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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

LA VITA DI BENVENUTO CELLINI FIORENTINO

scritta (per lui medesimo) in Firenze

LIBRO SECONDO

[XCI] [XCII] [XCIII] [XCIV] [XCV] [XCVI][XCVII] [XCVIII] [XCIX] [C] [CI] [CII] [CIII] [CIV] [CV] [CVI] [CVII] [CVIII] [CIX] [CX] [CXI] [CXII] [CXIII]

 

XCI.

Il mio Duca, con tutto che Sua Eccellenzia avessi sentito questo favore che m'era stato fatto di quel poco della vista da questa eccellentissima Scuola, disse: - Io n'ho gran piacere che Benvenuto abbia aùto questo poco del contento, il quale sarà cagione che piú presto e con piú diligenzia ei le darà la sua desiderata fine; ma non pensi che poi, quando la si vedrà tutta scoperta e che la si potrà vedere tutta all'intorno, che i popoli abbino a dire a questo modo; anzi gli sarà scoperto tutti i difetti che vi sono, e appostovene di molti di quei che non vi sono; sí che armisi di pazienza -. Ora queste furno parole del Bandinello dette al Duca, con le quale egli allegò delle opere d'Andrea del Verocchio, che fece quel bel Cristo e San Tommaso di bronzo, che si vede nella facciata di Orsamichele; e allegò molte altre opere, insino al mirabil Davitte del divino Michelagnolo Buonaroti, dicendo che ei non si mostrava bene se non per la veduta dinanzi; e dipoi disse del suo Ercole e Cacco gli infiniti e vituperosi sonetti che ve gli fu appiccati, e diceva male di questo popolo. Il mio Duca, che gli credeva assai bene, l'aveva mosso addire quelle parole, e pensava per certo che la dovessi passare in gran parte in quel modo, perché quello invidioso del Bandinello non restava di dir male; e una volta infra molte dell'altre, trovandovisi alla presenza quel manigoldo di Bernardone sensale, per far buone le parole del Bandinello, disse al Duca: - Sappiate, Signore, che 'l fare le figure grande l'è un'altra minestra che 'l farle piccoline: io non vo' dire ché le figurine piccole egli l'ha fatte assai bene; ma voi vedrete che là non vi riuscirà -. E con queste parolaccie mescolò molte dell'altre, faccendo la sua arte della spia, innella quale ei mescolava un monte di bugie.
XCII.
Or come piacque al mio glorioso Signore e immortale Iddio, io la fini' del tutto, e un giovedí mattina io la scopersi tutta. Subito, che e' nonnera ancora chiaro il giorno, vi si ragunò tanta infinita quantità di popoli, che e' saria impossibile il dirlo, ettutti a una voce facevano a gara a chi meglio ne diceva. Il Duca stava a una finestra bassa del Palazzo, la quale si è sopra la porta, e cosí, dentro alla finestra mezzo ascoso, sentiva tutto quello che di detta opera si diceva: e dappoi che gli ebbe sentito parecchi ore, ei si levò con tanta baldanza e tanto contento che voltosi al suo messer Sforza gli disse cosí: - Sforza, va, e truova Benvenuto e digli da mia parte che e' m'ha contento molto piú di quello che io mi aspettavo, e digli che io contenterò lui di modo, che io lo farò maravigliare; sí che digli che stia di buona voglia -. Cosí il detto messer Sforza mi fece la gloriosa imbasciata, la quale mi confortò, e quel giorno per questa buona nuova, e perché i popoli mi mostravano con il dito a questo e a quello, come cosa maravigliosa e nuova. Infra gli altri e' furno dua gentili uomini, i quali erano mandati dal Vecierè di Sicilia al nostro Duca per lor faccende. Ora questi dua piacevoli uomini mi affrontorno in piazza, ché io fui mostro loro cosí passando; di modo che con furia e' mi raggiunsono, e subito, colle lor berrette in mano, e' mi feciono una la piú cirimoniosa orazione, la quale saria stata troppa a un papa: io pure, quanto potevo, mi umiliavo; ma e' mi soprafacevano tanto, che io mi cominciai arraccomandare loro, che di grazia d'accordo ei s'uscissi di piazza, perché i popoli si fermavano a guardar me piú fiso, che e' non facevano al mio Perseo. E infra queste cirimonie eglino furno tanto arditi, che e' mi richiesono all'andare in Sicilia, e che mi farebbono un tal patto, che io mi contenterei; e mi dissono come frate Giovanagnolo de' Servi aveva fatto loro una fontana piena e addorna di molte figure, ma che le non erano di quella eccellenzia ch'ei vedevano in Perseo, e che e' l'avevano fatto ricco. Io non gli lasciai finir dire tutto quel che eglino arebbono voluto dite, che io dissi loro:- Molto mi maraviglio di voi, che voi mi ricerchiate che io lasci un tanto Signore, amatore delle virtute piú che altro principe che mai nascessi, e di piú trovandomi nella patria mia, scuola di tutte le maggior virtute. Oh! se io avessi appetito al gran guadagno, io mi potevo restare in Francia al servizio di quel gran re Francesco, il quale mi dava mille scudi d'oro per il mio piatto, e di piú mi pagava le fatture di tutte le mie opere, di sorte che ogni anno io mi avevo avanzato piú di quattro mila scudi d'oro l'anno; e avevo lasciato in Parigi le mie fatiche di quattro anni passati -. Con queste e altre parole io tagliai le cerimonie, e gli ringraziai delle gran lode che eglino mi avevano date, le quale si erano i maggiori premii che si potessi dare a chi si affaticava virtuosamente; e che eglino m'avevano tanto fatto crescere la volontà del far bene, che io speravo in brevi anni avvenire di mostrare un'altra opera, la quale io speravo di piacere all'ammirabile Scuola fiorentina molto piú di quella. Li dua gentili uomini arebbono voluto rappiccare il filo alle cerimonie; dove io con una sberrettata con gran reverenza dissi loro addio.
XCIII.
Da poi che io ebbi lasciato passare dua giorni, e veduto che le gran lodi andavano sempre crescendo, allora io mi disposi d'andare a mostrarmi al mio signor Duca; il quale con gran piacevolezza mi disse: - Benvenuto mio, tu m'hai sattisfatto e contento; ma io ti prometto che io contenterò te di sorte che io ti farò maravigliare: e piú ti dico, che io non voglio che e' passi il giorno di domane -. A queste mirabil promesse, subito voltai tutte le mie maggior virtú e dell'anima e del corpo innun momento a Dio, ringraziandolo in verità: e nel medesimo stante m'accostai al mio Duca, e, cosí mezzo lacrimando d'allegrezza, gli baciai la vesta; dipoi aggiunsi dicendo: - O glorioso mio Signore, vero liberalissimo amatore delle virtute e di quegli uomini che innesse si affaticano; io priego Vostra Eccellenzia illustrissima che mi faccia grazia di lasciarmi prima andare per otto giorni a ringraziare Iddio; perché io so bene la smisurata mia gran fatica, e cognosco che la mia buona fede ha mosso Iddio al mio aiuto: per questo e per ogni altro miracoloso soccorso, voglio andare per otto giornate pellegrinando, sempre ringraziando il mio immortale Iddio, il quale sempre aiuta chi in verità lo chiama -. Allora mi domandò 'l Duca dove io volevo andare. Al quale io dissi: - Domattina mi partirò e me n'andrò a Valle Ombrosa, di poi a Camaldoli e all'Ermo, e me n'andrò insino ai bagni di Santa Maria e forse insino a Sestile, perché io intendo che e' v'è di belle anticaglie: dipoi mi tornerò da San Francesco della Vernia, e ringraziando Iddio sempre, contento mi ritornerò asservirla -. Subito il Duca lietamente mi disse: - Va, e torna, che tu veramente mi piaci, ma lasciami due versi di memoria, e lascia fare a mme -. Subito io feci quattro versi, innei quali io ringraziavo Sua Eccellenzia illustrissima, e gli detti a messer Sforza, il quale gli dette in mano al Duca da mia parte: il quale gli prese; di poi gli dette in mano al detto messer Sforza, e gli disse: - Fa che ogni dí tu me gli metta innanzi, perché se Benvenuto tornassi e trovassi che io noll'avessi spedito, io credo che e' mi ammazzerebbe - e cosí ridendo, Sua Eccellenzia disse che gnele ricordassi. Queste formate parole mi disse la sera messer Sforza, ridendo e anche maravigliandosi del gran favore che mi faceva 'l Duca: e piacevolmente mi disse: - Va, Benvenuto, e torna, ché io te n'ho invidia.
XCIV.
Nel nome di Dio mi parti' di Firenze sempre cantando salmi e orazione innonore e gloria di Dio per tutto quel viaggio; innel quale io ebbi grandissimo piacere, perché la stagione si era bellissima, di state, e il viaggio e il paese dove io nonnero mai piú stato mi parve tanto bello che ne restai maravigliato e contento. E perché gli era venuto per mia guida un giovane mio lavorante, il quale era dal Bagno, che si chiamava Cesere, io fui molto carezzato da suo padre e da tutta la casa sua; infra e' quali si era un vecchione di piú di settant'anni, piacevolissimo uomo: questo era zio del detto Cesere, e faceva professione di medico cerusico, e pizzicava alquanto di archimista. Questo buono uomo mi mostrò come quei Bagni avevano miniera d'oro e d'argento, e mi fece vedere molte bellissime cose di quel paese; di sorte che io ebbi de' gran piaceri che io avessi mai. Essendosi domesticato a suo modo meco, un giorno in fra gli altri mi disse: - Io non voglio mancare di non vi dire un mio pensiero, al quale se Sua Eccellenzia ci prestassi l'orecchio, io credo che e' sarebbe cosa molto utile: e questo si è, che intorno a Camaldoli ci si vede un passo tanto scoperto, che Piero Strozzi potria non tanto passare sicuramente, ma egli potrebbe rubar Poppi sanza contrasto alcuno - e con questo, non tanto l'avermelo mostro a parole, ch'egli si cavò un foglio della scarsella, nel quale questo buon vecchio aveva disegnato tutto quel paese in tal modo che benissimo si vedeva ed evidentemente si conosceva il gran pericolo esser vero. Io presi il disegno e subito mi parti' dal Bagno, e quanto piú presto io potetti, tornandomene per la via di Prato Magno e da San Francesco della Vernia, mi ritornai a Firenze: e senza fermarmi, sol trattomi gli stivali, andai a Palazzo. E quando io fui dalla Badia, io mi scontrai nel mio Duca, che se ne veniva per la via del Palagio del Podestà: il quale, subito ch'e' mi vide, ei mi fece una gratissima accoglienza insieme con un poco di maraviglia, dicendomi: - O perché sei tu tornato cosí presto? che io non t'aspettavo ancora di questi otto giorni -. Al quale io dissi: - Per servizio di Vostra Eccellenzia illustrissima son tornato, ché volentieri io mi sarei stato parecchi giorni a spasso per quel bellissimo paese. - E che buone faccende? - disse 'l Duca. Al quale io dissi: - Signore, gli è di necessità che io vi dica e mostri cose di grande importanza -. Cosí me n'andai seco a Palazzo. Giunti a Palazzo e' mi menò in camera segretamente dove noi eravamo soli. Allora io gli dissi il tutto, e gli mostrai quel poco del disegno; il quale mostrò di averlo gratissimo. E dicendo a Sua Eccellenzia che gli era di necessità il rimediare a una cotal cosa presto, il Duca stette cosí un poco sopra di sé, e poi mi disse: - Sappi, che no' siamo d'accordo con el Duca d'Urbino, il quale n'ha da 'aver cura lui; ma stia in te -. E con molta gran dimostrazione di sua buona grazia, io mi ritornai a casa mia.
