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CLASSICI DELLA LETTERATURA ITALIANA

LA VITA DI BENVENUTO CELLINI FIORENTINO

scritta (per lui medesimo) in Firenze

LIBRO PRIMO

[XCVII] [XCVIII] [XCIX] [C] [CI] [CII] [CIII] [CIV] [CV] [CVI] [CVII] [CVIII] [CIX] [CX] [CXI] [CXII] [CXIII] [CXIV] [CXV] [CXVI][CXVII] [CXVIII] [CXIX] [CXX] [CXXI] [CXXII] [CXXIII] [CXXIV] [CXXV] [CXXVI] [CXXVII] [CXXVIII]

 

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XCVII.

Arrivammo a una terra di là da Vessa: qui ci riposammo la notte, dove noi sentimmo a tutte l'ore della notte una guardia, che cantava in molto piacevol modo; e per essere tutte quelle case di quella città di legno di abeto, la guardia non diceva altra cosa, se non che s'avessi cura al fuoco. Il Busbacca, che era spaventato della giornata, a ogni ora che colui cantava, el Busbacca gridava in sogno, dicendo: - Ohimè Idio, che io affogo! - e questo era lo spavento del passato giorno; e arroto a quello, che s'era la sera inbriacato, perché volse fare a bere quella sera con tutti e' tedeschi che vi erano; e talvolta diceva: - Io ardo - e talvolta: - Io affogo -: gli pareva essere alcune volte innello 'nferno marterizzato con quel caviale al collo. Questa notte fu tanto piacevole, che tutti e' nostri affanni si erano conversi in risa. La mattina levatici con bellissimo tempo, andammo a desinare a una lieta terra domandata Lacca. Quivi fummo mirabilmente trattati; di poi pigliammo guide, le quali erano di ritorno a una terra chiamata Surich. La guida che menava, andava su per un argine d'un lago, e non v'era altra strada, e questo argine ancora lui era coperto d'acqua, in modo che la bestial guida sdrucciolò, e il cavallo e lui andorno sotto l'acqua. Io, che ero drieto alla guida a punto, fermato il mio cavallo, istetti a veder la bestia sortir dell'acqua; e come se nulla non fossi stato, ricominciò a cantare, e accennavami che io andassi innanzi. Io mi gittai in su la man ritta, e roppi certe siepe; cosí guidavo i mia giovani e 'l Busbacca. La guida gridava, dicendomi in tedesco pure che se quei populi mi vedevano, mi arebbero ammazzato. Passammo innanzi e scampammo quell'altra furia. Arrivammo a Surich, città maravigliosa, pulita quanto un gioiello. Quivi riposammo un giorno intero, di poi una mattina per tempo ci partimmo; capitammo a un'altra bella città chiamata Solutorno: di quivi capitammo a Usanna, da Usanna a Ginevra, da Ginevra a Lione, sempre cantando e ridendo. A Lione mi riposai per quattro giornate; molto mi rallegrai con alcuni mia amici; fui pagato della spesa che io avevo fatta per il Busbacca; di poi in capo dei quattro giorni, presi il cammino per la volta di Parigi. Questo fu viaggio piacevole, salvo che quando noi giugnemmo alla Palissa, una banda di venturieri ci volsono assassinare, e non con poca virtú ci salvammo. Di poi ce ne andammo insino a Parigi sanza un disturbo al mondo: sempre cantando e ridendo giugnemmo a salvamento.
XCVIII.
Riposatomi in Parigi alquanto, me ne andai a trovare il Rosso dipintore, il quale stava al servizio del Re. Questo Rosso io pensava che lui fossi il maggiore amico che io avessi al mondo, perché io gli avevo fatto in Roma i maggior piaceri che possa fare un uomo a un altro uomo; e perché questi cotai piaceri si posson dire con brieve parole, io non voglio mancare di non gli dire, mostrando quant'è sfacciata la ingratitudine. Per la sua mala lingua, essendo lui in Roma, gli aveva detto tanto male de l'opere di Raffaello da Urbino, che i discepoli suoi lo volevano ammazzare a ogni modo: da questo lo campai, guardandolo dí e notte con grandissime fatiche. Ancora per aver detto male di maestro Antonio da San Gallo, molto eccellente architettore, gli fece torre un'opera che lui gli aveva fatto avere da messer Agnol de Cesi; dipoi cominciò tanto a far contro a di lui, che egli l'aveva condotto a morirsi di fame; per la qual cosa io gli prestai di molte decine di scudi per vivere. E non gli avendo ancora riauti, sapendo che gli era al servizio del Re, lo andai, come ho detto, a visitare: non tanto pensavo che lui mi rendessi li mia dinari, ma pensavo che mi dessi aiuto e favore per mettermi al servizio di quel gran Re. Quando costui mi vedde, subito si turbò e mi disse: - Benvenuto, tu se venuto con troppa spesa innun cosí gran viaggio, massimo di questo tempo, che s'attende alla guerra e non a baiuccole di nostre opere -. Allora io dissi, che io avevo portato tanti dinari da potermene tornare a Roma in quel modo che io ero venuto a Parigi; e che questo non era il cambio delle fatiche che io avevo durate per lui; e che io cominciavo a credere quel che mi aveva detto di lui maestro Antonio da San Gallo. Volendosi metter tal cosa in burla, essendosi avveduto della sua sciagurataggine, io gli mostrai una lettera di cambio di cinquecento scudi a Ricciardo del Bene. Questo sciagurato pur si vergognava, e volendomi tenere quasi per forza, io mi risi di lui, e me ne andai insieme con un pittore, che era quivi alla presenza. Questo si domandava lo Sguazzella: ancora lui era fiorentino; anda'mene a stare in casa sua con tre cavalli e tre servitori a tanto la settimana. Lui benissimo mi trattava, e io meglio lo pagavo. Di poi cercai di parlare al Re, al quale m'introdusse un certo messer Giuliano Buonaccorsi suo tesauriere. A questo io soprastetti assai, perché io non sapevo che il Rosso operava ogni diligenza, che io non parlassi al Re. Poiché il ditto messer Giuliano se ne fu avveduto, subito mi menò a Fontana Biliò e messemi drento inanzi al Re, da il quale io ebbi un'ora intera di gratissima audienza. E perché il Re era in assetto per andare alla volta di Lione, disse al ditto messer Giuliano che seco mi menassi, e che per la strada si ragionerebbe di alcune belle opere, che Sua Maestà aveva in animo di fare. Cosí me ne andavo insieme a presso al traino della Corte; e per la strada feci grandissima servitú col cardinale di Ferrara, il quale non aveva ancora il cappello. E perché ogni sera io avevo grandissimi ragionamenti con il ditto Cardinale, e Sua Signoria diceva che io mi dovessi restare in Lione a una sua badia, e quivi potrei godere in fine a tanto che il Re tornassi dalla guerra, che se ne andava alla volta di Granopoli, e alla sua badia in Lione io arei tutte le comodità. Giunti che noi fummo a Lione, io mi ero ammalato, e quel mio giovane Ascanio aveva preso la quartana; di sorte che m'era venuto a noia i franciosi e la lor Corte, e mi parea mill'anni di ritornarmene a Roma. Vedutomi disposto il Cardinale a ritornare a Roma, mi dette tanti dinari, che io gli facessi in Roma un bacino e un boccale d'ariento. Cosí ce ne ritornammo alla volta di Roma in su bonissimi cavalli, e venendo per le montagne del Sanpione; e essendomi accompagnato con certi franzesi, con li quali venimmo un pezzo, Ascanio con la sua quartana, e io con una febbretta sorda, la quale pareva che non mi lasciassi punto; e avevo sdegnato lo stomaco di modo, che io non credo che mi toccassi a mangiare un pane intero la settimana, e molto desideravo di arrivare in Italia, desideroso di morire in Italia e non in Francia.
XCIX.
Passato che noi avemmo li monti del Sanpione detto, trovammo un fiume presso a un luogo domandato Indevedro. Questo fiume era molto largo, assai profondo, e sopra esso aveva un ponticello lungo e stretto, sanza sponde. Essendo la mattina una brinata molto grossa, giunto al ponte, che mi trovavo innanzi a tutti, e conosciutolo molto pericoloso, comandai alli mia giovani e servitori che scavalcassino, menando li lor cavalli a mano. Cosí passai il detto ponte molto felicemente, e me ne venivo ragionando con un di quei dua franzesi, il quale era un gentiluomo: quell'altro era un notaro, il quale era restato a dietro alquanto, e dava la baia a quel gentiluomo franzese e a me, che per paura di nonnulla avevàno voluto quel disagio de l'andar a piede. Al quale io mi volsi, vedutolo in sul mezzo del ponte, e lo pregai che venissi pianamente, per che egli era in luogo molto pericoloso. Questo uomo, che non potette mancare alla sua franciosa natura, mi disse in francioso che io era uomo di poco animo, e che quivi non era punto di pericolo. Mentre che diceva queste parole, volse pugnere un poco il cavallo, per la qual cosa subito il cavallo isdrucciolò fuor del ponte, e con le gambe inverso il cielo cadde a canto a un sasso grossissimo. E perché Idio molte volte è misericordioso de' pazzi, questa bestia insieme con l'altra bestia e suo cavallo dettono innun tonfano grandissimo, dove gli andorno sotto, e lui e il cavallo. Subito veduto questo, con grandissima prestezza io mi cacciai a correre, e con gran difficoltà saltai in su quel sasso, e spenzolandomi da esso, aggiunsi un lembo d'una guarnacca che aveva adosso quest'uomo, e per quel lembo lo tirai su, che ancora stava coperto dall'acqua; e perché gli aveva beuto assai acqua, e poco stava che saria affogato, io, vedutolo fuor del pericolo, mi rallegrai seco d'avergli campato la vita. Per la qual cosa costui mi rispose in franzese e mi disse che io non avevo fatto nulla; che la importanza si era le sue scritture, che valevan di molte dicine di scudi: e pareva che queste parole costui me le dicesse in còllora, tutto molle e barbugliando. A questo, io mi volsi a certe guide che noi avevamo, e commissi che aiutassino quella bestia, e che io gli pagherei. Una di quelle guide virtuosamente e con gran fatica si mise a 'iutarlo, e ripescògli le sue scritture, tanto che lui non perse nulla; quell'altra guida mai non volse durar fatica nissuna a 'iutarlo. Arrivati che noi fummo poi a quel luogo sopra ditto - noi avevamo fatto una borsa, la quale era tocca a spendere a me - desinato che noi avemmo, io detti parecchi danari della borsa della compagnia a quella guida, che aveva aiutato trar colui dell'acqua; per la qual cosa costui mi diceva, che quei danari io gliene darei del mio, che non intendeva di dargli altro che quel che noi eramo d'accordo, d'aver fatto l'uffizio della guida. A questo, io gli dissi molte ingiuriose parole. Allora mi si fece incontro l'altra guida, qual non aveva durato fatica, e voleva pure che io pagassi anche lui; e perché io dissi: - Ancora costui merita il premio per aver portato la croce, - mi rispose, che presto mi mostrerebbe una croce, alla quale io piagnerei. Allui dissi che io accenderei un moccolo a quella croce, per il quale io speravo che allui toccherebbe il primo a piagnere. E perché questo è luogo di confini infra i Veniziani e Tedeschi, costui corse per populi, e veniva con essi con un grande ispiede inanzi. Io, che ero in sul mio buon cavallo, abbassai il fucile in sul mio archibuso: voltomi a' compagni, dissi: - Al primo ammazzo colui; e voi altri fate il debito vostro, perché quelli sono assassini di strada, e hanno preso questo poco dell'occasione solo per assassinarci -. Quell'oste, dove noi avevamo mangiato, chiamò un di quei caporali, ch'era vecchione, e lo pregò che rimediasse a tanto inconveniente, dicendogli: - Questo è un giovine bravissimo, e se bene voi lo taglierete a pezzi, e ne ammazzerà tanti di voi altri, e forse potria scaparvi delle mani, da poi fatto il male che gli arà -. La cosa si quietò, e quel vecchio capo di loro mi disse: - Va in pace, che tu non faresti una insalata, se tu avessi ben cento uomini teco -. Io che conoscevo che lui diceva la verità e mi ero risoluto di già e fattomi morto, non mi sentendo dire altre parole ingiuriose, scotendo il capo, dissi: - Io arei fatto tutto il mio potere, mostrando essere animal vivo e uomo - e preso il viaggio, la sera al primo alloggiamento, facemmo conto della borsa, e mi divisi da quel francioso bestiale, restando molto amico di quell'altro che era gentiluomo; e con i mia tre cavalli, soli ce ne venimmo a Ferrara. Scavalcato che io fui, me ne andai in Corte del Duca per far reverenzia a Sua Eccellenzia, per potermi partir la mattina alla volta di Santa Maria dal Loreto. Avevo aspettato insino a dua ore di notte, e allora comparse il Duca: io gli baciai le mane; mi fece grande accoglienze, e commisse che mi fussi dato l'acqua alle mane. Per la qual cosa io piacevolmente dissi: - Eccellentissimo signore, egli è piú di quattro mesi che io non ho mangiato tanto, che sia da credere che con tanto poco si viva; però, cognosciutomi che io non mi potrei confortare de' reali cibi della sua tavola, mi starò cosí ragionando con quella, in mentre che Vostra Eccellenzia cena, e lei e io a un tratto medesimo aremo piú piacere, che se io cenassi seco -. Cosí appiccammo ragionamento, e passammo insino alle cinque ore. Alle cinque ore poi io presi licenzia, e andatomene alla mia osteria, trovai apparecchiato maravigliosamente, perché il Duca mi aveva mandato a presentare le regaglie del suo piatto con molto buon vino; e per esser a quel modo soprastato piú di dua ore fuor della mia ora del mangiare, mangiai con grandissimo appetito, che fu la prima volta che di poi e' quattro mesi io avevo potuto mangiare.
C.
Partitomi la mattina, me ne andai a Santa Maria dal Loreto, e di quivi, fatto le mie orazione, ne andai a Roma; dove io trovai il mio fidelissimo Felice, al quale io lasciai la bottega con tutte le masserizie e ornamenti sua, e ne apersi un'altra a canto al Sugherello profumiere, molto piú grande e piú spaziosa; e mi pensavo che quel gran Re Francesco non si avessi a ricordar di me. Per la qual cosa io presi molte opere da diversi signori, e intanto lavoravo quel boccale e bacino che io avevo preso da fare dal cardinal di Ferrara. Avevo di molti lavoranti e molte gran faccende d'oro e di argento. Avevo pattuito con quel mio lavorante perugino, che da per sé s'era iscritto tutti i danari che per la parte sua si erano ispesi, li quai danari s'erano ispesi in suo vestire e in molte altre cose; con le spese del viaggio erano in circa a settanta scudi: delli quali noi c'eramo accordati che lui ne scontassi tre scudi il mese; ché piú di otto iscudi io gli facevo guadagnare. In capo di dua mesi questo ribaldo si andò con Dio di bottega mia, e lasciommi impedito da molte faccende, e disse che non mi voleva dar altro. Per questa cagione io fui consigliato di prevalermene per la via della iustizia, perché m'ero messo in animo di tagliargli un braccio; e sicurissimamente lo facevo, ma li amici mia mi dicevano che non era bene che io facessi una tal cosa, avvenga che io perdevo li mia danari e forse un'altra volta Roma, perché i colpi non si danno a patti; e che io potevo con quella scritta, che io avevo di sua mano, subito farlo pigliare. Io mi attenni al consiglio, ma volsi piú liberamente agitare tal cosa. Mossi la lite all'auditore della Camera realmente, e quella convinsi; e per virtú di essa, che v'andò parecchi mesi, io da poi lo feci mettere in carcere. Mi trovavo carica la bottega di grandissime faccende, e in fra l'altre tutti gli ornamenti d'oro e di gioie della moglie del signor Gerolimo Orsino, padre del signor Paulo oggi genero del nostro duca Cosimo. Queste opere erano molto vicine alla fine, e tuttavia me ne cresceva delle importantissime. Avevo otto lavoranti, e con essi insieme, e per onore e per utile, lavoravo il giorno e la notte.
CI.
In mentre che cosí vigorosamente io seguitavo le mie imprese, mi venne una lettera mandatami con diligenza dal Cardinale di Ferrara, la quale diceva in questo tenore: "Benvenuto caro amico nostro. Alli giorni passati questo gran Re Cristianissimo si ricordò di te, dicendo che desiderava averti al suo servizio. Al quale io risposi, che tu m'avevi promesso, che ogni volta che io mandavo per te per servizio di Sua Maestà, subito tu verresti. A queste parole Sua Maestà disse: - Io voglio che si gli mandi la comodità da poter venire, sicondo che merita un suo pari - e subito comandò al suo Amiraglio, che mi facessi pagare mille scudi d'oro da il tesauriere de' risparmi. Alla presenza di questo ragionamento si era il cardinale de' Gaddi, il quale subito si fece innanzi e disse a Sua Maestà, che non accadeva che Sua Maestà dessi quella commessione, perché lui disse averti mandato danari a bastanza, e che tu eri per il cammino. Ora se per caso egli è il contrario, sí come io credo, di quel che ha detto il cardinal de' Gaddi, aùto questa mia lettera, rispondi subito, perché io rappiccherò il filo, e farotti dare li promessi danari da questo magnanimo Re".
