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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Appendice prima
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L'avventura di Maria

ITALO SVEVO

(Commedia in tre atti)

[PRIMO]

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ATTO SECONDO

La stessa stanza.

 

SCENA PRIMA

ALBERTO, poi MARIA con TARELLI e dietro la scena GIULIA e AMELIA

 

ALBERTO (ha cappello e bastone; entra subito diretto verso la porta di fondo, ma lentamente. Si ferma a mezza via, ma sempre volendo sembrare di stare per uscire. Ritorna anche sui suoi passi e rifà la sua via).

TARELLI. Il signor Alberto! Guarda quale combinazione. È già il terzo giorno che c'incontriamo, sempre alla stessa ora e precisamente quando ella munito di cappello e bastone sta per uscire.

ALBERTO (un poco imbarazzato). Eh! sono molto metodico, io!

TARELLI. È perciò che mi meraviglia, perché io non lo sono affatto. Esco dalla mia stanza fra le otto e le dieci! Del resto non mi lamento, perché è sempre un piacere per me quello di vederla.

MARIA (entra). Buon giorno, zio! Buon giorno! (Ad Alberto).

ALBERTO (dimenticando Tarelli perfettamente). Come sta, signorina? Ieri a sera accusava male di testa.

MARIA. Sono ristabilita del tutto. Per quanto io sia corazzata, la freddezza di questo pubblico mi sconcertò alquanto.

ALBERTO. Vedrà che al secondo concerto questa freddezza sparirà. Glielo garantisco io. Oh! sarebbe un pubblico ben villano, se continuasse a contenersi cosí. Io di musica non me ne intendo affatto, ma mi pare ch'ella abbia sonato molto bene.

GIULIA (dietro la scena). Amelia! Il padrone è già uscito?

AMELIA. Da oltre mezz'ora, signora.

ALBERTO. Devo andarmene, disgraziatamente per un affare. Con permesso! (Stringe la mano a Maria.) Fra un'oretta sarò di ritorno. (Via.)

MARIA. Faccia il suo comodo.

 

SCENA SECONDA

TARELLI e MARIA

 

TARELLI (guardando dietro ad Alberto). Povero diavolo; pare che non possa uscire da casa senz'avermi visto. Perché attende me, nevvero? (Ridendo a Maria.)

MARIA (seccata). Attenda chi vuole.

TARELLI. Ma dunque se neppure lusinga il tuo amor proprio l'amore di questo negoziante, perché ti contieni in modo da aizzarlo sempre piú?

MARIA (meravigliata). Io?

TARELLI. Ma sí! Proprio tu! Lo tratti ruvidamente. Non gli rispondi che a monosillabi e anche quelli poco gentili. C’è di che far perdere la testa anche alla persona che v'è meno disposta. Figurati poi costui che non domanda di meglio.

MARIA. Davvero, sono pericolosa cosí? Già tu conosci il cuore umano e se lo dici dev'essere proprio cosí! D'ora innanzi vedrai come sarò gentile. Non ho mica l'intenzione di portare via il marito a Giulia, io! Voglio colmarlo di gentilezze, acciocché cessi di seccarmi!

TARELLI. Bada che non occorre mica esagerare! Da qualche giorno ti veggo però molto seria, preoccupata. È forse l'enorme insuccesso del tuo concerto che ti duole o l'articolo sciocco che Valzini ti dedicò?

MARIA. Oh! Chi ci pensa!

TARELLI. E in allora sei innamorata…

MARIA (stupefatta). Quale idea! (Poi.) Francamente. Non mi sento bene in questa casa. Ci ero venuta con le migliori intenzioni di questo mondo. Volevo passare con Giulia otto giorni di fanciullezza. Invece essa è seria, mummificata nella sua dignità matronale, una donna impossibile che non capisce niente all'infuori del suo bimbo, del suo adorato marito e della sua bella casa. Il professore mi secca con dotte dichiarazioni d'amore; da quella parte mi minaccia una formale richiesta di matrimonio (facendo atto di bastonare) che accoglierò, vedrai, con l'arco del violino. Unico di allegro ci sarebbe il piccolo Piero, quando lo lasciano giuocare in pace, ma è precisamente lui che di me non ne vuole sapere. Ieri ero là, là per mettermi a giuocare con lui. Immediatamente egli cessò, meravigliato e seccato.

TARELLI. Eppure con te mi paiono gentili.