XCV.
L'altro giorno io mi feci vedere e il Duca, dipoi un poco di ragionamento, lietamente mi disse: - Domani senza fallo voglio spedire la tua faccenda; sí che sta di buona voglia -. Io, che me lo tenevo per certissimo, con gran disiderio aspettavo l'altro giorno. Venuto il desiderato giorno, me n'andai a Palazzo; e siccome per usanza par che sempre gli avvenga, che le male nuove si dieno con piú diligenzia che non fanno le buone, messer Iacopo Guidi segretario di Sua Eccellenzia illustrissima mi chiamò con una sua bocca ritorta e con voce altiera, e ritiratosi tutto in sé, con la persona tutta incamatita, come interizzata, cominciò in questo modo a dire: - Dice il Duca che vuole saper da te quel che tu dimandi del tuo Perseo -. Io restai ismarrito e maravigliato: e subito risposi come io non ero mai per domandar prezzo delle mie fatiche, e che questo nonnera quello che mi aveva promesso Sua Eccellenzia dua giorni sono. Subito questo uomo con maggior voce mi disse che mi comandava spressamente da parte del Duca, che io dicessi quello che io ne volevo, sotto la pena della intera disgrazia di Sua Eccellenzia illustrissima. Io che m'ero promesso non tanto di aver guadagnato qualche cosa per le gran carezze fattemi da Sua Eccellenzia illustrissima, anzi maggiormente mi ero promesso di avere guadagnato tutta la grazia del Duca, perché io nollo richiedevo mai d'altra maggior cosa che solo della sua buona grazia: ora questo modo, innaspettato da me, mi fece venire in tanto furore: e maggiormente per porgermela in quel modo che faceva quel velenoso rospo. Io dissi, che quando 'l Duca mi dessi dieci mila scudi, e' non me la pagherebbe, e che, se io avessi mai pensato di venire a questi meriti, io non mi ci sarei mai fermo. Subito questo dispettoso mi disse una quantità di parole ingiuriose; e io il simile feci allui. L'altro giorno appresso, faccendo io reverenza al Duca, Sua Eccellenzia m'accennò; dove io mi accostai; ed egli in còllora mi disse: - Le città e i gran palazzi si fanno cone i dieci mila ducati -. Al quale subito risposi come Sua Eccellenzia troverebbe infiniti uomini che gli saprieno fare delle città e dei palazzi; ma che dei Persei ei non troverrebbe forse uomo al mondo, che gnele sapessi fare un tale. E subito mi parti' senza dire o fare altro. Certi pochi giorni appresso, la Duchessa mandò per me e mi disse che la differenza che io avevo con el Duca io la rimettessi in lei, perché la si vantava di far cosa che io saria contento. A queste benigne parole io risposi come io non avevo mai chiesto altro maggior premio delle mie fatiche che la buona grazia del Duca, e che Sua Eccellenzia illustrissima me l'aveva promessa; e che e' non faceva bisogno che io rimettessi in loro Eccellenzie illustrissime quello che, dai primi giorni che io li cominciai a servire tutto liberamente io avevo rimesso; e di piú aggiunsi che se Sua Eccellenzia illustrissima mi dessi solo una crazia, che vale cinque quattrini, delle mie fatiche, io mi chiamerei contento e sattisfatto, pur che Sua Eccellenzia non mi privassi della sua buona grazia. A queste mie parole, la Duchessa alquanto sorridendo, disse: - Benvenuto, tu faresti il tuo meglio a fare quello che io ti dico - e voltami le spalle, si levò da mme. Io che pensa' di fare il mio meglio per usare quelle cotal umil parole, avvenne che e' ne risultò il mio peggio, perché, con tutto che lei avessi aùto meco quel poco di stizza, ell'aveva poi in sé un certo modo di fare, il quale si era buono.
XCVI.
In questo tempo io ero molto domestico di Girolimo degli Albizi, il quale era commessario delle bande di Sua Eccellenzia; e un giorno infra gli altri egli mi disse: - O Benvenuto, e' sarebbe pur bene il porre qualche sesto a questo poco del dispiacere che tu hai con el Duca; e ti dico, che se tu avessi fede in me, che e' mi darebbe 'l cuore da conciarla; perché io so quello che io mi dico. Come il Duca s'adira poi da dovero, tu ne farai molto male: bastiti questo; io non ti posso dire ogni cosa -. E perché e' m'era stato detto da uno, forse tristerello, dipoi che la Duchessa m'aveva parlato, il quale disse che aveva sentito dire che 'l Duca, per non so che occasione datagli, disse: - Per manco di dua quattrini io gitterò via il Perseo e cosí si finiranno tutte le differenze - ora per questa gelosia io dissi a Girolimo degli Albizi, che io rimettevo in lui il tutto, e che quello che egli faceva, io di tutto sarei contentissimo, pure che io restassi in grazia del Duca. Questo galante uomo, che s'intendeva benissimo dell'arte del soldato, massimamente di quei delle bande, i quali sono tutti villani, ma dell'arte del fare la scultura egli non se ne dilettava e però e' non se ne intendeva punto, di sorte che parlando con el Duca disse: - Signore, Benvenuto s'è rimesso in me, e m'ha pregato che io lo raccomandi a Vostra Eccellenzia illustrissima -. Allora il Duca disse: - E ancora io mi rimetto in voi, e starò contento attutto quello che voi giudicherete -. Di modo che il detto Girolamo fece una lettera molto ingegnosa e in mio gran favore, e giudicò che 'l Duca mi dessi tremila cinquecento scudi d'oro innoro, i quali bastassino non per premio di una cotal bella opera, ma solo per un poco di mio trattenimento; basta che io mi contentavo; con molte altre parole, le quali in tutto concludevano il detto prezzo. Il Duca la sottoscrisse molto volentieri, tanto quanto io ne fu' malcontento. Come la Duchessa lo intese, la disse: - Gli era molto meglio per quel povero uomo che e' l'avessi rimessa in me, che gne l'arei fatto dare cinque mila scudi d'oro - e un giorno che io ero ito in Palazzo, la Duchessa mi disse le medesime parole alla presenzia di messer Alamanno Salviati, e mi derise, dicendomi che e' mi stava bene tutto 'l male che io avevo. Il Duca ordinò che e' mi fussi pagato cento scudi d'oro innoro il mese, insino alla detta somma, e cosí si andò seguitando qualche mese. Dipoi messer Antonio de' Nobili, che aveva aúta la detta commessione, cominciò a darmene cinquanta, e di poi quando me ne dava venticinque e quando non me gli dava; di sorte che, vedutomi cosí prolungare, amorevolmente dissi al detto messer Antonio, pregandolo che e' mi dicessi la causa perché e' non mi finiva di pagare. Ancora egli benignamente mi rispose: innella qual risposta e' mi parve ch'e' s'allargassi un poco troppo, perché - giudichilo chi intende - in prima mi disse che la causa perché lui non continuava il mio pagamento si era la troppa strettezza che aveva 'l Palazzo di danari, ma che egli mi prometteva che come gli venissi danari, che mi pagherebbe; e aggiunse dicendo: - Oimè! se io non ti pagassi, io saria un gran ribaldo -. Io mi maravigliai il sentirgli dire una cotal parola, e per quella mi promissi che quando e' potessi, che e' mi pagherebbe. Per la qual cosa e' ne seguí tutto 'l contrario, di modo che, vedendomi straziare, io m'adirai seco e gli dissi molte ardite e collorose parole, e gli ricordai tutto quello che lui m'aveva detto che sarebbe. Imperò egli si morí, e io resto ancora a 'vere cinquecento scudi d'oro insino a ora, che siamo vicini alla fine dell'anno 1566. Ancora io restavo d'avere un resto di mia salari, il quale mi pareva che e' non si facessi piú conto di pagarmegli, perché gli eran passati incirca a tre anni; ma gli avvenne una pericolosa infermità al Duca, che gli stette quarantotto ore senza potere orinare; e conosciuto che i remedi de' medici non gli giovavano, forse ei ricorse a Iddio, e per questo e' volse che ogniuno fussi pagato delle sue provvisione decorse e ancora io fui pagato; ma non fu' pagato già del mio resto del Perseo.
XCVII.