Ora avvertisca il mondo e chi vive in esso, quanto possono le maligne istelle coll'avversa fortuna in noi umani! Io non avevo parlato due volte a' mie' dí a questo pazzerellino di questo cardinaluccio de' Gaddi; e questa sua saccenteria lui non la fece per farmi un male al mondo, ma solo la fece per cervellinaggine e per dappocaggine sua, mostrandosi di avere ancora lui cura alle faccende degli uomini virtuosi che desiderava avere il Re, sí come faceva il cardinal di Ferrara. Ma fu tanto iscimunito da poi, che lui non mi avvisò nulla; che certo io per non vituperare uno sciocco fantoccino, per amor della patria, arei trovato qualche scusa per rattoppare quella sua sciocca saccenteria. Subito aùto la lettera del reverendissimo cardinale di Ferrara, risposi, come del cardinal de' Gaddi io non sapevo nulla al mondo, e che se pure lui mi avessi tentato di tal cosa, io non mi sarei mosso di Italia senza saputa di Sua Signoria reverendissima, e maggiormente che io avevo in Roma una maggior quantità di faccende che mai per l'adietro io avessi aute; ma che a un motto di Sua Maestà cristianissima, dettomi da un tanto Signore, come era Sua Signoria reverendissima, io mi leverei subito, gittando ogni altra cosa a traverso. Mandato le mie lettere, quel traditore del mio lavorante perugino pensò a una malizia, la quale subito gli venne ben fatta rispetto alla avarizia di papa Pagolo da Farnese, ma piú del suo bastardo figliuolo, allora chiamato duca di Castro. Questo ditto lavorante fece intendere a un di que' segretari del signor Pierluigi ditto, che, essendo stato meco per lavorante parecchi anni, sapeva tutte le mie faccende; per le quale lui faceva fede al ditto signor Pierluigi, che io ero uomo di piú di ottanta mila ducati di valsente, e che questi dinari io gli avevo la maggior parte in gioie; le qual gioie erano della Chiesa, e che io l'avevo rubate nel tempo del sacco di Roma in castel Sant'Agnolo, e che vedessino di farmi pigliare subito e segretamente. Io avevo, una mattina infra l'altre, lavorato piú di tre ore innanzi giorno in sull'opere della sopra ditta isposa, e in mentre che la mia bottega si apriva e spazzava, io m'ero messo la cappa addosso per dare un poco di volta; e preso il cammino per istrada Iulia, isboccai in sul canto della Chiavica; dove Crespino bargello con tutto la sua sbirreria mi si fece in contro, e mi disse: - Tu se' prigion del Papa -. Al quale io dissi: - Crespino, tu m'hai preso in iscambio. - No - disse Crespino - tu se' il virtuoso Benvenuto, e benissimo ti cognosco, e ti ho a menare in castel Sant'Agnolo, dove vanno li signori e li uomini virtuosi pari tua -. E perché quattro di quelli caporali sua mi si gittorno addosso e con violenza mi volevan levare una daga che io avevo a canto e certe anella che io avevo in dito, il ditto Crespino a loro disse: - Non sia nessun di voi che lo tocchi: basta bene che voi facciate l'uffizio vostro, che egli non mi fugga -. Dipoi accostatomisi, con cortese parole mi chiese l'arme. In mentre che io gli davo l'arme, mi venne considerato che in quel luogo appunto io avevo ammazzato Pompeo. Di quivi mi menorno in Castello, e in una camera su di sopra, innel mastio, mi serrorno prigione. Questa fu la prima volta che mai io gustai prigione, insino a quella mia età de' trentasette anni.
CII.
Considerato il signor Pierluigi, figliuol del Papa, la gran quantità de' danari, che era quella di che io era accusato, subito ne chiese grazia a quel suo padre Papa, che di questa somma de' danari gliene facessi una donagione. Per la qual cosa il Papa volentieri gliene concesse, e di piú gli disse che ancora gliene aiuterebbe riscuotere: di modo che, tenutomi prigione otto giorni interi, in capo degli otto giorni, per dar qualche termine a questa cosa, mi mandorno a esaminare. Di che io fu' chiamato in una di quelle sale, che sono in Castello, del Papa, luogo molto onorato; e gli esaminatori erano il Governator di Roma, qual si domandava messer Benedetto Conversini pistolese, che fu da poi vescovo de Iesi; l'altro si era il Proccurator fiscale, che del nome suo non mi ricordo; l'altro, ch'era il terzo, si era il giudice de' malificii, qual si domandava messer Benedetto da Cagli. Questi tre uomini mi cominciorno a esaminare, prima con amorevole parole, da poi con asprissime e paventose parole, causate perché io dissi loro: - Signori mia, egli è piú d'una mezz'ora, che voi non restate di domandarmi di favole e di cose, che veramente si può dire che voi cicalate, o che voi favellate. Modo di dire, cicalare, che non ha tuono, o favellare, che non vol dir nulla; sí che io vi priego che voi mi diciate quel che voi volete da me, e che io senta uscir delle bocche vostre ragionamenti, e non favole e cicalerie -. A queste mie parole il Governatore, ch'era pistoiese, e non potendo piú palliare la sua arrovellata natura mi disse: - Tu parli molto sicuramente, anzi troppo altiero; di modo che cotesta tua alterigia io te la farò diventare piú umile che un canino a li ragionamenti che tu mi udirai dirti; e' quali non saranno né cicalerie né favole, come tu di', ma saranno una proposta di ragionamenti, ai quali e' bisognerà bene che tu ci metti del buono a dirci la ragione di essi -. E cosí cominciò: - Noi sappiamo certissimo che tu eri in Roma al tempo del Sacco, che fu fatto in questa isfortunata città di Roma; e in questo tempo tu ti trovasti in questo Castel Sant'Agnolo, e ci fusti adoperato per bombardiere; e perché l'arte tua si è aurifice e gioielliere, papa Clemente per averti conosciuto in prima, e per non essere qui altri di cotai professione, ti chiamò innel suo secreto e ti fece isciorre tutte le gioie dei sua regni e mitrie e anella; e di poi fidandosi di te, volse che tu gnene cucissi adosso: per la qual cosa tu ne serbasti per te di nascosto da Sua Santità per il valore di ottanta mila scudi. Questo ce l'ha detto un tuo lavorante, con il quale tu ti se' confidato e vantatone. Ora noi ti diciamo liberamente che tu truovi le gioie o il valore di esse gioie: di poi ti lasceremo andare in tua libertà.
CIII.
Quando io senti' queste parole io non mi possetti tenere di non mi muovere a grandissime risa; di poi riso alquanto, io dissi: - Molto ringrazio Idio, che per questa prima volta che gli è piaciuto a Sua Maestà che io sia carcerato, pur beato che io non son carcerato per qualche debol cosa, come il piú delle volte par che avvenga ai giovani. Se questo che voi dite fussi il vero, qui non c'è pericolo nissuno per me che io dovessi essere gastigato da pena corporale, avendo le legge in quel tempo perso tutte le sue autorità; dove che io mi potria scusare, dicendo, che come ministro, cotesto tesoro io lo avessi guardato per la sacra e santa Chiesa appostolica, aspettando di rimetterlo a buon Papa, o sí veramente da quello che e' mi fussi richiesto, quale ora saresti voi, se la stessi cosí -. A queste parole quello arrabbiato Governatore pistoiese non mi lasciò finir di dire le mie ragione, che lui furiosamente disse: - Acconciala in quel modo che tu vuoi, Benvenuto, che annoi ci basta avere ritrovato il nostro; e fa' pur presto, se tu non vuoi che noi facciamo altro che con parole -. E volendosi rizzare e andarsene, io dissi loro: - Signori, io non son finito di esaminare, sicché finite di esaminarmi, e poi andate dove a voi piace -. Subito si rimissono assedere, assai bene in còllora, quasi mostrando di non voler piú udire parola nissuna che io allor dicessi, e mezzo sollevati, parendo loro di aver trovato tutto quello che loro desideravono di sapere. Per la qual cosa io cominciai in questo tenore: - Sappiate, Signori, che e' sono in circa a venti anni che io abito Roma, e mai né qui né altrove fui carcerato -. A queste parole quel birro di quel Governatore disse: - Tu ci hai pure ammazzati degli uomini -. Allora io dissi: - Voi lo dite, e non io; ma se uno venissi per ammazzar voi, cosí prete, voi vi difenderesti, e ammazzando lui le sante legge ve lo comportano: sí che lasciatemi dire le mie ragione, volendo potere riferire al Papa e volendo giustamente potermi giudicare. Io di nuovo vi dico, ch'e' son vicino a venti anni che io abito questa maravigliosa Roma, e in essa ho fatto grandissime faccende della mia professione: e perché io so che questa è la sieda di Cristo, e' mi sarei promesso sicuramente, che se un principe temporale mi avessi voluto fare qualche assassinamento, io sarei ricorso a questa santa Cattedra e a questo Vicario di Cristo, che difendessi le mie ragione. Oimè! dove ho io a 'ndare adunque? e a chi principe che mi difenda da un tanto iscellerato assassinamento? Non dovevi voi, prima che voi mi pigliassi, intendere dove io giravo questi ottanta mila ducati? Ancora non dovevi voi vedere la nota delle gioie che ha questa Camera appostolica iscritte diligentemente da cinquecento anni in qua? Di poi che voi avessi trovato mancamento, allora voi dovevi pigliare tutti i miei libri, insieme con esso meco. Io vi fo intendere che e' libri, dove sono iscritte tutte le gioie del Papa e de' regni, sono tutti in piè, e non troverrete manco nulla di quello che aveva papa Clemente, che non sia iscritto diligentemente. Solo potria essere, che quando quel povero uomo di papa Clemente si volse accordare con quei ladroni di quelli imperiali, che gli avevano rubato Roma e vituperata la Chiesa, veniva a negoziare questo accordo uno che si domandava Cesare Iscatinaro, se ben mi ricordo; il quale, avendo quasi che concluso l'accordo con quello assassinato Papa, per fargli un poco di carezze, si lasciò cadere di dito un diamante, che valeva in circa quattromila scudi: e perché il ditto Iscatinaro si chinò a ricorlo, il Papa gli disse che lo tenessi per amor suo. Alla presenza di queste cose io mi trovai in fatto: e se questo ditto diamante vi fussi manco, io vi dico dove gli è ito; ma io penso sicurissimamente che ancora questo troverrete iscritto. Di poi a vostra posta vi potrete vergognare di avere assassinato un par mio, che ho fatto tante onorate imprese per questa Sieda appostolica. Sappiate che se io non ero io, la mattina che gli imperiali entrorno in Borgo, sanza impedimento nessuno entravano in Castello; e io, sanza esser premiato per quel conto, mi gittai vigorosamente alle artiglierie, che i bombardieri e' soldati di munizione avevano abbandonato, e messi animo a un mio compagnuzzo, che si domandava Raffaello da Montelupo, iscultore, che ancora lui abbandonato s'era messo innun canto tutto ispaventato, e non facendo nulla: io lo risvegliai; e lui e io soli amazzammo tanti de' nemici, che i soldati presono altra via. Io fui quello che detti una archibusata allo Scatinaro, per vederlo parlare con papa Clemente sanza una reverenza, ma con ischerno bruttissimo, come luteriano e impio che gli era. Papa Clemente a questo fece cercare in Castello chi quel tale fussi stato per impiccarlo. Io fui quello che ferí il principe d'Orangio d'una archibusata nella testa, qui sotto le trincee del castello. Appresso ho fatto alla santa Chiesa tanti ornamenti d'argento, d'oro e di gioie, tante medaglie e monete sí belle e sí onorate. È questa adunche la temeraria pretesca remunerazione, che si usa a uno uomo che vi ha con tanta fede e con tanta virtú servito e amato? O andate a ridire tutto quanto io v'ho detto al Papa, dicendogli, che le sue gioie e' l'ha tutte, e che io non ebbi mai dalla Chiesa nulla altro che certe ferite e sassate in cotesto tempo del Sacco; e che io non facevo capitale d'altro che di un poco di remunerazione da papa Pagolo, quale lui mi aveva promesso. Ora io son chiaro e di Sua Santità e di voi ministri -. Mentre che io dicevo queste parole egli stavano attoniti a udirmi; e guardandosi in viso l'un l'altro, in atto di maraviglia si partirno da me. Andorno tutti a tre d'accordo a riferire al Papa tutto quello che io avevo detto. Il Papa, vergognandosi, commesse con grandissima diligenza che si dovessi rivedere tutti e' conti delle gioie. Di poi che ebbon veduto che nulla vi mancava, mi lasciavono stare in Castello senza dir altro: il signor Pierluigi, ancora allui parendogli aver mal fatto, cercavon con diligenza di farmi morire.
CIV.
In questo poco de l'agitazion del tempo il re Francesco aveva di già inteso minutamente come il Papa mi teneva prigione e a cosí gran torto: avendo mandato per imbasciadore al Papa un certo suo gentiluomo, il quale si domandava monsignor di Morluc, iscrisse a questo che mi domandasse al Papa, come uomo di Sua Maestà. Il Papa, che era valentissimo e maraviglioso uomo, ma in questa cosa mia si portò come da poco e sciocco, e' rispose al ditto nunzio del Re, che Sua Maestà non si curasse di me, perché io ero uomo molto fastidioso con l'arme, e per questo faceva avvertito Sua Maestà che mi lasciassi stare, perché lui mi teneva prigione per omicidii e per altre mie diavolerie cosí fatte. Il Re di nuovo rispose, che innel suo regno si teneva bonissima iustizia; e sí come Sua Maestà premiava e favoriva maravigliosamente gli uomini virtuosi, cosí per il contrario gastigava i fastidiosi; e perché Sua Santità mi avea lasciato andare, non si curando del servizio di detto Benvenuto, e vedendolo innel suo regno volentieri l'aveva preso al suo servizio; e come uomo suo lo domandava. Queste cose mi furno di grandissima noia e danno, con tutto che e' fussino e' piú onorati favori che si possa desiderare per un mio pari. Il Papa era venuto in tanto furore per la gelosia che gli aveva che io non andassi a dire quella iscellerata ribalderia usatami, che e' pensava tutti e' modi che poteva con suo onore di farmi morire. Il Castellano di Castel Sant'Agnolo si era un nostro fiorentino, il quale si domandava messer Giorgio cavaliere, degli Ugolini. Questo uomo da bene mi usò le maggior cortesie che si possa usare al mondo, lasciandomi andare libero per il Castello a fede mia sola; e perché gl'intendeva il gran torto che m'era fatto, volendogli io dare sicurtà per andarmi a spasso per il Castello, lui mi disse che non la poteva pigliare, avvenga che il Papa istimava troppo questa cosa mia; ma che si fiderebbe liberamente della fede mia, perché da ugniuno intendeva quanto io ero uomo da bene: e io gli detti la fede mia, e cosí lui mi dette comodità che io potessi lavoracchiare qualche cosa. A questo, pensando che questa indegnazione del Papa, sí per la mia innocenzia, ancora per i favori del Re, si dovessi terminare, tenendo pure la mia bottega aperta, veniva Ascanio mio garzone in Castello, e portavami alcune cose da lavorare. Benché poco io potessi lavorare, vedendomi a quel modo carcerato a cosí gran torto; pure facevo della necessità virtú: lietamente il meglio che io potevo mi comportavo questa mia perversa fortuna. Avevomi fatto amicissimi tutte quelle guardie e molti soldati del Castello. E perché il Papa veniva qualche volta a cena in Castello, e in questo tempo che c'era il Papa il Castello non teneva guardie, ma stava liberamente aperto come un palazzo ordinario; e perché in questo tempo che il Papa stava cosí, tutti e' prigioni si usavono con maggior diligenza riserrare; onde a me non era fatto nessuna di queste cotal cose, ma liberamente in tutti questi tempi io me ne andavo per il Castello; e piú volte alcuni di quei soldati mi consigliavano che io mi dovessi fuggire, e che loro mi arieno fatte spalle, conosciuto il gran torto che m'era fatto: ai quali io rispondevo che io avevo dato la fede mia al Castellano, il quale era uomo tanto dabbene, e che mi aveva fatto cosí gran piaceri. Eraci un soldato molto bravo e molto ingegnoso; e' mi diceva: - Benvenuto mio, sappi che chi è prigione non è ubrigato né si può ubrigare a osservar fede, sí come nessuna altra cosa; fa' quel che io ti dico; fúggiti da questo ribaldo di questo Papa e da questo bastardo suo figliuolo, i quali ti torranno la vita a ogni modo -. Io che m'ero proposto piú volentieri perder la vita, che mancare a quello uomo da bene del Castellano della mia promessa fede, mi comportavo questo inistimabil dispiacere, insieme con un frate di casa Palavisina grandissimo predicatore.
CV.