MARIA (molto contenta). Con te no? Ecco una buona ragione per abbandonare questa casa.

TARELLI. Oibò! Io non c'entro nelle decisioni che hai da prendere tu. Eppoi non mi maltrattano mica. Mi trattano soltanto alquanto superficialmente. Pare che si sieno rassegnati di fare la relazione dell'artista, ma non ancora quella dell'impresario. Non hanno torto in fondo. Per questi borghesi io non sono altro che uno speculatore il quale per suo interesse ti induce a fare questa vita nomade.

MARIA. Povero zio!

TARELLI. Ma che povero! A chi può importare il parere di costoro? Io voglio che tu rimanga in questa casa, perché la buona fama borghese di cui gode è una buona reclame per te. Se finora in questa città non ne abbiamo potuto sentire gli effetti, è colpa di troppi elementi contrari che vi abbiamo. Intanto l'indifferenza assoluta per la musica. Non mi serví né di farti dir nevrotica, né di far raccontar da Valzini che soffrivi di un'affezione polmonare per cui pochissima vita ancora ti era concessa. È ben corazzata questa gente. Pochi vennero al concerto; non ci compresero nulla e ne dissero male. Le tue note mi facevano pietà al vederle sprecate a quel modo.

MARIA. Dalla critica si capisce però che anche Valzini s'è annoiato. Lui che ama tanto la musica!

TARELLI. Ha compreso meno degli altri. Si trovò obbligato di scrivere bene per rispetto ai critici che lo avevano preceduto e poi anche in riguardo nostro che lo avevamo trattato tanto bene. È abile però e ha saputo far capire a tutti che il suo entusiasmo era preso a prestito. Egli non si espone mica al pericolo di perdere la sua fama di critico e, cara mia, bisogna rassegnarsi a riconoscerlo. In questa città verrebbe considerato per meno intelligente chiunque avesse il coraggio di dir bene di te. Oh! non fare le bocche! (Scherzosamente.) Già per consolarti tu hai quel tuo signor Alberto.

MARIA. Bella consolazione! Non hai sentito che vorrei abbandonare questa casa?

TARELLI. Incomincio a credere che diffidi di te, perché non vorrai darmi ad intendere che tale fuga sia meditata per un riguardo alla tua amica. Che male sarà se il signor Galli si riscalduccerà ancora un poco e se la signora Galli dal canto suo diverrà un po' gelosa? Avremo apportato nella loro sciocca vita borghese un po' di animazione.

MARIA. Dubito però che abbiano a serbarcene gratitudine.

 

SCENA TERZA

MAINERI e DETTI

 

MAINERI. Ho anticipato di un quarto d'ora per il timore di farla attendere; preferisco di attendere io piuttosto. Mi permette di baciarle le mani? Ambedue! Anche quella dell'arco.

MARIA. Entusiasta dunque, l'unico?

MAINERI. È il mio vanto! Avendole comprese mi pare quasi che le sue note sieno mia opera. Citano Janson! È altra cosa! Egli non possiede né il suo senso artistico né la sua esattezza; è un violinista straordinario e nulla piú. Ella invece è musicista, anzitutto musicista ed è perciò che il pianoforte s'inchina a lei.

TARELLI. Peccato che non vi sia qui uno stenografo per raccogliere queste parole e consegnarle a un giornale.

MAINERI. Non servirebbe a nulla. Quando i fatti, la musica stessa non serví…

TARELLI. Non serví? Ella dunque lo confessa? Crede che valga la pena di dare un altro concerto?

MAINERI. Anzi, anzi, bisogna darlo. A me non bastò il primo! Poi sarebbe una vigliaccheria di non darlo dopo di averlo annunciato. Che importa a lei l'applauso?

MARIA. Devo confessarlo, ci tengo un pochino. (Ridendo.) Avrei suonato tanto meglio, se ieri a sera avessi ottenuto un applauso, un solo almeno. (Con dolore.) Fu un fiasco assoluto.

MAINERI. Non assoluto. Posso però parlarle con franchezza, perché l'entusiasmo che le dimostrai mi salva dal pericolo di venir preso per poco rispettoso, e poi perché ella non è di quegli artisti cui occorra usare dei riguardi nell'apprezzare i loro successi. Ecco il fatto: il nostro pubblico, un pubblico musicalmente poco colto, è abituato alla maniera di Janson e non vuole sentire altro. Per esso è quello il modo di suonare il violino. Il ricordo di Janson gli è tanto caro che quasi non vorrebbe sentire altri pezzi all'infuori di quelli uditi da lui. Son quelli i pezzi che si eseguiscono sul violino e non altri.