Quasi che io m'ero mezzo disposto di non dir piú nulla dello isfortunato mio Perseo; ma per essere una occasione che mi sforza tanta notabile, imperò io rappiccherò il filo per un poco, tornando alquanto addietro. Io pensai di fare il mio meglio, quando io dissi alla Duchessa, che io non potevo piú far compromesso di quello che non era piú in mio potere, perché io avevo ditto al Duca che io mi contentavo di tutto quello che Sua Eccellenzia illustrissima mi volessi dare: e questo io lo dissi pensando di gratuirmi alquanto; e con quel poco de l'umiltà cercavo con ogni opportuno remedio di placare alquanto il Duca, perché certi pochi giorni in prima che e' si venissi all'accordo dell'Albizi, il Duca s'era molto dimostro di essersi crucciato meco: e la causa fu, che dolendomi con Sua Eccellenzia di certi assassinamenti bruttissimi che mi faceva messer Alfonso Quistello e messer Iacopo Polverino, fiscale, e piú che tutti ser Giovanbattista Brandini, volterrano; cosí dicendo con qualche dimostrazione di passione queste mie ragioni, io vidi venire il Duca in tanta stizza, quanto mai e' si possa immaginare. E poi che Sua Eccellenzia illustrissima era venuta in questo gran furore, ei mi disse: - Questo caso si è come quello del tuo Perseo, che tu n'hai chiesto e' dieci mila scudi: tu ti lasci troppo vincere da il tuo interesso; imperò io lo voglio fare stimare, e tene darò tutto quello che e' mi fia giudicato -. A queste parole io subito risposi alquanto un poco troppo ardito e mezzo adirato - cosa la qual non è conveniente usarla cone i gran Signori - e dissi: - O come è egli possibile che la mia opera mi sia stimata il suo prezzo, non essendo oggi uomo in Firenze che la sapessi fare? - Allora il Duca crebbe in maggiore furore, e disse di molte parole adirate, infra le quale disse: - In Firenze si è uomo oggi, che ne saprebbe fare un come quello, e però benissimo e' lo saprà giudicare -. Ei volse dire del Bandinello, cavalieri di santo Iacopo. Allora io dissi: - Signor mio, Vostra Eccellenzia illustrissima m'ha dato facultà, che io ho fatto innella maggiore Scuola del mondo una grande e difficilissima opera, la quale m'è stata lodata piú che opera che mai si sia scoperta in questa divinissima Scuola; e quello che piú mi fa baldanzoso si è stato, che quegli eccellenti uomini, che conoscono e che sono dell'arte, com'è 'l Bronzino pittore, questo uomo s'è affaticato e m'ha fatto quattro sonetti, dicendo le piú iscelte e gloriose parole, che sia possibil di dire; e per questa causa, di questo mirabile uomo, forse s'è mossa tutta la città a cosí gran romore; e io dico ben che se lui attendessi alla scultura, sí come ei fa alla pittura, lui sí bene la potria forse saper fare. E piú dico a Vostra Eccellenzia illustrissima che il mio maestro Michelagnolo Buonaroti, sí bene e' n'arebbe fatta una cosí, quando egli era piú giovane, e non arebbe durato manco fatiche che io mi abbia fatto; ma ora che gli è vecchissimo, egli nolla farebbe per cosa certa; di modo che io non credo che oggi ci sia notizia di uomo che la sapessi condurre. Sí che la mia opera ha 'uto il maggior premio che io potessi desiderare al mondo: e maggiormente, che Vostra Eccellenzia illustrissima, non tanto che la si sia chiamata contenta de l'opera mia, anzi piú di ogni altro uomo quella me l'ha lodata. O che maggiore e che piú onorato premio si può egli desiderare? Io dico per certissimo che Vostra Eccellenzia non mi poteva pagare di piú gloriosa moneta: né con qualsivoglia tesoro certissimo e' non si può agguagliare a questo: sí che io sono troppo pagato, e ne ringrazio Vostra Eccellenzia illustrissima con tutto il cuore -. A queste parole rispose il Duca e disse: - Anzi tu non pensi che io abbia tanto che io te la possa pagare; e io ti dico che io te la pagherò molto piú che la non vale -. Allora io dissi: - Io non mi immaginavo di avere altro premio da Vostra Eccellenzia, ma io mi chiamo pagatissimo di quel primo che m'ha dato la Scuola, e con questo adesso adesso mi voglio ir con Dio, senza mai piú tornare a quella casa che Vostra Eccellenzia illustrissima mi donò, né mai piú mi voglio curare di rivedere Firenze -. Noi eravamo appunto da Santa Felicita e Sua Eccellenzia si ritornava a Palazzo. A queste mie collorose parole il Duca subito con gran ira si volse e mi disse: - Non ti partire, e guarda bene che tu non ti parta - di modo che io mezzo spaventato lo accompagnai a Palazzo. Giunto che Sua Eccellenzia fu a Palazzo, ei chiamò il vescovo de' Bartolini, che era arcivescovo di Pisa, e chiamò messer Pandolfo della Stufa, e disse loro che dicessino a Baccio Bandinelli da sua parte che considerassi bene quella mia opera del Perseo, e che la stimassi, perché el Duca me la voleva pagare il giusto suo prezzo. Questi dua uomini dabbene subito trovorno il detto Bandinello, e fattegli la imbasciata, egli disse loro che quella opera ei l'aveva benissimo considerata, e che sapeva troppo bene quel che la valeva; ma per essere in discordia meco per altre faccende passate, egli non voleva impacciarsi de' casi mia in modo nessuno. Allora questi dua gentili uomini aggiunsono e dissono: - Il Duca ci ha detto che, sotto pena della disgrazia sua, che vi comanda che voi le diate prezzo; e se voi volete due o tre dí di tempo a considerarla bene, ve gli pigliate: dipoi dite annoi quel che e' vi pare che quella fatica meriti -. Il detto rispose che l'aveva benissimo considerata, e che non poteva mancare a' comandamenti del Duca, e che quella opera era riuscita molto ricca e bella, di modo che gli pareva che la meritassi sedici mila scudi d'oro e da vantaggio. Subito i buoni gentili uomini lo riferirno al Duca, il quale si adirò malamente; e similmente ei lo ridissino a me. Ai quali io risposi, che in modo nessuno io non volevo accettare le lode del Bandinello, avvenga che questo male uomo dice mal di ogniuno. Queste mie parole furno riditte al Duca, e per questo voleva la Duchessa che io mi rimettessi in lei. Tutto questo si è la pura verità: basta che io facevo il mio meglio a lasciarmi giudicare alla Duchessa, perché io sarei stato in breve pagato, e arei aùto quel piú premio.
XCVIII.
Il Duca mi fece intendere per messer Lelio Torello, suo aulditore, che voleva che io facessi certe storie di basso rilievo di bronzo intorno al coro di santa Maria del Fiore; e per essere il detto coro impresa del Bandinello, io non volevo arricchire le sue operaccie con le fatiche mie; e con tutto che 'l detto coro non fussi suo disegno, perché lui non intendeva nulla al mondo d'architettura (il disegno si era di Giuliano di Baccio d'Agnolo, legnaiuolo, che guastò la cupola): basta che e' non v'è virtú nessuna; e per l'una e per l'altra causa io non volevo in modo nessuno far tal opera, ma umanamente sempre dicevo al Duca, che io farei tutto quello che mi comandassi Sua Eccellenzia illustrissima, di modo che Sua Eccellenzia commesse agli Operai di Santa Maria del Fiore che fussino d'accordo meco, e che Sua Eccellenzia mi darebbe solo la mia provvisione delli dugento scudi l'anno e che a ogni altra cosa voleva che i detti Operai sopperissino di quello della ditta Opera. Di modo che io comparsi dinanzi alli detti Operai, i quali mi dissono tutto l'ordine che loro avevano dal Duca; e perché con loro e' mi pareva molto piú sicuramente poter dire le mie ragioni, cominciai a mostrar loro che tante storie di bronzo sariano di una grandissima spesa, la quale si era tutta gittata via: e dissi tutte le cagioni, per le quali eglino ne furno capacissimi. La prima si era, che quel ordine di coro era tutto scorretto, ed era fatto senza nissuna ragione, né vi si vedeva né arte, né comodità, né grazia, né disegno; l'altra si era che le ditte storie andavano tanto poste basse, che le venivano troppo inferiore alla vista, e che le sarebbono un pisciatoi' da cani, e continue starebbono piene d'ogni bruttura; e che per le ditte cagioni io in modo nessuno nolle volevo fare. Solo per non gittar via il resto dei mia migliori anni e non servire Sua Eccellenzia illustrissima, al quale io desideravo tanto di piacere e servire; imperò, se Sua Eccellenzia si voleva servir delle fatiche mie, quella mi lasciassi fare la porta di mezzo di Santa Maria del Fiore, la quale sarebbe opera che sarebbe veduta, e sarebbe molto piú gloria di Sua Eccellenzia illustrissima; e io mi ubbrigherei per contratto che, se io nolla facessi meglio di quella, che è piú bella, delle porte di San Giovanni, non volevo nulla delle mie fatiche; ma se io la conducevo sicondo la mia promessa, io mi contentavo che la si facessi stimare, e dappoi mi dessino mille scudi di manco di quello che dagli uomini dell'arte la fussi stimata. A questi Operai molto piacque questo che io avevo lor proposto, e andorno a parlarne al Duca, che fu, in fra gli altri, Piero Salviati, pensando di dire al Duca cosa che gli fussi gratissima; e la gli fu tutto 'l contrario; e disse che io volevo sempre fare tutto 'l contrario di quello che gli piaceva che io facessi: e sanza altra conclusione il detto Piero si partí dal Duca. Quando io intesi questo, subito me n'andai a trovare 'l Duca, il quale mi si mostrò alquanto sdegnato meco; il quali io pregai che si degnassi di ascoltarmi, ed ei cosí mi promesse: di modo che io mi cominciai da un capo; e con tante belle ragioni gli detti ad intendere la verità di tal cosa, mostrando a Sua Eccellenzia che l'era una grande spesa gittata via: di sorte che io l'avevo molto addolcito con dirgli, che se a Sua Eccellenzia illustrissima non piaceva che e' si facessi quella porta, che egli era di necessità il fare a quel coro dua pergami, e che quegli sarebbono due grande opere e sarebbono gloria di Sua Eccellenzia illustrissima, e che io vi farei una gran quantità di storie di bronzo, di basso rilievo, con molti ornamenti: cosí io lo ammorbidai e mi commesse che io facessi i modegli. Io feci piú modelli e durai grandissime fatiche: e infra gli altri ne feci uno a otto faccie, con molto maggiore studio che io nonnavevo fatto gli altri, e mi pareva che e' fussi molto piú comodo al servizio che gli aveva affare. E perché io gli avevo portati piú volte a Palazzo, Sua Eccellenzia mi fece intendere per messer Cesere, guardaroba, che io gli lasciassi. Dappoi che 'l Duca gli aveva veduti, vidi che di quei Sua Eccellenzia aveva scelto il manco bello. Un giorno Sua Eccellenzia mi fe' chiamare, e innel ragionare di questi detti modelli io gli dissi e gli mostrai con molte ragioni, che quello a otto faccie saria stato molto piú comodo a cotal servizio, e molto piú bello da vedere. Il Duca mi rispose, che voleva che io lo facessi quadro, perché gli piaceva molto piú in quel modo; e cosí molto piacevolmente ragionò un gran pezzo meco. Io non mancai di non dire tutto quello che mi occorreva, in difensione dell'arte. O che il Duca conoscessi che io dicevo 'l vero, e pur volessi fare a suo modo, e' si stette di molto tempo che e' non mi fu detto nulla.
