cosa.

SILVIO. Serví a peggiorare la mia condizione. Perciò non s'avvidero che io mi trovavo bensí in quel letto, ma del tutto vestito e persino col cappello in mano.

ALFONSO. Di ciò non s'avvidero infatti. Ma non ti avrebbe servito gran che. Noi Bertet avremmo pensato che, nella foga, non avevi ancora trovato il tempo di deporlo. Ora non è mica un compito facile d'amministrare una simile sostanza, amministrare, dico, non sperperare. Le belle terre che tu volesti vendere (con emozione) non si possono ricomprare. Eppoi il denaro è tutto impiegato in miniere ed altri valori letterarii di cui io non m'intendo. Per tutte queste ragioni, fammi il piacere, riprenditi tua moglie.

SILVIO. Sei un bel tizio tu! Io vi sono dispostissimo, lo sai bene.

ALFONSO. E allora perché non fai quello ch'è necessario per riaverla? Perché non confessi? Siamo giusti, mia sorella ha ragione. Essa dice: Lo vedessi pentito di quanto ha fatto, volesse scusarsi, attribuire tutto ad un momentaneo smarrimento di sensi. Ma invece mi deride per sopramercato. Se gli perdono con tali premesse ricomincerà domani se non addirittura oggi. Non vedi che ha ragione? Confessa, dunque, e finiamola.

SILVIO (dopo un istante d'intensa riflessione). Ebbene! Dille che venga qui. Le dirò tutta, tutta la verità. Dille che venga e saprà il mio delitto, il mio nero delitto. Le dirò il mio amore e il mio pentimento e torni la pace in questa casa infelice.

ALFONSO. Fra un quarto d'ora al piú sono di ritorno. (Fuori suona un campanello.)

 

 

SCENA TERZA

LUIGI e DETTI

 

LUIGI (annunzia). La signora Resi.

SILVIO. Falla pur entrare. Fammi il piacere, se parli con mia sorella non dirle niente del nostro affare. Le donne sono chiacchierine ed io faccio del mio meglio per evitare uno scandalo.

ALFONSO. Sappi comportarti con mia sorella e non ci sarà scandalo.

 

 

SCENA QUARTA

EMILIA RESI e DETTI

 

EMILIA (entrando e salutando). Il signor Bertet!

ALFONSO. Buon giorno, signora. Come sta?

EMILIA. Passabilmente! Grazie! E mia cognata? S'è rimessa perfettamente nella vostra magnifica villa?

ALFONSO. Rimessa? Oh! sí! quasi del tutto. (Imbarazzato.) Scusi, signora! Devo scappare per un affare urgentissimo. (Saluta e via.)

EMILIA. Che cosa ha quel buon signore?

SILVIO. Non badarci. È gente strana! Agricoltori fortunati! E tu a quest'ora qui? Che cosa t'è avvenuto?

EMILIA. Oggi niente ma da lungo tempo ho sul cuore qualche cosa di molto grave che vorrei confidarti. Vorrei un tuo consiglio.

SILVIO. Eccomi a tua disposizione. Soltanto bisogna essere brevi perché col mezzo di Bertet ho mandato a pregare mia moglie di venir qui. Abbiamo da trattare insieme un affare della massima importanza, un affare finanziario.

EMILIA. Quando verranno io me ne andrò. (Commovendosi.) Questa mattina mio marito m'ha dichiarato di voler dividersi da me.

SILVIO (stupito). Tuo marito? Carlo? Tu scherzi!

EMILIA (piangendo). Sí! Dichiarò che con me non poteva piú vivere. Che bisognava dividersi. Vuole ch'io venga a stare con te e mi fa la grande concessione che una volta al giorno mi permetterà di vedere mio figlio.

SILVIO (borbotta). Che famiglia disgraziata la nostra! Ma perché tutto ciò? Hai tu commesso qualche cosa che legittimi un simile suo passo.

EMILIA (piangendo e a mezza voce). Sí.

SILVIO (stupito). Sí? Tu? Oh! non lo credo! Tu sei stata sempre il modello delle mogli.

EMILIA (piangendo violentemente). No! io merito quanto mi succede. Egli ha ragione!

SILVIO. Se ha ragione allora lascialo fare. Ma come può aver ragione? L'hai tradito forse?

EMILIA. Sí.