TARELLI. Se questa veramente è la disposizione del pubblico, a Maria non resta altro che di abbandonare la lotta.

MAINERI. Perché? La lotta è bella, specialmente quando in essa non si arrischia nulla. Che cosa vi arrischia la signorina? Non certo la sua fama, perché la nostra città né dà né toglie fama. Specie a lei, signorina, alla dea della musica.

TARELLI. Sí! una dea! Bella la disse anche il signor Valzini, il quale pare nato piuttosto a cronista che a critico musicale. Parlò unicamente della splendida figura e della bellissima toeletta.

MAINERI. Sono imbarazzi della vita del critico.

TARELLI (con ira). Avrebbe potuto non essere imbarazzato, se fosse stato un buon critico.

MARIA. Ma via zio! Noi dobbiamo essere grati al signor Valzini che pur non essendo stato molto soddisfatto del mio modo di sonare, volle dimostrarsi tale per favorirmi.

MAINERI. Ben detto! Ben detto, signorina! Ella parla come suona! Infatti, quale merito ci avrebbe avuto lui se non avesse avuto altro da fare che di sedersi al tavolo e notare il suo entusiasmo? Se l'articolo non dimostra molto entusiasmo, dimostra molta benevolenza. Specialmente la prima parte. La seconda (si leva di tasca un giornale e contemporaneamente a lui anche Tarelli) è meno simpatica. (Legge.) “La signorina Tarelli regalò le Arie ungheresi, ma quello è un pezzo che bisogna lasciare a Janson.”

TARELLI. Ho capito subito che in provincia quella frase bastava per annullare l'effetto di tutto l'articolo.

 

SCENA QUARTA

CUPPI e DETTI

CUPPI. È permesso?

TARELLI. Il signor Cuppi. Avanti, avanti, si accomodi. Ella capita a proposito. Sa ella dove abita il signor Valzini?

CUPPI. Sí! A quale scopo? Perché?

TARELLI. Devo andare a ringraziarlo per il simpatico articolo che dedicò a mia nipote.

MARIA. Ringrazialo anche da parte mia, zio, e digli che non ho potuto accompagnarti, perché giusto ora ho prova.

TARELLI. Mi farebbe un favore se venisse con me.

CUPPI. Ben volentieri.

TARELLI. Vado a prendere il soprabito e il cappello e sono con lei. (Via.)

CUPPI (a Maria). Ella ha già deciso, proposto come passare la sera?

MARIA. Rimango in casa con la mia amica. Mi restano ancora pochi giorni da passare con lei.

CUPPI. Cosí, di me, assolutamente non ha bisogno?

MARIA. Se le piace venga qui a tenerci compagnia. (A Maineri.) Ci mettiamo a queste prove? Vado a prendere la musica. Dev'essere sul tavolo nella mia stanza. (Via.)

CUPPI. Scusi, maestro, a lei è piaciuta molto la signorina Maria quale violinista?

MAINERI. Moltissimo. Perché me lo chiede?

CUPPI. Non chiedo piú nulla io, ma dirò… sí… Ella è il primo che trovo entusiasta.

MAINERI. Davvero?

CUPPI. Intanto, in quanto concerne me, parlo di me che non me ne intendo affatto, io mi sono annoiato mortalmente, molto, ma molto.

MAINERI. E perché è qui a continuare ad annoiarsi quando nessuno ve la obbliga?

CUPPI. Non mi annoio qui, io. Quantunque si tratti di una pessima musicista, cioè una violinista che suona male il violino, la compagnia della signorina mi è piú cara che quella di tutto il resto della città. Naturalmente non piú cara di quella di Janson. (Con passione.) Oh! che Janson ritornasse! A lui potevo offrire oltre alla mia amicizia anche la mia ammirazione… sí… la mia approvazione… E la relazione con un artista diviene subito piú bella… piú aggradevole. Mentre qui… (Risoluto a Maineri.) Scusi, maestro, ma io dubito del suo entusiasmo. Che diamine! Io sono sí una bestia… una persona che di violino non capisce niente, ma infine è impossibile… difficile ch'ella capisca qualche cosa che a me sembra niente… cioè una stonatura senza sentimento. Eh! io capisco! Dubito che un pochino della sua ammirazione per la musica sia dovuta alla bella personcina della signorina Maria. A forza di accompagnarla al pianoforte… naturalmente.