XCIX.
In questo tempo il gran marmo del Nettunno si era stato portato per il fiume d'Arno e poi condotto per la Grieve in sulla strada del Poggio a Caiano, per poterlo poi meglio condurre afFirenze per quella strada piana, dove io lo andai a vedere. E se bene io sapevo certissimo che la Duchessa l'aveva per suo propio favore fatto avere al cavalieri Bandinello; non per invidia che io portassi al Bandinello, ma sí bene mosso a pietà del povero mal fortunato marmo (guardisi, che qual cosa e' si sia, la quale sia sottoposta a mal destino, che un la cerchi scampare da qualche evidente male, gli avviene che la cade in molto peggio, come fece il detto marmo alle man di Bartolomeo Ammannato, del quale si dirà 'l vero al suo luogo), veduto che io ebbi il bellissimo marmo, subito presi la sua altezza e la sua grossezza per tutti i versi, e tornatomene a Firenze, feci parecchi modellini approposito. Dappoi io andai al Poggio a Caiano, dove era il Duca e la Duchessa e 'l Principe lor figliuolo; e trovandogli tutti a tavola, il Duca con la Duchessa mangiava ritirato, di modo che io mi missi attrattenere il Principe. E avendolo trattenuto un gran pezzo, il Duca, che era innuna stanza ivi vicino, mi sentiva, e con molto favore e' mi fece chiamare; e giunto che io fui alle presenze di loro Eccellenzie, con molte piacevole parole la Duchessa cominciò a ragionar meco: con el qual ragionamento a poco a poco io cominciai a ragionar di quel bellissimo marmo, che io avevo veduto; e cominciai a dire come la lor nobilissima Scuola i loro antichi l'avevano fatta cosí virtuosissima, solo per far fare aggara tutti i virtuosi nelle lor professione; e in quel virtuoso modo ei s'era fatto la mirabil cupola, e le bellissime porte di Santo Giovanni, e tant'altri bei tempii e statue, le quali facevano una corona di tante virtú a la lor città, la quale dagli antichi in qua la non aveva mai aùto pari. Subito la Duchessa con istizza mi disse, che benissimo lei sapeva quello che io volevo dire; e disse che alla presenza sua io mai piú parlassi di quel marmo, perché io gnele facevo dispiacere. Dissi: - Addunche vi fo io dispiacere per volere essere proccuratore di Vostre Eccellenzie, facendo ogni opera perché le sieno servite meglio? Considerate, Signora mia: se Vostre Eccellenzie illustrissime si contentano, che ogniuno facci un modello di un Nettunno, se bene voi siate resoluti che l'abbia il Bandinello, questo sarà causa che 'l Bandinello per onor suo si metterà con maggiore studio a fare un bel modello, che e' non farà sapendo di non avere concorrenti: e in questo modo voi, Signori, sarete molto meglio serviti e non torrete l'animo alla virtuosa Scuola, e vedrete chi si desta al bene: io dico al bel modo di questa mirabile arte; e mosterrete voi Signori di dilettarvene e d'intendervene -. La Duchessa con gran còllora mi disse che io l'avevo fradicia, e che voleva che quel marmo fussi del Bandinello, e disse: - Dimandane il Duca, che anche Sua Eccellenzia vole che e' sia del Bandinello -. Detto che ebbe la Duchessa, il Duca, che era sempre stato cheto, disse: - Gli è venti anni che io feci cavare quel bel marmo apposta per il Bandinello, e cosí io voglio che il Bandinello l'abbia, e sia suo -. Subito io mi volsi al Duca, e dissi: - Signor mio, io priego Vostra Eccellenzia illustrissima che mi faccia grazia che io dica a Vostra Eccellenzia quattro parole per suo servizio -. Il Duca mi disse che io dicessi tutto quello che io volevo, e che e' mi ascolterebbe. Allora io dissi: - Sappiate, Signor mio, che quel marmo, di che 'l Bandinello fece Ercole e Cacco, e' fu cavato per quel mirabil Michelagnolo Buonaroti, il quale aveva fatto un modello di un Sensone con quattro figure, il quale saria stato la piú bella del mondo; e il vostro Bandinello ne cavò dua figure sole, mal fatte e tutte rattoppate: il perché la virtuosa Scuola ancor grida del gran torto che si fece a quel bel marmo. Io credo che e' vi fu appiccato piú di mille sonetti, in vitupero di cotesta operaccia; e io so che Vostra Eccellenzia illustrissima benissimo se ne ricorda. E però, valoroso mio Signore, se quegli uomini che avevano cotal cura, furno tanto insapienti, che loro tolsono quel bel marmo a Michelagnolo, che fu cavato per lui, e lo dettono al Bandinello, il quale lo guastò, come si vede; oh! comporterete voi mai che questo ancor molto piú bellissimo marmo, se bene gli è del Bandinello, il quale lo guasterebbe, di nollo dare ad uno altro valent'uomo che ve lo acconci? Fate, Signor mio, che ogniuno che vuole faccia un modello e dipoi tutti si scuoprano alla Scuola, e Vostra Eccellenzia illustrissima sentirà quel che la Scuola dice; e Vostra Eccellenzia con quel suo buon iudizio saprà scerre il meglio, e in questo modo voi non gitterete via i vostri dinari, né manco torrete l'animo virtuoso a una tanto mirabile Scuola, la quale si è oggi unica al mondo: che è tutta gloria di Vostra Eccellenzia illustrissima -. Ascoltato che il Duca mi ebbe benignissimamente, subito si levò da tavola e voltomisi, disse: - Va, Benvenuto mio, e fa un modello, e guadàgnati quel bel marmo, perché tu mi di' il vero, e io lo conosco -. La Duchessa, minacciandomi col capo, isdegnata disse borbottando non so che; e io feci lor reverenza, e me ne tornai a Firenze, che mi pareva mill'anni di metter mano nel detto modello.
C.
Come il Duca venne a Firenze, senza farmi intendere nulla, e' se ne venne a casa mia, dove io gli mostrai dua modelletti diversi l'uno da l'altro; e sebbene egli me gli lodò tutt'a dua, e' mi disse che uno gnele piaceva piú dell'altro, e che io finissi bene quello che gli piaceva, che buon per me: e perché Sua Eccellenzia aveva veduto quello che aveva fatto il Bandinello e anche degli altri, Sua Eccellenzia lodò molto piú il mio da gran lunga, ché cosí mi fu detto da molti dei sua cortigiani, che l'avevano sentito. Infra l'altre notabile memorie, da farne conto grandissimo, si fu, che essendo venuto a Firenze il cardinale di Santa Fiore, e menandolo il Duca al Poggio a Caiano, innel passare, per il viaggio, e vedendo il detto marmo, il Cardinale lo lodò grandemente, e poi domandò a chi Sua Eccellenzia lo aveva dedicato che lo lavorassi. Il Duca subito disse: - Al mio Benvenuto, il quale ne ha fatto un bellissimo modello -. E questo mi fu ridetto da uomini di fede: e per questo io me n'andai a trovare la Duchessa e gli portai alcune piacevole cosette dell'arte mia, le quale Sua Eccellenzia illustrissima l'ebbe molto care; dipoi la mi dimandò quello che io lavoravo: alla quale io dissi: - Signora mia, io mi sono preso per piacere di fare una delle piú faticose opere che mai si sia fatte al mondo: e questo si è un Crocifisso di marmo bianchissimo, in su una croce di marmo nerissimo, ed è grande quanto un grande uomo vivo -. Subito la mi dimandò quello che io ne volevo fare. Io le dissi: - Sappiate, Signora mia, che io nollo darei a chi me ne dessi dumila ducati d'oro in oro; perché una cotale opera nissuno uomo mai non s'è messo a una cotale estrema fatica; né manco io non mi sarei ubbrigato affarlo per qualsivoglia Signore, per paura di non restarne in vergogna. Io mi sono comperato i marmi di mia danari, e ho tenuto un giovane in circa a dua anni, che m'ha aiutato, e infra marmi e ferramenti in su che gli è fermo, e salari, e' mi costa piú di trecento scudi; attale, che io nollo darei per dumila scudi d'oro; ma se Vostra Eccellenzia illustrissima mi vuol fare una lecitissima grazia, io gnele farò volentieri un libero presente: solo priego Vostra Eccellenzia illustrissima che quella non mi sfavorisca, né manco non mi favorisca nelli modelli che Sua Eccellenzia illustrissima si ha commesso che si faccino del Nettunno per il gran marmo -. Lei disse con molto sdegno: - Addunche tu non istimi punto i mia aiuti o mia disaiuti? - Anzi, gli stimo, Signora mia; o perché vi offero io di donarvi quello che io stimo dumila ducati? Ma io mi fido tanto delli mia faticosi e disciplinati studii, che io mi prometto di guadagnarmi la palma, se bene e' ci fussi quel gran Michelagnolo Buonaroti, dal quale, e non mai da altri, io ho imparato tutto quel che io so: e mi sarebbe molto piú caro che e' facessi un modello lui, che sa tanto, che questi altri che sanno poco; perché con quel mio cosí gran maestro io potrei guadagnare assai, dove con questi altri non si può guadagnare -. Dette le mie parole, lei mezzo sdegnata si levò, e io ritornai al mio lavoro sollicitando il mio modello quanto piú potevo. E finito che io lo ebbi, il Duca lo venne a vedere, ed era seco dua imbasciatori, quello del Duca di Ferrara e quello della Signoria di Lucca, e cosí ei piacque grandemente, e il Duca disse i quei Signori: - Benvenuto veramente lo merita -. Allora li detti mi favorirno grandemente tutt'a dua, e piú lo imbasciatore di Lucca, che era persona litterata, e dottore. Io, che mi ero scostato alquanto, perché e' potessino dire tutto quello che pareva loro, sentendomi favorire, subito mi accostai, e voltomi al Duca, dissi: - Signor mio, Vostra Eccellenzia illustrissima doverebbe fare ancora un'altra mirabil diligenzia: comandare che chi vole faccia un altro modello di terra, della grandezza appunto che gli esce di quel marmo; e aqquel modo Vostra Eccellenzia illustrissima vedrà molto meglio chi lo merita; e vi dico: che se Vostra Eccellenzia lo darà a chi nollo merita, quella non farà torto a quel che lo merita, anzi la farà un gran torto a sé medesima, perché la n'acquisterà danno e vergogna; dove faccendo il contrario, con il darlo a chi lo merita, in prima ella ne acquisterà gloria grandissima e spenderà bene il suo tesoro, e le persone virtuose allora crederranno che quella se ne diletti e se ne intenda -. Subito che io ebbi ditte queste parole, il Duca si ristrinse nelle spalle, e avviatosi per andarsene, lo imbasciatore di Lucca disse al Duca: - Signore, questo vostro Benvenuto si è un terribile uomo -. Il Duca disse: - Gli è molto piú terribile che voi non dite; e buon per lui se e' non fussi stato cosí terribile, perché gli arebbe aùto a quest'ora delle cose che e' non ha aúte -. Queste formate parole me le ridisse il medesimo imbasciatore, quasi riprendendomi che io non dovessi fare cosí. Al quale io dissi che io volevo bene al mio Signore, come suo amorevol fidel servo, e non sapevo fare lo adulatore. Di poi parecchi settimane passate, il Bandinello si morí; e si credette che, oltre ai sua disordini, che questo dispiacere, vedutosi perdere il marmo, ne fossi buona causa.
