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Biblioteca Telematica

CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

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Inferiorità

ITALO SVEVO

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SCENA QUINTA

ALFREDO PICCHI e GIOVANNI

 

ALFREDO           (uomo sulla quarantina, ben nutrito, un po' cascante, in marsina). Chiudi! (Assiste con attenzione alla chiusura della porta; si leva il cappello ed il pastrano.) Si sta bene qui! (Respira.) Senti, Giovanni. Questa notte mi devi fare il piacere di venir a dormire sul sofà nella stanzetta da bagno. Non mi sento troppo bene. Resterai anche desto finché io non mi sia addormentato. Per ogni buon conto chiudi la tua stanza. (Giovanni eseguisce.) Gira due volte la chiave. Non c'è stato nessuno qui? (Giovanni non risponde e si dà da fare intorno a delle sedie.) Insomma rispondi sí o no? C'è stato nessuno qui?

GIOVANNI.        Ma no! Vuole che a quest'ora vengano delle visite?

ALFREDO.          Non son mica io a desiderare delle visite. Già! Chi potrebbe venire? La tua Maria non è piú in città.

GIOVANNI.        Purtroppo! (Lunga pausa durante la quale Alfredo si sdraia pensieroso su un'ottomana.)

ALFREDO           (come continuando un suo pensiero). Io chiacchiero troppo. Mi lascio trascinare a discussioni senza senso ed eccomi qui inquieto ed infelice. (Poi.) Senti, tu non mi tieni per molto coraggioso?

GIOVANNI         (deciso). Oh! No!

ALFREDO           (un po' offeso). Sei ben deciso, tu. Si può dire di me che non sono un attaccabrighe e che le guasconate non mi piacciono. Ma non coraggioso? Nervoso, sí. La solitudine e l'oscurità mi rendono inquieto. Ma non coraggioso? Dovevi vedermi questa sera. Volevano impormi con le sole minacce.

GIOVANNI.        Io volevo dire soltanto che da noi i coraggiosi son fatti altrimenti.

ALFREDO.          Lascia stare la campagna dove abita una razza del tutto diversa. Voi spaccate legna e domate bestie… È tutt'altra cosa. Vi tocca aver coraggio ogni giorno. Noi una volta all'anno ed anche meno. A me manca solo l'esercizio. Io ho coraggio ma… non sentivo affatto bisogno di fare delle scommesse.

GIOVANNI         (melenso). Scommesse?

ALFREDO.          Ti racconterò domani. Andiamo! Spegni il gas. (Giovanni eseguisce, Alfredo lo precede verso la porta di fondo con la candela in mano. Giovanni estrae il revolver che tiene nascosto. Alfredo ha raggiunta la porta che apre quando Giovanni si decide.)

GIOVANNI.        Signor padrone!

ALFREDO.          Che vuoi?

GIOVANNI         (fa lezione). Dammi il portafogli, padrone, fuori il portafogli, o tiro!

ALFREDO           (lascia cader a terra la candela e si appoggia allo stipite della porta. Guarda Giovanni con occhio smorto. Oscurità profonda).

GIOVANNI         (ripete). Il portafogli, padrone, il portafogli! (Alfredo cade a terra svenuto.) Oh! Diamine! Cade come se avessi tirato. (Ripone il revolver nella tasca posteriore dei calzoni; riaccende il gas e va a vedere Alfredo.) Dio mio! È livido! Che cosa ho fatto? (Prende dell'acqua e ne spruzza sulla faccia di Alfredo.) Padrone! Padrone mio! Non vedete che nessuno vuol farvi dei male? Signor Alfredo!

ALFREDO           (rinvenendo). Che c'è? (Terrorizzato va sino alla seggiola e vi siede senza forze.) Va via di qua. Vattene subito.

GIOVANNI.        Ma padrone mio! Non vedete che sono il vostro servo fedelissimo? Come potete credere che io voglia farvi del male? (Ravvedendosi e con mitezza ridicola.) Volevo il vostro portafogli…

ALFREDO.          Eccolo! Eccolo! Ma va via! (Pone il portafogli sul tavolo e ricade sfinito.)