SILVIO. E allora non so cosa consigliarti. L'hai tradito e vuoi consigli da me. Cosa vuoi ch'io ti consigli ora? Se hai da continuare cosí o da cessare?

EMILIA. Silvio, te ne prego.

SILVIO. Mi meraviglia non t'abbia uccisa. Io al suo posto sarei stato ben differente di lui.

EMILIA (con dignità). Non ho mica tradito nel modo che tu sembri di credere. Io non sono mica una donna disonesta.

SILVIO (borbotta). Allora non capisco piú. Che si trattasse di un altro cumulo di circostanze in famiglia? Sarebbe ben noioso. Siedi là, Emilia, e raccontami tutto. Fa presto fin che ne abbiamo tempo.

EMILIA. È una storia che data da due anni.

SILVIO. Due anni! E come capita ora a galla una storia che dovrebbe veramente essere già caduta in prescrizione?

EMILIA. Ti ricordi che due anni or sono è venuto a morire in casa nostra un orfano cugino di Carlo, quel povero Marco Setti? Carlo aveva acconsentito di ricettarlo per compassione e per corrispondere a certa promessa che egli aveva fatta a sua zia. Si esitò solamente perché si dice che il terribile male di cui soffriva il povero Setti fosse contagioso. Il dottore di casa prese delle disposizioni di prudenza, scelse la stanza che doveva servire d'abitazione all'ammalato e ne regolò la vita in modo atto forse piú a salvaguardare la nostra esistenza che a prolungare la sua. Il giovinetto doveva quando voleva pigliar aria uscire dalla casa per una porta speciale. Non prendeva sempre i pasti con noi perché di spesso era obbligato di restare nella sua stanza, ma quando mangiava alla nostra tavola poteva accorgersi che il suo bicchiere ed il suo piatto, tutto quello ch'egli aveva toccato era evitato, trattato come cose di un appestato. Si trattava però in fondo di salvaguardare la salute di nostro figlio. Egli non si lagnava e per lungo tempo io non mi accorsi del suo avvilimento. Mio marito, un giorno, in sua presenza, fece una scenaccia al servitore perché aveva posta la sua forchetta accanto al piatto di Paolino. Fu allora ch'io lessi chiara negli occhi dell'ammalato una vera, profonda sofferenza. Ne ebbi compassione e fu il primo passo.

SILVIO. Caro quel moribondo! Ah! se ne sentono ogni giorno di nuove sul conto di voi donne!

EMILIA. Un giorno, sbadatamente, presi il suo bicchiere e lo portai alle labbra. “Badate!” mi gridò “potreste ammalarvi.” “Io non credo alla vostra malattia” dissi serenamente e bevetti. Da allora cominciai ad occuparmi con maggior cura del povero giovine. Avevamo presa per lui un'infermiera, una vecchia donna di animo poco mite ed egli mi rivelò che profondamente la odiava perché mancava d'ogni gentilezza. Ne prendemmo un'altra giovine e lieta. Dopo pochi giorni m'accorsi ch'essa divorava gli arrosti che si preparavano per l'ammalato. In quel turno di tempo mio marito partí per quel suo viaggio d'affari che lo tenne assente per mesi. Io congedai l'infermiera e, col consenso stesso di mio marito, presi il suo posto. Puoi immaginare che non mi contentai di servirlo ma che dedicai ogni cura per fargli passare meglio le sue lunghissime giornate. Pensavo fosse un'opera pia di cui il Signore m'avrebbe rimunerata in mio figlio. Fu un voto! T'assicuro che fu un voto.

SILVIO. Eh! te lo credo! Ma questa specie di voti bisogna farla col consenso del marito. Diamine! È lui che ne perde!