TARELLI (rientra). Andiamo?

CUPPI. Eccomi. E la signorina? (A Maria ch'entra con la musica sotto il braccio.) Buon giorno, signorina! (Le stringe la mano.) Approfitterò sicuramente del suo gentile invito per questa sera.

TARELLI (a Maineri a bassa voce). Sa, io con Valzini sarò perfettamente cortese. Non creda mica per quello che ha udito ch'io abbia l'intenzione di dimostrarmi offeso. Non ne vale la pena e anzi la prego di non riferire a nessuno le mie parole. Per essere del tutto sincero con lei, le dirò che per avere la magra soddisfazione di una mia ira non vado a togliermi la speranza che Valzini al secondo concerto non muti d'opinione. Come si chiama Valzini?

MAINERI. Venanzio.

TARELLI. Ebbene Venanzio! Lo interpellerò sempre col nome di battesimo. Signor Venanzio… Peccato che non abbia un nome piú bello. Chissà se gli piacerà di venir chiamato con un tal nome.

MAINERI. Cosí lo chiamano tutti.

TARELLI. Ci sarà dunque abituato. (Gli stringe la mano e via con Cuppi.)

MAINERI (subito al pianoforte con la sua parte in mano). Il concerto di Beethoven! Proviamo soltanto quello?

MARIA. Sí! non occorre altro!

MAINERI. Ho da fare il preludio intiero? Solitamente quando non si dispone di un'orchestra lo si omette o non lo si eseguisce che a metà.

MARIA (leva il violino dalla cassetta). Io desidero di udirlo intiero; altrimenti il concerto mi appare monco e sproporzionato. (Dolcemente.) Il preludio mi dà la disposizione occorrente per suonare. Persino sulle dita m'influisce; mi sento piú libere le falangi, piú volonterose. Attendo che tocchi a me con impazienza, quasi con curiosità, curiosità di udire quello che farò come se fosse la prima volta che avessi a sonarlo. Quel preludio mi pone immediatamente faccia a faccia con Beethoven. (Con asprezza.) Naturalmente che, se mentre lo suonano, ho dinanzi a me un pubblico distratto e inquieto, che dall'alto io vedo come una raccolta di zucche vuote, allora anziché stare a udire il concerto io mi metto a contare le zucche, meravigliata che il Creatore abbia commesso tanti errori.

MAINERI. Ella pensa al nostro pubblico?

MARIA. Oh, a lei e col violino in mano non voglio mentire. Il mio insuccesso, come lo chiamano qui, mi addolorò abbastanza. Non ho mai sofferto cosí ad un concerto, e ho paura che al secondo sia ancora peggio. Come dice lo zio, dovrei essere superiore a queste cose. Ma come si fa non adirarsi al vedere tutta la gente che mi circonda non soltanto essere perfettamente d'accordo col giudizio del pubblico, ma anche dubitare che in altri luoghi si sia potuto giudicare altrimenti sul mio conto. Lasciamo stare! (Accorda il violino.) Ella ha già eseguito questo concerto in pubblico?

MAINERI. Sí, con Janson.

MARIA (ironicamente). Cosí? Il signor Janson si degnava di uscire una volta dalle sue arie ungheresi e russe e valacche e di eseguire Beethoven?

MAINERI. Sí! l'applauso del pubblico era però provocato unicamente alla cadenza alla fine del primo tempo, una brillante cadenza composta da uno spagnuolo credo. Il pubblico non apprezzò giammai il concerto e, francamente, credo che per ora non gli piacerà.

MARIA. V'era dunque la sua brava aria spagnuola? Vuole incominciare? (Siede.) La suoni, la prego, come se non sapesse che presto ha da capitare il violino a toglierle la prima parte.

 

SCENA QUINTA

GIULIA e DETTI

 

GIULIA. Buon giorno! Ah! son le prove! (A Maineri che s'è alzato.) Non si disturbi! Se me lo permettete io starò un pochino a udire.

MAINERI. Ma senza dubbio. Ella rappresenterà per noi un elemento ch'è bene vi sia anche alle prove: il pubblico.

GIULIA. Peccato che a lungo non potrò rimanere, perché di là ho molto da fare.