CI.
Il detto Bandinello aveva inteso come io avevo fatto quel Crocifisso che io ho detto di sopra: egli subito messe mano innun pezzo di marmo, e fece quella Pietà che si vede nella chiesa della Nunziata. E perché io avevo dedicato il mio Crocifisso a Santa Maria Novella, e di già vi avevo appiccati gli arpioni per mettervelo, solo domandai di fare sotto i piedi del mio Crocifisso, in terra, un poco di cassoncino, per entrarvi dipoi che io sia morto. I detti frati mi dissono che non mi podevano concedere tal cosa, sanza il dimandarne i loro Operai; ai quali io dissi: - O frati, perché non domandasti voi in prima gli Operai nel dar luogo al mio bel Crocifisso, che senza lor licenzia voi mi avete lasciato mettere gli arpioni e l'altre cose? - E per questa cagione io non volsi dar piú alla chiesa di Santa Maria Novella le mie tante estreme fatiche, se bene dappoi e' mi venne a trovare quegli Operai e me ne pregorno. Subito mi volsi alla chiesa della Nunziata, e ragionando di darlo in quel modo che io volevo a Santa Maria Novella, quegli virtuosi frati di detta Nunziata tutti d'accordo mi dissono che io lo mettessi nella lor chiesa, e che io vi facessi la mia sepoltura in tutti quei modi che a me pareva e piaceva. Avendo presentito questo il Bandinello, e' si misse con gran sollecitudine a finire la sua Pietà, e chiese alla Duchessa che gli facessi avere quella cappella che era de' Pazzi; la quale s'ebbe con difficultà: e subito che egli l'ebbe, con molta prestezza ei messe sú la su opera, la quale non era finita del tutto, che egli si morí. La Duchessa disse che ella lo aveva aiutato in vita e che lo aiuterebbe ancora in morte; e che se bene gli era morto, che io non facessi mai disegno d'avere quel marmo. Dove Bernardone sensale mi disse un giorno, incontrandoci in villa, chi la Duchessa aveva dato il marmo; al quale io dissi: - Oh sventurato marmo! certo che alle mali del Bandinello egli era capitato male, ma alle mani dell'Ammanato gli è capitato cento volte peggio! - Io avevo aùto ordine dal Duca di fare il modello di terra, della grandezza che gli usciva del marmo, e mi aveva fatto provvedere di legni e terra, e mi fece fare un poco di parata nella loggia, dove è il mio Perseo, e mi pagò un manovale. Io messi mano con tutta la sollicitudine che io potevo, e feci l'ossatura di legno con la mia buona regola, e felicemente lo tiravo al suo fine, non mi curando di farlo di marmo, perché io conoscevo che la Duchessa si era disposta che io noll'avessi, e per questo io non me ne curavo: solo mi piaceva di durare quella fatica, colla quale io mi promettevo che, finito che io lo avessi, la Duchessa, che era pure persona d'ingegno, avvenga che la l'avessi dipoi veduto, io mi promettevo che e' le sarebbe incresciuto d'aver fatto al marmo e a sé stessa un tanto smisurato torto. E' ne faceva uno Giovanni Fiammingo ne' chiostri di Santa Croce, e uno ne faceva Vincenzio Danti, perugino, in casa messer Ottaviano de' Medici; un altro ne cominciò il figliuolo del Moschino a Pisa, e un altro lo faceva Bartolomeo Ammannato nella Loggia, ché ce l'avevano divisa. Quando io l'ebbi tutto ben bozzato, e volevo cominciare a finire la testa, che di già io gli avevo dato un poco di prima mana,il Duca era sceso del Palazzo, e Giorgetto pittore lo aveva menato nella stanza dell'Ammannato, per fargli vedere il Nettunno, in sul quale il detto Giorgino aveva lavorato di sua mano di molte giornate insieme co 'l detto Ammannato e con tutti i sua lavoranti. In mentre che 'l Duca lo vedeva, e' mi fu detto che e' se ne sattisfaceva molto poco; e se bene il detto Giorgino lo voleva empiere di quelle sue cicalate, il Duca scoteva 'l capo, e voltosi al suo messer Gianstefano, disse: - Va e dimanda Benvenuto se il suo gigante è di sorte innanzi, che ei si contentassi di darmene un poco di vista -. Il detto messer Gianstefano molto accortamente e benignissimamente mi fece la imbasciata da parte del Duca; e di piú mi disse che se l'opera mia non mi pareva che la fussi ancora da mostrarsi, che io liberamente lo dicessi: perché il Duca conosceva benissimo, che io avevo aùto pochi aiuti a una cosí grande impresa. Io dissi che e' venissi di grazia, e se bene la mia opera era poco innanzi, lo ingegno di Sua Eccellenzia illustrissima si era tale che benissimo lo giudicherebbe quel che ei potessi riuscire finito. Cosí il detto gentile uomo fece la imbasciata al Duca, il quale venne volentieri: e subito che Sua Eccellenzia entrò nella stanza, gittato gli occhi alla mia opera, ei mostrò d'averne molta sattisfazione: di poi gli girò tutto all'intorno, fermandosi alle quattro vedute, che non altrimenti si arebbe fatto uno che fussi stato peritissimo dell'arte; di poi fece molti gran segni e atti di dimostrazione di piacergli, e disse solamente: - Benvenuto, tu gli hai a dare solamente una ultima pelle -; poi si volse a quei che erano con Sua Eccellenzia, e disse molto bene della mia opera, dicendo: - Il modello piccolo, che io vidi in casa sua, mi piacque assai; ma questa sua opera si ha trapassato la bontà del modello.
CII.
Sí come piacque a Iddio, che ogni cosa fa per il nostro meglio - io dico di quegli che lo ricognoscono e che gli credono, sempre Iddio gli difende - in questi giorni mi capitò innanzi un certo ribaldo da Vicchio, chiamato Piermaria d'Anterigoli, e per sopra nome lo Sbietta: l'arte di costui si è il pecoraio, e perché gli è parente stretto di messer Guido Guidi, medico e oggi proposto di Pescia, io gli prestai orecchi. Costui mi offerse di vendermi un suo podere a vita mia naturale, il qual podere io nollo volsi vedere, perché io avevo desiderio di finire il mio modello del gigante Nettunno; e ancora perché e' non faceva di bisogno che io lo vedessi, perché egli me lo vendeva per entrata: la quale il detto mi aveva dato in nota di tante moggia di grano e di vino, olio e biade e marroni e vantaggi, i quali io facevo il mio conto che al tempo che noi eravamo, le dette robe valevano molto piú di cento scudi d'oro innoro, e io gli davo secento cinquanta scudi contando le gabelle. Di modo che, avendomi lasciato scritto di sua mano che mi voleva sempre, per tanto quanto io vivevo, mantenere le dette entrate, io non mi curai d'andare a vedere il detto podere; ma sí bene io, il meglio che io potetti, mi informai se il detto Sbietta e ser Filippo, suo fratello carnale erano di modo benestanti che io fussi sicuro. Cosí da molte persone diverse che gli conoscevano, mi fu detto che io ero sicurissimo. Noi chiamammo d'accordo ser Pierfrancesco Bertoldi, notaio alla Mercatanzia; e la prima cosa io gli detti in mano tutto quello che 'l detto Sbietta mi voleva mantenere, pensando che la detta scritta si avessi a nominare innel contratto: di modo che 'l detto notaio, che lo rogò, attese a' ventidua confini, che gli diceva il detto Sbietta, e sicondo me ei non si ricordò di includere nel detto contratto quello che 'l detto venditore mi aveva offerto; e io, in mentre che 'l notaio scriveva, io lavoravo; e perché ei penò parecchi ore a scrivere, io feci un gran brano della testa del detto Nettunno. Cosí avendo finito il detto contratto, loSbietta mi cominciò affare le maggior carezze del mondo, e io facevo 'l simile a lui. Egli mi presentava cavretti, caci, capponi, ricotte e molte frutte, di modo che io mi cominciai mezzo mezzo a vergognare: e per queste amorevolezze io lo levavo, ogni volta che lui veniva a Firenze, d'in su la osteria; e molte volte gli era con qualcuno dei sua parenti, i quali venivano ancora loro; e con piacevoli modi egli mi cominciò a dire che gli era una vergogna che io avessi compro un podere, e che oramai gli era passato tante settimane, che io non mi risolvessi di lasciare per tre dí un poco le mie faccende ai mia lavoranti e andassilo a vedere. Costui potette tanto cone 'l suo lusingarmi, che io pure in mia mal'ora l'andai a vedere; e il detto Sbietta mi ricevvé in casa sua con tante carezze e con tanto onore, che ei non ne poteva far piú a un duca; e la sua moglie mi faceva piú carezze di lui; e in questo modo noi durammo un pezzo, tanto che e' gli venne fatto tutto quello che gli avevano disegnato di fare, lui e 'l suo fratello ser Filippo.