EMILIA (ingenuamente). Avevo il suo consenso! Io non so cosa capitò al povero Marco! Un giorno - eravamo poco dopo il tramonto sulla veranda, dopo una giornata lieta perché s'era sentito bene - mi disse d'amarmi. Aggiunse che a lui, un moribondo, era permesso di dirlo e ch'egli non voleva morire col suo segreto. Io cercai di stornare il discorso e finsi di credere si trattasse di un affetto filiale - era di poco piú giovine di me - ma egli s'agitò in modo da spaventarmi. Voleva assolutamente ch'io sapessi ch'egli mi amava. Era l'unica azione forte della sua breve gioventú e voleva compierla. Egli mi amava e moriva volentieri perché vivendo gli sarebbe stato proibito di vivere con me. Io m’arrabbiai, dissi che con ciò egli m'aveva impedito di continuare a curarlo e me ne andai. Nella notte fui destata da movimenti insoliti nella casa. M'alzai e sul corridoio mi trovai di faccia al dottore il quale era stato chiamato in fretta e furia per Marco il quale sembrava dovesse trapassare da un momento all'altro. Il dottore mi disse: Per questa volta l'ha scapolata ma un'altra di queste crisi e dubito. Puoi immaginare l'animo mio. Andai subito da lui. Pallido come un morto ma gli occhi iniettati di sangue mi disse che mi ringraziava d'aver dimenticato il mio rancore e d'esser venuta ma che già era inutile perché egli si trovava in stato tale che se avesse potuto mettere il suo pugno nei suoi polmoni per schiacciarli piú presto, l'avrebbe fatto. Era evidentemente prossimo a una novella crisi, alla morte. Io non so quello che avrei fatto per risparmiargliela. Egli non domandò che parole. Che lo amavo, che non amavo mio marito. Pareva febbricitante e credeva subito a tutte le parole ch'egli non s'accorgeva che m'imponeva. Poi volle un bacio. Il suo fu frenetico il mio dovette parergli altrettanto perché mi sforzai di vincere il mio disgusto. Credetti d'averlo salvato! Egli, esausto, si lasciò ricadere sul guanciale donde s'era sollevato per giungere alla mia bocca. Tenne la mia mano nelle sue e, sempre con la stessa voce piccola ma imperiosa con cui m'aveva indotto a tanto, m'obbligò di sedere accanto al suo letto. Il suo respiro era affannoso ma la sua faccia sorridente. Stettimo un'ora e piú forse cosí. Fu in quell'ora che io tradii mio marito.

SILVIO. Come?

EMILIA. Col pensiero! Lo guardavo, lo guardavo, in quella faccia di Cristo sofferente e me ne venne un tal dolore, una tale pietà che mi toccò di sforzarmi per non scoppiare in singulti. E, ribellandomi alle leggi di Dio pensai: Giacché tu gli desti un simulacro di vita, ma tutto il dolore, io, se mi sarà concesso, diminuirò il suo dolore e renderò piú intensa la sua vita, dedicandomi a lui, tutta, tutta. Non ne ebbi il tempo perché Marco morí la notte stessa. Quando rinvenne mi pregò con gli occhi miti di chinarmi a lui e con voce fioca - già tanto piú fioca di prima - mi disse che il calore dei guanciale gli dava dolori al capo e mi pregò di porre il mio braccio sotto la testa. Stette cosí per qualche tempo. Poi si lagnò della mia veste rude e mi pregò di toglierla. Io gli offersi di mettermene una di seta ma egli con voce roca, subito affannosa, mi obbligò di mettergli sotto la testa il braccio nudo. Voltò la bocca sul braccio e si mise a baciarlo con dolcezza. Certamente io non ho potuto indovinare quando il bacio si sia convertito in rantolo.

SILVIO. E chi fu tanto malvagio da raccontare una cosa simile a tuo marito?

EMILIA. Io stessa!

SILVIO (stupefatto). Tu? Allora la parola malvagio non è piú a posto. La cosa incomincia a interessarmi enormemente. Tu gli raccontasti questo tuo tradimento, come tu lo chiami, ed egli non ti perdonò? Gli raccontasti tutta questa storia, tu, di tua iniziativa, senza ch'egli domandasse di saperla?

EMILIA. Non ne aveva il menomo sospetto.

SILVIO. Raccontami tutto, te ne prego, ogni minimo particolare perché la cosa incomincia ad essere molto interessante e per di piú istruttiva. (Fuori suona il campanello e subito dopo dà il solito fischio.) Te ne prego ritirati nella mia stanza da letto qui accanto. Attendo una persona con la quale ho da trattare un affare molto importante. Non vorrei testimoni! Mi prometti di non ascoltare alla porta? Se me lo prometti, posso essere sicuro di te, vai vai; lascerei anche la porta aperta. O tu saresti capace di tapparti le orecchie per non sentire. (L'accompagna alla porta poi si getta nella poltrona e assume l'aria meditabonda e triste di prima.)

 

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:13/07/2005 23.38

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