Questo era preso per luteriano: era bonissimo domestico compagno, ma quanto a frate egli era il maggior ribaldo che fussi al mondo, e s'accomodava a tutte le sorte de' vizii. Le belle virtú sua io le ammiravo, e' brutti vizii sua grandemente aborrivo, e liberamente ne lo riprendevo. Questo frate non faceva mai altro che ricordarmi come io non ero ubrigato a osservar fede al Castellano, per esser io in prigione. Alla qual cosa io rispondevo, che sí bene come frate lui diceva il vero, ma come uomo e' non diceva il vero, perché un che fussi uomo e non frate, aveva da osservare la fede sua in ogni sorte d'accidente, in che lui si fussi trovato: però io che ero uomo e non frate, non ero mai per mancare di quella mia simplice e virtuosa fede. Veduto il ditto frate che non potette ottenere il conrompermi per via delle sue argutissime e virtuose ragioni tanto maravigliosamente dette dallui, pensò tentarmi per un'altra via; e lasciato cosí passare di molti giorni, in mentre mi leggeva le prediche di fra Ierolimo Savonarolo, e' dava loro un comento tanto mirabile, che era piú bello che esse prediche; per il quale io restavo invaghito, e non saria stata cosa al mondo che io non avessi fatta per lui, da mancare della fede mia in fuora, sí come io ho detto. Vedutomi il frate istupito delle virtú sue, pensò un'altra via; che con un bel modo mi cominciò a domandare che via io arei tenuto se e' mi fussi venuto voglia, quando loro mi avessino riserrato, a aprire quelle prigione per fuggirmi. Ancora io, volendo mostrare qualche sottigliezza di mio ingegno a questo virtuoso frate, gli dissi, che ogni serratura difficilissima io sicuramente aprirrei, e maggiormente quelle di quelle prigione, le quale mi sarebbono state come mangiare un poco di cacio fresco. Il ditto frate, per farmi dire il mio segreto, mi sviliva, dicendo che le son molte cose quelle che dicon gli uomini che son venuti in qualche credito di persone ingegnose; che se gli avessino poi a mettere in opera le cose di che loro si vantavano, perderebbon tanto di credito, che guai a loro: però sentiva dire a me cose tanto discoste al vero, che se io ne fossi ricerco, penserebbe ch'io n'uscissi con poco onore. A questo, sentendomi io pugnere da questo diavolo di questo frate, gli dissi che io osavo sempre prometter di me con parole molto manco di quello che io sapevo fare, e che cotesta cosa, che io avevo promessa, delle chiave, era la piú debole; e con breve parole io lo farei capacissimo che l'era sí come io dicevo; e inconsideratamente, sí come io dissi, gli mostrai con facilità tutto quel che io avevo detto. Il frate, facendo vista di non se ne curare, subito benissimo apprese ingegnosissimamente il tutto. E sí come di sopra io ho detto, quello uomo da bene del Castellano mi lasciava andare liberamente per tutto il Castello; e manco la notte non mi serrava, sí come attutti gli altri e' faceva; ancora mi lasciava lavorare di tutto quello che io volevo, sí d'oro e d'argento e di cera; e se bene io avevo lavorato parecchi settimane in un certo bacino che io facevo al cardinal di Ferrara, trovandomi affastidito dalla prigione, m'era venuto annoia il lavorare quelle tale opere; e solo mi lavoravo, per manco dispiacere, di cera alcune mie figurette: la qual cera il detto frate me ne buscò un pezzo, e con detto pezzo messe in opera quel modo delle chiave, che io inconsideratamente gli avevo insegnato. Avevasi preso per compagno e per aiuto un cancelliere che stava col ditto Castellano. Questo cancelliere si domandava Luigi, ed era padovano. Volendo far fare le ditte chiave, il magnano li scoperse; e perché il Castellano mi veniva alcune volte a vedere alla mia stanza, e vedutomi che io lavoravo di quelle cere, subito ricognobbe la ditta cera e disse: - Se bene a questo povero uomo di Benvenuto è fatto un de' maggior torti che si facessi mai, meco non dovev'egli far queste tale operazione, che gli facevo quel piacere che io non potevo fargli. Ora io lo terrò istrettissimo serrato e non gli farò mai piú un piacere al mondo -. Cosí mi fece riserrare con qualche dispiacevolezza, massimo di parole dittemi da certi sua affezionati servitori, e' quali mi volevano bene oltramodo, e ora per ora mi dicevano tutte le buone opere che faceva per me questo signor Castellano; talmente che in questo accidente mi chiamavano uomo ingrato, vano e sanza fede. E perché un di quelli servitori piú aldacemente che non si gli conveniva mi diceva queste ingiurie, onde io sentendomi innocente, arditamente risposi, dicendo che mai io non mancai di fede, e che tal parole io terrei a sostenere con virtú della vita mia, e che se piú e' mi diceva o lui o altri tale ingiuste parole, io direi che ogniuno che tal cosa dicessi, se ne mentirebbe per la gola. Non possendo sopportare la ingiuria, corse in camera del Castellano e portommi la cera con quel model fatto della chiave. Subito che io viddi la cera, io gli dissi che lui e io avevamo ragione; ma che mi facessi parlare al signor Castellano perché io gli direi liberamente il caso come gli stava, il quale era di molto piú importanza che loro non pensavano. Subito il Castellano mi fece chiamare, e io gli dissi tutto il seguito; per la qual cosa lui ristrinse il frate, il quale iscoperse quel cancelliere, che fu per essere impiccato. Il detto Castellano quietò la cosa, la quale era di già venuta agli orecchi del Papa; campò il suo cancelliere dalle forche, e me allargò innel medesimo modo che io mi stavo in prima.
CVI.
Quando io veddi seguire questa cosa con tanto rigore, cominciai a pensare ai fatti mia, dicendo: - Se un'altra volta venissi un di questi furori, e che questo uomo non si fidassi di me, io non gli verrei a essere piú ubbrigato, e vorrei adoperare un poco li mia ingegni, li quali io sono certo che mi riuscirieno altrimenti che quei di quel frataccio - e cominciai a farmi portare delle lenzuola nuove e grosse, e le sudice io non le rimandavo. Li mia servitori chiedendomele, io dicevo loro che si stessin cheti, perché io l'avevo donate a certi di quei poveri soldati; che se tal cosa si sapessi, quelli poveretti portavano pericolo della galera: di modo che li mia giovani e servitori fidelissimamente, massimo Felice, mi teneva tal cosa benissimo segreto, le ditte lenzuola. Io attendevo a votare un pagliericcio, e ardevo la paglia, perché nella mia prigione v'era un cammino da poter far fuoco. Cominciai di queste lenzuola e farne fascie larghe un terzo di braccio: quando io ebbi fatto quella quantità che mi pareva che fussi a bastanza a discendere da quella grande altura di quel mastio di castel Sant'Agnolo, io dissi ai miei servitori, che avevo donato quelle che io volevo, e che m'attendessino a portare delle sottile, e che sempre io renderei loro le sudice. Questa tal cosa si dimenticò. A quelli mia lavoranti e servitori il cardinale Santiquattro e Cornaro mi feciono serrare la bottega, dicendomi liberamente, che il Papa non voleva intender nulla di lasciarmi andare, e che quei gran favori del Re mi avevano molto piú nociuto che giovato; perché l'ultime parole che aveva dette monsignor di Morluc da parte del Re, si erano istate che monsigno' di Morluc disse al Papa che mi dovessi dare in mano a' giudici ordinari della corte; e che, se io avevo errato, mi poteva gastigare, ma non avendo errato, la ragion voleva che lui mi lasciassi andare. Queste parole avevan dato tanto fastidio al Papa, che aveva voglia di non mi lasciare mai piú. Questo Castellano certissimamente mi aiutava quanto e' poteva. Veduto in questo tempo quelli nimici mia che la mia bottega s'era serrata, con ischerno dicevano ogni dí qualche parola ingiuriosa a quelli mia servitori e amici, che mi venivano a visitare alla prigione. Accadde un giorno in fra gli altri che Ascanio, il quale ogni dí veniva dua volte da me, mi richiese che io gli facessi una certa vestetta per sé d'una mia vesta azzurra di raso, la quale io non portavo mai: solo mi aveva servito quella volta, che con essa andai in processione: però io gli dissi che quelli non eran tempi, né io in luogo da portare cotai veste. Il giovane ebbe tanto per male che io non gli detti questa meschina vesta, che lui mi disse che se ne voleva andare a Tagliacozze a casa sua. Io tutto appassionato gli dissi, che mi faceva piacere e levarmisi dinanzi; e lui giurò con grandissima passione di non mai piú capitarmi innanzi. Quando noi dicevamo questo, noi passeggiavamo intorno al mastio del Castello. Avvenne che il Castellano ancora lui passeggiava: incontrandoci appunto in Sua Signoria, e Ascanio disse: - Io me ne vo, e addio per sempre -. A questo io dissi: - E per sempre voglio che sia, e cosí sia il vero: io commetterò alle guardie che mai piú ti lascin passare - e voltomi al Castellano, con tutto il cuore lo pregai, che commettessi alle guardie che non lasciassino mai piú passare Ascanio, dicendo a Sua Signoria: - Questo villanello mi viene a crescere male al mio gran male; sí che io vi priego, Signor mio, che mai piú voi lasciate entrar costui -. Il Castellano li incresceva assai, perché lo conosceva di maraviglioso ingegno: a presso a questo egli era di tanta bella forma di corpo, che pareva che ogniuno, vedutolo una sol volta, gli fossi espressamente affezionato. Il ditto giovane se ne andava lacrimando, e portavane una sua stortetta, che alcune volte lui segretamente si portava sotto. Uscendo del Castello e avendo il viso cosí lacrimoso, si incontrò in dua di quei mia maggior nimici, che l'uno era quel Ieronimo perugino sopra ditto, e l'altro era un certo Michele, orefici tutt'a dua. Questo Michele, per essere amico di quel ribaldo di quel Perugino e nimico d'Ascanio, disse: - Che vuol dir che Ascanio piagne? Forse gli è morto il padre? dico quel padre di Castello -. Ascanio disse a questo: - Lui è vivo, ma tu sarai or morto - e alzato la mana, con quella sua istorta gli tirò dua colpi, in sul capo tutt'a dua, che col primo lo misse in terra, e col sicondo poi gli tagliò tre dita della man ritta, dandogli pure in sul capo. Quivi restò come morto. Subito fu riferito al Papa; e il Papa in gran còllora disse queste parole: - Da poi che il Re vuole che sia giudicato, andategli a dare tre dí di tempo per difendere la sua ragione -. Subito vennono, e feciono il detto uflizio che aveva lor commesso il Papa. Quello uomo da bene del Castellano subito andò dal Papa, e fecelo chiaro come io non ero consapevole di tal cosa, e che io l'avevo cacciato via. Tanto mirabilmente mi difese, che mi campò la vita da quel gran furore. Ascanio se ne fuggí a Tagliacozze a casa sua, e di là mi scrisse chiedendomi mille volte perdonanza, che cognosceva avere auto torto a aggiugnermi dispiaceri ai mia gran mali; ma se Dio mi dava grazia che io uscissi di quel carcere, che non mi vorrebbe mai piú abbandonare. Io gli feci intendere che attendessi a 'mparare, e che se Dio mi dava libertà, io lo chiamerei a ogni modo.
CVII.
Questo Castellano aveva ogni anno certe infermità che lo traevano del cervello a fatto; e quando questa cosa gli cominciava a venire, e' parlava assai: modo che cicalare; e questi umori sua erano ogni anno diversi, perché una volta gli parve essere uno orcio da olio; un'altra volta gli parve essere un ranocchio, e saltava come il ranocchio; un'altra volta gli parve esser morto, e bisognò sotterrarlo: cosí ogni anno veniva in qualcun di questi cotai umori diversi. Questa volta si cominciò a immaginare d'essere un pipistrello e, in mentre che gli andava a spasso, istrideva qualche volta cosí sordamente come fanno i pipistrelli; ancora dava un po' d'atto alle mane e al corpo, come se volare avessi voluto. Li medici sua, che se ne erano avveduti, cosí li sua servitori vecchi, li davano tutti i piaceri che immaginar potevano: e perché e' pareva loro che pigliassi gran piacere di sentirmi ragionare, a ogni poco e' venivano per me e menavanmi da lui. Per la qual cosa questo povero uomo talvolta mi tenne quattro e cinque ore intere, che mai avevo restato di ragionar seco. Mi teneva alla tavola sua a mangiare al dirimpetto a sé, e mai restava di ragionare o di farmi ragionare; ma io in quei ragionamenti mangiavo pure assai bene. Lui, povero uomo, non mangiava e non dormiva, di modo che me aveva istracco, che io non potevo piú; e guardandolo alcune volte in viso, vedevo che le luce degli occhi erano ispaventate, perché una guardava innun verso, e l'altra in un altro. Mi cominciò a domandare se io avevo mai aùto fantasia di volare: al quale io dissi, che tutte quelle cose che piú difficile agli uomini erano state, io piú volentieri avevo cerco di fare e fatte; e questa del volare, per avermi presentato lo Idio della natura un corpo molto atto e disposto a correre e a saltare molto piú che ordinario, con quel poco dello ingegno poi, che manualmente io adopererei, a me dava il cuore di volare al sicuro. Questo uomo mi cominciò a dimandare che modi io terrei: al quale io dissi che, considerato gli animali che volano, volendogl'imitare con l'arte quello che loro avevano dalla natura, non c'era nissuno che si potessi imitare, se none il pipistrello. Come questo povero uomo sentí quel nome di pipistrello, che era l'umore in quel che peccava quel anno, messe una voce grandissima, dicendo: - E' dice il vero, e' dice il vero; questa è essa, questa è essa - e poi si volse a me e dissemi: - Benvenuto, chi ti dessi le comodità, e' ti darebbe pure il cuore di volare? - Al quale io dissi, che se lui mi voleva dar libertà da poi, che mi bastava la vista di volare insino in Prati, faccendomi un paio d'alie di tela di rensa incerate. Allora e' disse: - E anche a me ne basterebbe la vista; ma perché il Papa m'ha comandato che io tenga cura di te come degli occhi suoi; io cognosco che tu sei un diavolo ingegnoso che ti fuggiresti; però io ti vo' fare rinchiudere con cento chiave, acciò che tu non mi fugga -. Io mi messi a pregarlo, ricordandogli che io m'ero potuto fuggire e, per amor della fede che io gli avevo data, io non gli arei mai mancato; però lo pregavo per l'amor de Dio, e per tanti piaceri quanti mi aveva fatto, che lui non volessi arrogere un maggior male al gran male che io avevo. In mentre che io gli dicevo queste parole, lui comandava espressamente che mi legassimo, e che mi menassimo in prigione serrato bene. Quando io viddi che non v'era altro rimedio, io gli dissi, presenti tutti e' sua: - Serratemi bene e guardatemi bene, perché io mi fuggirò a ogni modo -. Cosí mi menorno, e chiusonmi con maravigliosa diligenza.
CVIII.
Allora io cominciai a pensate il modo che io avevo a tenere a fuggirmi. Subito che io mi veddi chiuso, andai esaminando come stava la prigione dove io ero rinchiuso; e parendomi aver trovato sicuramente il modo di uscirne, cominciai a pensare in che modo io dovevo iscendere da quella grande altezza di quel mastio, ché cosí si domandava quel alto torrione: e preso quelle mie lenzuole nuove, che già dissi che io ne avevo fatte istrisce e benissimo cucite, andai esaminando quanto vilume mi bastava a potere iscendere. Giudicato quello che mi potria servire, e di tutto messomi in ordine, trovai un paio di tanaglie, che io avevo tolto a un Savoino il quale era delle guardie del Castello. Questo aveva cura alle botte e alle citerne; ancora si dilettava di lavorare di legname; e perché aveva parecchi paia di tanaglie, infra queste ve n'era un paio molto grosse e grande: pensando che le fussino il fatto mio, io gliene tolsi e le nascosi drento in quel pagliericcio. Venuto poi il tempo che io me ne volsi servire, io cominciai con esse a tentare di quei chiodi che sostenevano le bandelle; e perché l'uscio era doppio, la ribaditura delli detti chiodi non si poteva vedere; di modo che provatomi a cavarne uno, durai grandissima fatica; pure di poi alla fine mi riuscí. Cavato che io ebbi questo primo chiodo, andai immaginando che modo io dovevo tenere che loro non se ne fussino avveduti. Subito mi acconciai con un poco di rastiatura di ferro rugginoso un poco di cera, la quale era del medesimo colore appunto di quelli cappelli d'aguti che io avevo cavati; e con essa cera diligentemente cominciai a contrafare quei capei d'aguti in sulle lor bandelle: e di mano in mano tanti quanti io ne cavavo, tanti ne contrafacevo di cera. Lasciai le bandelle attaccate ciascuna da capo e da piè con certi delli medesimi aguti che io avevo cavati, di poi gli avevo rimessi; ma erano tagliati, di poi rimessi leggermente, tanto che e' mi tenevano le bandelle. Questa cosa io la feci con grandissima difficultà, perché il Castellano sognava ogni notte che io m'ero fuggito, e però lui mandava a vedere di ora in ora la prigione; e quello che veniva a vederla aveva nome e fatti di birro. Questo si domandava il Bozza, e sempre menava seco un altro, che si domandava Giovanni, per sopranome Pedignone; questo era soldato, e 'l Bozza era servitore. Questo Giovanni non veniva mai volta a quella mia prigione, che lui non mi dicessi qualche ingiuria. Costui era di quel di Prato ed era stato in Prato allo speziale: guardava diligentemente ogni sera quelle bandelle e tutta la prigione, e io gli dicevo: - Guardatemi bene, perché io mi voglio fuggire a ogni modo -. Queste parole feciono generare una nimicizia grandissima infra lui e me; in modo che io con grandissima diligenza tutti quei mia ferruzzi, come se dire tanaglie, e un pugnale assai ben grande e altre cose appartenente, diligentemente tutti riponevo innel mio pagliericcio; cosí quelle fascie che io avevo fatte, ancora queste tenevo in questo pagliericcio; e come gli era giorno, subito da me ispazzavo: e se bene per natura io mi diletto della pulitezza, allora io stavo pulitissimo. Ispazzato che io avevo, io rifacevo il mio letto tanto gentilmente e con alcuni fiori, che quasi ogni mattina io mi facevo portare da un certo Savoino. Questo Savoino teneva cura della citerna e delle botte; e anche si dilettava di lavorar di legname; e a lui io rubai le tanaglie, con che io sconficcai li chiodi di queste bandelle.