GIOVANNI         (esitante). Ma io non vi faccio del male. Io non minaccio. Vi prego di darmi il portafogli. (Vuole afferrare il portafogli, ma non osa.)

ALFREDO.          Dammi un bicchiere d'acqua.

GIOVANNI.        Subito, padrone mio. Eccolo.

ALFREDO           (beve guardando torvamente Giovanni).

GIOVANNI.        Vi sentite meglio ora? Se sapeste come mi dispiace, di avervi spaventato cosí! Mi avete fatto prendere una paura. (Curvandosi verso Alfredo trova il modo di intascare il portafogli senz'essere visto.)

ALFREDO.          Alzare il revolver contro il padrone…!

GIOVANNI         (melenso, perché esitante). Il revolver?

ALFREDO.          E non minacciasti di tirare?

GIOVANNI         (costringendosi a ridere). Dissi, sí, di tirare, ma dove avevo da prendere il revolver?

ALFREDO.          Non avevi revolver? (Si alza, guarda le mani che Giovanni tiene in alto e gli visita qualche tasca. Balza contro Giovanni.) Dammi quel portafogli. Subito, birbante. Vuoi darmelo? (L'afferra per il collo.)

GIOVANNI.        Padrone, mi fate male.

ALFREDO.          Questo è il rispetto che mi porti? Non promettesti fedeltà? Traditore!

GIOVANNI         (piagnucoloso). Avete ragione, padrone mio. Ho fatto male. Ecco il vostro portafogli. (Lo consegna.)

ALFREDO           (lo prende, lo intasca e s'infiamma sempre piú). E adesso fuori di qua. Ti scaccio. Preferisco la solitudine alla tua compagnia. Vattene.

GIOVANNI.        Dove vuole che vada? A quest'ora? In fondo, poi, che cosa le ho fatto?

ALFREDO           (esasperato). E lo domanda!

GIOVANNI.        Io avevo già il portafogli in mano e lo restituii per solo rispetto.

ALFREDO           (trionfante). Per rispetto? No! Io vi ti ho costretto! Vigliacco!

GIOVANNI         (con ironia). Eh! Sí! Vigliacco! (Poi si riprende.) Sí! Che cosa le ho fatto? Io pensai che a Lei non sarebbe importato di perdere quella scommessa col conte Alberighi. Invece io avrei sposata di qui a pochi giorni la mia Maria, benedicendo il mio buon padrone… (Piagnucoloso.) Se lei volesse dimostrarsi generoso con me e consegnarmi il portafogli…

ALFREDO           (si getta sul tavolo, apre un cassetto e ne estrae un revolver). Minacci ancora? (Subito punta il revolver.) Vattene, ti dico, o sparo.

GIOVANNI         (nient'affatto spaventato). Oh! Lo so che lei non tirerà su un inerme.

ALFREDO           (pone il revolver sul tavolo). Non tiro finché non mi si fa nulla. Ma non parlare piú del portafogli. Per tuo bene! Ti lasciasti comperare da Alberighi?

GIOVANNI         (esitante ad accettare la parola). Comperare?

ALFREDO           (imperioso). Insomma?

GIOVANNI         (sempre piagnucolando). Sí, promise di darmi tutto quello di cui abbisognavo. Domani stesso avrei potuto sposarmi e finire questa vita.

ALFREDO.          Eppure io ti trattai sempre bene.

GIOVANNI.        Ma per me questa vita non fa. Ella sa come sono atteso, al mio paese.

ALFREDO.          E chi impedisce di andarvi? (Giovanni fa un gesto di sconforto.) E non io ti strappai al tuo paese. Sei tu che venisti a me ad offrirti.

GIOVANNI.        Sí, è vero.

ALFREDO.          Quanto ti diede Alberighi?

GIOVANNI.        Mi promise duemilacinquecento franchi.

ALFREDO           (stupito). Cinquecento piú dell'importo della scommessa! (Dopo lieve riflessione.) Già, per avere il piacere di avvilirmi dinanzi a tutti. E tu, fedele servitore, ti prestasti al suo giuoco.