MARIA. Cose di premura?

GIULIA (ridendo). Non di premura, ma di regola. Bisogna lavorare ogni giorno, perché altrimenti in fine d'anno ci si trova d'aver perduto molto ma molto tempo.

MARIA. Mi pare di sentir parlare la nostra brava monaca. Te ne rammenti? (Imitando la voce di una vecchia.) Bisogna lavorare tre volte tanto quanto si lavora; soltanto cosí si può contare sulla pace dell'anima e del corpo.

GIULIA. Via, Maria! Non deridere quella santa donna. Io le devo tanto.

MARIA (meravigliata). Davvero? Che cosa le devi?

GIULIA. Quale domanda! S'è affaticata per me, mi ha insegnato, mi ha voluto bene.

MARIA. A me invece ha dato tante noie! Devi confessare che il suono della sua voce non era bello. (Imitando di nuovo la vecchia.) “Signorina Maria, ella è una zingara!”. Ecco che hai evocato un ricordo poco aggradevole. Incominci signor Maineri. Giulia ci fa compagnia.

GIULIA. Sta bene, se mi permettete di portare qui il mio telaio.

MARIA. Perché no? Se vuoi puoi metterti persino a far quadri qui. Me, non disturbi di certo. Già a te non basta di starmi ad udire.

GIULIA. Starò a udire certamente. Al telaio ho un lavoro che soltanto qua e là esige molta attenzione. Di solito mentre lavoro ripasso anche la lezione del mio figliuolo.

MARIA. Fai dunque anche piú di quanto quella santa donna consigliasse. Ella infatti si sarebbe accontentata di un solo lavoro alla volta.

GIULIA (che non la sta ad ascoltare). Porterò con me Piero. Vedrai come starà attento e quieto. (Via.)

MAINERI (con qualche ironia). Questa sí che è una donna di casa perfetta.

MARIA (ridendo). Sí, ma c'è di peggio. Ella è nata donna di casa. Pare impossibile, ma ella è nata madre di famiglia. Me la rammento cosí già in collegio.

 

SCENA SESTA

ALBERTO e DETTI

 

MAINERI (sempre seduto al pianoforte). Ecco il signor Alberto! Cosí non ci mancherà il pubblico. Venga, venga signor Alberto. Anche la sua signora ritorna subito.

ALBERTO (ridendo). Anche mia moglie si dedica all'arte? (A Maria.) Se la disturbasse glielo dica con tutta franchezza.

MARIA. Ma no! L'ho pregata io stessa di farci compagnia.

ALBERTO. Ho da scrivere qualche lettera e vado nella mia stanza, ma se lo permettete lascerò aperte le porte. Cosí mi sarà piú facile di prestar attenzione. (A Maria a bassa voce in forma di complimento.) Sapete bene che la vostra vista mi distrae… (Si allontana e dalla sua stanza grida): Cosí potete cominciare.

MARIA (ridendo). Tutti vogliono starci a sentire in questa casa, ma nessuno rinunzia al suo lavoro.

MAINERI. Oh! ella deve sentirsi molto male in questa casa.

MARIA. No! per un po' di tempo questi borghesi mi servono di distrazione.

 

SCENA SETTIMA

GIULIA, PIERO, AMELIA che porta il telaio e DETTI; poi GIORGIO

 

GIULIA (con l'aiuto di Amelia dispone il telaio e senza guardarla in faccia parla a Maria). Senti, Maria, perdonami, se mentre tu suoni, io sto ad ascoltare la lezione di Piero; la leggerà molto a bassa voce. Deve studiarla e se non gli concedo il piacere di leggermela, non si deciderà mai piú a guardarla.

MARIA. Fa il comodaccio tuo. Si va di bene in meglio. Adesso ti senti già capace di badare a tre cose in una volta. Incominci, maestro.

GIORGIO. Si può stare ad ascoltare della buona musica?

MAINERI (mormora). Altro che buona!

GIORGIO. Non ne dubito. (Saluta Maria.) Non ho chiesto se sarà buona, ma soltanto se si potrà stare ad ascoltarla…

GIULIA. Non disturbare però. Siedi qui accanto a me quieto.

MARIA. Le si sieda molto vicino, perché là si tiene lezione la quale, ella stessa lo confessò, a lei si confà meglio della mia musica. (Al ragazzo.) Su Piero, comincia!