CIX.
Per tornare al mio letto, quando il Bozza e il Pedignione venivano, mai dicevo loro altro, se non che stessin discosto dal mio letto, acciò che e' non me lo inbrattassino e non me lo guastassino; dicendo loro, per qualche occasione che pure per ischerno qualche volta che cosí leggermente mi toccavano un poco il letto, per che io dicevo: - Ah i sudici poltroni! io metterò mano a una di coteste vostre spade, e farovvi tal dispiacere, che io vi farò maravigliare. Parv'egli esser degni di toccare il letto d'un mio pari? A questo io non arò rispetto alla vita mia, perché io son certo che io vi torrò la vostra; sí che lasciatemi stare colli mia dispiaceri e colle mia tribulazione, e non mi date piú affanno di quello che io mi abbia; se non che io vi farò vedere che cosa sa fare un disperato -. Queste parole costoro le ridissono al Castellano, il quale comandò loro ispressamente che mai non s'accostassino a quel mio letto, e che, quando e' venivano da me, venissino sanza spade, e che m'avessino benissimo cura del resto. Essendomi io assicurato del letto, mi parve aver fatto ogni cosa: perché quivi era la importanza di tutta la mia faccenda. Una sera di festa in fra l'altre, sentendosi il Castellano molto mal disposto e quelli sua omori cresciuti, non dicendo mai altro se non che era pipistrello, e che se lor sentissino che Benvenuto fossi volato via, lasciassino andar lui, che mi raggiugnerebbe, poiché e' volerebbe di notte ancora lui certamente piú forte di me, dicendo: - Benvenuto è un pipistrello contrafatto, e io sono un pipistrello dadovero; e perché e' m'è stato dato in guardia, lasciate pur fare a me, che io lo giugnerò ben io -. Essendo stato piú notti in questo umore, gli aveva stracco tutti i sua servitori; e io per diverse vie intendevo ogni cosa, massimo da quel Savoino che mi voleva bene. Resolutomi questa sera di festa a fuggirmi a ogni modo, in prima divotissimamente a Dio feci orazione, pregando Sua divina Maestà, che mi dovessi difendere e aiutare in quella tanta pericolosa inpresa; di poi messi mano a tutte le cose che io volevo operare, e lavorai tutta quella notte. Come io fu' a dua ore innanzi il giorno, io cavai quelle bandelle con grandissima fatica, perché il battente del legno della porta, e anche il chiavistello facevano un contrasto, il perché io non potevo aprire: ebbi a smozzicare il legno; pure alla fine io apersi, e messomi adosso quelle fascie, quale io avevo avvolte a modo di fusi di accia in su dua legnetti, uscito fuora, me ne andai dalli destri del mastio; e scoperto per di drento dua tegoli del tetto, subito facilmente vi saltai sopra. Io mi trovavo in giubbone bianco e un paio di calze bianche e simile un paio di borzachini, inne' quali avevo misso quel mio pugnalotto già ditto. Di poi presi un capo di quelle mie fascie e l'accomandai a un pezzo di tegola antica ch'era murata innel ditto mastio: a caso questa usciva fuori a pena quattro dita. Era la fascia acconcia a modo d'una staffa. Appiccata che io l'ebbi a quel pezzo della tegola, voltomi a Dio, dissi: - Signore Idio, aiuta la mia ragione, perché io l'ho, come tu sai, e perché io mi aiuto -. Lasciatomi andare pian piano, sostenendomi per forza di braccia, arrivai in sino in terra. Non era lume di luna, ma era un bel chiarore. Quando io fui in terra, guardai la grande altezza che io avevo isceso cosí animosamente, e lieto me ne andai via, pensando d'essere isciolto. Per la qual cosa non fu vero, perché il Castellano da quella banda aveva fatto fare dua muri assai bene alti, e se ne serviva per istalla e per pollaio: questo luogo era chiuso con grossi chiavistelli per di fuora. Veduto che io non potevo uscir di quivi, mi dava grandissimo dispiacere. In mentre che io andavo innanzi e indietro pensando ai fatti mia, detti dei piedi in una gran pertica, la quale era coperta dalla paglia. Questa con gran difficultà dirizzai a quel muro; di poi a forza di braccia la salsi insino in cima del muro. E perché quel muro era tagliente, io non potevo aver forza da tirar sú la ditta pertica; però mi risolsi a 'piccare un pezzo di quelle fascie, che era l'altro fuso, perché uno de' dua fusi io l'avevo lasciato attaccato al mastio del Castello: cosí presi un pezzo di quest'altra fascia, come ho detto, e legatala a quel corrente, iscesi questo muro, il qual mi dette grandissima fatica e mi aveva molto istracco, e di piú avevo iscorticato le mane per di drento, che sanguinavano; per la qual cosa io m'ero messo a riposare, e mi avevo bagnato le mane con la mia orina medesima. Stando cosí, quando e' mi parve che le mie forze fussino ritornate, salsi all'ultimo procinto delle mura, che guarda in verso Prati; e avendo posato quel mio fuso di fascie, col quale io volevo abbracciare un merlo, e in quel modo che io avevo fatto innella maggior altezza, fare in questa minore; avendo, come io dico, posato la mia fascia, mi si scoperse adosso una di quelle sentinelle che facevano la guardia. Veduto impedito il mio disegno, e vedutomi in pericolo della vita, mi disposi di affrontare quella guardia; la quale, veduto l'animo mio diliberato e che andavo alla volta sua con armata mano, sollecitava il passo, mostrando di scansarmi. Alquanto iscostatomi dalle mie fascie, prestissimo mi rivolsi indietro; e se bene io viddi un'altra guardia, tal volta quella non volse veder me. Giunto alle mie fascie, legatole al merlo, mi lasciai andare; per la qual cosa, o sí veramente parendomi essere presso a terra, avendo aperto le mane per saltare, o pure erano le mane istracche, non possendo resistere a quella fatica, io caddi, e in questo cader mio percossi la memoria e stetti isvenuto piú d'un'ora e mezzo, per quanto io posso giudicare. Di poi, volendosi far chiaro il giorno, quel poco del fresco che viene un'ora innanzi al sole, quello mi fece risentire; ma sí bene stavo ancora fuor della memoria, perché mi pareva che mi fussi stato tagliato il capo, e mi pareva d'essere innel purgatorio. Stando cosí, a poco a poco mi ritornorno le virtú innell'esser loro, e m'avviddi che io ero fuora del Castello, e subito mi ricordai di tutto quello che io avevo fatto. E perché la percossa della memoria io la senti' prima che io m'avvedessi della rottura della gamba, mettendomi le mane al capo ne le levai tutte sanguinose: di poi cercatomi bene, cognobbi e giudicai di non aver male che d'importanza fussi; però, volendomi rizzare di terra, mi trovai tronca la mia gamba ritta sopra il tallone tre dita. Né anche questo mi sbigottí: cavai il mio pugnalotto insieme con la guaina; che per avere questo un puntale con una pallottola assai grossa in cima del puntale, questo era stato la causa dell'avermi rotto la gamba; perché contrastando l'ossa con quella grossezza di quella pallottola, non possendo l'ossa piegarsi, fu causa che in quel luogo si roppe: di modo che io gittai via il fodero del pugnale, e con il pugnale tagliai un pezzo di quella fascia che m'era avanzata, e il meglio che io possetti rimissi la gamba insieme, di poi carpone con il detto pugnale in mano andavo inverso la porta. Per la qual cosa giunto alla porta, io la trovai chiusa; e veduto una certa pietra sotto la porta a punto, la quale, giudicando che la non fussi molto forte, mi provai a scalzarla; di poi vi messi le mane, e sentendola dimenare, quella facilmente mi ubbidí, e trassila fuora; e per quivi entrai.
CX.
Era stato piú di cinquecento passi andanti da il luogo dove io caddi alla porta dove io entrai. Entrato che io fui drento in Roma, certi cani maschini mi si gittorno addosso e malamente mi morsono; ai quali, rimettendosi piú volte a fragellarmi, io tirai con quel mio pugnale e ne punsi uno tanto gagliardamente, che quello guaiva forte, di modo che gli altri cani, come è lor natura, corsono a quel cane: e io sollecitai andandomene inverso la chiesa della Trespontina cosí carpone. Quando io fui arrivato alla bocca della strada che volta in verso Sant'Agnolo, di quivi presi il cammino per andarmene alla volta di San Piero, per modo che faccendomisi dí chiaro addosso, considerai che io portavo pericolo; e scontrato uno acqueruolo che aveva carico il suo asino e pieno le sue coppelle d'acqua, chiamatolo a me, lo pregai che lui mi levassi di peso e mi portassi in su il rialto delle scalee di San Piero, dicendogli: - Io sono un povero giovane, che per casi d'amore sono voluto iscendere da una finestra; cosí son caduto, e rottomi una gamba. E perché il luogo dove io sono uscito è di grande importanza, e porterei pericolo di non essere tagliato a pezzi, però ti priego che tu mi lievi presto, e io ti donerò uno scudo d'oro - e messi mano alla mia borsa, dove io ve ne avevo una buona quantità. Subito costui mi prese, e volentieri me si misse a dosso, e portommi in sul ditto rialto delle scalee di San Piero; e quivi mi feci lasciare, e dissi che correndo ritornassi al suo asino. Subito presi il cammino cosí carpone, e me andavo in casa la Duchessa, moglie del duca Ottavio e figliuola dello Imperadore, naturale, non legittima, istata moglie del duca Lessandro, duca di Firenze; e perché io sapevo certissimo che appresso a questa gran principessa c'era di molti mia amici, che con essa eran venuti di Firenze; ancora perché lei ne aveva fatto favore mediante il Castellano; che volendomi aiutare disse al Papa, quando la Duchessa fece l'entrata in Roma, che io fu' causa di salvare per piú di mille scudi di danno, che faceva loro una grossa pioggia: per la qual cosa lui disse ch'era disperato, e che io gli messi cuore, e disse come io avevo acconcio parecchi pezzi grossi di artiglieria inverso quella parte dove i nugoli erano piú istretti, e di già cominciati a piovere un'acqua grossissima; per la qual cosa cominciato a sparare queste artiglierie si fermò la pioggia, e alle quattro volte si mostrò il sole; e che io ero stato intera causa che quella festa era passata benissimo; per la qual cosa, quando la Duchessa lo intese, aveva ditto: - Quel Benvenuto è un di quei virtuosi che stavano con la buona memoria del duca Lessandro mio marito, e sempre io ne terrò conto di quei tali, venendo la occasione di far loro piacere - e ancora aveva parlato di me al duca Ottavio suo marito. Per queste cause io me ne andavo diritto a casa di Sua Eccellenzia, la quale istava in Borgo Vecchio in un bellissimo palazzo che v'è; quivi io sarei stato sicurissimo che il Papa non m'arebbe tocco; ma perché la cosa che io avevo fatta insin quivi era istata troppo maravigliosa a un corpo umano, non volendo Idio che io entrassi in tanta vanagloria, per il mio meglio mi volse dare ancora una maggior disciplina, che non era istata la passata; e la causa si fu, che in mentre che io me ne andavo cosí carpone su per quelle scalee, mi ricognobbe subito un servitore che stava con il cardinal Cornaro; il qual cardinale era alloggiato in Palazzo. Questo servitore corse alla camera del Cardinale, e isvegliatolo, disse: - Monsignor reverendissimo, gli è giú il vostro Benvenuto, il quale s'è fuggito di Castello, e vassene carponi tutto sanguinoso: per quanto e' mostra, gli ha rotto una gamba, e non sappiamo dove lui si vada -. Il Cardinale disse subito: - Correte, e portatemelo di peso qui in camera mia -. Giunto a lui, mi disse che io non dubitassi di nulla; e subito mandò per i primi medici di Roma; e da quelli io fui medicato: e questo fu un maestro Iacomo da Perugia, molto eccellentissimo cerusico. Questo mirabilmente mi ricongiunse l'osso, poi fasciommi, e di sua mano mi cavò sangue; che essendomi gonfiato le vene molto piú che l'ordinario, ancora perché lui volse fare la ferita alquanto aperta, uscí sí grande il furor di sangue, che gli dette nel viso, e di tanta abbundanzia lo coperse, che lui non si poteva prevalere a medicarmi: e avendo preso questa cosa per molto male aúrio, con gran difficoltà mi medicava; e piú volte mi volse lasciare, ricordandosi che ancora a lui ne andava non poca pena a avermi medicato o pure finito di medicarmi. Il Cardinale mi fece mettere in una camera segreta, e subito andatosene a Palazzo con intenzione di chiedermi al Papa.
CXI.
In questo mezzo s'era levato un romore grandissimo in Roma: che di già s'era vedute le fascie attaccate al gran torrione del mastio di Castello, e tutta Roma correva a vedere questa inistimabil cosa. Intanto il Castellano era venuto inne' sua maggiori umori della pazzia, e voleva a forza di tutti e' sua servitori volare ancora lui da quel mastio, dicendo che nessuno mi poteva ripigliare se non lui, con il volarmi drieto. In questo messer Roberto Pucci, padre di messer Pandolfo, avendo inteso questa gran cosa, andò in persona per vederla; di poi se ne venne a Palazzo, dove si incontrò nel cardinal Cornaro, il quale disse tutto il seguíto, e sí come io ero in una delle sue camere di già medicato. Questi dua uomini da bene d'accordo si andorno a gittare inginocchioni dinanzi al Papa, il quale, innanzi che e' lasciassi lor dir nulla, lui disse: - Io so tutto quel che voi volete da me -. Messer Roberto Pucci disse: - Beatissimo Padre, noi vi domandiamo per grazia quel povero uomo, che per le virtú sue merita avergli qualche discrezione, e appresso a quelle, gli ha mostro una tanta bravuria insieme con tanto ingegno, che non è parsa cosa umana. Noi non sappiamo per qual peccati Vostra Santità l'ha tenuto tanto in prigione; però, se quei peccati fussino troppo disorbitanti, Vostra Santità è santa e savia, e facciane alto e basso la voluntà sua; ma se le son cose da potersi concedere, la preghiamo che a noi ne faccia grazia -. Il Papa a questo vergognandosi disse che m'aveva tenuto in prigione a riquisizione di certi sua - per essere lui un poco troppo ardito; ma che cognosciuto le virtú sue e volendocelo tenere appresso a di noi, avevamo ordinato di dargli tanto bene, che lui non avessi aùto causa di ritornare in Francia. Assai m'incresce del suo gran male; ditegli che attenda a guarire; e de' sua affanni, guarito che e' sarà, noi lo ristoreremo -. Venne questi dua omaccioni, e dettonmi questa buona nuova da parte del Papa. In questo mezzo mi venne a visitare la nobiltà di Roma, e giovani e vecchi e d'ogni sorte. Il Castellano, cosí fuor di sé, si fece portare al Papa; e quando fu dinanzi a Sua Santità cominciò a gridare dicendo, che se lui non me gli rendeva in prigione, che gli faceva un gran torto, dicendo: - E' m'è fuggito sotto la fede che m'aveva data; oimè, che e' m'è volato via, e mi promesse di non volar via! - Il Papa ridendo disse: - Andate, andate, che io ve lo renderò a ogni modo -. Aggiunse il Castellano, dicendo al Papa: - Mandate a lui il Governatore, il quale intenda chi l'ha aiutato fuggire, perché se gli è de' mia uomini, io lo voglio impiccare per la gola a quel merlo dove Benvenuto è fuggito -. Partito il Castellano, il Papa chiamò il Governatore sorridendo, e disse: - Questo è un bravo uomo, e questa è una maravigliosa cosa; con tutto che, quando io ero giovane, ancora io iscesi di quel luogo proprio -. A questo il Papa diceva il vero, perché gli era stato prigione in Castello per avere falsificato un breve, essendo lui abbreviatore di Parco Maioris: papa Lessandro l'aveva tenuto prigione assai; di poi, per esser la cosa troppo brutta, si era risoluto tagliargli il capo; ma volendo passare le feste del Corpus Domini, sapendo il tutto il Farnese, fece venire Pietro Chiavelluzzi con parecchi cavalli, e in Castello corroppe con danari certe di quelle guardie; di modo che il giorno del Corpus Domini, in mentre che il Papa era in processione, Farnese fu messo in un corbello e con una corda fu collatoinsino a terra. Non era ancor fatto il procinto delle mura al Castello, ma era solamente il torrione, di modo che lui non ebbe quelle gran difficultà a fuggirne, sí come ebbi io: ancora, lui era preso a ragione e io a torto. Basta, ch'e' si volse vantare col Governatore d'essere istato ancora lui nella sua giovanezza animoso e bravo, e non s'avvedde che gli scopriva le sue gran ribalderie. Disse: - Andate e ditegli liberamente vi dica chi gli ha aiutato: cosí sie stato chi e' vuole, basta che allui è perdonato, e prometteteglielo liberamente voi.