CIII.
Io non mancavo di sollicitare il mio lavoro del Nettunno, e di già l'avevo tutto bozzato, sí come io dissi di sopra, con bonissima regola, la quale non l'ha mai usata né saputa nessuno innanzi a me; di modo che, se bene io ero certo di non avere il marmo per le cause dette di sopra, io mi credevo presto di aver finito, e subito lasciarlo vedere alla Piazza, solo per mia sattisfazione. La stagione si era calda e piacevole, di modo che, essendo tanto carezzato da questi dua ribaldi, io mi mossi un mercoledí, che era dua feste, di villa mia a Trespiano, e avevo fatto buona colezione, di sorte che gli era piú di venti ore quando io arrivai a Vicchio; e subito trovai ser Filippo alla porta di Vicchio, il qual pareva che sapessi come io vi andavo; tante carezze ei mi fece e menatomi a casa dello Sbietta, dove era la sua impudica moglie, ancora lei mi fece carezze smisurate; alla quale io donai un cappello di paglia finissimo; perché ella disse di non aver mai veduto il piú bello. Allora e' non v'era lo Sbietta. Appressandosi alla sera, noi cenammo tutti insieme molto piacevolmente: di poi mi fu dato una onorevol camera, dove io mi riposai innun pulitissimo letto; e a dua mia servitori fu dato loro il simile, secondo il grado loro. La mattina, quando mi levai, e' mi fu fatto le medesime carezze. Andai a vedere il mio podere, il quale mi piacque: e mi fu consegnato tanto grano e altre biade; e di poi, tornatomene a Vicchio, il prete ser Filippo mi disse: - Benvenuto, non vi dubitate; che se bene voi non vi avessi trovato tutto lo intero di quello che e' v'è stato promesso, state di buona voglia, che e' vi sarà attenuto da vantaggio, perché voi vi siete impacciato con persone dabbene: e sappiate che cotesto lavoratore noi gli abbiamo dato licenzia, perché gli è un tristo -. Questo lavoratore si chiamava Mariano Rosegli, il quale piú volte mi disse: - Guardate bene a' fatti vostri, che alla fine voi conoscerete chi sarà di noi il maggior tristo -. Questo villano, quando ei mi diceva queste parole, egli sogghignava innun certo mal modo, dimenando 'l capo, come dire: - Va pur là, che tu te n'avvedrai -. Io ne feci un poco di mal giudizio, ma io non mi immaginavo nulla di quello che mi avvenne. Ritornato dal podere, il quale si è due miglia discoste da Vicchio, inverso l'alpe, trovai il detto prete, che colle sue solite carezze mi aspettava; cosí andammo a fare colezione tutti insieme: questo non fu desinare, ma fu una buona colezione. Dipoi andandomi a spasso per Vicchio, di già egli era cominciato il mercato; io mi vedevo guardare da tutti quei di Vicchio come cosa disusa da vedersi, e piú che ogni altri da un uomo dabbene, che si sta, di molti anni sono, in Vicchio, e la sua moglie fa del pane a vendere. Egli ha quivi presso a un miglio certe sue buone possessione; però si contenta di stare a quel modo. Questo uomo dabbene abita una mia casa, la quale si è in Vicchio, che mi fu consegnata con il detto podere, qual si domanda il podere della Fonte; e mi disse: - Io sono in casa vostra, e al suo tempo io vi darò la vostra pigione; o vorretela innanzi, in tutti i modi che vorrete farò: basta che meco voi sarete sempre d'accordo -. E in mentre che noi ragionavamo, io vedevo che questo uomo mi affisava gli occhi addosso: di modo che io, sforzato da tal cosa, gli dissi: - Deh ditemi, Giovanni mio caro, perché voi piú volte mi avete cosí guardato tanto fiso? - Questo uomo dabbene mi disse: - Io ve lo dirò volentieri, se voi, da quello uomo che voi siate, mi promettere di non dire che io ve l'abbia detto -. Io cosí gli promessi. Allora ei mi disse: - Sappiate che quel pretaccio di ser Filippo, e' non sono troppi giorni, che lui si andava vantando delle valenterie del suo fratello Sbietta, dicendo come gli aveva venduto il suo podere a un vecchio a vita sua, il quale e non arriverebbe all'anno intero. Voi vi siate impacciato con parecchi ribaldi, sí che ingegnatevi di vivere il piú che voi potete, e aprite gli occhi, perché ci vi bisogna; io non vi voglio dire altro.
CIV.
Andando a spasso per il mercato, vi trovai Giovanbatista Santini, e lui e io fummo menati accena dal detto prete; e, sí come io ho detto per l'addietro, egli era in circa alle venti ore, e per causa mia e' si cenò cosí abbuon'otta, perché avevo detto che la sera io mi volevo ritornare a Trespiano: di modo che prestamente e' si messe in ordine, e la moglie dello Sbietta si affaticava, e infra gli altri un certo Cecchino Buti, lor lancia. Fatto che furno le insalate, e cominciando a volere entrare attavola, quel detto mal prete, faccendo un certo suo cattivo risino, disse: - E' bisogna che voi mi perdoniate, perché io non posso cenar con esso voi, perché e' m'è sopragiunto una faccenda di grande inportanza per conto dello Sbietta, mio fratello: per non ci essere lui, bisogna che io sopperisca per lui -. Noi tutti lo pregammo e non potemmo mai svoggerlo: egli se n'andò, e noi cominciammo accenare. Mangiato che noi avemmo le insalate in certi piattelloni comuni, cominciandoci a dare carne lessa, venne una scodella per uno. Il Santino, che mi era attavola al dirimpetto, disse: - A voi e' danno tutte le stoviglie diferente da quest'altre: or vedesti voi mai le piú belle? - Io gli dissi che di tal cosa io non me n'ero avveduto. Ancora ei mi disse che io chiamassi a tavola la moglie dello Sbietta, la quale, lei e quel Cecchino Buti, correvono innanzi e indietro, tutti infaccendati istrasordinatamente. In fine io pregai tanto quella donna che la venne; la quale si doleva, dicendomi: - Le mie vivande non vi sono piaciute. Però voi mangiate cosí poco -. Quando io l'ebbi parecchi volte lodato la cena, dicendole che io non mangiai mai né piú di voglia né meglio, all'ultimo io dissi che io mangiavo il mio bisogno appunto. Io non mi sarei mai immaginato perché quella donna mi faceva tanta ressa che io mangiassi. Finito che noi avemmo di cenare gli era passato le ventun'ora, e io avevo desiderio di tornarmene la sera a Trespiano, per potere andare l'altro giorno al mio lavoro della Loggia: cosí dissi addio attutti, e ringraziato la donna mi parti'. Io non fui discosto tre miglia, che e' mi pareva che lo stomaco mi ardessi, e mi sentivo travagliato di sorte che e' mi pareva mill'anni di arrivare al mio podere di Trespiano. Come a Dio piacque arrivai di notte, con gran fatica, e subito detti ordine d'andarmene a riposare. La notte io non mi potetti mai riposare, e di piú mi si mosse 'l corpo, il quale mi sforzò parecchi volte a 'ndare al destro, tanto che, essendosi fatto dí chiaro, io sentendomi ardere il sesso, volsi vedere che cosa la fussi: trovai la pezza molto sanguinosa. Subito io mi immaginai di aver mangiato qualche cosa velenosa, e piú e piú volte mi andavo esaminando da me stesso, che cosa la potessi essere stata: e mi tornò in memoria quei piatti e scodelle e scodellini, datimi differenziati dagli altri la detta moglie dello Sbietta; e perché quel mal prete, fratello dello Sbietta, ed essendosi tanto affaticato in farmi tanto onore, e poi non volere restare a cena con esso noi; e ancora mi tornò in memoria l'aver detto il detto prete come il suo Sbietta aveva fatto un sí bel colpo con l'aver venduto un podere a un vecchio a vita, il quale non passerebbe mai l'anno; ché tal parole me l'aveva ridette quell'uomo dabbene di Giovanni Sardella. Di modo che io mi risolsi, che eglino m'avessino dato innuno scodellino di salsa, la quale si era fatta molto bene e molto piacevole da mangiare, una presa di silimato, perché il silimato fa tutti quei mali che io mi vedevo d'avere; ma perché io uso di mangiare poche salse o savori colle carne, altro che 'l sale, imperò e mi venne mangiato dua bocconcini di quella salsa, per essere cosí buona alla bocca. E mi andavo ricordando come molte volte la detta moglie dello Sbietta mi sollicitava con diversi modi, dicendomi che io mangiassi quella salsa: di modo che io conobbi per certissimo che con quella detta salsa eglino mi avevano dato quel poco del silimato.
CV.