PIERO. Sí, se starete un poco zitti.

GIORGIO. Come va, Piero? Sei stato contento del dono che ti ha portato il babbo?

PIERO. Ha fatto un viaggio tanto lungo che avrebbe potuto portare qualche cosa di meglio.

GIORGIO. Il ragionamento è buono. Va da sé che il dono deve stare in proporzione al viaggio. Io mi siederò là dall'altra parte, cosí che, contrariamente a quanto la signorina Maria voleva, io starò a sentire unicamente la musica. (Va a sedersi a destra dello spettatore.)

MAINERI (con un po' d'impazienza). Posso dunque finalmente incominciare questo preludio?

GIORGIO. Ah! c'è un preludio? Che cosa suonate?

MAINERI. Il concerto di Beethoven.

GIORGIO. Lo conosco. Il preludio è un po' lungo. (Ritorna accanto a Piero.) Lo starò a udire da qui. (Maineri comincia a suonare il preludio.)

PIERO. Come posso parlare io qui con questo schiamazzo?

GIORGIO. Provati, saremo indulgenti, sai.

PIERO (legge; Giorgio parecchie volte corregge l'intonazione). Ah! va da sé che con lo schiamazzo che fa quel signore non posso declamare bene.

MARIA (cerca di stare attenta al pianoforte ma non le riesce. S'avvicina molto lentamente al gruppo a sinistra e dice a Giulia che lavora). Quale divertimento è il tuo di disporre tanto filo nella tela?

GIULIA. Mentre la mano lavora, il pensiero corre ad altre cose.

MARIA. E a quali se è permesso?

GIULIA. Tante e bellissime. La mano col suo movimento uniforme accompagna, quasi accarezza un pensiero calmo e lieto. Quando alzo gli occhi veggo qui accanto questa testa bruna (sorridendo accenna al figliuolo) e l'unico sforzo che devo fare si è di non alzarli troppo di spesso.

MARIA. E desideri e aspetti senza ansie con la tua solita calma?

GIULIA. Non desidero né aspetto ossia desidero che tutto ciò continui cosí e che ogni giorno mi sia dato di fare quello che faccio oggi e feci ieri.

MARIA. Cioè disporre dell'altro filo nella tela?

GIULIA (già offesa). Non è il mio solo lavoro.

MARIA. E quali sono gli altri?

GIULIA. A te non li dico, non li comprenderesti.

MARIA. Io credo di poter comprendere tutto.

GIULIA. No! Certe cose non si capiscono se non si vivono. Non si tratta mica di ragionare, di calcolare ma bensí si tratta di sentire.

MARIA. Insomma spiegati e procurerò di capire. Sii buona, Giulia; ti accerto che non ho la minima voglia di deriderti.

GIULIA. Ma non è per questo timore che non voglio parlare. È che non saprei spiegarmi. Non sono mica da tanto da farti vivere la mia vita.

MAINERI (dopo di aver atteso per un istante). Tocca a lei, signorina.

MARIA. Ah! sí! Beethoven! No maestro! Adesso non posso! Ella ch'è tanto buono, mi faccia il favore di ritornare alle quattro. (Prega con calore.)

MAINERI (mormora). Ha ragione.

GIULIA. Ma se ti disturbiamo possiamo andarcene.

MARIA. No! adesso non posso piú suonare. È perduto il momento! Sarebbe per me un supplizio di suonare tutta quella roba.

MAINERI (rassegnato). Come ella desidera. Sa bene che per me sarebbe stata una vera festa quella roba come ella dice sul suo violino. Vuol dire che sarà per dopopranzo. A rivederci. (Via.)

MARIA (ripone il violino e gli parla). E dormi bene, povero violino. (A Giulia.) Dunque ritornando a noi. La tua felicità è tale che non la puoi neppur descrivere?

GIULIA. Questa è di nuovo ironia e su questo tono non possiamo intenderci. Perché ti dispiace ch'io abbia detto d'essere felice?