CXII.
Venne a me questo Governatore, il quale era stato fatto di dua giorni innanzi vescovo de Iesi: giunto a me, mi disse: - Benvenuto mio, se bene il mio uffizio è quello che spaventa gli uomini, io vengo a te per assicurarti; e cosí ho autorità di prometterti per commessione espressa di Sua Santità, il quale m'ha ditto che anche lui ne fuggí, ma che ebbe molti aiuti e molta compagnia, ché altrimenti non l'aria potuto fare. Io ti giuro per i Sacramenti che io ho addosso - che son fatto Vescovo da dua dí in qua - che il Papa t'ha libero e perdonato, e gli rincresce assai del tuo gran male; ma attendi a guarire, e piglia ogni cosa per il meglio, ché questa prigione, che certamente innocentissima tu hai aùto, la sarà istata la salute tua per sempre, perché tu calpesterai la povertà, e non ti accadrà ritornare in Francia, andando a tribulare la vita tua in questa parte e in quella. Sí che dimmi liberamente il caso come gli è stato, e chi t'ha dato aiuto; di poi confòrtati e ripòsati e guarisci -. Io mi feci da un capo e gli contai tutta la cosa come l'era istata appunto, e gli detti grandissimi contrasegni, insino a dell'acquerolo che m'aveva portato a dosso. Sentito ch'ebbe il Governatore il tutto, disse: - Veramente queste son troppe gran cose da uno uomo solo: le non son degne d'altro uomo che di te -. Cosí fattomi cavar fuora la mana, disse: - Istà di buona voglia e confòrtati, che per questa mana che io ti tocco tu se' libero e, vivendo, sarai felice -. Partitosi da me, che aveva tenuto a disagio un monte di gran gentiluomini e signori, che mi venivano a visitare, dicendo in fra loro: - Andiamo a vedere quello uomo che fa miracoli - questi restorno meco; e chi di loro mi offeriva e chi mi presentava. Intanto il Governatore giunto al Papa, cominciò a contar la cosa che io gli avevo ditta; e appunto s'abbatté a esservi alla presenza il signor Pierluigi suo figliuolo; e tutti facevano grandissima maraviglia. Il Papa disse: - Certamente questa è troppo gran cosa -. Il signor Pierluigi allora aggiunse dicendo: - Beatissimo Padre, se voi lo liberate, egli ve ne farà delle maggiori, perché questo è uno animo d'uomo troppo aldacissimo. Io ve ne voglio contare un'altra, che voi non sapete. Avendo parole questo vostro Benvenuto, innanzi che lui fussi prigione, con un gentiluomo del cardinal Santa Fiore;le qual parole vennono da una piccola cosa che questo gentiluomo aveva detto a Benvenuto, di modo che lui bravissimamente e con tanto ardire rispose, insino a voler far segno di far quistione; il detto gentiluomo referito al cardinale Santa Fiore, il qual disse, che se vi metteva le mani lui, che gli caverebbe il pazzo del capo; Benvenuto, inteso questo, teneva un suo scoppietto in ordine, con il quale lui dà continuamente in un quattrino: e un giorno, affacciandosi il Cardinale alla finestra, per essere la bottega del ditto Benvenuto sotto il palazzo del Cardinale, preso il suo scoppietto si era messo in ordine per tirare al Cardinale. E perché il Cardinale ne fu avvertito, si levò subito. Benvenuto, perché e' non si paressi tal cosa, tirò a un colombo terraiuolo che covava in una buca su alto del palazzo, e dette al ditto colombo innel capo: cosa impossibile da poterlo credere. Ora Vostra Santità faccia tutto quel che la vuole di lui; io non voglio mancare di non ve lo aver detto. E' gli potrebbe anche venir voglia, parendogli essere stato prigione a torto, di tirare una volta a Vostra Santità. Questo è uno animo troppo afferato e troppo sicuro. Quando gli ammazzò Pompeo, gli dette dua pugnalate innella gola in mezzo a dieci uomini che lo guardavano, e poi si salvò, con biasimo non piccolo di coloro, li quali eran pure uomini da bene e di conto.
CXIII.
Alla presenza di queste parole si era quel gentiluomo di Santa Fiore con il quale io avevo aùto parole, e affermò al Papa tutto quel che il suo figliuolo aveva detto. Il Papa stava gonfiato e non parlava nulla. Io non voglio mancare che io non dica le mie ragione giustamente e santamente. Questo gentiluomo di Santa Fiore venne un giorno a me e mi porse un piccolo anellino d'oro, il quale era tutto imbrattato d'ariento vivo, dicendo: - Isvivami questo anelluzzo e fa presto -. Io che avevo innanzi molte opere d'oro con gioie importantissime, e anche sentendomi cosí sicuramente comandare da uno a il quale io non avevo mai né parlato né veduto, gli dissi che io non avevo per allora isvivatoio, e che andassi a un altro. Costui, sanza un proposito al mondo, mi disse che io ero uno asino. Alle qual parole io risposi, ch'e' non diceva la verità, e che io era uno uomo in ogni conto da piú di lui; ma che se lui mi stuzzicava, io gli darei ben calci piú forte che uno asino. Costui riferí al Cardinale e li dipinse uno inferno. Ivi a dua giorni io tirai drieto al palazzo in una buca altissima a un colombo salvatico, che covava in quella buca; e a quel medesimo colombo io avevo visto tirare piú volte da uno orefice che si domandava Giovan Francesco della Tacca, milanese, e mai l'aveva colto. Questo giorno che io tirai, il colombo mostrava appunto il capo, stando in sospetto per l'altre volte che gli era stato tirato; e perché questo Giovan Francesco e io eravamo rivali alle caccie dello stioppo, essendo certi gentiluomini e mia amici in su la mia bottega, mi mostrorno dicendo: - Ecco lassú il colombo di Giovan Francesco della Tacca, a il quale gli ha tante volte tirato: or vedi, quel povero animale sta in sospetto; a pena che e' mostri il capo -. Alzando gli occhi, io dissi: - Quel poco del capo solo basterebbe a me a ammazzarlo, se m'aspettassi solo che io mi ponessi a viso il mio stioppo -. Quelli gentiluomini dissono, che e' non gli darebbe quello che fu inventore dello stioppo. Al quale io dissi: - Vadine un boccale di grego di quel buono di Palombo oste, e che se m'aspetta che io mi metta a viso il mio mirabile Broccardo (che cosí chiamavo il mio stioppo) io lo investirò in quel poco del capolino che mi mostra -. Subito postomi a viso, a braccia, senza appoggiare o altro, feci quanto promesso avevo, non pensando né al Cardinale né a persona altri; anzi mi tenevo il Cardinale per molto mio patrone. Sí che vegga il mondo, quando la fortuna vuol torre a 'ssassinare uno uomo, quante diverse vie la piglia. Il Papa gonfiato e ingrognato, stava considerando quel che gli aveva detto il suo figliuolo.
CXIV.
Dua giorni apresso andò il cardinal Cornaro a dimandare un vescovado al Papa per un suo gentiluomo, che si domandava messer Andrea Centano. Il Papa è vero che gli aveva promesso un vescovado: essendo cosí vacato, ricordando il Cardinale al Papa sí come tal cosa lui gli aveva promesso, il Papa affermò esser la verità e che cosí gliene voleva dare; ma che voleva un piacere da Sua Signoria reverendissima, e questo si era che voleva che gli rendessi nelle mane Benvenuto. Allora il Cardinale disse: - Oh se Vostra Santità gli ha perdonato e datomelo libero, che dirà il mondo e di Vostra Santità e di me? - Il Papa replicò: - Io voglio Benvenuto, e ogniun dica quel che vuole, volendo voi il vescovado -. Il buon Cardinale disse che Sua Santità gli dessi il vescovado, e che del resto pensassi da sé e facessi da poi tutto quel che Sua Santità e voleva e poteva. Disse il Papa, pure alquanto vergognandosi della iscellerata già data fede sua: - Io manderò per Benvenuto, e per un poco di mia sadisfazione lo metterò giú in quelle camere del giardino segreto, dove lui potrà attendere a guarire, e non si gli vieterà che tutti gli amici sua lo vadino a vedere, e anche li farò dar le spese, insin che ci passi questo poco della fantasia -. Il Cardinale tornò a casa e mandommi subito a dire per quello che aspettava il vescovado, come il Papa mi rivoleva nelle mane; ma che mi terrebbe in una camera bassa innel giardin segreto; dove io starei visitato da ugniuno siccome io era in casa sua. Allora io pregai questo messer Andrea, che fussi contento di dire al Cardinale che non mi dessi al Papa e che lasciassi fare a me; per che io mi farei rinvoltare in un materasso e mi farei porre fuor di Roma in luogo sicuro; perché se lui mi dava al Papa, certissimo mi dava alla morte. Il Cardinale, quando e' le intese, si crede che lui l'arebbe volute fare, ma quel messer Andrea, a chi toccava il vescovado, scoperse la cosa. Intanto il Papa mandò per me subito e fecemi mettere, sí come e' disse, in una camera bassa innel suo giardin segreto. Il Cardinale mi mandò a dire che io non mangiassi nulla di quelle vivande che mi mandava il Papa, e che lui mi manderebbe da mangiare; e che quello che gli aveva fatto non aveva potuto far di manco, e che io stessi di buona voglia, che m'aiuterebbe tanto, che io sarei libero. Standomi cosí, ero ogni dí visitato e offertomi da molti gran gentiluomini molte gran cose. Dal Papa veniva la vivanda, la quale io non toccavo, anzi mi mangiavo quella che veniva dal cardinal Cornaro, e cosí mi stavo. Io avevo in fra gli altri mia amici un giovane greco di età di venticinque anni: questo era gagliardissimo oltramodo e giucava di spada meglio che ogni altro uomo che fussi in Roma: era pusillo d'animo, ma era fidelissimo uomo da bene e molto facile al credere. Aveva sentito dire che il Papa aveva detto che mi voleva remunerare de' miei disagi. Questo era il vero, che il Papa aveva detto tal cose da principio, ma innell'ultimo da poi diceva altrimenti. Per la qual cosa io mi confidavo con questo giovane greco e gli dicevo: - Fratello carissimo, costoro mi vogliono assassinare, sí che ora è tempo aiutarmi: che pensano che io non me ne avvegga, facendomi questi favori istrasordinari, gli quali son tutti fatti per tradirmi -. Questo giovane da bene diceva: - Benvenuto mio, per Roma si dice che il Papa t'ha dato uno uffizio di cinquecento scudi di entrata; sí che io ti priego di grazia, che tu non faccia che questo tuo sospetto ti tolga un tanto bene -. E io pure lo pregavo con le braccia in croce che mi levassi di quivi, perché io sapevo bene che un Papa simile a quello mi poteva fare di molto bene, ma che io sapevo certissimo che lui studiava in farmi segretamente, per suo onore, di molto male; però facessi presto e cercassi di camparmi la vita di costui: che se lui mi cavava di quivi, innel modo che io gli arei detto, io sempre arei riconosciuta la vita mia dallui; venendo il bisogno, la ispenderei. Questo povero giovane piangendo mi diceva: - O caro mio fratello, tu ti vuoi pure rovinare, e io non ti posso mancare a quanto tu mi comandi; sí che dimmi il modo e io farò tutto quello che tu dirai, se bene e' fia contra mia voglia -. Cosí eramo risoluti e io gli avevo dato tutto l'ordine, che facilissimo ci riusciva. Credendomi che lui venissi per mettere in opera quanto io gli avevo ordinato, mi venne a dire che per la salute mia mi voleva disubbidire, e che sapeva bene quello che gli aveva inteso da uomini che stavano appresso a il Papa e che sapevano tutta la verità de' casi mia. Io che non mi potevo aiutare in altro modo, ne restai malcontento e disperato. Questo fu il dí del Corpus Domini nel mille cinquecento trenta nove.
CXV.
Passatomi tempo da poi questa disputa, tutto quel giorno sino alla notte, dalla cucina del Papa venne una abbundante vivanda: ancora dalla cucina del cardinale Cornaro venne bonissima provvisione: abbattendosi a questo parecchi mia amici, gli feci restare a cena meco; onde io, tenendo la mia gamba isteccata innel letto, feci lieta cera con esso loro; cosí soprastettono meco. Passato un'ora di notte di poi si partirno; e dua mia servitori m'assettorno da dormire, di poi si messono nell'anticamera. Io avevo un cane nero quant'una mora, di questi pelosi, e mi serviva mirabilmente alla caccia dello stioppo, e mai non istava lontan da me un passo. La notte, essendomi sotto il letto, ben tre volte chiamai il mio servitore, che me lo levassi di sotto il letto, perché e' mugliava paventosamente. Quando i servitori venivano, questo cane si gittava loro adosso per mordergli. Gli erano ispaventati e avevan paura che il cane non fossi arrabbiato, perché continuamente urlava. Cosí passammo insino alle quattro ore di notte. Al tocco delle quattro ore di notte entrò il bargello con molta famiglia drento nella mia camera: allora il cane uscí fuora e gittossi adosso a questi con tanto furore, stracciando loro le cappe e le calze, e gli aveva missi in tanta paura, che lor pensavano che fossi arrabbiato. Per la qual cosa il bargello, come persona pratica, disse: - La natura de' buoni cani è questa, che sempre s'indovinano e predicono il male che de' venire a' lor padroni: pigliate dua bastoncelli e difendetevi dal cane, e gli altri leghino Benvenuto in su questa sieda, e menatelo dove voi sapete -. Sí come io ho detto era il giorno passato del Corpus Domini, ed era in circa a quattro ore di notte. Questi mi portavano turato e coperto, e quattro di loro andavano innanzi, faccendo iscansare quelli pochi uomini che ancora si ritrovavano per la strada. Cosí mi portorno a Torre di Nona, luogo detto cosí, e messomi innella prigione della vita, posatomi in sun un poco di materasso e datomi uno di quelle guardie, il quale tutta la notte si condoleva della mia cattiva fortuna, dicendomi: - Oimè! povero Benvenuto, che hai tu fatto a costoro? - Onde io benissimo mi avvisai quel che mi aveva a 'ntervenire, sí per essere il luogo cotal' e anche perché colui me lo aveva avvisato. Istetti un pezzo di quella notte col pensiero a tribularmi qual fussi la causa che a Dio piaceva darmi cotal penitenzia; e perché io non la ritrovavo, forte mi dibattevo. Quella guardia s'era messa poi il meglio che sapeva a confortarmi; per la qual cosa io lo scongiurai per l'amor de Dio che non mi dicessi nulla e non mi parlassi, avvenga che da me medesimo io farei piú presto e meglio una cotale resoluzione. Cosí mi promesse. Allora io volsi tutto il cuore a Dio; e divotissimamente lo pregavo, che gli piacessi di accettarmi innel suo regno; e che se bene io m'ero dolto, parendomi questa tal partita in questo modo molto innocente, per quanto prommettevano gli ordini delle legge, e se bene io avevo fatto degli omicidi, quel suo Vicario mi aveva dalla patria mia chiamato e perdonato coll'autorità delle legge e sua; e quello che io avevo fatto, tutto s'era fatto per difensione di questo corpo che Sua Maestà mi aveva prestato: di modo che io non conoscevo, sicondo gli ordini con che si vive innel mondo, di meritare quella morte; ma che a me mi pareva che m'intervenissi quello che avviene a certe isfortunate persone, le quale, andando per la strada, casca loro un sasso da qualche grande altezza in su la testa e gli ammazza: qual si vede ispresso esser potenzia delle stelle: non già che quelle sieno congiurate contro a di noi per farci bene o male, ma vien fatto innelle loro congionzione, alle quale noi siamo sottoposti; se bene io cognosco d'avere il libero albitrio: e se la mia fede fussi santamente esercitata, io sono certissimo che gli angeli del Cielo mi porterieno fuor di quel carcere e mi salverieno sicuramente d'ogni mio affanno; ma perché e' non mi pare d'esser fatto degno da Dio d'una tal cosa, però è forza che questi influssi celesti adempieno sopra di me la loro malignità. E con questo dibattutomi un pezzo, da poi mi risolsi e subito appiccai sonno.
CXVI.