Trovandomi in quel modo afflitto, a ogni modo andavo allavorare alla ditta Loggia il mio gigante: tanto che in pochi giorni appresso il gran male mi sopra fece tanto che ei mi fermò nel letto. Subito che la Duchessa sentí che io ero ammalato, la fece dare la opera del disgraziato marmo libera a Bartolomeo dell'Ammannato, il quale mi mandò a dire per messer... che io facessi quel che io volessi del mio cominciato modello, perché lui si aveva guadagnato il marmo. Questo messer... si era uno degli innamorati della moglie del detto Bartolomeo Ammannato; e perché gli era il piú favorito come gentile e discreto, questo detto Ammannato gli dava tutte le sue comodità, delle quali ci sarebbe da dire di gran cose. Imperò io non voglio fare come il Bandinello, suo maestro, che con i ragionamenti uscí dell'arte; basta che io dissi io me l'ero sempre indovinato; e che dicessi a Bartolomeo che si affaticassi, acciò che ei dimostrassi di saper buon grado alla fortuna di quel tanto favore, che cosí immeritamente la gli aveva fatto. Cosí malcontento mi stavo in letto, e mi facevo medicare da quello eccellentissimo uomo di maestro Francesco da Monte Varchi, fisico, e insieme seco mi medicava di cerusía maestro Raffaello de' Pilli; perché quel silimato mi aveva di sorte arso il budello del sesso, che io non ritenevo punto lo sterco. E perché il detto maestro Francesco, conosciuto che il veleno aveva fatto tutto il male che e' poteva, perché e' non era stato tanto che gli avessi sopra fatta la virtú della valida natura, che lui trovava in me, imperò mi disse un giorno: - Benvenuto, ringrazia Iddio, perché tu hai vinto; e non dubitare, che io ti voglio guarire, per far dispetto ai ribaldi che t'hanno voluto far male -. Allora maestro Raffaellino disse: - Questa sarà una delle piú belle e delle piú difficil cure, che mai ci sia stato notizia: sappi, Benvenuto, che tu hai mangiato un boccone di silimato -. A queste parole maestro Francesco gli dette in su la voce e disse: - Forse fu egli qualche bruco velenoso -. Io dissi che certissimo sapevo che veleno gli era e chi me l'aveva dato: e qui ogniuno di noi tacette. Eglino mi attesono a medicare piú di sei mesi interi; e piú di uno anno stetti, innanzi che io mi potessi prevalere della vita mia.
CVI.
In questo tempo il Duca se n'andò affare l'entrata a Siena, e l'Ammannato era ito certi mesi innanzi a fare gli archi trionfali. Un figliuolo bastardo, che aveva l'Ammannato, si era restato nella Loggia, e mi aveva levato certe tende che erano in sul mio modello del Nettunno, che per non essere finito io lo tenevo coperto. Subito io mi andai a dolere al signor don Francesco, figliuolo del Duca, il quale mostrava di volermi bene, e gli dissi come e' mi avevano scoperto la mia figura, la quale era imprefetta; che se la fussi stata finita, io non me ne sarei curato. A questo mi rispose il detto Principe, alquanto minacciando col capo e disse: - Benvenuto, non ve ne curate che la stia scoperta, perché e' fanno tanto piú contra di loro; e se pure voi vi contentate che io ve la faccia coprire, subito la farò coprire -. E con queste parole Sua Eccellenzia illustrissima aggiunse molte altre in mio gran favore, alla presenza di molti Signori. Allora io gli dissi, che lo pregavo Sua Eccellenzia mi dessi comodità che io lo potessi finire, perché ne volevo fare un presente insieme con il piccol modellino a Sua Eccellenzia. Ei mi rispose che volentieri accettava l'uno e l'altro, e che mi farebbe dare tutte comodità che io domanderei. Cosí io mi pasce' di questo poco del favore, che mi fu causa di salute della vita mia; perché, essendomi venuti tanti smisurati mali e dispiaceri a un tratto, io mi vedevo mancare: per quel poco del favore mi confortai con qualche speranza di vita.
CVII.
Essendo di già passato l'anno che io avevo il podere della Fonte dallo Sbietta, e oltra tutti i dispiaceri fattimi e di veleni e d'altre loro ruberie, veduto che 'l detto podere non mi fruttava alla metà di quello che loro me lo avevano offerto, e ne avevo, oltre a i contratti, una scritta di mano dello Sbietta, il quale mi si ubbrigava con testimoni a mantenermi le dette entrate, io me n'andai a' signor Consiglieri; ché in quel tempo viveva messer Alfonso Quistello ed era fiscale, e si ragunava con i signori Consiglieri; e de' Consiglieri si era Averardo Serristori e Federigo de' Ricci: io non mi ricordo del nome di tutti: ancora n'era uno degli Alessandri: basta che gli era una sorte di uomini di gran conto. Ora avendo conte le mie ragioni al magistrato, tutti a una voce volevano che 'l detto Sbietta mi rendessi li mia dinari, salvo che Federigo de' Ricci, il quale si serviva in quel tempo del detto Sbietta; di sorte che tutti si condolsono meco che Federigo de' Ricci teneva che loro non me la spedivan; e infra gli altri Averardo Serristori con tutti gli altri; ben che lui faceva un rimore strasordinario, e 'l simile quello degli Alessandri: che avendo il detto Federigo tanto trattenuto la cosa che 'l magistrato aveva finito l'uffizio, mi trovò il detto gentiluomo una mattina, di poi che gli erano usciti in su la piazza della Nunziata, e senza un rispetto al mondo con alta voce disse: - Federigo de' Ricci ha tanto potuto piú di tutti noi altri, che tu se' stato assassinato contro la voglia nostra -. Io non voglio dire altro sopra di questo, perché troppo si offenderebbe chi ha la suprema potestà del governo; basta che io fui assassinato a posta di un cittadino ricco, solo perché e' si serviva di quel pecoraio.
CVIII.
Trovandosi il Duca alLivorno, io lo andai a trovare, solo per chiedergli licenzia. Sentendomi ritornare le mie forze, e veduto che io non ero adoperato annulla, e' m'incresceva di far tanto gran torto alli mia studii; di modo che resolutomi me n'andai alLivorno, e trova' vi il Duca che mi fece gratissima accoglienza. E perché io vi stetti parecchi giorni, ogni giorno io cavalcavo con Sua Eccellenzia, e avevo molto agio a poter dire tutto quello che io volevo, perché il Duca usciva fuor di Livorno e andava quattro miglia rasente 'l mare, dove egli faceva fare un poco di fortezza e per non essere molestato da troppe persone, e' gli aveva piacere che io ragionassi seco: di modo che un giorno, vedendomi fare certi favori molto notabili, io entrai con proposito a ragionare dello Sbietta, cioè di Piermaria d'Anterigoli, e dissi: - Signore, io voglio contare a Vostra Eccellenzia illustrissima un caso maraviglioso, per il quale Vostra Eccellenzia saprà la causa che mi impedí a non potere finire il mio Nettunno di terra, che io lavoravo nella Loggia. Sappi Vostra Eccellenzia illustrissima come io avevo comperato un podere a vita mia dallo Sbietta -. Basta che io dissi il tutto minutamente, non macchiando mai la verità con il falso. Ora quando io fui al veleno, io dissi che, se io fussi stato mai grato servitore nel cospetto di Sua Eccellenzia illustrissima, che quella doverrebbe, in cambio di punire lo Sbietta o quegli che mi dettono il veleno, dar loro qualche cosa di buono; perché il veleno non fu tanto che egli mi ammazzassi; ma sí bene ei fu appunto tanto a purgarmi di una mortifera vischiosità, che io avevo dentro nello stomaco e negli intestini; - il quale ha operato di modo, che dove, standomi come io mi trovavo, potevo vivere tre o quattro anni, e questo modo di medicina ha fatto di sorte, che io credo d'aver guadagnato vita per piú di venti anni; e per questo con maggior voglia che mai, piú ringrazio Iddio; e però è vero quel che alcune volte io ho inteso dire da certi, che dicono: "Iddio ci mandi mal, che ben ci metta" -. Il Duca mi stette a udire piú di dua miglia di viaggio, sempre con grande attenzione; solo disse: - O male persone! - Io conclusi che ero loro ubbrigato ed entrai in altri piacevoli ragionamenti. Appostai un giorno approposito, e trovandolo piacevole ammio modo, io pregai Sua Eccellenzia illustrissima che mi dessi buona licenzia, acciò che io non gittassi via qualche anno acché io ero ancor buono affar qualche cosa, e che di quello che io restavo d'avere ancora del mio Perseo, Sua Eccellenzia illustrissima me lo dessi quando aqquella piaceva. E con questo ragionamento io mi distesi con molte lunghe cerimonie arringraziare Sua Eccellenzia illustrissima, la quale non mi rispose nulla al mondo, anzi mi parve che e' dimostrassi di averlo aùto per male. L'altro giorno seguente messer Bartolomo Consino, segretario del Duca, de' primi, mi trovò, e mezzo in braveria, mi disse: - Dice il Duca che se tu vòi licenzia, egli te la darà; ma se tu vuoi lavorare, che ti metterà in opera: che tanto potessi voi fare, quanto Sua Eccellenzia vi darà da fare! - Io gli risposi che non desideravo altro che aver da lavorare, e maggiormente da Sua Eccellenzia illustrissima piú che da tutto il resto degli uomini del mondo, e fussino papa o imperatori o re; piú volentieri io servirei Sua Eccellenzia illustrissima per un soldo che ogni altri per un ducato. Allora ei mi disse: - Se tu se' di cotesto pensiero, voi siate d'accordo senza dire altro; sí che ritòrnatene a Firenze e sta di buona voglia, perché il Duca ti vuol bene -. Cosí io mi ritornai a Firenze.
CIX.
Subito che io fui a Firenze, e' mi venne a trovare un certo uomo chiamato Raffaellone Scheggia, tessitore di drappi d'oro, il quale mi disse cosí: - Benvenuto mio, io vi voglio mettere d'accordo con Piermaria Sbietta -: al quale io dissi che e' non ci poteva mettere d'accordo altri che li signori Consiglieri, e che in questa mana di Consiglieri lo Sbietta non v'arà un Federigo de' Ricci, che per un presente di dua cavretti grassi, sanza curarsi di Dio né de l'onor suo, voglia tenere una cosí scellerata pugna e fare un tanto brutto torto alla santa ragione. Avendo detto queste parole, insieme con molte altre, questo Raffaello sempre amorevolmente mi diceva che gli era molto meglio un tordo, il poterselo mangiare in pace, che nonnera un grassissimo cappone, se bene un sia certo d'averlo, e averlo in tanta guerra: e mi diceva che il modo delle liti alcune volte se ne vanno tanto in lunga, che in quel tempo io arei fatto meglio a spenderlo in qualche bella opera, per la quale io ne acquisterei molto maggiore onore e molto maggiore utile. Io, che conoscevo che lui diceva il vero, cominciai a prestare orecchi alle sue parole; di modo che in breve egli ci accordò in questo modo: che lo Sbietta pigliassi il detto podere da me affitto per settanta scudi d'oro innoro l'anno, per tutto 'l tempo durante la vita mia naturale. Quando noi fummo affarne il contratto, il quale ne fu rogato ser Giovanni di ser Matteo da Falgano, lo Sbietta disse che in quel modo che noi avevamo ragionato, importava la maggior gabella; e che egli non mancherebbe - e però gli è bene che noi facciamo questo affitto di cinque anni in cinque anni - e che mi manterrebbe la sua fede, senza rinovare mai piú altre lite. E cosí mi promesse quel ribaldo di quel suo fratello prete; e in quel modo detto, de' cinque anni, se ne fece contratto.