GIOVANNI.        Duemilacinquecento franchi coi tremilaseicento e cinquantadue che già posseggo facevano giusto l'importo che mi occorreva e piú ancora…

ALFREDO.          Di quali denari parli?

GIOVANNI         (subito agitato). Di quelli che ha lei in consegna.

ALFREDO           (ride ironicamente). Parli di quelli! Ma sono poi ben tuoi?

GIOVANNI.        Sono guadagnati col sudore della mia fronte in otto anni di servizio fedele.

ALFREDO.          T'inganni! Non sono tuoi. Tu dimentichi i patti che abbiamo fatti. Solo ottocento franchi sono tuoi. In quanto agli altri ne parleremo. Ti farò vedere la lettera che firmasti quando entrasti al mio servizio. Gl'importi che io notavo sarebbero stati tuoi solo quando tu m'avessi lasciato dopo un servizio di otto anni, inalteratamente fedele.

GIOVANNI.        Ma gli otto anni sono quasi trascorsi.

ALFREDO.          E la fedeltà? E la fedeltà? (Gridando.)

GIOVANNI.        Ma quei denari sono miei! (Cammina intorno quasi in cerca d'aiuto.) Oh! padrone! Sarebbe una cattiva azione. Quei denari son miei ed io non ricordo il patto…

ALFREDO.          Dubiti della mia parola? Vedrai domani. Voglio andare a coricarmi. Riaccendi quella candela. Presto!

GIOVANNI         (corre a prendere la candela che giace ancora a terra). Subito, subito, padrone. Ma non vada senz'avermi perdonato. Sono tanto disgraziato!

ALFREDO.          Vuoi finalmente accendere quella candela o dovrò servirmi da solo?

GIOVANNI         (accende con mano tremante la candela che pone sul tavolo). Ecco, padrone. Ho sbagliato! Ma come potevo sapere io che l'andrebbe cosí. Non ho fortuna io.

ALFREDO           (si leva e intasca il revolver con grande prudenza). Sono stanco di tante chiacchiere. Coricati nella tua stanza. Io mi chiuderò nella mia e domani…

GIOVANNI         (agitatissimo). Come vuole che io possa dormire con tale pensiero? Mi perdoni, signor padrone.

ALFREDO           (s'avvia con la candela in mano). Adesso non voglio sentire altro.

GIOVANNI.        E il conte Alberighi mi disse che s'incaricherà lui di farmi avere il denaro ch'ella mi deve.

ALFREDO.          E allora fatteli dare da lui.

GIOVANNI.        L'ha anche scritto. (Nervosamente cerca il biglietto nella tasca del petto.) Ecco qui! Firmato!

ALFREDO           (legge negligentemente). Vale proprio molto! (Sorridendo.) Capirai che Alberighi fece tutto questo nella speranza di guadagnare la scommessa. Se non la guadagna si curerà ben poco di te.

GIOVANNI.        Non la guadagna! (Pensieroso.)

ALFREDO           (di nuovo iroso). E domani vedremo anche chi ti diede il diritto di farti garantire da altri quello che ti devo io.

GIOVANNI.        Io non volevo offenderla.

ALFREDO           (alza le spalle). Ma che offesa! (Procede verso la porta.)

GIOVANNI         (si lamenta). Oh! Chi mi consiglia?

ALFREDO.          Dovevi cercar consiglio prima.

GIOVANNI         (risoluto si mette davanti alla porta ed impedisce il passo ad Alfredo.) Non domani ma questa sera io debbo avere il fatto mio. Mi perdoni, signor padrone, ma, capirà, io difendo qui la mia vita.

ALFREDO.          Impertinente! Vuoi lasciarmi passare? (Cerca il revolver ma Giovanni gli afferra il braccio.)

GIOVANNI         (risoluto ma ancora rispettoso). No, signor padrone, non si passa! (Poi, improvvisamente è preso dal piú violento furore.) Anzi, vieni qui, vieni qui. (Trascina Alfredo per un braccio fino al tavolo.) Sieda e mi stia ad ascoltare. Prima di tutto… ecco… fuori il portafogli!

ALFREDO           (spaventato). Eccolo! E adesso lasciami andare.