Fattosi l'alba, la guardia mi destò e disse: - O sventurato uomo da bene, ora non è piú tempo a dormire, perché gli è venuto quello che t'ha a dare una cattiva nuova -. Allora io dissi: - Quanto piú presto io esca di questo carcer mondano, piú mi sarà grato, maggiormente essendo sicuro che l'anima mia è salva, e che io muoio attorto. Cristo glorioso e divino mi fa compagno alli sua discepoli e amici, i quali, e Lui e loro, furno fatti morire attorto: cosí attorto son io fatto morire, e santamente ne ringrazio Idio. Perché non viene innanzi colui che m'ha da sentenziare? - Disse la guardia allora: - Troppo gl'incresce di te e piange -. Allora io lo chiamai per nome, il quale aveva nome messer Benedetto da Cagli. Dissi: - Venite innanzi, messer Benedetto mio, ora che io son benissimo disposto e resoluto; molto piú gloria mia è che io muoia attorto, che se io morissi a ragione: venite innanzi, vi priego, e datemi un sacerdote, che io possa ragionar con seco quattro parole; con tutto che non bisogni, perché la mia santa confessione io l'ho fatta col mio Signore Idio; ma solo per osservare quello che ci ha ordinato la santa madre Chiesa; che se bene e' la mi fa questo iscellerato torto, io liberamente le perdono. Sí che venite, messer Benedetto mio, e speditemi prima che 'l senso mi cominciassi a offendere -. Ditte queste parole, questo uomo da bene disse alla guardia che serrassi la porta, perché sanza lui non si poteva far quello uffizio. Andossene a casa della moglie del signor Pierluigi, la quale era insieme con la Duchessa sopraditta; e fattosi innanzi a loro, questo uomo disse: - Illustrissima mia patrona, siate contenta, vi priego per l'amor de Dio, di mandare a dire al Papa, che mandi un altro a dar quella sentenzia a Benvenuto e fare questo mio uffizio, perché io lo rinunzio e mai piú lo voglio fare - e con grandissimo cordoglio sospirando si partí. La Duchessa, che era lí alla presenza, torcendo il viso disse: - Questa è la bella iustizia che si tiene in Roma da il Vicario de Dio! il Duca già mio marito voleva un gran bene a questo uomo per le sue bontà e per le sue virtú, e non voleva che lui ritornassi a Roma, tenendolo molto caro appresso a di sé - e andatasene in là borbottando con molte parole dispiacevole. La moglie del signor Pierluigi, si chiamava la signora Ieronima, se ne andò dal Papa, e gittandosi ginocchioni - era alla presenza parecchi Cardinali - questa donna disse tante gran cose, che la fece arrossire il Papa, il quale disse: - Per vostro amore noi lo lascieremo istare, se bene noi non avemmo mai cattivo animo inverso di lui -. Queste parole le disse il Papa per essere alla presenza di quei Cardinali, i quali avevano sentito le parole che aveva detto quella maravigliosa e ardita donna. Io mi stetti con grandissimo disagio, battendomi il cuore continuamente. Ancora stette a disagio tutti quelli uomini che erano destinati a tale cattivo uffizio, insino che era tardi all'ora del desinare; alla quale ora ogni uomo andò ad altre sue faccende, per modo che a me fu portato da desinare: onde che maravigliato, io dissi: - Qui ha potuto piú la verità che la malignità degli influssi celesti; cosí priego Idio, che se gli è in suo piacere, mi scampi da questo furore -. Cominciai a mangiare, e sí bene come io avevo fatto prima la resoluzione al mio gran male, ancora la feci alla speranza del mio gran bene. Desinai di buona voglia. Cosí mi stetti sanza vedere o sentire altri insino a una ora di notte. A quell'ora venne il bargello con buona parte della sua famiglia, il quale mi rimesse in su quella sieda, che la sera dinanzi lui m'aveva in quel luogo portato, e di quivi con molte amorevol parole a me, che io non dubitassi, e a' sua birri comandò che avessin cura di non mi percuotere quella gamba che io avevo rotta, quanto agli occhi sua. Cosí facevano, e mi portorno in Castello, di donde io ero uscito; e quando noi fummo su da alto innel mastio, dov'è un cortiletto, quivi mi fermorno per alquanto.
CXVII.
In questo mezzo il Castellano sopraditto si fece portare in quel luogo dove io ero, e cosí ammalato e afflitto disse: - Ve' che ti ripresi? - Sí - dissi io - ma ve' che io mi fuggi', come io ti dissi? e se io non fussi stato venduto, sotto la fede papale, un vescovado da un veniziano cardinale e un romano da Farnese, e' quali l'uno e l'altro ha graffiato il viso alle sacre sante legge, tu mai non mi ripigliavi. Ma da poi che ora da loro s'è messa questa male usanza, fa' ancora tu il peggio che tu puoi, ché di nulla mi curo al mondo -. Questo povero uomo cominciò molto forte a gridare, dicendo: - Oimè! oimè! costui non si cura né di vivere né di morire, ed è piú ardito che quando egli era sano: mettetelo là sotto il giardino, e non mi parlate mai piú di lui, che costui è causa della morte mia -. Io fui portato sotto un giardino in una stanza oscurissima, dove era dell'acqua assai, piena di tarantole e di molti vermi velenosi. Fummi gittato un materassuccio di capecchio in terra, e per la sera non mi fu dato da cena, e fui serrato a quattro porte: cosí istetti insino alle dicianove ore il giorno seguente. Allora mi fu portato da mangiare: ai quali io domandai che mi dessino alcuni di quei miei libri da leggere. Da nessuno di questi non mi fu parlato, ma riferirno a quel povero uomo del Castellano, il quale aveva domandato quello che io dicevo. L'altra mattina poi mi fu portato un mio libro di Bibbia vulgare, e un certo altro libro dove eran le Cronache di Giovan Villani. Chiedendo io certi altri mia libri, mi fu detto che io non arei altro e che io avevo troppo di quelli. Cosí infelicemente mi vivevo in su quel materasso tutto fradicio, ché in tre giorni era acqua ogni cosa; onde io stavo continuamente senza potermi muovere, perché io avevo la gamba rotta; e volendo andare pur fuor del letto per la necessità de' miei escrimenti, andavo carpone con grandissimo affanno per non fare lordure in quel luogo dove io dormiva. Avevo un'ora e mezzo del dí di un poco di riflesso di lume il quale m'entrava in quella infelice caverna per una piccolissima buca; e solo di quel poco del tempo leggevo, e 'l resto del giorno e della notte sempre stavo al buio pazientemente, non mai fuor de' pensieri de Dio e di questa nostra fragilità umana; e mi pareva esser certo in brevi giorni di aver a finir quivi e in quel modo la mia sventurata vita. Pure, il meglio che io potevo da me istesso mi confortavo, considerando quanto maggior dispiacere e' mi saria istato innel passare della vita mia, sentire quella inistimabil passione del coltello, dove istando a quel modo io la passavo con un sonnifero, il quale mi s'era fatto molto piú piacevole che quello di prima: e a poco a poco mi sentivo spegnere, insino a tanto che la mia buona complessione si fu accomodata a quel purgatorio. Di poi che io senti' essersi lei accomodata e assuefatta, presi animo di comportarmi quello inistimabil dispiacere in sino a tanto quanto lei stessa me lo comportava.
CXVIII.
Cominciai da principio la Bibbia, e divotamente la leggevo e consideravo, ed ero tanto invaghito in essa, che se io avessi potuto non arei mai fatto altro che leggere: ma, come e' mi mancava el lume, subito mi saltava addosso tutti i miei dispiaceri e davanmi tanto travaglio, che piú volte io m'ero resoluto in qualche modo di spegnermi da me medesimo; ma perché e' non mi tenevono coltello, io avevo male il modo a poter far tal cosa. Però una volta infra l'altre avevo acconcio un grosso legno che vi era e puntellato in modo d'una stiaccia; e volevo farlo iscoccare sopra il mio capo; il quale me lo arebbe istiacciato al primo: di modo che, acconcio che io ebbi tutto questo edifizio, movendomi risoluto per iscoccarlo, quando io volsi dar drento colla mana, io fui preso da cosa invisibile e gittato quattro braccia lontano da quel luogo, e tanto ispaventato, che io restai tramortito: e cosí mi stetti da l'alba del giorno insino alle dicianove ore che e' mi portorno il mio desinare. I quali vi dovettono venire piú volte, che io non gli avevo sentiti; perché quando io gli senti' entrò drento il capitan Sandrino Monaldi, e senti' che disse: - Oh! infelice uomo, ve' che fine ha aùto una cosí rara virtú! - Sentite queste parole apersi gli occhi: per la qual cosa viddi preti colle toghe indosso, i quali dissono: - O voi, dicesti che gli era morto! - Il Bozza disse: - Morto lo trovai, e però lo dissi -. Subito mi levorno di quivi donde io ero, e levato il materasso, il quale era tutto fradicio diventato come maccheroni, lo gittorno fuori di quella stanza: e riditte queste tal cose al Castellano, mi fece dare un altro materasso. E cosí ricordatomi che cosa poteva essere stata quella che m'avessi stòlto da quella cotale inpresa, pensai che fussi stato cosa divina e mia difensitrice.
CXIX.
Di poi la notte mi apparve in sogno una maravigliosa criatura in forma d'un bellissimo giovane, e a modo di sgridarmi diceva: - Sa' tu chi è quello che t'ha prestato quel corpo, che tu volevi guastare innanzi al tempo suo? - Mi pareva rispondergli che il tutto riconoscevo dallo Idio della natura. - Addunche - mi disse - tu dispregi l'opere sue, volendole guastare? Làsciati guidare a lui e non perdere la speranza della virtú sua - con molte altre parole tanto mirabile, che io non mi ricordo della millesima parte. Cominciai a considerare che questa forma d'angelo mi aveva ditto li vero; e gittato gli occhi per la prigione, viddi un poco di mattone fracido; cosí lo strofinai l'uno coll'altro e feci a modo che un poco di savore: di poi cosí carpone mi accostai a un taglio di quella porta della prigione e co' denti tanto feci, che io ne spiccai un poco di scheggiuzza; e fatto che io ebbi questo, aspettai quella ora del lume che mi veniva alla prigione, la quale era dalle venti ore e mezzo insino alle ventuna e mezzo. Allora cominciai a scrivere il meglio che io poteva in su certe carte che avanzavano innel libro della Bibbia; e riprendevo gli spiriti mia dello intelletto, isdegnati di non voler piú istare in vita; i quali rispondevano a il corpo mio, iscusandosi della loro disgrazia: e il corpo dava loro isperanza di bene: cosí in dialogo iscrissi:
- Afflitti spirti miei,
oimè crudeli, che vi rincresce vita!
- Se contra il Ciel tu sei,
chi fia per noi? chi ne porgerà aita?
Lassa, lassaci andare a miglior vita.
- Deh non partite ancora,
che piú felici e lieti
promette il Ciel, che voi fussi già mai.
- Noi resterèn qualche ora,
purché del magno Idio concesso sieti
grazia, che non si torni a maggior guai.
Ripreso di nuovo il vigore, da poi che da per me medesimo io mi fui confortato, seguitando di legger la mia Bibbia, e' mi ero di sorte assuefatto gli occhi in quella oscurità, che dove prima io solevo leggere una ora e mezzo, io ne leggevo tre intere. E tanto maravigliosamente consideravo la forza della virtú de Dio in quei semplicissimi uomini, che con tanto fervore si credevano, che Idio compiaceva loro tutto quello che quei s'inmaginavano: promettendomi ancora io de l'aiuto de Dio, sí per la sua divinità e misericordia, e ancora per la mia innocenzia; e continuamente, quando con orazione e quando con ragionamenti volti a Dio, sempre istavo in questi alti pensieri in Dio; di modo che e' mi cominciò a venire una dilettazione tanto grande di questi pensieri in Dio, che io non mi ricordavo piú di nessuno dispiacere che mai io per l'addietro avessi aùto, anzi cantavo tutto il giorno salmi e molte altre mie composizione tutte diritte a Dio. Solo mi dava grande affanno le ugna che mi crescevano; perché io non potevo toccarmi che con esse io non mi ferissi: non mi potevo vestire, perché o le mi si arrovesciavano in drento o in fuora, dandomi assai dolore. Ancora mi si moriva e' denti in bocca; e di questo io m'avvedevo, perché sospinti i denti morti da quei ch'erano vivi, a poco a poco sofforavano le gengie, e le punte delle barbe venivano a trapassare il fondo delle lor casse. Quando me ne avvedevo gli tiravo, come cavargli d'una guaina, sanza altro dolore o sangue: cosí me n'era usciti assai bene. Pure accordatomi anche con quest'altri nuovi dispiaceri, quando cantavo, quando oravo, e quando scrivevo con quel matton pesto sopraditto; e cominciai un capitolo in lode della prigione, e in esso dicevo tutti quelli accidenti che da quella io avevo aúti; qual capitolo si scriverà poi al suo luogo.
CXX.
Il buon Castellano mandava ispesso segretamente a sentire quello che io facevo: e perché l'ultimo dí di luglio io mi rallegrai da me medesimo assai, ricordandomi della gran festache si usa di fare in Roma in quel primo dí d'agosto, da me dicevo: - Tutti questi anni passati questa piacevol festa io l'ho fatta con le fragilità del mondo; questo anno io la farò oramai con la divinità de Dio - e da me dicevo: - Oh quanto piú lieto sono io di questa che di quelle! - Quelli che mi udirno dire queste parole, il tutto riferirno al Castellano; il quale con maraviglioso dispiacere disse: - Oh Dio! colui trionfa e vive, in tanto male; e io istento in tante comodità, e muoio solo per causa sua! Andate presto e mettetelo in quella piú sotterrania caverna, dove fu fatto morire il predicatore Foiano di fame: forse che vedendosi in tanta cattività, gli potria uscire il ruzzo del capo -. Subito venne dalla mia prigione il capitano Sandrino Monaldi con circa venti di quei servitori del Castellano; e mi trovorno che io ero ginocchioni, e non mi volgevo alloro, anzi adoravo un Dio Padre addorno di Angeli e un Cristo risuscitante vittorioso, che io mi avevo disegnati innel muro con un poco di carbone, che io avevo trovato ricoperto dalla terra, di poi quattro mesi che io ero stato rovescio innel letto con la mia gamba rotta; e tante volte sognai che gli Angeli mi venivano a medicarmela, che di poi quattro mesi ero divenuto gagliardo come se mai rotta la non fussi stata. Però vennono a me tanto armati, quasi che paurosi che io non fussi un velenoso dragone. Il ditto capitano disse: - Tu senti pure che noi siamo assai, e che con gran romore noi vegniamo a te; e tu a noi non ti volgi -. A queste parole, immaginatomi benissimo quel peggio che mi poteva intervenire, e fattomi pratico e costante al male, dissi loro: - A questo Idio che mi porta a quello de' cieli ho volto l'anima mia e le mie contemplazione e tutti i mia spiriti vitali; e a voi ha volto appunto quello che vi si appartiene, perché quello che è di buono in me voi non sete degni di guardarlo, né potete toccarlo: sí che fate, a quello che è vostro, tutto quello che voi potete -. Questo duro capitano, pauroso, non sapendo quello che io mi volessi fare, disse a quattro di quelli piú gagliardi: - Levatevi l'arme tutte da canto -. Levate che se l'ebbono, disse: - Presto presto saltategli a dosso e pigliatelo. Non fussi costui il diavolo, che tanti noi doviamo aver paura di lui? Tenetelo or forte che non vi scappi -. Io, sforzato e bistrattato da loro, inmaginandomi molto peggio di quello che poi m'intervenne, alzando gli occhi a Cristo dissi: - O giusto Idio, tu pagasti pure in su quello alto legno tutti e' debiti nostri: perché addunche ha a pagare la mia innocenzia i debiti di chi io non conosco? oh! pure sia fatta la tua voluntà -. Intanto costoro mi portavano via con un torchiaccio acceso; pensavo io che mi volessino gittare innel trabocchetto del Sammalò: cosí chiamato un luogo paventoso, il quale n'ha inghiottiti assai cosí vivi, perché vengono a cascare inne' fondamenti del Castello giú innun pozzo. Questo non m'intervenne: per la qual cosa me ne parve avere un bonissimo mercato; perché loro mi posono in quella bruttissima caverna sopra detta, dove era morto il Foiano di fame, e ivi mi lasciorno istare, non mi faccendo altro male. Lasciato che e' m'ebbono, cominciai a cantare un De profundis clamavit, un Miserere, e In te Domine speravi. Tutto quel giorno primo d'agosto festeggiai con Dio, e sempre mi iubbilava il cuore di speranza e di fede. Il sicondo giorno mi trassono di quella buca e mi riportorno dove era quei miei primi disegni di quelle inmagini de Idio. Alle quali giunto che io fui, alla presenza di esse di dolcezza e di letizia io assai piansi. Da poi il Castellano ogni dí voleva sapere quello che io facevo e quello che io dicevo. Il Papa, che aveva inteso tutto il seguíto, e di già li medici avevano isfidato a morte il ditto Castellano, disse: - Innanzi che il mio Castellano muoia, io voglio che e' faccia morire a suo modo quel Benvenuto, ch'è causa della morte sua, acciò che lui non muoia invendicato -. Sentendo queste parole il Castellano per bocca del duca Pierluigi, disse al ditto: - Addunche il Papa mi dona Benvenuto, e vuole che io ne faccia le mie vendette? Non pensi addunque ad altro e lasci fare a me -. Sí come il cuor del Papa fu cattivo inverso di me, pessimo e doloroso fu innel primo aspetto quello del Castellano; e in questo punto quello Invisibile, che mi aveva divertito dal volermi ammazzare, venne a me pure invisibilmente ma con voce chiare; e mi scosse e levommi da iacere e disse: - Oimè! Benvenuto mio, presto presto ricorri a Dio con le tue solite orazione, e grida forte forte -. Subito spaventato mi posi inginocchioni, e dissi molte mie orazioni ad alta voce: di poi tutte, un Qui habitat in ajutorium;di poi questo, ragionai con Idio un pezzo: e in uno istante la voce medesima aperta e chiara mi disse: - Vatti a riposa, e non aver piú paura -. E questo fu che il Castellano, avendo dato commessione bruttissima per la mia morte, subito la tolse e disse: - Non è egli Benvenuto quello che io ho tanto difeso, e quello che io so certissimo che è innocente, e che tutto questo male se gli è fatto attorto? O come Idio arà mai misericordia di me e dei mia peccati, se io non perdono a quelli che m'hanno fatto grandissime offese? O perché ho io a offendere un uomo da bene, innocente, che m'ha fatto servizio e onore? Vadia, che in cambio di farlo morire, io gli do vita e libertà; e lascio per testamento che nissuno gli domandi nulla del debito della grossa ispesa che qui gli arebbe a pagare -. Questo intese il Papa e l'ebbe molto per male.