MARIA. A me che sia dispiaciuto di sentirti dire felice? Oh! no! Ma non comprendo; mi sorprende! Ti dirò anche il perché, visto che a me è sempre facile di spiegare quello che sento o quello che penso. Voialtri qui in questa città non potrete crederlo perché qui ho avuto un insuccesso, ma io alla mia età ho conosciuto delle cose, dei piaceri, lo confesso anzi, delle gioie, che tu neppure sai che esistano. Ho visto una città capitale per giorni e giorni non occuparsi d'altro che di me, offrirmi tutte le soddisfazioni piccole o grandi di vanità o di ambizione che un essere umano possa chiedere. L'entusiasmo era tale in quell'ambiente, che, figurati!, mi dissero persino bella mentre non lo sono, e peggio, mi dissero gentile e aggraziata mentre non lo sono e non voglio esserlo. Ho visto dei principi ricercare me di onorare i loro salotti e poi ho visto le persone piú rispettate d'Italia chiedere la mia amicizia, la mia stima, roba da farmi ridere quando cessava la mia ambizione che in me ha tutto l'aspetto della febbre. Sorpresi sguardi d'invidia negli occhi delle creature piú fortunate quando mi riusciva di far vivere, vibrare con me, col mio violino, migliaia di miei simili. E dopo tutto questo, mai… mai, capisci, non ho potuto dire quella frase tua: Sono felice e voglio restare sempre cosí. Ho detto e pensato: Oh! passi presto questa giornata e ne venga un'altra piú lieta e meno noiosa.

GIORGIO. Strano!

MARIA. Strano, dite? Ma no, questa è la vita, o almeno questa è la vita come la sentono le persone intelligenti. Ho goduto, sí, quando la musica passava per il mio cervello e di là nelle mie dita, senza resistenze. Allora l'orgoglio soddisfatto mi fa godere. Disprezzo gli altri miei simili che non sentono come me e godo. È una gioia che dura per istanti però. Non so figurarmi uno stato di felicità per me. E per gli altri? Oh! francamente! Io credo mentano tutti coloro che dicono di essere felici.

GIORGIO (da professore; mentre parla, Maria lo sta ad ascoltare con disprezzo). Oh! senta! Io ho conosciuto un individuo il quale diceva che gli alberi devono essere fatti di solo legno e senza foglie. D'estate andò in un bosco e disse che non v'era alcun albero. Aveva ragione! Chissà che cosa ella intenderà sotto la parola felicità. Se non è felicità la vita ch'ella ci descrisse in allora naturalmente la felicità non esiste.

GIULIA. No! Non è questo. Sai Maria che cosa a te manchi per essere felice? La famiglia! Noi donne non siamo mica delle creature che bastino a se stesse, che possano vivere a parte, solitarie e nomadi. A noi occorrono le quattro mura e qualcuno a cui sacrificarci. Il nostro mondo deve essere piccolo, ma tale che sia tutto nostro. Piccolo, sí, in realtà, ma grande, perché in esso dobbiamo trovare tutto quello che tu invano cercasti in quella grande città capitale che a te per giorni, sembrò tua. Il tuo violino? È un bellissimo istrumento e farà passare qualche mezz'ora aggradevole alla persona cui vorrai bene.

MARIA. Lo spezzerei in tal caso.

GIULIA. Non volli mica disprezzar la tua arte destinandola all'ufficio di rendere piú aggradevole il soggiorno nella casa. Oh! perché non appresi io un'arte acché mio marito e i miei figliuoli vi si possano beare.

MARIA. L'arte non vive che a scopi maggiori.

GIULIA. È lo scopo massimo! Sai perché ti parlo con tanto coraggio? Ti vedo spesso dacché sei qui, pensierosa, distratta; or ora mi confessasti che non sei felice. Qualche cosa a te manca, dunque, e, davvero, anche ad aiutarti. Di poco, ma credo d'essere piú giovane di te e invece mi pare di essere molto ma molto piú vecchia. Io infatti so o credo di sapere. Non sento piú il bisogno di affannarmi a cercare; ho la tranquillità della persona che sa tutto quello che le ha da succedere, dunque da persona vecchia che dalla vita piú nulla chiede. Tu sei una giovinetta invece! Cerchi ancora perché hai battuto una via che non fa per te.

GIORGIO. Ma, via, Giulia. Vorresti ch'ella abbandoni il suo violino, la sua arte, e divenga una buona massaia! Quali idee! La signorina Maria parla cosí in un momento di malumore! Forse anche si sente meno felice del solito, perché qui in questa città le sono mancate le solite soddisfazioni.

MARIA (con ironia evidente). Bravo signor professore! Io e lei ci comprendiamo perfettamente. Infatti sono meno felice perché qui non hanno voluto applaudirmi.

 

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:14/07/2005 00.13

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