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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Appendice prima
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Inferiorità

ITALO SVEVO

[SECONDO]

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… mio buon padrone… (Con evidente esagerata carezza nella voce.)

ALFREDO.          Osi ancora parlare cosí… Alzasti un revolver contro di me! O almeno mi parve di vederlo.

GIOVANNI          (facendo il semplicione). Io, un revolver? E di dove avrei da prendere un revolver? Io, minacciare Lei con un revolver? Io stesso ho paura delle armi da fuoco.

ALFREDO           (diffidente). Eppure dicesti di voler tirare.

GIOVANNI.         Lo dissi ma per spaventarla soltanto. Speravo che Lei mi avrebbe subito consegnato il portafoglio e che la stupida commedia che tanto mi pesava sarebbe finita.

ALFREDO           (pieno di astio). Ti lasciasti comperare da Alberighi?

GIOVANNI          (esitante). Comperare!

ALFREDO           (imperioso). Insomma?

GIOVANNI          (scoppiando). Sí, mi promise tutto. Domani stesso avrei potuto sposarmi e finire questa vita.

ALFREDO.          Eppure io ti trattai sempre bene.

GIOVANNI.         Ma per me questa vita non fa. Ella lo sa come sono atteso al mio paese.

ALFREDO.          Eppure non io ti strappai al tuo paese. Sei tu che venisti da me ad offrirmi i tuoi servigi.

GIOVANNI          (avvilito). Sí, è vero.

ALFREDO.          Quanto ti diede Alberighi?

GIOVANNI.         Duemilacinquecento franchi mi promise.

ALFREDO           (stupito). Cinquecento piú dell'importo della scommessa! (Dopo lieve riflessione.) Già, per avere il piacere di avvilirmi dinanzi a tutti. E tu, fedele servitore, subito ti prestasti al suo giuoco.

GIOVANNI.         Duemilacinquecento franchi coi tremilaseicento e cinquantadue che già posseggo facevano giusto l'importo che mi occorreva.

ALFREDO.          Di quali denari parli?

GIOVANNI          (subito agitato). Di quelli che ha Lei in consegna.

ALFREDO           (ride ironicamente). Ah! Di quelli parli! Ma sono poi ben tuoi?

GIOVANI.           Sono guadagnati col sudore della mia fronte in otto anni di servizio fedele.

ALFREDO.          T'inganni! Non sono tuoi. Tu dimentichi i patti che abbiamo fatti. Milleduecento franchi circa son proprio tuoi. Per gli altri ti farò vedere la lettera che firmasti quando da me entrasti. Quegl'importi che io notavo a tuo credito ti sarebbero dovuti soltanto all'atto che tu avessi ad abbandonarmi dopo un servizio inalteratamente fedele. Spero bene che non pretenderai piú di avermi servito fedelmente.

GIOVANNI          (costernato). Oh! padrone! Sarebbe una cattiva azione. Sí, una cattiva azione. Perché certo quei denari sono stati guadagnati da me. Quante volte non ho faticato per quei denari anche piú di quello che sarebbe stato giusto. Per esempio se invece di farsi accompagnare dai carabinieri questa sera Ella m'avrebbe ordinato di venirle incontro certo è che Lei mi avrebbe notato cinque o…

ALFREDO.          Vuoi finirla? Sono stanco di tante chiacchiere. Voglio andare a coricarmi. (S'avvia.)

GIOVANNI          (con insistenza). Non prima di avermi perdonato. È vero! Ho fatto male, molto male. Sono il primo a riconoscerlo. Ma mi perdoni.

ALFREDO.          Adesso coricati. Io mi chiuderò nella mia stanza. Domani prenderò i miei provvedimenti.

GIOVANNI          (agitatissimo). Ma come vuole che io possa dormire con questo pensiero. Mi perdoni signor padrone.

ALFREDO.          Vedremo.

GIOVANNI.         Il conte Alberighi mi assicurò ch'egli s'incaricherà di farmi avere i denari che Lei mi deve.

ALFREDO.          E in quale modo?

GIOVANNI          (nervosamente cerca la carta nelle sue tasche). Ecco qui! Firmato!

ALFREDO           (legge negligentemente). Questa vale proprio molto! (Sorridendo.) Capirai che Alberighi fece tutto questo nella speranza di guadagnare la scommessa. Se non la guadagna si curerà ben poco di te.

GIOVANNI          (esitante). Non la guadagna?

ALFREDO           (di nuovo irritato). E domani vedremo anche come avesti il diritto di farti garantire da altri quello che ti devo io.

GIOVANNI          (c.s.). Domani? (Si lamenta.) Oh! Chi potrebbe consigliarmi?

ALFREDO.          Dovevi cercar consiglio prima.

GIOVANNI          (risoluto si mette davanti alla porta ed impedisce il passo ad Alfredo). Non domani ma questa sera io debbo avere il fatto mio. Scusi signor padrone ma qui dobbiamo finirla subito. (Con la destra cerca d'arrivare alla tasca nella quale ha il revolver.)

ALFREDO.          Impertinente. Vuoi lasciarmi passare?

GIOVANNI.         No, signor padrone, non si passa. (Con subitaneo furore.) Anzi venga qui, venga qui. (Trascina Alfredo per un braccio fino al tavolo.) Sieda e mi stia ad ascoltare. Prima di tutto… Ecco… Fuori il portafoglio.

ALFREDO           (spaventato). Eccolo! E adesso lasciami andare.