CXXI.
Io istavo intanto colle mie solite orazione e scrivevo il mio Capitolo, e cominciai a fare ogni notte i piú lieti e i piú piacevoli sogni che mai immaginar si possa; e sempre mi pareva essere insieme visibilmente con quello che invisibile avevo sentito e sentivo bene ispesso, a il quale io non domandavo altra grazia se none lo pregavo, e strettamente, che mi menassi dove io potessi vedere il sole, dicendogli che era quanto desiderio io avevo; e che se io una sola volta lo potessi vedere, da poi io morrei contento. Di tutte le cose io avevo in questa prigione dispiacevoli, tutte mi erano diventate amiche e compagne, e nulla mi disturbava. Se bene quei divoti del Castellano, che aspettavano che il Castellano m'impiccassi a quel merlo dove io ero sceso, sí come lui aveva detto, veduto poi che il detto Castellano aveva fatta un'altra resoluzione tutta contraria da quella; costoro, che non la potevano patire, sempre mi facevano qualche diversa paura, per la quale io dovessi pigliare spavento per la perdita della vita. Sí come io dico, a tutte queste cose io m'ero tanto addimesticato, che di nulla io non avevo piú paura e nulla piú mi moveva; solo questo desiderio, che il sognare di vedere la spera del sole. Di modo che seguitando innanzi colle mie grandi orazioni, tutte volte collo affetto a Cristo, sempre dicendo: - O vero figliuol de Dio, io ti priego per la tua nascita, per la tua morte in croce e per la tua gloriosa resurressione, che tu mi facci degno che io vegga il sole, se none altrimenti, almanco in sogno; ma se tu mi facessi degno che io lo vedessi con questi mia occhi mortali, io ti prometto di venirti a visitare al tuo santo Sepulcro -. Questa resoluzione e queste mie maggior preci a Dio le feci a' dí dua d'ottobre nel mille cinquecento trentanove. Venuto poi la mattina seguente, che fu a' dí tre di ottobre detto, io m'ero risentito alla punta del giorno, innanzi il levar del sole, quasi un'ora; e sollevatomi da quel mio infelice covile, mi messi a dosso un poco di vestaccia che io avevo, perché e' s'era cominciato a far fresco: e stando cosí sollevato, facevo orazione piú divote che mai io avessi fatte per il passato; ché in dette orazione dicevo con gran prieghi a Cristo, che mi concedessi almanco tanto di grazia, che io sapessi per ispirazion divina per qual mio peccato io facevo cosí gran penitenzia; e da poi che Sua Maestà divina non mi aveva voluto far degno della vista del sole almanco in sogno, lo pregavo per tutta la sua potenzia e virtú, che mi facessi degno che io sapessi quale era la causa di quella penitenzia.
CXXII.
Dette queste parole, da quello Invisibile, a modo che un vento io fui preso e portato via, e fui menato in una stanza dove quel mio Invisibile allora visibilmente mi si mostrava in forma umana, in modo d'un giovane di prima barba; con faccia maravigliosissima, bella, ma austera, non lasciva; e mi mostrava innella ditta stanza, dicendomi: - Quelli tanti uomini che tu vedi, sono tutti quei che insino a qui son nati e poi son morti -. Il perché io lo domandavo per che causa lui mi menava quivi: il qual mi disse: - Vieni innanzi meco e presto lo vedrai -. Mi trovavo in mano un pugnaletto e indosso un giaco di maglia; e cosí mi menava per quella grande stanza, mostrandomi coloro che a infinite migliaia or per un verso or per un altro camminavano. Menatomi innanzi, uscí innanzi a me per una piccola porticella in un luogo come in una strada istretta; e quando egli mi tirò drieto a sé innella detta istrada, all'uscire di quella stanza mi trovai disarmato, ed ero in camicia bianca sanza nulla in testa, ed ero a man ritta del ditto mio compagno. Vedutomi a modo, io mi maravigliavo, perché non ricognoscevo quella istrada; e alzato gli occhi, viddi che il chiarore del sole batteva in una pariete di muro, modo che una facciata di casa, sopra il mio capo. Allora io dissi: - O amico mio, come ho io da fare, che io mi potessi alzare tanto che io vedessi la propia spera del sole? - Lui mi mostrò parecchi scaglioni che erano quivi alla mia man ritta, e mi disse: - Va quivi da te -. Io spiccatomi un poco da lui, salivo con le calcagna allo indietro su per quei parecchi scaglioni, e cominciavo a poco a poco a scoprire la vicinità del sole. M'affrettavo di salire; e tanto andai in su in quel modo ditto che io scopersi tutta la spera del sole. E perché la forza de' suoi razzi, al solito loro, mi fece chiudere gli occhi, avvedutomi dell'error mio, apersi gli occhi e guardando fiso il sole, dissi: - O sole mio, che t'ho tanto desiderato, io voglio non mai piú vedere altra cosa, se bene i tuoi razzi mi acciecano -. Cosí mi stavo con gli occhi fermi in lui; e stato che io fui un pochetto in quel modo, viddi in un tratto tutta quella forza di quei gran razzi gittarsi in sulla banda manca del ditto sole; e restato il sole netto, sanza i suoi razzi, con grandissimo piacere io lo vedevo; e mi pareva cosa maravigliosa che quei razzi si fussino levati in quel modo. Stavo a considerare che divina grazia era stata questa, che io avevo quella mattina da Dio, e dicevo forte: - Oh mirabil tua potenzia! oh gloriosa tua virtú! Quanto maggior grazia mi fai tu, di quello che io non m'aspettavo! - Mi pareva questo sole sanza i razzi sua, né piú né manco un bagno di purissimo oro istrutto. In mentre che io consideravo questa gran cosa, viddi in mezzo a detto sole cominciare a gonfiare; e crescere questa forma di questo gonfio, e in un tratto si fece un Cristo in croce della medesima cosa che era il sole; ed era di tanta bella grazia in benignissimo aspetto, quale ingegno umano non potria inmaginare una millesima parte; e in mentre che io consideravo tal cosa, dicevo forte: - Miracoli, miracoli! O Idio, o clemenzia tua, o virtú tua infinita, di che cosa mi fai tu degno questa mattina! - E in mentre che io consideravo e che io dicevo queste parole, questo Cristo si moveva inverso quella parte dove erano andati i suoi razzi, e innel mezzo del sole di nuovo gonfiava, sí come aveva fatto prima; e cresciuto il gonfio, subito si convertí innuna forma d'una bellissima Madonna, qual mostrava di essere a sedere in modo molto alto con il ditto figliuolo in braccio in atto piacevolissimo, quasi ridente; di qua e di là era messa in mezzo da duoi Angeli bellissimi tanto quanto lo immaginare non arriva. Ancora vedevo in esso sole, alla mana ritta, una figura vestita a modo di sacerdote: questa mi volgeva le stiene e 'l viso teneva vòlto inverso quella Madonna e quel Cristo. Tutte queste cose io vedevo vere, chiare e vive, e continuamente ringraziavo la gloria di Dio con grandissima voce. Quando questa mirabil cosa mi fu stata innanzi agli occhi poco piú d'uno ottavo d'ora, da me si partí, e io fui riportato in quel mio covile. Subito cominciai a gridare forte, ad alta voce dicendo: - La virtú de Dio m'ha fatto degno di mostrarmi tutta la gloria sua, quale non ha forse mai visto altro occhio mortale: onde per questo io mi cognosco di essere libero e felice e in grazia a Dio; e voi ribaldi, ribaldi resterete, infelici e nella disgrazia de Dio. Sappiate che io sono certissimo, che il dí di tutti e Santi, quale fu quello che io venni al mondo nel mille cinquecento a punto, il primo dí di novembre, la notte seguente a quattro ore, quel dí che verrà, voi sarete forzati a cavarmi di questo carcere tenebroso; e non potrete far di manco, perché io l'ho visto con gli occhi mia e in quel trono di Dio. Quel sacerdote, qual era vòlto inverso Idio e che a me mostrava le stiene, quello era il santo Pietro, il quale avocava per me, vergognandosi che innella casa sua si faccia ai cristiani cosí brutti torti. Sí che ditelo a chi volete, che nissuno non ha potenzia di farmi piú male; e dite al quel Signor che mi tien qui, che se lui mi dà o cera o carta, e modo che io gli possa sprimere questa gloria de Dio, che mi s'è mostra, certissimo io lo farò chiaro di quel che forse lui sta in dubbio.
CXXIII.
Il Castellano, con tutto che i medici non avessino punto di speranza della sua salute, ancora era restato in lui spirito saldo e si era partito quelli umori della pazzia, che gli solevano dar noia ogni anno: e datosi in tutto e per tutto all'anima, la coscienza lo rimordeva, e gli pareva pure che io avessi ricevuto e ricevessi un grandissimo torto; e faccendo intendere al Papa quelle gran cose che io diceva, il Papa gli mandava a dire, come quello che non credeva nulla, né in Dio né in altri, dicendo che io ero impazzato, e che attendessi il piú che lui poteva alla sua salute. Sentendo il Castellano queste risposte, mi mandò a confortare e mi mandò da scrivere e della cera e certi fuscelletti fatti per lavorar di cera, con molte cortese parole, che me le disse un certo di quei sua servitori che mi voleva bene. Questo tale era tutto contrario di quella setta di quegli altri ribaldi, che mi arebbon voluto veder morto. Io presi quelle carte e quelle cere, e cominciai a lavorare: e 'n mentre che io lavoravo scrissi questo sonetto indiritto al Castellano:
S'i' potessi, Signor, mostrarvi il vero
del lume eterno, in questa bassa vita,
qual'ho da Dio, in voi vie piú gradita
saria mia fede, che d'ogni alto impero.
Ahi! se 'l credessi il gran Pastor del chiero,
che Dio s'e mostro in sua gloria infinita,
qual mai vide alma, prima che partita
da questo basso regno, aspro e sincero;
e porte di Iustizia sacre e sante
sbarrar vedresti, e 'l tristo impio furore
cader legato, e al ciel mandar le voce.
S'i' avessi luce, ahi lasso, almen le piante
sculpir del Ciel potessi il gran valore!
Non saria il mio gran mal sí greve croce.
CXXIV.
Venuto l'altro giorno a portarmi il mio mangiare quel servitore del Castellano, il quale mi voleva bene, io gli detti questo sonetto iscritto; il quale, segretamente da quelli altri maligni servitori, che mi volevano male, lo dette al Castellano: il quale volentieri m'arebbe lasciato andar via, perché gli pareva che quel torto che m'era istato fatto, fossi gran causa della morte sua. Prese il sonetto, e lettolo piú d'una volta, disse: - Queste non sono né parole né concetti da pazzo; ma sí bene d'uomo buono e da bene - e subito comandò a un suo secretario che lo portassi al Papa, e che lo dessi in propia mano, pregandolo che mi lasciassi andare. Mentre che il detto segretario portò il sonetto al Papa, il Castellano mi mandò lume per il dí e per la notte, con tutte le comodità che in quel luoco si poteva desiderare; per la qual cosa io cominciai a migliorare della indisposizione della mia vita, quale era divenuta grandissima. Il Papa lesse il sonetto piú volte; di poi mandò a dire al Castellano, che farebbe ben presto cosa che gli sarebbe grata. E certamente che il Papa m'arebbe poi volentieri lasciato andare; ma il signor Pierluigi ditto, suo figliuolo, quasi contra la voglia del Papa, per forza mi vi teneva. Avvicinandosi la morte del Castellano, in mentre che io avevo disegnato e scolpito quel maraviglioso miracolo, la mattina d'Ogni Santi mi mandò per Piero Ugolini, suo nipote, a mostrare certe gioie; le quali quando io le viddi, subito dissi: - Questo è il contrasegno della mia liberazione -. Allora questo giovane, che era persona di pochissimo discorso, disse: - A cotesto non pensar tu mai, Benvenuto -. Allora io dissi: - Porta via le tue gioie, perché io son condotto di sorte, che io non veggo lume se none in questa caverna buia, innella quale non si può discernere la qualità delle gioie; ma quanto all'uscire di questo carcere, e' non finirà questo giorno intero, che voi me ne verrete a cavare: e questo è forza che cosí sia, e non potete far di manco. - Costui si partí e mi fece riserrare; e andatosene, soprastette piú di dua ore di oriuolo; di poi venne per me senza armati, con dua ragazzi che mi aiutassino sostenere, e cosí mi menò in quelle stanze larghe che io avevo prima (questo fu 'l 1538), dandomi tutte le comodità che io domandavo.
CXXV.
Ivi a pochi giorni il Castellano, che pensava che io fussi fuora e libero, stretto dal suo gran male passò di questa presente vita, e in cambio suo restò messer Antonio Ugolini suo fratello il quale aveva dato ad intendere al Castellano passato, suo fratello, che mi aveva lasciato andare. Questo messer Antonio, per quanto io intesi, ebbe commessione dal Papa di lasciarmi stare in quella prigione larga, per insino a tanto che lui gli direbbe quel che s'avessi a fare di me. Quel messer Durante bresciano già sopra ditto si convenne con quel soldato, speziale pratese, di darmi a mangiare qualche licore in fra i miei cibi, che fussi mortifero, ma non subito; facessi in termine di quattro o di cinque mesi. Andorno inmaginando di mettere in fra il cibo del diamante pesto; il quale non ha veleno in sé di sorte alcuna, ma per la sua inistimabil durezza resta con i canti acutissimi, e non fa come l'altre pietre; ché quella sottilissima acutezza a tutte le pietre, pestandole, non resta, anzi restano come tonde; e il diamante solo resta con quella acutezza; di modo che entrando innello stomaco insieme con gli altri cibi, in quel girare che e' fanno e' cibi per fare la digestione, questo diamante s'appicca ai cartilaggini dello stomaco e delle budella, e di mano in mano che 'l nuovo cibo viene pignendo sempre innanzi, quel diamante appiccato a esse con non molto ispazio di tempo le fora; e per tal causa si muore; dove che ogni altra sorte di pietre o vetri mescolata col cibo non ha forza d'appiccarsi, e cosí ne va col cibo. Però questo messer Durante sopraditto dette un diamante di qualche poco di valore a una di queste guardie. Si disse che questa cura l'aveva aúta un certo Lione aretino orefice, mio gran nimico. Questo Lione ebbe il diamante per pestarlo; e perché Lione era poverissimo e 'l diamante poteva valere parecchi decine di scudi, costui dette ad intendere a quella guardia, che quella polvere che lui gli dette fossi quel diamante pesto che s'era ordinato per darmi; e quella mattina che io l'ebbi, me lo messono in tutte le vivande; che fu un venerdí: io l'ebbi in insalata e in intingoli e in minestra. Attesi di buona voglia a mangiare, perché la sera io avevo digiunato. Questo giorno era di festa. È ben vero che io mi sentivo scrosciare la vivanda sotto i denti, ma non pensavo mai a tal ribalderie. Finito che io ebbi di desinare, essendo restato un poco d'insalata innel piattello, mi venne diritto gli occhi a certe stiezze sottilissime, le quali m'erano avanzate. Subito io le presi, e accostatomi al lume della finestra, che era molto luminosa, parte che io le guardavo, mi venne ricordato di quello iscrosciare che m'aveva fatto la mattina il cibo piú che il solito: e riconsideratole bene, per quanto gli occhi potevan giudicare, mi credetti resolutamente che quello fussi diamante pesto. Subito mi feci morto resolutissimamente, e cosí cordoglioso corsi divotamente alle sante orazioni; e come resoluto, mi pareva esser certo di essere ispacciato e morto: e per una ora intera feci grandissime orazione a Dio, ringraziandolo di quella cosí piacevol morte. Da poi che le mie stelle mi avevano cosí destinato, mi pareva averne aùto un buon mercato a uscirne per quella agevol via; e mi ero contento, e avevo benedetto il mondo e quel tempo che sopra di lui ero stato. Ora me ne tornavo a miglior regno con la grazia de Dio, che me la pareva avere sicurissimamente acquistata: e in quello che io stavo con questi pensieri, tenevo in mano certi sottilissimi granelluzzi di quello creduto diamante, quale per certissimo giudicavo esser tale. Ora, perché la speranza mai non muore, mi parve essere sobbillato da un poco di vana speranza; qual fu causa che io presi un poco di coltellino, e presi di quelle ditte granelline, e le missi in su 'n un ferro della prigione; dipoi appoggiatovi la punta del coltello per piano, agravando forte, senti' disfare la ditta pietra; e guardato bene con gli occhi, viddi che cosí era il vero. Subito mi vesti' di nuova isperanza e dissi: - Questo non è il mio nimico messer Durante, ma è una pietraccia tenera la quale non è per farmi un male al mondo -. E sí come io m'ero risoluto di starmi cheto e di morirmi in pace a quel modo, feci nuovo proposito, ma in prima ringraziando Idio e benedicendo la povertà, che sí come molte volte è la causa della morte degli uomini, quella volta ell'era stata causa istessa della vita mia; perché avendo dato quel messer Durante mio nimico, o chi fussi stato, un diamante a Lione, che me lo pestassi, di valore di piú di cento scudi, costui per povertà lo prese per sé, e a me pestò un berillo cetrino di valore di dua carlini, pensando forse, per essere ancora esso pietra, che egli facesse el medesimo effetto del diamante.