GIOVANNI         (lascia il portafogli sul tavolo). Vede, anche senza revolver. E adesso viene il bello. Perché io ho il revolver! (Lo estrae e fa scattare la molla di sicurezza.) Adesso il portafogli ce l'ho, ma bisogna pensare anche al mio denaro. Come faccio io ad essere sicuro di averlo domani?

ALFREDO           (balbetta). Te lo prometto.

GIOVANNI         (in pieno furore). Me lo promette! E non me lo promettesti già una volta, piú volte, quasi ogni giorno e poi mancasti… canaglia! Voleva derubarmi del denaro da me guadagnato con tanti stenti! Canaglia! Giura che mi darai domani il mio denaro. Giuralo!

ALFREDO           (terrorizzato). Giuro, giuro!

GIOVANNI.        E su chi, canaglia! Non hai nessuno tu, su cui giurare. E domani parlerai di nuovo come parlasti poco fa. Il mio denaro. Voglio subito il mio denaro! (Punta sul petto di Alfredo e tira subito.)

ALFREDO.          Nel portafogli… nel portafogli. (Stramazza a terra.)

GIOVANNI         (si rimette a stento. Poi in ginocchio accanto ad Alfredo). Vi ho fatto male? Padrone, padrone! (A voce bassa.) Padrone! Ve ne prego, rinvenite! Mi darete il mio denaro e tutto sarà finito. (Vede le proprie mani macchiate di sangue e allibisce.) Che cosa ho fatto? (Alla porta picchiano e si sente la voce di Alberighi chiamar Giovanni.) Padrone! Padrone! (Con immensa gioia vedendolo muoversi.) Oh! vive!

ALFREDO           (balbetta negli ultimi rantoli). Ecco, ecco, il portafogli… (Muore.)

GIOVANNI         (guardandolo fisso). È morto. (Corre per la stanza; ritorna al cadavere, l’afferra per un braccio e pensa di trascinarlo verso il fondo.) Oh! a che serve? (Si morde le mani dall'angoscia). Padrone! Padrone! (Si cela la faccia e piange dirottamente.)

 

 

SCENA SESTA

ALBERIGHI e SQUATTI sempre chiusi nell'altra stanza e GIOVANNI

 

ALBERIGHI.       Ma insomma che fate?

SQUATTI.           Qui si muore soffocati. Ho caldo! Ho caldo!

ALBERIGHI.       Alfredo! Apri! La scommessa l'hai già perduta. Rassegnati e beviamo un bicchierino insieme.

GIOVANNI.        La scommessa! (Si rimette lentamente; corre al tavolo e intasca il portafogli. Si avvia verso la porta. Si ricrede, ritorna e indossa il soprabito di Alfredo ed un cappello. Fa per scappare ma ritorna ancora richiamato dalla voce di Alberighi)

ALBERIGHI.       Vuoi tenerci rinchiusi per punizione?

GIOVANNI         (dopo un'esitazione va accanto a quella porta). Non fate rumore! Ve ne prego! Io non ho ancora il portafogli. Per fortuna che il padrone è di là e non v'ha uditi.

ALBERIGHI        (piú a bassa voce). Ma il colpo di revolver?

GIOVANNI         (per un istante interdetto). Ah! Il colpo di revolver! È stato tirato dal signor Alfredo che si esercita. Adesso ha riposto il revolver e ritorna subito qui. Allora lo affronterò.

SQUATTI.           Sí, ma fa presto perché altrimenti perdo la pazienza e mi metto a urlare. Io non ho scommesso con nessuno e non c'è ragione…

ALBERIGHI.       Sta zitto, tu, imbecille!

GIOVANNI.        Zitti ambedue! Ecco il padrone che viene. Lo sento muoversi nella sua stanza. Zitti! (In procinto di nuovo di fuggire s'arresta accanto al cadavere. Lo ricompone con pietà. Poi non gli basta. Lo prende in braccio e lo pone su un'ottomana. Gli bacia la mano piangendo.) Volevo abbandonarti ed ora sarai sempre, sempre con me. (Fugge.)

 

 

CALA LA TELA

 

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Edizione HTML a cura di: mail@debibliotheca.com
Ultimo Aggiornamento:14/07/2005 00.13

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