CX.
Volendo entrare innaltro ragionamento, e lasciare per un pezzo il favellar di questa smisurata ribalderia, sono necessitato in prima dire 'l seguito dei cinque anni dell'affitto, passato il quale, non volendo quei dua ribaldi mantenermi nessuna delle promesse fattemi, anzi mi volevano rendere il mio podere e nollo volevano piú tenere affitto. Per la qual cosa io mi cominciai a dolere, e loro mi squadernavano addosso il contratto; di modo che per via della loro mala fede io non mi potevo aiutare. Veduto questo, io dissi loro come il Duca e 'l Principe di Firenze non sopporterebbono che nelle lor città e' si assassinassi gli uomini cosí bruttamente. Or questo spavento fu di tanto valore che e' mi rimissono addosso quel medesimo Raffaello Scheggia che fece quel primo accordo; e loro dicevano che no me ne volevano dare li scudi d'oro innoro, come ei mi avevano dato de' cinque anni passati: a' quali io rispondevo che io non ne volevo niente manco. Il detto Raffaello mi venne a trovare, e mi disse: - Benvenuto mio, voi sapete che io sono per la parte vostra: ora loro l'hanno tutto rimisso in me - e me lo mostrò scritto di lor mano. Io, che non sapevo che il detto fussi lor parente istretto, me ne parve star benissimo, e cosí io mi rimissi innel detto in tutto e per tutto. Questo galante uomo ne venne una sera a mezza ora di notte, ed era del mese d'agosto, e con tante suo' parole egli mi sforzò a far rogare il contratto, solo perché egli conosceva che se e' si fussi indugiato alla mattina, quello inganno che lui mi voleva fare non gli sarebbe riuscito. Cosí e' si fece il contratto, che e' mi dovessi dare sessantacinque scudi di moneta l'anno di fitto, in dua paghe ogni anno, durante tutta la mia vita naturale. E con tutto che io mi scotessi, e per nulla non volevo star paziente, il detto mostrava lo scritto di mia mano, con il quale moveva ognuno a darmi 'l torto; e il detto diceva che l'aveva fatto tutto per il mio bene e che era per la parte mia; e non sapendo né il notaio né gli altri come gli era lor parente, tutti mi davano il torto: per la qual cosa io cedetti in buon'ora, e mi ingegnerò di vivere il piú che mi sia possibile. Appresso a questo io feci un altro errore del mese di dicembre 1566seguente. Comperai mezzo il podere del Poggio da loro, cioè dallo Sbietta, per dugento scudi di moneta, il quale confina con quel primo mio della Fonte, con riservo di tre anni, e lo detti loro affitto. Feci per far bene. Troppo bisognerebbe che lungamente io mi dilungassi con lo scrivere, volendo dire le gran crudelità che e' m'hanno fatto; la voglio rimettere in tutto e per tutto in Dio, qual m'ha sempre difeso da quegli che mi hanno voluto far male.
CXI.
Avendo del tutto finito il mio Crocifisso di marmo, ei mi parve che dirizzandolo e mettendolo levato da terra alquante braccia, che e' dovessi mostrare molto meglio che il tenerlo in terra; e con tutto che e' mostrassi bene, dirizzato che io l'ebbi, e' mostrò assai meglio, attale che io me ne sattisfacevo assai: e cosí io lo cominciai a mostrare a chi lo voleva vedere. Come Iddio volse, e' fu detto al Duca e alla Duchessa; di sorte che venuti che e' furno da Pisa, un giorno innaspettatamente tutt'a dua loro Eccellenzie illustrissime con tutta la nobiltà della lor Corte, vennero a casa mia solo per vedere il detto Crocifisso: il quale piacque tanto che il Duca e la Duchessa non cessavano di darmi lode infinite; e cosí conseguentemente tutti quei Signori e gentili uomini che erano alla presenza. Ora quando io viddi ch'e' s'erano molto sattisfatti, cosí piacevolmente cominciai a ringraziargli, dicendo loro che l'avermi levato la fatica del marmo del Nettunno si era stato la propia causa dell'avermi fatto condurre una cotale opera, nella quale non si era mai messo nessuno altro innanzi a me; e se bene io avevo durato la maggior fatica che io mai durassi al mondo, e' mi pareva averla bene spesa, e maggiormente poi che loro Eccellenzie illustrissime tanto me la lodavano; e per non poter mai credere di trovare chi piú vi potessi essere degno di loro Eccellenzie illustrissime, volontieri io ne facevo loro un presente; solo gli pregavo che prima che e' se ne andassino, si degnassino di venire innel mio terreno di casa. A queste mie parole piacevolmente subito rizzatisi, si partirno di bottega, ed entrati in casa viddono il mio modelletto del Nettuno e della fonte, il quale nollo aveva mai veduto prima che allora la Duchessa. E' potette tanto negli occhi della Duchessa, che subito la levò un romore di maraviglia innistimabile; e voltasi al Duca disse: - Per vita mia, che io non pensavo delle dieci parti una di tanta bellezza -. A queste parole piú volte il Duca le diceva: - O non ve lo dicevo io? - E cosí infra di loro con mio grande onore ne ragionorno un gran pezzo; dipoi la Duchessa mi chiamò a sé, e dipoi molte lodi datemi in modo di scusarsi, ché innel comento di esse parole mostrava quasi di chieder perdono, dipoi mi disse che voleva che io mi cavassi un marmo a mio modo, e voleva che io la mettessi innopera. A quelle benigne parole io dissi, che se loro Eccellenzie illustrissime mi davano le comodità, che volentieri per loro amore mi metterei a una cotal faticosa impresa. A questo subito rispose il Duca e disse: - Benvenuto, e' ti sarà date tutte le comodità che tu saprai dimandare, e di piú quello che io ti darò dappermé, le qual saranno di piú valore da gran lunga - e con queste piacevol parole e' si partirno, e me lasciorno assai contento.
CXII.
Essendo passato di molte settimane, e di me non si ragionava; di modo che, veduto che e' non si dava ordine di far nulla, io stavo mezzo disperato. In questo tempo la Regina di Francia mandò messer Baccio del Bene al nostro Duca a richiederlo di danari in presto; e 'l Duca benignamente ne lo serví, che cosí si disse; e perché messer Baccio del Bene e io eramo molto domestichi amici, riconosciutici in Firenze, molto ci vedemmo volentieri; di modo che 'l detto mi raccontava tutti quei gran favori che gli faceva Sua Eccellenzia illustrissima; e innel ragionare e' mi domandò come io avevo grande opere alle mane. Per la qual cosa io gli dissi, come era seguíto, tutto 'l caso del gran Nettunno e della fonte, e il gran torto che mi aveva fatto la Duchessa. A queste parole e' mi disse da parte della Regina, come Sua Maestà aveva grandissimo disiderio di finire il sipulcro del re Arrigo suo marito, e che Daniello da Volterra aveva intrapreso affare un gran cavallo di bronzo, e che gli era trapassato il tempo di quello che lui l'aveva promesso, e che al detto sipulcro vi andava di grandissimi ornamenti; sí che se io volevo tornarmi in Francia innel mio castello, ella mi farebbe dare tutte le comodità che io saprei adomandare, pur che io avessi voglia di servirla. Io dissi al detto messer Baccio, che mi chiedessi al mio Duca; che essendone contento Sua Eccellenzia illustrissima, io volentieri mi ritornerei in Francia. Messer Baccio lietamente disse: - Noi ce ne torneremmo insieme - e la misse per fatta. Cosí il giorno dipoi, parlando il detto cone 'l Duca, venne in proposito il ragionar di me; di modo che e' disse al Duca, che se e' fussi con sua buona grazia, la Regina si servirebbe di me. A questo subito il Duca rispose e disse: - Benvenuto è quel valente uomo che sa il mondo, ma ora lui non vuole piú lavorare - ed entrati innaltri ragionamenti, l'altro giorno io andai a trovare il detto messer Baccio, il quale mi ridisse il tutto. A questo io, che non potetti stare piú alle mosse, dissi: - Oh se dappoi che Sua Eccellenzia illustrissima non mi dando da fare, e io dappermé ho fatto una delle piú difficile opere che mai per altri fussi fatta al mondo, e mi costa piú di dugento scudi, che gli ho spesi della mia povertà; oh che arei io fatto, se Sua Eccellenzia illustrissima m'avessi messo innopera! Io vi dico veramente, che e' m'è fatto un gran torto -. Il buono gentile uomo ridisse al Duca tutto quello che io avevo risposto. Il Duca gli disse che si motteggiava, e che mi voleva per sé; di modo che io stuzzicai parecchi volte di andarmi con Dio. La Regina non ne voleva piú ragionare per non fare dispiacere al Duca, e cosí mi restai assai ben malcontento.
CXIII.
In questo tempo il Duca se n'andò, con tutta la sua Corte e con tutti i sua figliuoli, dal Principe in fuori il quale era in Ispagna: andorno per le maremme di Siena; e per quel viaggio si condusse a Pisa. Prese il veleno di quella cattiva aria il Cardinale prima degli altri: cosí dipoi pochi giorni l'assalí una febbre pestilenziale e in breve l'ammazzò. Questo era l'occhio diritto del Duca: questo si era bello e buono, e ne fu grandissimo danno. Io lasciai passare parecchi giorni, tanto che io pensai che fussi rasciutte le lacrime: dappoi me n'andai a Pisa.

 

 

 

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Ultimo Aggiornamento:13/07/2005 22.37