CXXVI.
In questo tempo il vescovo di Pavia, fratel del conte di San Sicondo, domandato monsignor de' Rossi di Parma, questo vescovo era prigione in Castello per certe brighe già fatte a Pavia; e per esser molto mio amico, io mi feci fuora, alla buca della mia prigione, e lo chiamai ad alta voce, dicendogli che per uccidermi quei ladroni m'avevan dato un diamante pesto: e gli feci mostrare da un suo servitore alcune di quelle polveruzze avanzatemi; ma io non gli dissi che io avevo conosciuto che quello non era diamante; ma gli dicevo che loro certissimo mi avevano avelenato da poi la morte di quell'uomo da bene del Castellano; e quel poco che io vivessi, lo pregavo che mi dessi de' sua pani uno il dí, perché io non volevo mai piú mangiare cosa nissuna che venissi da loro. Cosí mi promise mandarmi della sua vivanda. Quel messer Antonio, che certo di tal cosa non era consapevole, fece molto gran romore e volse vedere quella pietra pesta, ancora lui pensando che diamante egli fussi; e pensando che tale impresa venissi dal Papa, se la passò cosí di leggieri, considerato che gli ebbe il caso. Io m'attendevo a mangiare della vivanda che mi mandava il Vescovo, e scrivevo continuamente quel mio Capitolo della prigione, mettendovi giornalmente tutti quelli accidenti che di nuovo mi venivano, di punto in punto. Ancora il ditto messer Antonio mi mandava da mangiare per un certo sopra ditto Giovanni speziale, di quel di Prato, e quivi soldato. Questo, che m'era nimicissimo e che era istato lui quello che m'aveva portato quel diamante pesto, io gli dissi che nulla io volevo mangiare di quello che egli mi portava, se prima egli non me ne faceva la credenza: per la qual cosa lui mi disse che a' Papi si fanno le credenze. Al quale io risposi, che sí come i gentili uomini sono ubrigati a far la credenza al Papa; cosí lui, soldato, spezial, villan da Prato, era ubrigato a far la credenza a un Fiorentino par mio. Questo disse di gran parole, e io allui. Quel messer Antonio, vergognandosi alquanto, e ancora disegnato di farmi pagare quelle spese che il povero Castellano morto mi aveva donate, trovò un altro di quei sua servitori, il quale era mio amico; e mi mandava la mia vivanda, alla quale piacevolmente il sopra ditto mi faceva la credenza sanza altra disputa. Questo servitore mi diceva come il Papa era ogni dí molestato da quel monsignor di Morluc, il quale da parte del Re continuamente mi chiedeva; e che il Papa ci aveva poca fantasia a rendermi; e che il cardinale Farnese, già tanto mio patrone e amico, aveva aùto a dire che io non disegnassi uscire di quella prigione di quel pezzo: al quale io dicevo, che io n'uscirei a dispetto di tutti. Questo giovane dabbene mi pregava che io stessi cheto, e che tal cosa io non fussi sentito dire, perché molto mi nocerebbe; e che quella fidanza, che io avevo in Dio, dovessi aspettare la grazia sua, standomi cheto. A lui dicevo che le virtú de Dio non hanno aver paura delle malignità della ingiustizia.
CXXVII.
Cosí passando pochi giorni innanzi, comparse a Roma il cardinale di Ferrara; il quale, andando a fare reverenzia al Papa, il Papa lo trattenne tanto, che venne l'ora della cena. E perché il Papa era valentissimo uomo, volse avere assai agio a ragionare col Cardinale di quelle francioserie. E perché innel pasteggiare vien detto di quelle cose, che fuora di tale atto tal volta non si dirieno; per modo che, essendo quel gran re Francesco in ogni cosa sua liberalissimo, e il Cardinale, che sapeva bene il gusto del Re, ancora lui a pieno compiacque al Papa molto piú di quello che il Papa non si immaginava; di modo che il Papa era venuto in tanta letizia, sí per questo e ancora perché gli usava una volta la settimana di fare una crapula assai gagliarda, perché dappoi la gomitava. Quando il Cardinale vidde la disposizione del Papa, atta a compiacer grazie, mi chiese da parte del Re con grande istanzia, mostrando che il Re aveva gran desiderio di tal cosa. Allora il Papa, sentendosi appressare all'ora del suo vomito, e perché la troppa abbundanzia del vino ancora faceva l'uffizio suo, disse al Cardinale con gran risa: - Ora ora voglio che ve lo meniate a casa - e date le ispresse commessione, si levò da tavola; e il Cardinale subito mandò per me, prima che il signior Pierluigi lo sapessi, perché non m'arebbe lasciato in modo alcuno uscire di prigione. Venne il mandato del Papa insieme con dua gran gentiluomini del ditto cardinale di Ferrara, e alle quattro ore di notte passate mi cavorno del ditto carcere e mi menorno dinanzi al Cardinale; il quale mi fece innistimabile accoglienze; e quivi bene alloggiato mi restai a godere. Messer Antonio, fratello del Castellano e in luogo suo, volse che io gli pagassi tutte le spese, con tutti que' vantaggi che usano volere e' bargelli e gente simile, né volse osservare nulla di quello che il Castellano passato aveva lasciato che per me si facessi. Questa cosa mi costò di molte decine di scudi, e perché il Cardinale mi disse di poi, che io stessi a buona guardia s'i' volevo bene alla vita mia, e che se la sera lui non mi cavava di quel carcere, io non ero mai per uscire; che di già avevo inteso dire che il Papa si condoleva molto di avermi lasciato.
CXXVIII.
M'è di necessità tornare un passo indietro, perché innel mio capitolo s'interviene tutte queste cose che io dico. Quando io stetti quei parecchi giorni in camera del Cardinale e di poi innel giardin segreto del Papa, infra gli altri mia cari amici mi venne a trovare un cassiere di messer Bindo Altoviti, il quale per nome era chiamato Bernardo Galluzzi; a il quale io aveva fidato il valore di parecchi centinaia di scudi; e questo giovane innel giardin segreto del Papa mi venne a trovare e mi volse rendere ogni cosa; onde io gli dissi che non sapevo dare la roba mia né a 'mico piú caro né in luogo dove io avessi pensato che ella fussi piú sicura; il quale amico mio pareva che si scontorcessi di non la volere, e io quasi che per forza gnele feci serbare. Essendo l'ultima volta uscito del Castello, trovai che quel povero giovane di questo Bernardo Galluzzi detto si era rovinato; per la qualcosa io persi la roba mia. Ancora: nel tempo che io ero in carcere, un terribil sogno mi fu fatto, modo che con un calamo iscrittomi innella fronte parole di grandissima importanza; e quello che me le fece mi replicò ben tre volte, che io tacessi e non le riferissi ad altri. Quando io mi svegliai, mi senti' la fronte contaminata. Però innel mio Capitolo della prigione s'interviene moltissime di queste cotal cose. Ancora: mi venne detto, non sapendo quello che io mi dicevo, tutto quello che di poi intervenne al signor Pier Luigi, tanto chiare e tanto appunto, che da me medesimo ho considerato che propio uno Angel del Cielo me le dittassi. Ancora: non voglio lasciare indrieto una cosa, la maggiore che sia intervenuto a un altro uomo; qual è per iustificazione della divinità de Dio e dei segreti sua, quale si degnò farmene degno: che d'allora in qua, che io tal cosa vidi, mi restò uno isplendore, cosa maravigliosa!, sopra il capo mio; il quale si è evidente a ogni sorta di uomo a chi io l'ho voluto mostrare, qual sono stati pochissimi. Questo si vede sopra l'ombra mia la mattina innel levar del sole insino a dua ore di sole, e molto meglio si vede quando l'erbetta ha addosso quella molle rugiada; ancora si vede la sera al tramontar del sole. Io me ne avveddi in Francia in Parigi, perché l'aria in quella parte di là è tanto piú netta dalle nebbie, che là si vedeva espressa molto meglio che in Italia, perché le nebbie ci sono molto piú frequente; ma non resta che a ogni modo io non la vegga; e la posso mostrare ad altri, ma non sí bene come in quella parte ditta. Voglio descrivere il mio Capitolo fatto in prigione e in lode di detta prigione; di poi seguiterò i beni e' mali accadutimi di tempo in tempo, e quelli ancora che mi accadranno innella vita mia.
Questo capitolo scrivo a Luca Martini chiamandolo in esso come qui si sente.
Chi vuol saper quant'è il valor de Dio,
e quant'un uomo a quel Ben si assomiglia,
convien che stie 'n prigione, al parer mio;
sie carco di pensieri e di famiglia,
e qualche doglia per la sua persona,
e lunge esser venuto mille miglia.
Or se tu vuoi poter far cosa buona,
sie preso a torto, e poi istarvi assai,
e non avere aiuto da persona;
ancor ti rubin quel po' che tu hai:
pericol della vita; ebbistrattato,
senza speranza di salute mai.
E sforzinti gittare al disperato,
rompere il carcer, saltare il Castello:
poi sie rimesso in piú cattivo lato.
Ascolta, Luca, or che ne viene il bello:
aver rotto una gamba, esser giuntato,
la prigion molle e non aver mantello.
Né mai da nissuno ti sie parlato,
e ti porti il mangiar con trista nuova
un soldato, spezial, villan da Prato.
Or senti ben dove la gloria pruova:
non v'esser da seder, se non sul cesso;
pur sempre desto a far qualcosa nuova.
Al servitor comandamento spresso
che non ti oda parlar, né dièti nulla;
e la porta apra un picciol picciol fesso.
Or quest'è dove un bel cervel trastulla:
né carta, penna, inchiostro, ferro o fuoco,
e pien di bei pensier fin dalla culla.
La gran pietà, che se n'è detto poco,
ma per ogniuna immàginane cento,
ché a tutte ho riservato parte e loco.
Or, per tornar al nostro primo entento,
e dir lode che merta la prigione:
non basteria del Ciel chiunche v'è drento.
Qua non si mette mai buone persone,
se non vien da ministri, o mal governo,
invidie, isdegno o per qualche quistione.
Per dir il ver di quel ch'io ne discerno,
qua si cognosce e sempre Idio si chiama,
sentendo ognor le pene dello Inferno.
Sie tristo un, quant'e' può al mondo, in fama,
e stie 'n prigione in circa a dua mal'anni,
e' n'esce santo e savio, ed ogniun l'ama.
Qua s'affinisce l'alma, e 'l corpo, e' panni;
ed ogni omaccio grosso si assottiglia,
e vedesi del Ciel fino agli scanni.
Ti vo' contar una gran maraviglia:
venendomi di scrivere un capriccio,
che cose in un bisogno un uomo piglia.
Vo per la stanza, e' cigli e 'l capo arriccio,
poi mi drizzo a un taglio della porta,
e co' denti un pezzuol di legno spiccio;
e presi un pezzo di matton per sorta,
e rotto in polver ne ridussi un poco;
poi ne feci un savor coll'acqua morta.
Allora allor della poesia il fuoco
m'entrò nel corpo, e credo per la via
ond'esce il pan; ché non v'era altro loco.
Per tornare a mia prima fantasia,
convien, chi vuol saper che cosa è 'l bene,
prima che sappia il mal, che Dio gli dia.
D'ogn'arte la prigion sa fare e tiene:
se tu volessi ben dello speziale,
ti fa sudare il sangue per le vene.
Poi l'ha in sé un certo naturale,
ti fa loquente, animoso e audace,
carco di bei pensieri in bene e in male.
Buon per colui che lungo tempo iace
'n una scura prigion, e po' alfin n'esca:
sa ragionar di guerra, triegua e pace.
Gli è forza che ogni cosa gli riesca;
ché quella fal'uom sí di virtú pieno,
che 'l cervel non gli fapoi la moresca.
Tu mi potresti dir: - Quelli anni hai meno -:
E' non è 'l ver, ché la t'insegna un modo
ch'empier te ne puo' poi 'l petto e 'l seno.
In quanto a me, per quanto io so, la lodo;
ma vorrei ben ch'e' s'usassi una legge:
chi piú la merta non andassi in frodo.
Ogni uom, ch'è dato in cura al pover gregge,
addottorar vorries' in la prigione,
perché sapria ben poi come si regge.
Faria le cose come le persone,
e non s'uscirai mai del seminato,
né si vedria sí gran confusione.
In questo tempo ch'io ci sono stato,
io ci ho veduti frati, preti e gente,
e starci men chi piú l'ha meritato.
Se tu sapessi il gran duol che si sente,
se 'nanzi a te se ne va un di loro!
Quasi che d'esser nato l'uom si pente.
Non vo' dir piú: son diventato d'oro,
qual non si spende cosí facilmente,
né se ne faria troppo buon lavoro.
E' m'è venuto un'altra cosa a mente,
ch'io non t'ho detto, Luca: ov'io lo scrissi,
fu in su'n un libro d'un nostro parente,
che in sulle margin per lo lungo missi
questo gran duol che m'ha le membra istorte,
e che il savor non correva, ti dissi;
che a far un O bisognava tre volte
'ntigner lo stecco; che altro duol non stimo
sia nello Inferno fra l'anime avolte.
Or poi che attorto qui no sono 'l primo,
di questo taccio; e torno alla prigione,
dove il cervel e 'l cuor pel duol mi limo.
Io piú la lodo che l'altre persone;
e volendo far dotto un che non sa,
sanza essa non si può far cose buone.
Oh fusse, come io lessi poco fa,
un che dicessi come alla Piscina:
- Piglia i tua panni, Benvenuto, e va'! -
canteria 'l Credo e la Salveregina,
il Paternostro, e poi daria la mancia
a ciechi, pover, zoppi ogni mattina.
Oh quante volte m'han fatto la guancia
pallida e smorta questi gigli, a tale
ch'io non vo' piú né Firenze né Francia!
E se m'avien ch'io vada allo spedale,
e dipinto vi sia la Nunziata,
fuggirò, ch'io parrò uno animale.
Non dico già per Lei, degna e sagrata,
né de' suoi gigli glorïosi e santi,
che hanno il cielo e la terra inluminata;
ma, perché ognior ne veggo su pe' canti
di quei che hanno le lor foglie a uncini,
arò paur che non sien di quei tanti.
Oh quanti come me vanno tapini,
qual nati, qual serviti a questa impresa,
spirti chiari, leggiadri, alti e divini!
Vidi cader la mortifer'impresa
dal ciel veloce, fra la gente vana,
poi nella pietra nuova lampa accesa;
del Castel prima romper la campana,
che io n'uscissi; e me l'aveva detto
Colui che in Cielo e in terra il vero spiana;
di bruno, appresso a questo, un cataletto
di gigli rotti ornato; pianti e croce,
e molti afflitti per dolor nel letto.
Viddi colei che l'alme affligge e cuoce,
che spaventava or questo, or quel; poi disse:
- Portar ne vo' nel sen chiunche a te nuoce -.
Quel Degno poi nella mia fronte scrisse
col calamo di Pietro a me parole,
e ch'io tacessi ben tre volte disse.
Vidi Colui che caccia e affrena il sole,
vestito d'esso in mezzo alla sua Corte,
qual occhio mortal mai veder non suole.
Cantava un passer solitario forte
sopra la ròcca; ond'io - Per certo - dissi,
- Quel mi predice vita, e a voi morte -.
E le mie gran ragion cantai e scrissi,
chiedendo solo a Dio perdon, soccorso,
ché sentia spegner gli occhi a morte fissi.
Non fu mai lupo, leon, tigre, e orso
piú setoso di quel, del sangue umano,
né vipra mai piú venenoso morso;
quest'era un crudel ladro capitano,
'l maggior ribaldo, con certi altri tristi;
ma perché ogniun nol sappia il dirò piano.
Se avete birri affamati mai visti,
ch'entrino appegnorar un poveretto,
gittar per terra Nostredonne e Cristi,
il dí d'agosto vennon per dispetto
a tramutarmi una piú trista tomba:
- Novembre: ciascun sperso e maladetto -.
Ave' agli orecchi una tal vera tromba,
che 'l tutto mi diceva, ed io a loro,
sanza pensar, perché 'l dolor si sgombra.
E quando privi di speranza foro,
mi detton, per uccidermi, un diamante
pesto a mangiare, e non legato in oro.
Chiesi credenza a quel villan furfante,
che 'l cibo mi portava; e da me dissi:
- Non fu quel già 'l nimico mio durante -.
Ma prima i mie' pensieri a Dio remissi,
pregandol perdonassi 'l mio peccato;
e Miserere lacrimando dissi.
Del gran dolore alquanto un po' quietato,
rendendo volentieri a Dio quest'alma,
contento a miglior regno e d'altro stato,
scender dal Ciel con gloriosa palma
un Angel vidi; e poi con lieto volto
promisse al viver mio piú lunga salma,
dicendo a me: - Per Dio, prima fie tolto
ogni avversario tuo con aspra guerra,
restando tu filice, lieto e sciolto,
in grazia a Quel ch'è Padre in cielo e 'n terra.

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Ultimo Aggiornamento:13/07/2005 22.30