GIOVANNI          (ironico). Vede anche senza revolver. Eppure l'ho qui. Lo vede? (Estrae il revolver e fa scattare la molla di sicurezza.) Adesso il portafoglio l'ho ma bisogna pensare anche al mio denaro. Come faccio io ad essere sicuro di averlo domani?

ALFREDO           (balbetta). Te lo prometto.

GIOVANNI          (in pieno furore). Me lo promette! E non me lo promettesti già una volta, piú volte, e poi mancasti… canaglia! Voleva derubarmi del denaro da me guadagnato con tanti stenti. Canaglia! Giura che mi darai domani il mio denaro. Giuralo.

ALFREDO           (c.s.). Giuro, giuro.

GIOVANNI.         E su che e su chi, canaglia! Non hai nessuno tu su cui giurare. E domani mi parlerai di nuovo come parlasti poco fa. Il mio denaro. Voglio subito il mio denaro. (Punta e tira sul petto di Alfredo.)

ALFREDO           (ferito e terrorizzato). Nel portafoglio… nel portafoglio. (Cade; la porta chiusa della stanza di Giovanni viene picchiata.)

GIOVANNI          (in ginocchio accanto ad Alfredo). Vi ho fatto male? Padrone, padrone! (A voce bassa.) Padrone! Ve ne prego rinvenite! Mi darete il mio denaro e tutto sarà finito. (Vede le proprie mani bagnate di sangue e allibisce.) Che cosa ho fatto? (Alla porta picchiano e si sente la voce di Alberighi chiamar Giovanni.) Padrone! Padrone!

ALFREDO           (balbetta negli ultimi rantoli). Ecco, ecco il portafoglio. (Muore.)

GIOVANNI          (guardandolo fiso). È morto? È morto! Che cosa farò buon Dio? (Corre per la stanza come in cerca di consiglio; alla porta c.s.) Vengo! Vengo! (Si riaccosta al cadavere, lo prende per un braccio e lo trascina verso la porta di fondo.) Oh! A che serve? (Va per aprire la porta, poi si pente e corre di nuovo a quella di fondo. Si morde le mani dall'angoscia.) Padrone! Padrone! Ma via! Uno scherzo cosí… Padrone! Padrone!

 

SCENA SESTA

ALBERIGHI, SQUATTI e GIOVANNI

 

ALBERIGHI.       Ma, insomma che fate?

SQUATTI.           Qui si muore soffocati.

ALBERIGHI.       Alfredo! Aprimi! La scommessa l'hai già perduta. Rassegnati e beviamo un bicchierino insieme.

GIOVANNI          (mormora). La scommessa? (Piangendo.) La scommessa è perduta. (Si getta smaniando su una sedia.)

ALBERIGHI.       Ma insomma, Alfredo. Fra gentiluomini una scommessa non ha mai tale importanza. Rideremo. Un po' a spalle tue.

GIOVANNI          (si alza prende un soprabito e un cappello e s'avvia verso la porta. Quando passa accanto al cadavere si ferma quasi a salutarlo).

ALBERIGHI        (spazientito dà dei grandi colpi di spalla alla porta). Marrano! Vuoi tenerci rinchiusi per punizione. (La porta si spalanca.)

GIOVANNI          (risoluto si ferma getta da sé il cappello e va incontro ai due signori con uno scoppio d'indignazione). Voi, voi mi avete messo in questi panni. Io non domandavo niente e mi avete rovinato. Voi, voi, che avreste dovuto saper meglio di me.

ALBERIGHI        (al primo momento è spaventato). Come avvenne questo?

GIOVANNI.         Lo so io forse? Io feci la commedia come Ella me l'aveva insegnata e… e… finí cosí. Guardate, guardate. Forse non è morto del tutto.

SQUATTI             (ebbro del tutto barcollando dinanzi al cadavere). Pare che questo nostro grande amico avesse veramente piú coraggio di quanto noi si supponesse.

GIOVANNI.         No! Povero il mio padrone. Non meritava questo! (Ansiosamente aspetta il verdetto di Alberighi che s'è chinato sul cadavere.)

ALBERIGHI        (già rassegnato). Non c'è nulla da far. È ben morto.

GIOVANNI.         E allora? Oh! mi salvi! Lei che può.

ALBERIGHI        (torvo). Vorrei però sapere prima con piena certezza che non ci fu malanimo in quanto facesti. Tu non volevi ucciderlo? Eri poco pratico dell'arma che ti affidai e il colpo partí senza tuo volere.

GIOVANNI          (con una certa grandezza). No! Io non dirò mai questo. Il colpo sorprese me pure. Ma io lo volli. Io premetti il grilletto. Sí, lo premetti. Perché? Io non lo so - non lo capisco.

ALBERIGHI        (pensoso). Capisco. Fu nostro il torto di metterti a tale cimento.

GIOVANNI.         Sí. Il torto fu di tutti noi.

ALBERIGHI.       Senti! Il miglior modo di cavarcela è di recarci tutti insieme al posto piú vicino dei carabinieri e raccontare che si era qui insieme e che ti si diede in mano quel revolver che appartiene a me. Per errore lasciasti partire il colpo che uccise il tuo padrone.

GIOVANNI.         E mi rinchiuderanno e m'interrogheranno per ore ed ore.

ALBERIGHI.       Bada che hai ucciso un uomo e che una lieve punizione la meriti.

GIOVANNI.         Io merito piú di una lieve punizione. Non è quella che mi faccia paura. Ma io - non appena sarà lasciato solo racconterò tutto a tutti.

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:17/07/2005 20.25

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